ANNO LXIII - N. 3 LUGLIO - SETTEMBRE 2011 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Aldo Linguiti. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Maria Vittoria Lumetti - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Carlo Bellesini, Alessandra Bruni, Giancarlo Caselli, Gesualdo d’Elia, Ruggiero Dipace, Fabrizio Fedeli, Wally Ferrante, Maurizio Fiorilli, Franco Giampietro, Diego Giordano, Federico Maria Giuliani, Maurizio Greco, Antonio Grumetto, Niccolò Guasconi, Alessandra Iorio, Damiano Marini, Francesco Meloncelli, Glauco Nori, Giampaolo Rossi, Rosa Rota, Francesco Spada, Barbara Tidore, Federica Varrone, Luca Ventrella, Francesco Vignoli, Paola Maria Zerman, Laura Zoppo. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Maurizio Fiorilli, Il caso Kadi. La legittimazione dei giudici comunitari a sindacare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza . . . . . . . . . . . . . . . . Paola Maria Zerman, Europa: il sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Albenzio, Caso Hirsi e altri contro Italia. L’intervento orale del Governo italiano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.- Le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea Wally Ferrante, La Corte di giustizia salva le tariffe forensi massime (C. giustizia, Grande Sezione, sent. 29 marzo 2011, nella causa C- 565/08, Commissione c. Italia). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . Luca Ventrella, Laura Zoppo, La cancellazione dell’iscrizione all’albo degli avvocati in caso di esercizio concomitante della professione forense e di un impiego come dipendente pubblico a tempo parziale (C. giustizia, Sez. V, sent. 2 dicembre 2010, nella causa C-225/09, Jakubowska). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Francesco Meloncelli, Conoscibilità e garanzia del contribuente (Cass. civ., Sez. V, sent. 16 marzo 2011 n. 6102; Cass. civ., Sez. V, sent. 16 marzo 2011 n. 6114) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alessandra Bruni, Niccolò Guasconi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di efficacia delle sentenze ecclesiastiche: verso una maggior pervasività del controllo operato dal giudice italiano (Cass. civ., Sez. I, sent. 20 gennaio 2011 n. 1343) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Federico Maria Giuliani, Elusione ed evasione, interposizione e simulazione, abuso del diritto tributario non armonizzato. Querelles antiche e nuove sulle orme di un reasoning del Supremo Collegio (Cass. civ., Sez. V, sent. 26 febbraio 2010 n. 4737) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carlo Bellesini, La disciplina dell’onere della prova nel codice del processo amministrativo (Cons. St., Sez. IV, sent. 16 maggio 2011 n. 2955) Carlo Sica, Impugnabilità dei provvedimenti adottati dal Commissario ad acta ed incidenza della normativa sopravvenuta sul giudicato (Cons. St., Sez. III, sent. 26 agosto 2011 n. 4816) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Damiano Marini, Legittimazione ed interesse di una P.A. all’iniziativa giurisdizionale (Cons. St., Sez. VI, sent. 13 giugno 2011 n. 3567). . . . . pag. 1 ›› 44 ›› 58 ›› 64 ›› 75 ›› 91 ›› 115 ›› 127 ›› 139 ›› 149 ›› 152 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Diego Giordano, Rapporti tributari tra Stato e Regioni. Cessioni di beni da parte di un ente regione all’appaltatore come parte del corrispettivo di pagamento: imponibilità della cessione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Barbara Tidore, Riduzione dell’importo - a seguito di pronuncia giurisdizionale - di sanzioni pecuniarie irrogate dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato: modus procedendi nella restituzione . . . . . . . . . Giuseppe Albenzio, Prescrizione dell’obbligazione doganale sorta in presenza di reato ai sensi dell’art. 84 del T.U.L.D. e dell’articolo 221 del Reg. CEE n. 2913/1992 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Grumetto, Accordi di indennizzo stipulati ai sensi dell’art. 4 del DL 351/01 a seguito del venir meno del conferimento di beni ai Fondi immobiliari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Federica Varrone, Rimborso spese legali richiesto da dipendente assolto in sede penale in pendenza di giudizio risarcitorio ai fini civili ad istanza della costituita parte civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fabrizio Fedeli, Contributi alle imprese editoriali: • Art. 3, comma 3 lett. c) della L. 7 agosto 1990 n. 250 - Duplicità di testate che presentatno la medesima iscrizione nel registro della stampa • Art. 3, comma 5, della L. 7 agosto 1990 n. 250 - Divieto di distribuzione degli utili e ristorni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio Greco, Onere delle spese legali a carico dell’Amministrazione nel caso di procedimento conclusosi con piena esclusione di responsabilità del dipendente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giancarlo Caselli, Beni confiscati alla criminalità organizzata. Problematiche inerenti a società e/o beni societari confiscati . . . . . . . . . . . . . . Gesualdo d’Elia, Disciplina delle spese processuali: rimborso spese generali previsto dall’art. 14 del D.M. 8 aprile 2004 n. 127 . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ Francesco Spada, Riflessioni sul part-time nel settore pubblico a seguito delle disposizioni del c.d. Collegato lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alessandra Iorio, Le infrastrutture di comunicazione a banda larga e la disciplina degli aiuti di Stato: gli equilibri delicati della crescita. . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Glauco Nori, Dopo la sentenza sul legittimo impedimento: la ricerca di un punto di equilibrio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Vignoli, Le problematiche connesse ai rapporti tra la transazione fiscale, il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione . Rosa Rota, Profili di diritto comunitario dell’ambiente. . . . . . . . . . . . . . pag. 169 ›› 171 ›› 173 ›› 181 ›› 184 ›› 185 ›› 186 ›› 188 ›› 190 ›› 217 ›› 221 ›› 230 ›› 253 ›› 262 ›› 270 RECENSIONI Giampaolo Rossi, Potere amministrativo e interessi a soddisfazione necessaria. Crisi e nuove prospettive del diritto amministrativo, G. Giappichelli Editore - Torino, 2011. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . AAVV, La nuova disciplina dei rifiuti. Commento al D.LGS. 205/2010. Aggiornato al Testo Unico “Sistri”, a cura di F. Giampietro, IPSOA, 2011 Ruggiero Dipace, La disapplicazione nel processo amministrativo, G. Giappichelli Editore - Torino, 2011 (Collana di Studi “Nuovi problemi di amministrazione pubblica” diretti da Franco Gaetano Scoca). Recensione di Maurizio Borgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 341 ›› 343 ›› 344 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Il caso Kadi La legittimazione dei giudici comunitari a sindacare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza Maurizio Fiorilli* Il ricorso avverso la sentenza resa dal Tribunale di Primo Grado dell’Unione Europea nella causa T-85/09 solleva numerosi punti di interesse (1). In primo luogo, la dottrina è concorde nel riconoscere che il filone di contenzioso sviluppatosi nei casi Kadi I e Kadi II (che ha prodotto ad oggi due sentenze del Tribunale di Primo Grado e una sentenza della Corte di Giustizia), rappresenta uno spartiacque nel modo di intendere i rapporti reciproci fra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale. La causa in esame verte infatti sulla sindacabilità, da parte di organi giurisdizionali comunitari, di regolamenti adottati dalla Comunità che costituiscono mera implementazione di Risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a norma del Capitolo VII della Carta ONU. Se dovesse prevalere, in ossequio all’opinione del tribunale, la posizione della sindacabilità piena, anche nel merito, delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, verrebbe a essere confermata e autorevolmente condivisa la nozione c.d. dualistica dei rapporti fra Comunità e ordinamento internazionale: la Comunità e l’ordinamento internazionale finirebbero con l’essere considerati due ordinamenti separati e distinti, pressoché impermeabili nei rispettivi rapporti reciproci. Questa impostazione, fra l’altro, confligge con il ruolo di attore internazionale virtuoso che l’Unione ha sempre propagandato, e che trova oggi autorevole riscontro anche nel trattato di Lisbona e nelle negoziazioni che l’hanno preceduto. (*) Vice Avvocato Generale dello Stato. (1) In allegato la memoria di intervento del Governo italiano. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Il ricorso tocca altri punti di particolare interesse giuridico: l’eventuale grado di sindacabilità delle misure comunitarie di mera implementazione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, lo standard of judicial review di volta in volta applicabile, la natura (amministrativa o penale) delle misure preventive di congelamento dei beni e, da ultimo il ruolo assunto, ai fini della tutela dei diritti del ricorrente, dell’istituzione di una procedura di revisione a livello di Consiglio di Sicurezza, che, oltre a costituire un mezzo di tutela delle ragioni del ricorrente, si configura anche come strumento di autotutela amministrativa, per la migliore garanzia degli interessi generali che il Consiglio di Sicurezza è chiamato a proteggere. ******** Ct. 18924/2009 – Avv. Maurizio Fiorilli AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO CORTE DI GIUSTIZIA DELL’ UNIONE EUROPEA MEMORIA D’INTERVENTO Del GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA, in persona dell’Agente designato per il presente giudizio, con domicilio eletto a Lussemburgo presso l’Ambasciata d’Italia, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, nelle cause riunite C-584/10 P, C-593/10 P e C-595/10 P Commissione dell’Unione europea, Consiglio dell’Unione europea, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, a sostegno degli appelli da questi presentati a norma dell’art. 56 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione europea avverso la decisione del Tribunale dell’Unione europea nella causa T-85/09 Yassin Abdullah Kadi contro Commissione dell’Unione europea * * * * * * * * * * 1. Con ordinanza della Corte di Giustizia dell’Unione europea in data 23 maggio 2011 (Reg. 874982) la Repubblica italiana è stata autorizzata a intervenire nelle cause riunite in oggetto, a sostegno degli appelli presentati dalla Commissione dell’Unione europea, del Consiglio dell’Unione europea e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. La Repubblica italiana espone di seguito le ragioni del suo intervento e delle sue conclusioni a favore della legittimità del Regolamento della Commissione. A) Struttura del presente intervento 2. Il presente atto di intervento è strutturato in quattro parti fondamentali. Dopo una prima introduzione generale sui fatti della causa e sulle misure adottate dalla Comunità internazionale per contrastare il fenomeno terroristico, saranno presi in esame tre motivi d’appello, che sostengono ed espandono quelli presentati con i ricorsi della Commissione europea e del Consiglio europeo (d’ora innanzi, la Commissione e il Consiglio, rispettivamente). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 3 3. La Repubblica italiana cercherà in prim’ordine di argomentare, secondo una posizione condivisa dal Consiglio, che la sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora innanzi la Corte) nella causa C-402/05 P, nella misura in cui questa non prevede la insindacabilità dei regolamenti comunitari di mera attuazione di Risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (d’ora innanzi, la Carta ONU), deve essere riconsiderata. La Repubblica italiana, allineandosi alla decisione del Tribunale di Primo Grado nella causa T-315/01, ritiene al contrario che tali regolamenti godano di un’immunità giurisdizionale quasi assoluta. 4. In via subordinata si sosterrà, in linea con le posizioni del Consiglio e della Commissione, che quand’anche la sentenza della Corte nella caus C-402/05 P sia corretta e non meriti di essere rimessa in discussione, essa sia stata comunque male interpretata e male applicata dal Tribunale di Primo Grado nella causa T-85/09. Difatti, un sindacato ispirato ai principi della completezza e del rigore, come richiesto dal Tribunale (1), determinerebbe la violazione da parte degli organi comunitari e, di riflesso, da parte degli Stati membri, degli obblighi su questi gravanti in base alle disposizioni internazionali di diritto pattizio e consuetudinario. Oltre che a essere inammissibile in punto di stretto diritto, tale rigoroso controllo risulterebbe inattuabile dal punto di vista pratico, in ragione della indisponibilità del materiale informativo e probatorio su cui esso dovrebbe basarsi. 5. Come ulteriore motivo d’appello, condiviso da tutti gli appellanti la Repubblica italiana, condividendo le osservazioni della Commissione e del Consiglio, dimostrerà come il Tribunale di Primo Grado non abbia tenuto debitamente conto delle garanzie procedimentali previste a favore del ricorrente in sede di Nazioni Unite, procedure queste che gli avrebbero consentito, qualora fossero state esperite, di ottenere una tutela quasi giurisdizionale delle sue posizioni. Alla luce della risoluzione 1904(2009), istitutiva di un Ombudsperson competente a conoscere delle doglianze dei sospetti terroristi interessati da misure di blacklisitng e costituente jus superveniens rispetto alla decisione della Corte nella sentenza C-402/05 P, anche tale pronunciamento meriterebbe di essere rivisto. B) Introduzione 6. La lotta al terrorismo internazionale impegna la comunità degli Stati ormai da decenni; il primo tentativo di combattere in maniera organica e condivisa il fenomeno terroristico risale a una data anche anteriore alla costituzione delle Nazioni Unite. Già nel 1937, infatti, la Società delle Nazioni licenziava il testo di una proposta di Convenzione per la prevenzione e la repressione del terrorismo, di fatto mai entrata in vigore per l’impossibilità di superare alcuni punti di contrasto fra gli Stati membri. 7. L’impegno della Comunità internazionale nel contrastare il fenomeno terroristico non è dunque nuovo; più recente, e più carico di complessità tecniche e politiche, è invece il ruolo assunto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nello sviluppare le linee strategiche e operative per il suo contenimento ed eventualmente per la sua soppressione. 8. Il contenzioso in esame è testimonianza di tali complessità e la sua importanza politica e giuridica si sviluppa su almeno tre piani: in primo luogo esso segna una tappa fondamentale nell’analisi della legittimità dell’evoluzione dei poteri impiegati dal Consiglio (1) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafi 148-151. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 di Sicurezza nel contrasto del terrorismo internazionale (2). L’adozione di risoluzioni in materia di antiterrorismo dal carattere “quasi-legislativo”, di portata e applicazione generali, solleva delicati problemi di compatibilità del ruolo di “legislatore universale” assunto talvolta dal Consiglio con le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite che ne regolano il funzionamento, oltre a ravvivare l’aspirazione di numerosi Stati ad un processo di decision-making internazionale più partecipato e democratico (3). 9. In secondo luogo, la causa in oggetto costituisce un punto fondamentale nell’evoluzione dei rapporti e delle interazioni fra Organizzazioni internazionali a carattere universale e a carattere regionale, e, in modo più specifico, fra l’ordinamento internazionale facente capo alla Nazioni Unite e l’ordinamento comunitario. Numerosi commentatori hanno a questo riguardo definito la sentenza resa nel caso Kadi come la più importante presa di posizione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sui rapporti fra l’ordinamento internazionale e quello comunitario, sin dalla data della sua costituzione (4). 10. Da ultimo, il contenzioso in esame rappresenta uno snodo fondamentale nel processo di contemperamento di valori cui la Comunità internazionale attribuisce massimo rilievo, ma destinati a entrare in conflitto nell’implementazione di strategie di contrasto al terrorismo efficaci e mirate: da un lato il valore della sicurezza e della pace internazionali, unitamente all’emergente diritto a vivere liberi dalla paura che il fenomeno terroristico per definizione determina; dall’altro la necessità di salvaguardare i diritti fondamentali della persona così come riconosciuti dal diritto internazionale generale e pattizio, evitandone pregiudizi ingiustificati o sproporzionati rispetto agli obiettivi da raggiungere (5). (2) Si veda sul punto DE WET, The Security Council as a Law Maker: The Adoption of (Quasi)- Judicial Decisions, in WOLFRUM E RÖBEN, Developments of International Law in Treaty Making, Berlino, 2005, 237 ss. (3) Per un approfondimento in materia si veda CRYER, An Introduction to International Criminal Law and Procedure, Cambridge, 2010, 366 ss. La dottrina appare in particolar modo divisa sulla legittimità di interventi del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere della generalità ed astrattezza, destinati a imporre obblighi a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite e adottati senza la possibilità che i destinatari di tali obblighi prendano parte al processo decisionale centralizzato da cui essi derivano. Si vedano in modo particolare ARANGIO-RUIZ, On the Security Council’s “Law-Making”, in Rivista di diritto internazionale, 2000, 609 ss. e ROSAND, The Security Council as a “Global Legislator”: Ultra Vires or Ultra Innovative, in Fordham International Law Journal, 2004, 542 ss. (4) Si veda TRIDIMAS,TAKIS E GUTIERREZ-FONS, EU Law, International Law and Economic Sanctions Against Terrorism: The Judiciary in Distress?, in Fordham International Law Journal, 2008, 2. (5) La dottrina sul punto è copiosa. Si vedano, su tutti, BIANCHI, Assessing the Effectiveness of the UN Security Council's Anti-terrorism Measure: The Quest for Legitimacy and Cohesion, in European Journal of International Law, 2007, 881 ss. e CAMERON, UN Targeted Sanctions, Legal Safeguards and the European Convention on HumanRights’, in Nordic Journal of International Law, 2003, 159. Il punto risulta chiaro anche dalla lettera briefing indirizzata al Consiglio di Sicurezza dal primo Chairman dell’ Antiterrorismo istituito dalla Risoluzione 1373(2001), secondo il quale “The Counter-Terrorism Committee is mandated to monitor the implementation of resolution 1373 (2001). Monitoring performance against other international conventions, including human rights law, is outside the scope of the Counter- Terrorism Committee’s mandate. But we will remain aware of the interaction with human rights concerns, and we will keep ourselves briefed as appropriate. It is, of course, open to other organizations to study States’ reports and take up their content in other forums”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 5 11. Alla luce di tali osservazioni sembra opportuno dar conto del quadro giuridico e fattuale nel quale il contenzioso in esame si inserisce, iniziando con una breve disamina delle principali risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in materia di antiterrorismo. B.1 La Risoluzione 1267 (1999) e successive determinazioni del Consiglio di Sicurezza in materia di antiterrorismo 12. Con la Risoluzione 1267 (1999) il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, deliberando all’unanimità e in base al capitolo VII della Carta ONU, ha adottato una serie di misure non implicanti l’uso della forza atte a contrastare la minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali posta dall’associazione terroristica Al – Qaeda e dal regime dei Talebani (6). Così facendo, il massimo organo politico delle Nazioni Unite ha dato l’avvio a una nuova fase nell’uso delle così dette “smart-sanctions”: tradizionalmente impiegate per esercitare pressioni su entità statali (7), le misure non implicanti l’uso della forza, soprattutto quelle rilevanti dal punto di vista economico, hanno iniziato a gravare direttamente su individui e altri enti non statali (8). A questo riguardo, fra le disposizioni più rilevanti della Risoluzione 1267 consta in particolar modo ricordare quelle che impongono a tutti gli Stati membri di congelare gli assets finanziari riconducibili alle attività della succitata organizzazione terroristica, salvi i casi in cui il Consiglio di Sicurezza decida diversamente in ragione di considerazioni umanitarie (9) e altresì quelle che prevedono la costituzione di un “Comitato delle Sanzioni” o Comitato 1267 (d’ora innanzi: Comitato 1267), da inserire nella struttura organizzativa del Consiglio stesso e deputato, fra l’altro, alla individuazione dei beni di volta in volta assoggettabili alle misure di congelamento, al coordinamento fra gli (6) Tale possibilità è riconosciuta al Consiglio di Sicurezza dal combinato disposto degli Artt. 39 e 41 della Carta delle Nazioni Unite, a norma dei quali, rispettivamente: “Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” e “Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l'impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche ”. (7) Si ricordino, per citare solo gli esempi più classici, il caso delle sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza contro la Rhodesia del Sud, il Sud Africa e più di recente l’Iraq durante la prima guerra del Golfo. (8) Ciò ha comportato, fra l’altro, la necessità di individuare una nuova base legale per la trasposizione di tali sanzioni nell’ordinamento comunitario. Mentre tradizionalmente alle sanzioni contro Stati veniva data applicazione tramite gli Artt. 60 e 301 del Trattato istitutivo della Comunità europea, la previsione di sanzioni contro individui non necessariamente collegati ad uno Stato ha imposto il ricorso anche all’art. 308 del Trattato medesimo. (9) Si veda il paragrafo 4(b) della Risoluzione 1267(1999): “Freeze funds and other financial resources, including funds derived orgenerated from property owned or controlled directly or indirectly by the Taliban, or by any undertaking owned or controlled by the Taliban, as designated by the Committee established by paragraph 6 below, and ensure that neither they nor any other funds or financial resources so designated are made available, by their nationals or by any persons within their territory, to or for the benefit of the Taliban or any undertaking owned or controlled, directly or indirectly by the Taliban, except as may be authorized by the Committee on a case-by-case basis on the grounds of humanitarian need”. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Stati membri per l’implementazione delle misure di cui al paragrafo 4 della Risoluzione 1267(1999) (10) e alla concessione di eventuali eccezioni per ragioni umanitarie. 13. La Risoluzione 1267 (1999) recava altresì in allegato una black-list di persone fisiche e giuridiche associate al regime dei Talebani in Afghanistan, per le quali si richiedeva l’immediata adozione delle misure di cui al paragrafo 4 della risoluzione medesima. 14. Con la Risoluzione 1269 (1999) il Consiglio, prendendo atto della perdurante minaccia costituita da alcune reti terroristiche di matrice islamica, ha ulteriormente incitato gli Stati a intensificare il regime di collaborazione reciproco, soprattutto per ciò che concerne lo scambio di informazioni rilevanti ai fini della prevenzione e repressione delle attività criminose in esame. 15. La Risoluzione 1333 (2000), anch’essa adottata a norma del Capitolo VII della Carta ONU, richiamando gli obblighi imposti dalle precedenti Risoluzioni 1267 (1999) e 1269 (1999), ha imposto al regime dei Talebani l’immediata cessazione di tutte le attività volte a consentire, tramite azioni od omissioni, l’impiego del territorio afghano per la preparazione e l’addestramento di terroristi e l’organizzazione o la pianificazione di attacchi terroristici. La risoluzione ha altresì posto un chiaro divieto, gravante su tutti gli Stati, di fornire al regime dei Talebani, in qualsiasi modo, armi, veicoli da guerra e pezzi di ricambio per i medesimi, nonché assistenza tecnica o logistica per l’addestramento di personale militare collegato al regime di Kabul. Da ultimo, e per ciò che più rileva ai fini del presente contenzioso, la Risoluzione ha imposto a tutti gli stati l’immediato congelamento dei beni riconducibili alla persona di Osama bin Laden e suoi associati, siano essi o meno membri della rete terroristica Al – Qaeda. 16. Con la stessa risoluzione il Consiglio ha chiesto al Comitato 1267 di mantenere una lista aggiornata di persone o enti direttamente o indirettamente collegati con la persona di Osama bin Laden (11). Alla luce delle direttive del Consiglio, il Comitato 1267 ha inserito il signor Kadi nella black-list de qua in data 17 Ottobre 2001. (10) Si veda paragrafo 4 Risoluzione 1267(1999): 4. Decides further that, in order to enforce paragraph 2 above, all States shall: (a) Deny permission for any aircraft to take off from or land in their territory if it is owned, leased or operated by or on behalf of the Taliban as designated by the Committee established by paragraph 6 below, unless the particular flight has been approved in advance by the Committee on the grounds of humanitarian need, including religious obligation such as the performance of the Hajj; (b) Freeze funds and other financial resources, including funds derived or generated from property owned or controlled directly or indirectly by the Taliban, or by any undertaking owned or controlled by the Taliban, as designated by the Committee established by paragraph 6 below, and ensure that neither they nor any other funds or financial resources so designated are made available, bytheir nationals or by any persons within their territory, to or for the benefit of the Taliban or any undertaking owned or controlled, directly or indirectly, by the Taliban, except as may be authorized by the Committee on a case-by-case basis on the grounds of humanitarian need; (11) Il paragrafo 8(c) della Risoluzione 1333 (2001) contiene l’ordine di “[...] to freeze without delay funds and other financial assets of Usama bin Laden and individuals and entities associated with him as designated by the Committee, including those in the Al-Qaida organization, and including funds derived or generated from property owned or controlled directly or indirectly byUsama bin Laden and individuals and entities associated with him, and to ensurethat neither they nor any other funds or financial resources are made available, by their nationals or by any persons within their territory, directly or indirectly for the benefit of Usama bin Laden, his associates or any entities owned or controlled, directly or indirectly, by Usama bin Laden or individuals and entities associated with him including the CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 7 17. Il 28 Settembre 2001, sulla scia degli attentati terroristici che hanno sconvolto gli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza ha riaffermato il suo constante impegno nella lotta al terrorismo con la Risoluzione 1373 (2001). Sebbene presenti un linguaggio apparentemente simile a quello impiegato in altre occasioni dal Consiglio, la portata giuridica e politica della Risoluzione 1373 (2001) è molto maggiore rispetto a quella dei suoi antecedenti. Di fatti, se le Risoluzioni 1267 (1999) e 1333 (2000) erano volte a sanzionare specifiche manifestazioni del fenomeno terroristico (quello di matrice islamica) e le blacklist in esse contemplate erano limitate a gruppi relativamente ristretti di persone ed enti, la Risoluzione 1373 (2001) segna il passaggio a un approccio completamente diverso, e assai più ampio. Il testo della Risoluzione si riferisce in termini generici al “terrorismo” e agli “attacchi terroristici”, senza specificarne ulteriormente la matrice (12). Anche le disposizioni che prevedono misure volte al congelamento di beni riconducibili a organizzazioni terroristiche sono formulate in maniera ampia, generica e omnicomprensiva, determinando conseguenze di non poco momento anche per quel che concerne la fase di implementazione a livello comunitario (13). 18. Come si indicherà appresso, difatti, in questo caso sono le istituzioni comunitarie, di concerto con gli Stati membri, a indicare in concreto i nomi dei soggetti da inserire nelle blacklist, mentre le elencazioni previste dalla risoluzione 1267 (1999) sono predisposte già a livello delle Nazioni Unite. Una significativa novità introdotta dalla Risoluzione 1373 (2001) è inoltre costituita dal Comitato Antiterrorismo (d’ora innanzi CAT), composto dai medesimi membri del Consiglio di Sicurezza e deputato a supervisionare la corretta implementazione da parte degli Stati della Risoluzione 1373 (2001) (14). 19. Dopo la caduta del regime dei Talebani a seguito delle operazioni delle forze della Coalizione in Afghanistan, il Consiglio di Sicurezza è tornato a deliberare in materia di misure di contrasto al terrorismo internazionale. La Risoluzione 1390 (2002), ha reiterato l’obbligo di provvedere al congelamento dei beni di tutti gli “individui, gruppi, imprese ed entità” collegate alla persona di Osama bin Laden (15). Sebbene dunque la portata Al-Qaida organization and requests the Committee to maintain an updated list, based on information provided by States and regional organizations, of the individuals and entities designated as being associated with Usama bin Laden, including those in the Al-Qaida organization”. (12) La Risoluzione si riferisce genericamente, al paragrafo 1, di a coloro che “commit or attempt to commit terrorist acts or participate in or facilitate the commission of terrorist acts”. (13) Si veda il paragrafo 1(c), che impone a tutti gli Stati di “Freeze without delay funds and other financial assets or economic resources of persons who commit, or attempt to commit, terrorist acts or participate in or facilitate the commission of terrorist acts; of entities owned or controlled directly or indirectly by such persons; and of persons and entities acting on behalf of, or at the direction of such persons and entities, including funds derived or generated from property owned or controlled directly or indirectly by such persons and associated persons and entities”. (14) Fra le altre disposizioni della Risoluzione vale la pena di ricordare quelle che impongono agli Stati di adottare una serie di misure nei loro ordinamenti interni per garantire che i terroristi siano consegnati alla giustizia, quelle che vietano la creazione di safe heavens per i terroristi e quelle volte ad incrementare la collaborazione fra gli Stati membri a tal fine. (15) Si veda il paragrafo 2(a) della Risoluzione 1390 (2002): [... ]all States shall take the following measures with respect to Usama bin Laden, members of the Al-Qaida organization and the Taliban and other individuals, groups, undertakings and entities associated with them, as referred to in the list created 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 applicativa della Risoluzione 1390 (2002) sia più limitata rispetto agli ampi margini della Risoluzione 1373 (2001), c’è comunque da registrare il venir meno di qualsiasi vincolo territoriale all’ esecuzione delle disposizioni ivi contenute: esse colpiscono non solo i beni siti nel territorio Afghano, ma anche quelli localizzati all’estero. La pletora delle azioni del Consiglio di Sicurezza in materia di antiterrorismo è arricchita ulteriormente dalle Risoluzioni 1455 (2003), 1526 (2004), 1617 (2005), 1730 (2006), 1735 (2006), 1822 (2008) e 1904 (2009), tutte volte a perfezionare il contenuto delle Risoluzioni 1267 (1999) e 1373 (2001), secondo modalità che si avrà cura di indicare di volta in volta nel corso di queste pagine. 20. In conclusione, e dopo aver indicato la cornice operativa delle rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, sembra opportuno provvedere a un loro raggruppamento in base a due diverse categorie: da un lato le risoluzioni che contemplano blacklist già compilate a livello delle Nazioni Unite, e non lasciano dunque alcun tipo di discrezionalità agli Stati membri in ordine alla identificazione dei soggetti da includere nell’elenco. Tale primo gruppo, nel quale figurano le Risoluzioni 1267 (1999), 1333 (2000) e 1390 (2002) si caratterizza per l’essere costituito da decisioni vincolate che gli Stati membri devono limitarsi a recepire e implementare fedelmente, senza poter in alcun modo influire sul loro contenuto. Il secondo gruppo è costituito dalle Risoluzioni che non riguardano il fenomeno terroristico nella sua dimensione più ampia e generale, ma contemplano anche blacklist astratte, nel senso che lasciano ampia discrezionalità agli Stati membri di individuare, con una procedura decentralizzata, coloro che di volta in volta essi desiderano inserirvi. Ne consegue che gli individui che ritengano di essere stati ingiustamente inseriti in una delle liste di cui alla Risoluzione 1373 (2001) (secondo gruppo) hanno senz’altro diritto a ricorrere avverso la decisione di blacklisting a livello domestico, o, laddove la lista sia compilata dalle istituzioni comunitarie, davanti agli organi preposti alla tutela giurisdizionale previsti dai Trattati costitutivi dell’Unione Europea. Di tutto ciò si avrà modo di dar conto nel corso di queste pagine. 21. Il giudizio in esame si colloca entro la cornice procedurale prevista dal primo gruppo di risoluzioni, segnatamente quello facente capo alla Risoluzione 1267 (1999). Il Sig. Kadi figura difatti nella blacklist prevista da tale decisione del Consiglio, in quanto persona legata alla rete terroristica Al - Qaeda e al decaduto regime dei Talebani. Nelle pagine che seguono si prenderà dunque in esame il gruppo di Risoluzioni riconducibili al modello della 1267 (1999), salvo richiamare le differenze con il secondo gruppo ove ciò appaia opportuno al fine del migliore inquadramento di alcune questioni. B.2 L’implementazione comunitaria delle Risoluzioni 1267 (1999) e 1373 (2001) e successive modifiche 22. In ragione del diverso regime giuridico introdotto dalle Risoluzioni 1267 (1999) (primo pursuant to resolutions 1267 (1999) and 1333 (2000) to be updated regularly by the Committee established pursuant to resolution 1267 (1999) hereinafter referred to as “the Committee”; (a) Freeze without delay the funds and other financial assets or economic resources of these individuals, groups, undertakings and entities, including funds derived from property owned or controlled, directly or indirectly, by them or by persons acting on their behalf or at their direction, and ensure that neither these nor any other funds, financial assets or economic resources are made available, directlyor indirectly, for such persons’ benefit, by their nationals or by any persons within their territory. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 9 gruppo) e 1373 (2001) (secondo gruppo), anche la loro implementazione a livello comunitario è avvenuta con atti distinti. In entrambi i casi, ad ogni modo, la trasposizione delle rilevanti disposizioni ha trovato la sua base giuridica nell’Articolo 301 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (d’ora innanzi, Trattato Comunitario), ora corrispondente all’Articolo 215 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora innanzi, TFEU) (16). La procedura seguita prevedeva dunque che il Consiglio europeo decidesse sull’adozione delle misure di congelamento dei beni in una posizione comune assunta nell’ambito di quello che prima del Trattato di Lisbona era definito il secondo pilastro dell’Unione, relativo alla politica estera e di sicurezza comune. In base al combinato disposto delle disposizioni di cui agli Articoli 60, 301 e 308 (17), la Risoluzione è stata implementata tramite un Regolamento comunitario e ha acquistato effetto negli ordinamenti degli Stati membri. 23. Ciò premesso, la Risoluzione 1267 è stata implementata tramite una posizione comune del Consiglio europeo concernente misure restrittive nei confronti di Osama bin Laden, dei membri dell’Organizzazione Al-Qaida e dei Talebani e di altri individui, gruppi, imprese ed entità ad essi associate (2002/402/PESC) in data 27 Maggio 2002. La posizione comune prevede, fra l’altro, all’articolo 3, il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie o economiche degli individui, gruppi, imprese legati alla rete terroristica di Al – Qaeda e assicura altresì che capitali e risorse finanziarie o economiche non siano resi disponibili, direttamente o indirettamente ai medesimi soggetti, vale a dire a quelli indicati nella lista stilata dal Comitato 1267 24. La posizione comune è stata resa esecutiva nell’ordinamento comunitario per mezzo del Regolamento del Consiglio 881/2002 (18), che ha imposto specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone e entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al - Qaeda e ai Talebani. Il regolamento implementa fedelmente le disposizioni contenute nella Risoluzione 1267 (1999). In modo particolare, l’Articolo 2, ai commi 1 e 2, (16) Secondo la disposizione dell’Art. 301: Quando una posizione comune o un'azione comune adottata in virtù delle disposizioni del trattato sull'Unione europea relative alla politica estera e di sicurezza comune prevedano un’azione della Comunità per interrompere o ridurre parzialmente o totalmente le relazioni economiche con uno o più paesi terzi, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, prende le misure urgenti necessarie. (17) Gli articoli 60 e 308 del Trattato Comunitario prevedono rispettivamente che: “Qualora, nei casi previsti all'articolo 301, sia ritenuta necessaria un'azione della Comunità, il Consiglio, in conformità della procedura di cui all'articolo 301, può adottare nei confronti dei paesi terzi interessati, le misure urgenti necessarie in materia di movimenti di capitali e di pagamenti. 2. Fatto salvo l'articolo 297 e fintantoché il Consiglio non abbia adottato misure secondo quanto disposto dal paragrafo 1, uno Stato membro può, per gravi ragioni politiche e per motivi di urgenza, adottare misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali ei pagamenti. La Commissione e gli altri Stati membri sono informati di dette misure al più tardi alla data di entrata in vigore delle medesime. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, può decidere che lo Stato membro interessato modifichi o revochi tali misure. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo in merito ad ogni decisione presa dal Consiglio” e che: “Quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso ”. (18) Il regolamento è stato adottato in base agli Artt. 60, 301 e 308 del Trattato Comunitario. 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 ripropone la misura di congelamento dei beni, negli stessi termini previsti dalla decisione del Consiglio di Sicurezza (19). L’elencazione allegata al Regolamento del Consiglio (Allegato I, persone fisiche) riproduce alla lettera la lista compilata dal Comitato 1267 e include la persona di Shaykh Yassin Abdullah Kadi, nato in Egitto, a Il Cairo, il 23/02/1955 e titolare di passaporto saudita. 25. Ai fini del presente contenzioso appare altresì opportuno focalizzare l’attenzione sulla disposizione di cui all’Art. 7 bis del Regolamento (20), operante una sorta di rinvio non recettizio alla Risoluzione 1267 (1999) e alla lista ad essa allegata. Secondo la norma, difatti, qualora il Comitato 1267 o il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite decidano di inserire per la prima volta nell’elenco una persona fisica o giuridica, un’entità, un organismo o un gruppo, non appena ricevuta la motivazione dal Comitato 1267, la Commissione adotta senza indugio una decisione per l’adeguamento nei termini della lista allegata al regolamento comunitario. Parimenti, qualora le Nazioni Unite decidano di depennare dall’elenco una persona, un’entità, un organismo o un gruppo o di modificare i dati identificativi di una persona, di un’entità di un organismo o di un gruppo che figura nell’elenco, la Commissione deve provvedere a modificare opportunamente l’allegato I (21). Risulta pertanto chiaro sin da questa breve analisi che la Commissione non dispone di alcun potere discrezionale nella gestione delle blacklist previste dalla Risoluzione 1267 (1999). Essa è semplice instrumentum per dare esecuzione alle determinazioni del Consiglio di Sicurezza o del Comitato 1267. Parimenti, il Regola- (19) L’articolo 2 prevede in particolare che: 1 Tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti a, o in possesso di, una persona fisica o giuridica, gruppo o entità designato dal comitato per le sanzioni ed elencato nell'allegato I sono congelati. 2. È vietato mettere direttamente o indirettamente fondi a disposizione di una persona fisica o giuridica, di un gruppo o di un'entità designati dal comitato per le sanzioni ed elencati nell'allegato I, o stanziarli a loro vantaggio. 3. È vietato mettere direttamente o indirettamente risorse economiche a disposizione di una persona fisica o giuridica, ad un gruppo o ad un'entità designati dal comitato per le sanzioni ed elencati nell'allegato I o destinarle a loro vantaggio, per impedire così facendo che la persona, il gruppo o l'entità in questione possa ottenere fondi, beni o servizi. (20) Introdotto a seguito di modifica ad opera del Regolamento del Consiglio 1286/2009. (21) L’articolo 7 bis del Regolamento 881/2002, come modificato dal Regolamento del Consiglio 1286/2009 prevede in particolare che Qualora il comitato per le sanzioni o il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite decidano di inserire per la prima volta nell’elenco una persona fisica o giuridica, un’entità, un organismo o un gruppo, non appena ricevuta la motivazione dal comitato per le sanzioni la Commissione adotta senza indugio una decisione per tale inserimento nell’allegato I. 2. Una volta adottata la decisione di cui al paragrafo 1, la Commissione trasmette senza indugio la motivazione fornita dal comitato per le sanzioni alla persona, all’entità, all’organismo o al gruppo in questione, sia direttamente, se il suo indirizzo è noto, sia a seguito della pubblicazione di un avviso, fornendo la possibilità di formulare osservazioni in merito. 3. La Commissione riesamina la decisione di cui al paragrafo 1 alla luce di eventuali osservazioni avanzate e secondo la procedura di cui all’articolo 7 ter, paragrafo 2. Le osservazioni sono trasmesse al comitato per le sanzioni. La Commissione comunica l’esito del proprio riesame alla persona, all’entità, all’organismo o al gruppo in questione. L’esito del riesame è trasmesso altresì al comitato per le sanzioni. 4. Dietro ulteriore richiesta basata su nuove prove sostanziali di rimuovere una persona, un’entità, un organismo o un gruppo dall’elenco dell’allegato I, la Commissione procede a un nuovo riesame conformemente al paragrafo 3 e secondo la procedura di cui all’articolo 7 ter, paragrafo 2. 5. Qualora le Nazioni Unite decidano di depennare dall’elenco una persona, un’entità, un organismo o un gruppo o di modificare i dati identificativi di una persona, di un’entità, di un organismo o di un gruppo che figura nell’elenco, la Commissione modifica opportunamente l’allegato I. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 11 mento 881/2002 del Consiglio, lungi dall’essere espressione di un’attività legislativa autonoma e indipendente del medesimo, si configura come semplice mezzo per la trasposizione nell’ordinamento comunitario di disposizioni adottate al di fuori di esso, segnatamente nell’ordinamento internazionale facente capo alle Nazioni Unite. 26. Ben diverso è il regime che sovrintende all’implementazione della Risoluzione 1373 (2001) (Secondo gruppo). Tale regime è definito in ambito comunitario “autonomo”, in ragione del fatto che esso non prevede la mera trasposizione di disposizioni assunte da organi esterni all’Unione, ma richiede al contrario un significativo contributo di questi ultimi nella precisazione del loro contenuto normativo. Questa fondamentale differenza, la cui portata per il caso in esame si avrà modo di analizzare in seguito, emerge chiaramente dal diverso tenore della posizione comune 2001/931/PESC e dal Regolamento del Consiglio che la rende esecutiva nel diritto comunitario, vale a dire il Regolamento 2580/2001. In particolar modo, la decisione di inserire un soggetto in blacklist e sottoporlo alle misure di congelamento dei beni che essa comporta è assunta dalle competenti autorità degli Stati membri, e, a norma dell’Articolo 7 del Regolamento “La Commissione è abilitata a modificare l'allegato in base alle informazioni fornite dagli Stati”. La Risoluzione si limita pertanto a fissare criteri e misure generali, la cui specificazione avviene a livello comunitario e nazionale. Tutto ciò risulta con estrema chiarezza dal pronunciamento del Tribunale di Primo grado nel caso OMPI. Secondo i giudici “ [...] nell’ambito della risoluzione 1373 (2001), spetta agli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) – e, nel caso di specie, alla Comunità, attraverso cui gli Stati membri hanno deciso di agire – identificare concretamente quali siano le persone, i gruppi e le entità i cui fondi devono essere congelati in applicazione di tale risoluzione, conformandosi alle norme del loro ordinamento giuridico” (22). B.3 Le sentenze Kadi I del Tribunale di Primo Grado (T-315/01) e della Corte di Giustizia (C-402/05 P) 27. Il 17 Ottobre 2001 il Comitato 1267, in applicazione del paragrafo 8 (c) della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1333 (2000) (23) ha iscritto il sig. Kadi nella blacklist ivi contemplata, poiché associato a Osama bin Laden, Al - Qaeda e/o al regime dei Talebabi per “participating in the financing, planning, facilitating, preparing or perpetrating of acts or activities by, in conjunction with, under the name of, on behalf or in support of”, “supplying, selling, or transferring arms and related material to”, “recruiting for” o “otherwise supporting acts or activities of Usama bin Laden, Al-Qaida and the Taliban”(24). 28. Con ricorso presentato davanti al Tribunale dell’Unione europea in data 18/12/2001 e successive modifiche, il Sig. Kadi, ha chiesto l’annullamento, nella parte in cui esso riguardava il ricorrente, del Regolamento del Consiglio 27 maggio 2002, n. 881/2002 , attuativo di specifiche misure restrittive nei confronti di persone ed enti a vario titolo (22) Si veda Organisation des Modjahedines du peuple d'Iran (OMPI), causa T-228/02, 12 dicembre 2006, paragrafo 102. (23) Si veda Risoluzione del Consiglio, paragrafo 8 (c), 1330 (2000). (24) Si veda il sito internet del Comitato 1267, alla pagina: http://www.un.org/sc/committees/ 1267/NSQI02201E.shtml 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 affiliati alla rete terroristica succitata. Il ricorrente lamentava la violazione, da parte di tale atto del Consiglio, del suo diritto al contraddittorio, del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva e del rispetto del principio di proporzionalità nella compressione del suo diritto di proprietà. 29. Il Tribunale dell’Unione europea ha respinto il ricorso del Kadi (cause T-315/01 T- 306/01), argomentando in base ai criteri generali di coordinamento fra l’ordinamento giuridico comunitario e quello internazionale, facente capo ai principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite (in special modo, Artt. 25 e 103). In base a siffatti criteri di coordinamento, il Tribunale ha riconosciuto che il Reg. (CE) n. 881/2002, in quanto meramente attuativo di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta ONU, non era suscettibile di sindacato di legittimità da parte del giudice comunitario, godendo anzi di una “immunità giurisdizionale”, salvo il caso dell’accertamento della violazione di norme dello jus cogens internazionale (25). 30. La Corte di Giustizia dell’Unione europea, nelle cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, ha rigettato le linee argomentative prospettate dal Tribunale, riconoscendo la sindacabilità del Reg. (CE) n. 881/2002 e disponendone l’annullamento nella misura in cui esso riguardava il ricorrente, accogliendo pertanto le censure da questi prospettate in ordine alla violazione del suo diritto alla difesa e a una tutela giurisdizionale effettiva. L’argomentazione prospettata dalla Corte di Giustizia riconosce nell’ Unione europea una comunità di diritto, la cui legislazione, anche quella di mera implementazione di decisioni del Consiglio di Sicurezza, lungi dal godere di forme di immunità dalla giurisdizione di cognizione, non può sottrarsi al controllo di compatibilità con i principi giuridici che tale Comunità informano. Secondo la Corte, infatti, non sarebbe possibile “in alcun caso consentire di mettere in discussione i principi che fanno parte dei fondamenti stessi dell’ordinamento giuridico comunitario, tra i quali quello della tutela dei diritti fondamentali, che include il controllo, ad opera del giudice comunitario, della legittimità degli atti comunitari quanto alla loro conformità a tali diritti fondamentali”(26). La Corte ha pertanto concluso, in contrasto con le precedenti determinazioni del Tribunale di Primo Grado, che “i giudici comunitari devono, in conformità alle competenze di cui sono investiti in forza del Trattato CE, garantire un controllo, in linea di principio completo, della legittimità di tutti gli atti comunitari con riferimento ai diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, ivi inclusi gli atti comunitari che, come il regolamento controverso, mirano ad attuare risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite”(27). 31. La Commissione, nel conformarsi alla sentenza resa dalla Corte di Giustizia nelle cause (25) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafo 225. Nelle parole dei giudici: Si deve dunque considerare che le controverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza si sottraggono in via di principio al sindacato giurisdizionale del Tribunale e che quest’ultimo non ha il potere di rimettere in causa, seppur in via incidentale, la loro legittimità alla luce del diritto comunitario. Al contrario, il Tribunale è tenuto, per quanto possibile, ad interpretare e applicare tale diritto in modo che sia compatibile con gli obblighi degli Stati membri derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite. (26) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 306. (27) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 326. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 13 C-402/05 P e C-415/05 P, ha provveduto a dar conto al Sig. Kadi delle motivazioni per cui egli risultava iscritto nella lista di persone ed enti allegata al regolamento 881/2002 e, assunte le osservazioni del ricorrente in merito a tali motivazioni, ha proceduto comunque all’adozione di un atto volto a ordinare la sua permanenza nell’elencazione poc’anzi riferita (Regolamento (CE) 28 novembre 2008, n. 1190/2008). A parere della Commissione, difatti, l’esposizione delle motivazioni, unitamente al riconoscimento al ricorrente del diritto di replica alla comunicazione di tali informazioni, costitutiva procedura adeguata per conformarsi alla decisione della Corte resa nei casi C-402/05 P e C-415/05 P. L’ulteriore richiesta del Sig. Kadi, di essere edotto delle prove specifiche e degli elementi probatori concreti in base alle quali la Commissione ha ordinato la permanenza del ricorrente nella blacklist, non ha trovato accoglimento. B.4 La sentenza Kadi II del Tribunale di Primo Grado (T-85/09) 32. Il contenzioso in esame trova inquadramento nella cornice fattuale e giuridica sopra delineata. Con ricorso presentato davanti al Tribunale dell’Unione europea il 26/02/2009, il ricorrente ha chiesto l’annullamento del Regolamento (CE) 28 novembre 2008, n. 1190/2008, adottato in adempimento della decisione C-415/05 P della Corte di Giustizia nel caso Kadi I e recante “centunesima modifica del regolamento (CE) n. 881/2002 [...]”. Il ricorrente ha presentato cinque distinti motivi a sostegno del suo ricorso (dei quali solamente due decisi dal Tribunale), preceduti da alcune considerazioni preliminari relative alla natura del controllo giurisdizionale da esercitare su atti dell’Unione attuativi di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. 33. Quanto al primo punto, il Tribunale, accedendo alle argomentazioni del ricorrente e richiamando la sentenza Kadi I della Corte in più passi, ha rilevato che, posta la legittimità del sindacato sugli atti dell’Unione volti a trasporre nell’ordinamento comunitario il contenuto delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, tale sindacato dovesse conformarsi ai criteri della “full and rigorous review”(28), vale a dire a un controllo non solo sulla correttezza formale della decisione, ma esteso all’adeguatezza e sufficienza del materiale probatorio valutato dal Consiglio di Sicurezza al momento dell’iscrizione della persona sospetta nella lista di cui all’allegato I del Reg. (CE) 881/2002. Secondo il Tribunale, in modo particolare, il controllo esercitato dal giudice comunitario sulle misure europee di congelamento di capitali può qualificarsi come effettivo solo qualora abbia ad oggetto, indirettamente, le valutazioni di merito effettuate dallo stesso Comitato 1267, nonché gli elementi probatori a queste soggiacenti (29) . 34. Applicando il suddetto standard di controllo giurisdizionale, il Tribunale ha riconosciuto fondati i motivi di ricorso prospettati dal Kadi, cominciando a dare contenuto e applicazione a contro-limiti derivanti dal diritto comunitario. In primo luogo, il diritto di difesa del ricorrente sarebbe stato illegittimamente compresso nella misura in cui questi, pur edotto genericamente delle motivazioni poste alla base della decisione di congelare i suoi beni, non è stato messo nelle condizioni di conoscere gli elementi di prova addotti a suo carico e, conseguentemente, di contestarne la valenza probatoria. A differenza di (28) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafi 148-151. (29) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09 , 30 settembre 2010, paragrafo 129. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 quanto deciso dalla Corte di Giustizia nel caso Kadi I (C-402/05), dunque, il Tribunale non ha censurato la totale inesistenza di qualsivoglia procedura di contraddittorio, ma solamente la sua insufficienza, poiché “i pochi elementi di informazione e le vaghe allegazioni contenute nella sintesi dei motivi appaiono manifestamente insufficienti a consentire al ricorrente di smentire efficacemente le accuse mossegli, in relazione alla sua presunta partecipazione ad attività terroristiche” (30). Dalla violazione al diritto di difesa del ricorrente il Tribunale ha dedotto altresì la violazione del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. 35. Da ultimo, il Tribunale ha riconosciuto fondato il motivo di ricorso concernente la violazione del principio di proporzionalità conseguente al congelamento dei beni del Kadi (31). Ciò in ragione del fatto che misure di portata generale e destinate a determinare un pregiudizio persistente ai diritti del ricorrente (i beni erano congelati da oltre dieci anni) risultavano adottate in dispregio ai principi del due process, segnatamente al diritto a una difesa piena ed effettiva. Riconoscendo la fondatezza di due dei cinque motivi presentati dal ricorrente, il Tribunale ha annullato il Regolamento 1190/2008, nella misura in cui esso lo riguardava. C) Primo motivo d’appello: insindacabilità dei regolamenti comunitari di mera implementazione di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza C.1 La posizione del Tribunale e della Corte di Giustizia 36. Con sentenza resa in data 21 settembre 2005 nel caso Kadi I (T-315/01), il Tribunale di Primo Grado dell'Unione europea ha affermato fra l’altro il principio secondo il quale le decisioni del Consiglio di Sicurezza,e , in particolar modo, le determinazioni assunte a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, godono di una pressoché assoluta immunità dalla giurisdizione di cognizione degli organi comunitari. La linea argomentativa del Tribunale ha preso le mosse dal combinato disposto degli Articoli 103 della Carta delle Nazioni Unite (32) e 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati (33). Tali norme, a opinione del Tribunale, impongono agli Stati membri dell'ONU la incondizionata implementazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, quale adempimento di un dovere positivo iscritto nel diritto internazionale conseguente alla loro prevalenza su qualsiasi altro atto normativo. Secondo il Tribunale, in particolare, “per quanto riguarda, in primo luogo, i rapporti tra la Carta delle Nazioni Unite e il diritto interno degli Stati membri dell’ONU, la regola della prevalenza discende dai principi del diritto internazionale consuetudinario. Ai termini dell’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, adottata a Vienna il 23 maggio 1969, che codifica tali principi, una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giu- (30) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 174. (31) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 193. (32) Si veda articolo 103 Carta delle Nazioni Unite, secondo il quale: “In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”. (33) Si veda articolo 27 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei trattati, secondo il quale: “Una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato. Questa regola non pregiudica quanto disposto dall'art. 46 ”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 15 stificare la mancata esecuzione di un trattato. Per quanto riguarda, in secondo luogo, i rapporti tra la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale pattizio, tale regola di prevalenza è espressamente sancita dall’art. 103 della detta Carta, ai termini della quale, in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con la presente Carta e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dalla presente Carta. 37. Conformemente all’art. 30 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, e contrariamente alle regole normalmente applicabili in caso di trattati successivi, essa si applica sia ai trattati anteriori sia ai trattati posteriori alla Carta delle Nazioni Unite. Secondo la Corte internazionale di giustizia, tutti gli accordi regionali, bilaterali e anche multilaterali, che le parti possono aver concluso, sono sempre subordinati alle disposizioni dell’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite (34). 38. Il Tribunale ha ulteriormente richiamato le disposizioni di cui agli Articoli 297 (35) e 307 (36) del Trattato che istituisce la Comunità Europea per trarne la conclusione che le disposizioni del Trattato medesimo non incidono sugli obblighi internazionali che gli Stati membri avevano contratto prima di entrare a far parte della Comunità. Secondo il Tribunale, pertanto, poiché l’esercizio del sindacato giurisdizionale su un atto meramente implementativo di una decisione del Consiglio di Sicurezza equivarrebbe ad una judicial review sulla risoluzione medesima, “è escluso il suo potere di rimettere in causa, seppur in via incidentale, la legittimità (delle risoluzioni) alla luce del diritto comunitario” (37). 39. Ciò che non è invece preclusa, ma al contrario auspicata, è un’interpretazione delle Risoluzioni in maniera conforme ai principi del diritto comunitario, in modo particolare quelli relativi alla tutela dei diritti umani. L’unica eccezione rilevata dal Tribunale concerne l’ipotesi di violazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle norme dello ius cogens internazionale (38). Questa impostazione d’altra parte corrisponde a una posi- (34) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafi 182-183. (35) Si veda articolo 297 del Trattato che istituisce la Comunità Europea: “Gli Stati membri si consultano al fine di prendere di comune accordo le disposizioni necessarie ad evitare che il funzionamento del mercato comune abbia a risentire delle misure che uno Stato membro può essere indotto a prendere nell'eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l'ordine pubblico, in caso di guerra o di grave tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra ovvero per far fronte agli impegni da esso assunti ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ”. (36) Si veda articolo 307 del Trattato che istituisce la Comunità Europea: “Le disposizioni del presente trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1o gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall'altra. Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili col presente trattato, lo Stato o gli Stati membri interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di condotta. Nell'applicazione delle convenzioni di cui al primo comma, gli Stati membri tengono conto del fatto che i vantaggi consentiti nel presente trattato da ciascuno degli Stati membri costituiscono parte integrante dell'instaurazione della Comunità e sono, per ciò stesso, indissolubilmente connessi alla creazione di istituzioni comuni, all'attribuzione di competenze a favore di queste ultime e alla concessione degli stessi vantaggi da parte di tutti gli altri Stati membri ”. (37) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafo 285. (38) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafo 231. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 zione dottrinale ben nota, che considera addirittura nulla la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza confliggente con le norme di jus cogens poste a garanzia delle disposizioni sui diritti umani (39). 40. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha adottato un approccio completamente diverso, traducendo in termini pratici una nozione dualistica dei rapporti fra l’ordinamento comunitario e quello internazionale. L’opinione sottesa a questa concezione è che l’ordinamento internazionale e l’ordinamento comunitario sono nei loro rapporti reciproci autonomi, separati e distinti (40). In modo particolare, la Corte ha ritenuto di dover “verificare se, come stabilito dal Tribunale, i principi che disciplinano il concatenarsi dei rapporti tra l’ordinamento giuridico internazionale creato dalle Nazioni Unite e l’ordinamento giuridico comunitario implichino che un controllo giurisdizionale della legittimità interna del regolamento controverso sotto il profilo dei diritti fondamentali sia in linea di principio escluso, nonostante il fatto che […] un tale controllo costituisca una garanzia costituzionale che fa parte dei fondamenti stessi della Comunità (41). 41. Nonostante la statuizione che “le istituzioni comunitarie devono rispettare il diritto internazionale nell’esercizio dei loro poteri” (42), la Corte ha notato che “una simile immunità giurisdizionale di un atto comunitario, quale il regolamento controverso, come corollario del principio di prevalenza sul piano del diritto internazionale degli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare di quelli relativi all’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate in base al capitolo VII di tale Carta, non trova alcun fondamento nell’ambito del Trattato CE” (43). Più in generale, dunque, la Corte è pervenuta alla conclusione che le misure comunitarie di implementazione di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non sono sottratte al sindacato di legittimità degli organi giuridici comunitari, mentre sottratte a tale controllo sarebbero (solo e direttamente) le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. C.2 La posizione della Repubblica Italiana (sunto) 42. La Repubblica italiana si associa alle considerazioni del Consiglio europeo nel dissentire rispetto alla determinazione della Corte di Giustizia sulla possibilità di eseguire un sindacato di legittimità su atti comunitari di mera implementazione di decisioni del Consiglio di Sicurezza. D’altra parte, perplessità in ordine a tale conclusione sono state espresse dallo stesso Tribunale nella sentenza Kadi II (T-85/09). I giudici, nel richiamare le perplessità di parte della dottrina sulla statuizione della Corte di Giustizia, hanno affermato che “tali critiche non sono del tutto prive di serietà. Tuttavia, quanto alla loro pertinenza, il Tribunale ritiene che, in circostanze quali quelle della fattispecie, aventi ad oggetto un atto adottato dalla Commissione in sostituzione di un atto anteriore, annullato dalla Corte nell’ambito di un’impugnazione proposta avverso una sentenza del Tribunale che ha respinto il ricorso d’annullamento avverso l’atto medesimo, il principio (39) Si veda BIANCHI, Human Rights and the Magic of Jus Cogens, in European Journal of International Law, 2008, 501. (40) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 25. (41) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 290. (42) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 298. (43) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 298. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17 stesso dell’impugnazione e la struttura giurisdizionale gerarchica che ne rappresenta il corollario gli suggeriscono, in linea di principio, di non mettere esso stesso in discussione i punti di diritto risolti dalla decisione della Corte. Ciò vale a maggior ragione quando, come nella fattispecie, la Corte ha statuito in Grande Sezione ed ha manifestamente inteso pronunciare una sentenza di principio. Pertanto, se dovesse essere necessario fornire una risposta agli interrogativi sollevati dalle istituzioni, dagli Stati membri e dagli ambienti giuridici interessati, a seguito della sentenza Kadi della Corte, sarebbe opportuno che vi provvedesse la Corte stessa nell’ambito delle future cause di cui essa potrebbe essere investita (44). C.3 Lo status delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nei confronti dei paesi membri. Limiti alla sindacabilità domestica delle misure di implementazione delle Risoluzioni del Consiglio che impongono sanzioni. 43. Come meglio si vedrà in seguito, il Consiglio di Sicurezza è l’organo delle Nazioni Unite al quale è stato attribuito in via principale il compito di tutelare la pace e la sicurezza internazionali. Le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite per far fronte a tali minacce sono vincolanti per gli Stati membri dell’ONU, che a norma dell’articolo 25 della Carta devono darvi esecuzione nei termini da essa previsti. A norma dell’articolo 48, peraltro, i Membri delle Nazioni Unite si associano per prestarsi mutua assistenza nell’eseguire le misure deliberate dal Consiglio di Sicurezza. Lo Stato membro che si rifiuti, senza giustificato motivo, di dare seguito ad una Risoluzione del Consiglio compie pertanto un illecito implicante la responsabilità internazionale dello Stato per violazione dell’art. 25. 44. Sempre secondo la Carta ONU, peraltro, non costituisce giusto motivo la circostanza che la Risoluzione del Consiglio risulti incompatibile con altri obblighi internazionali dello Stato. Ai sensi dell’articolo 103, difatti, “in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”. 45. La violazione della norma richiamata risulta di tutta evidenza quando lo Stato membro sia chiamato a implementare una Risoluzione del Consiglio dal carattere vincolato, che non gli lascia margini di discrezionalità in ordine al quomodo dell’implementazione. Come si è visto nelle pagine precedenti (paragrafo 20), rientrano in questa categoria le decisioni del Consiglio che identificano già in sede di Nazioni Unite blacklist di terroristi che gli Stati devono limitarsi a riprodurre nei loro ordinamenti interni, non avendo queste ultime efficacia self-executing. La Risoluzione 1267 (1999) rientra in questa categoria, poiché non lascia agli Stati margini di discrezionalità in ordine alla identificazione dei sospetti terroristi da inserire nella lista. Parimenti, rientrano nel novero delle Risoluzioni del Consiglio a contenuto vincolato quei provvedimenti con i quali l’organo politico delle Nazioni Unite ordina a un paese di trasferire una persona a un tribunale internazionale. Non figurano fra le Risoluzioni a contenuto vincolato, al contrario, quelle riconducibili alla categoria della Risoluzione 1373 (2001), poiché lo Stato non si trova a (44) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 121. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 fronteggiare un’obbligazione formulata nei termini di un aut-aut, che esso può decidere di adempiere o di non adempiere, ma al contrario dispone di più ampi margini di discrezionalità. Nella fattispecie della Risoluzione 1373, in modo particolare, gli Stati membri dispongono di ampi margini di scelta nello stilare le liste di persone sospette richieste dal Consiglio. 46. Tradizionalmente, le corti dei paesi membri delle Nazioni Unite si sono astenute dall’esercitare un controllo di legalità sugli atti di diritto interno con i quali veniva data esecuzione a Risoluzioni del Consiglio dal carattere vincolato (non così, invece, nel caso di Risoluzioni non vincolate, perché le Corti possono comunque valutare l’esercizio della discrezionalità da parte delle autorità nazionali nel dare seguito alla Risoluzione). Ciò si spiega sia in ragione della consapevolezza che l’esercizio di un sindacato di legittimità su un atto di mera implementazione di una decisione del Consiglio equivale all’esercizio di una review sulla decisione del Consiglio medesimo, operazione la cui legittimità è espressamente esclusa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea; sia in ragione del fatto che quand’anche il controllo di legittimità sia eseguito e metta in evidenza l’illegittimità della Risoluzione alla luce dei parametri di riferimento dello Stato del foro, la mancata esecuzione della decisione considerata illegittima determinerebbe comunque la responsabilità internazionale dello Stato per violazione degli articoli 25 e, se del caso, 103 della Carta ONU. D’altra parte, neppure la Corte Internazionale di Giustizia ritiene di poter esercitare un controllo sulle Risoluzioni del Consiglio (45) ed è a maggior ragione poco plausibile che una corte nazionale possa ritenere di avere un tale potere (46). 47.A tutt’oggi, tale approccio sembra essere il migliore. Nel caso Dubsky c. Irlanda la High Court si è rifiutata di esercitare alcuna forma di controllo giurisdizionale sugli atti di implementazione della Risoluzione 1368 (2001), affermando che “it is neither permissibile nor appropriate for this court to seek to even interpret a Security Council Resolution” (47). Parimenti significativo è il contenzioso sviluppatosi in Croazia a seguito delle numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che hanno imposto al paese di collaborare con il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella Ex - Jugoslavia, soprattutto per quel che concerne il trasferimento di persone sospette alla corte. 48. Nel Bobetko Report la Corte Costituzionale croata si è dichiarata priva di giurisdizione per quel che concerne la verifica della compatibilità di atti delle Nazioni Unite e dei suoi organi (e atti di loro mera implementazione) con le disposizioni della Costituzione Croata e le garanzie da essa previste sotto il profilo dei diritti umani (48). 49. Ancora, e con specifico riguardo alla risoluzione 1267, nel caso Al-Qadi, il Consiglio di Stato turco si è dichiarato incompetente a pronunciarsi sulle legittimità degli atti in- (45) Si veda Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Nanibia notwithstanding Security Council Resolution 276, Advisory Opinion, 1970, in ICJ Rep, 89. (46) Per le informazioni riportate in queste pagine si veda TZANAKOUPOLOS, Domestic Court Reactions to UN Security Council Sanction, disponibile al sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_ id=1480184 (47) Si veda Dubsky c. Irlanda, ILDC 45 485, 91. (48) Si veda ILDC 283, 3. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19 terni di mera implementazione della Risoluzione, in ragione degli articoli 24(1) (49), 25 (50) e 48(2) della Carta delle Nazioni Unite (51). Da ultimo, nel caso Sayadi e Vinck la Corte di Primo Grado di Bruxelles ha dichiarato, seppur in via incidentale, di non avere giurisdizione per interferire con le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (52). L’essersi dichiarata poi competente a conoscere del caso, a dire della Corte, derivava dal fatto che il provvedimento richiesto dal ricorrente (una misura di de-listing che il Belgio avrebbe dovuto richiedere al Consiglio di Sicurezza), non comportava in ogni caso un sindacato sulla legittimità della Risoluzione medesima. 50. Nella pratica giurisprudenziale, l’alternativa alla immunità giurisdizionale piena degli atti di implementazione delle Risoluzioni vincolate del Consiglio di Sicurezza è quella di una review limitata al rispetto da parte del Consiglio delle disposizioni della Carta ONU e dello jus cogens internazionale. Questa posizione è stata fatta propria dal Tribunale di Primo grado nella causa Kadi (53) e seguita anche dal Tribunale federale svizzero nel caso Nada (54). Ad avviso della Repubblica italiana, gli approcci individuati nei paragrafi precedenti sono gli unici che consentono agli Stati membri di rispettare gli obblighi internazionali su di essi gravanti a norma dell’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite. 51. Diverso invece il caso in cui la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza non presenti un carattere vincolato, ma ponga semplicemente un’obbligazione di Risultato in capo allo Stato membro. In questi casi il Consiglio delega in parte i suoi poteri di apprezzamento nel definire chi o che cosa possa costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. I margini di discrezionalità impiegati dagli Stati membri nel dare attuazione alle Risoluzioni del Consiglio possono senz’altro essere oggetto di sindacato di legittimità da parte delle corti nazionali, che non possono declinare la propria competenza in ordine alla verifica del rispetto, da parte delle misure di implementazione nazionale, del diritto interno e di quello internazionale. A livello domestico tale posizione è confermata dalla sentenza resa dalla Queen’s Bench Division della English High Court nel caso A, K, M ,Q, G. La Corte, nel riconoscere che “the obligation to apply the Resolutions necessarily involves consideration of how that can be achieved”, ha ritenuto che le modalità impiegate dal governo britannico non fossero conformi agli standard di tutela previsti dal diritto del Regno Unito (55). 52. In ambito comunitario tale posizione è giustamente confermata dal Tribunale di Primo (49) Si vedano articoli 24(1), 25, 48(2) della Carta delle Nazioni Unite: 24(1) Al fine di assicurare un’azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome. (50) Art. 25 I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni del presente Statuto. (51) Art. 48(2) Tali decisioni sono eseguite dai Membri delle Nazioni Unite direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano Membri. (52) Si veda UN Doc S/2005/572, 48-49. (53) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafo 226. (54) Si veda Nada c. Seco, 2007 in ILDC 461. (55) Si veda A,K,M,Q,G, 2008, EWHC. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Grado nella causa OMPI. Secondo il Tribunale “se, da un lato, la risoluzione 1373 (2001) del Consiglio di sicurezza dispone in particolare, al suo n. 1, lett. c), che tutti gli Stati congelino senza indugio i fondi e gli altri strumenti finanziari o risorse economiche delle persone che commettono o tentano di commettere atti di terrorismo, li agevolano o vi partecipano, delle entità riconducibili a tali persone, o da esse controllate, e delle persone ed entità che agiscono in nome o dietro istruzioni di tali persone ed entità, essa non determina individualmente quali persone, gruppi o entità debbano formare oggetto di tali misure. Il Consiglio di sicurezza non ha neanche emanato norme giuridiche precise riguardanti il procedimento di congelamento dei fondi, né le garanzie o i ricorsi giurisdizionali che assicurino alle persone ed alle entità interessate da un procedimento siffatto un’effettiva possibilità di contestare le misure adottate dagli Stati nei loro confronti. Pertanto, nell’ambito della risoluzione 1373 (2001), spetta agli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) – e, nel caso di specie, alla Comunità, attraverso cui gli Stati membri hanno deciso di agire – identificare concretamente quali siano le persone, i gruppi e le entità i cui fondi devono essere congelati in applicazione di tale risoluzione, conformandosi alle norme del loro ordinamento giuridico” (56). 53. Giustamente, dunque, il Tribunale si riserva di verificare che le misure adottate dagli organi comunitari, misure non già vincolate di mera implementazione, ma autonome e discrezionali quanto al quomodo, siano conformi alle disposizioni del diritto UE. 54. Per le ragioni che appresso di indicheranno, la Repubblica italiana ritiene che anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea avrebbe dovuto mostrare nei confronti del Regolamento di implementazione della decisione del Consiglio di Sicurezza il medesimo grado di deferenza dimostrato dalle corti nazionali di cui si è ora discusso. C.4 Lo Status delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nell’ambito del diritto comunitario. L’attività di mera implementazione da parte delle Istituzioni comunitarie 55. Chiarito lo status delle Risoluzioni vincolate del Consiglio nel diritto interno, bisogna passare a verificarne lo status e l’obbligatorietà nel diritto comunitario. La Carta delle Nazioni Unite esclude che l’Unione Europea, in quanto organizzazione internazionale, possa entrare a far parte delle Nazioni Unite. A norma degli articoli 3 e 4 del Trattato istitutivo, difatti, solo gli Stati possono esserne membri (57). Sarebbe tuttavia semplicistico ritenere che le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e il diritto internazionale in termini più generali, non vincolino anche quest’ultima, in virtù di una interpretazione solo formalistica delle norme in esame. Tale posizione è d’altra parte oggi condivisa (56) Si veda Organisation des Modjahedines du peuple d’Iran, causa T-228/02, 12 dicembre 2006, paragrafo 101. (57) Si vedano articoli 3 e 4 della Carta ONU, a norma dei quali, rispettivamente, Articolo 3: Membri originari delle Nazioni Unite sono gli Stati che, avendo partecipato alla Conferenza delle Nazioni Unite per l’Organizzazione Internazionale a San Francisco, od avendo precedentemente firmato la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1° gennaio 1942, firmino il presente Statuto e lo ratifichino in conformità all’articolo 110. Articolo 4 1. Possono diventare Membri delle Nazioni Unite tutti gli altri Stati amanti della pace che accettino gli obblighi del presente Statuto e che, a giudizio dell’Organizzazione, siano capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo. 2. L’ammissione quale Membro delle Nazioni Unite di uno Stato che adempia a tali condizioni è effettuata con decisione dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 dalla Corte di Giustizia dell’Aja, secondo la quale “international organisations are subjects of international law and as such are bound by any obligations incumbent upon them under general rules of international law, under their constitutions or under international agreements to which they are parties” (58). La Repubblica Italiana concorda con questa ricostruzione e condivide la statuizione del Tribunale di Primo Grado nella causa Yusuf, secondo la quale la Comunità deve essere considerata vincolata agli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite, alla stessa stregua dei suoi Stati membri, in base allo stesso Trattato che la istituisce (59). 56. Similmente, nel caso International Fruit Company, il Tribunale ha affermato che gli Stati membri, nell’attribuire determinate competenze alla Comunità, hanno manifestato la loro volontà di assoggettarla agli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite (60). Più in generale, in tutti i casi in cui, in forza del Trattato CE, la Comunità ha assunto competenze precedentemente esercitate dagli Stati membri nell’ambito di applicazione della Carta delle Nazioni Unite, le disposizioni di questa hanno avuto per effetto quello di vincolare la Comunità (Poulsen e Diva Navigation, Racke, Van Duyn e Burgoa) (61). Difatti, come si avrà modo di precisare in seguito, la Comunità è tenuta al rispetto delle disposizioni della Carta ONU al fine di impedire che i suoi Stati membri incorrano, o rischino di incorrere, nella commissione di un illecito internazionale. 57. In modo particolare, se è vero che l’Unione, anche a seguito del processo di espansione dei suoi poteri e alla aspirazione a divenire un attore internazionale credibile e rilevante, possiede ampi poteri discrezionali nella definizione del suo collocamento sul piano internazionale (si pensi al caso della Politica estera e di sicurezza comune), è altresì evidente che talvolta il suo operare si esplicita su un livello diverso, per così dire vincolato. È noto infatti che nell’entrate a far parte del sistema comunitario, gli Stati membri hanno devoluto parte della loro sovranità, e con essa parte delle loro competenze, alla Comunità medesima. Allo stesso tempo però, la responsabilità per il mancato adempimento di atti che gli Stati membri erano tenuti a compiere in base al diritto internazionale, e che non sono più in grado di compiere per aver trasferito la relativa competenza alla Comunità, non è oggetto di devoluzione, ma continua ad essere posta in capo agli Stati membri (62). In questi casi è di tutta evidenza che la Comunità sia tenuta ad agire, in modo tale da evitare che gli Stati membri possano incorrere nella commissione di un illecito internazionale derivante dal mancato adempimento di un obbligo internazionale su di essi gravante. Il che è reso ancor più evidente nella causa in esame laddove si consideri che il regolamento contestato è stato adottato in sede di Consiglio europeo, in base a una norma di chiusura dell’ordinamento (Art. 301) che richiede peraltro un voto all’unani- (58) Si veda Interpretation of the Agreement of March 25, 1951 between the WHO and Egypt, Advisory Opinion, in ICJ Rep, 1908, 89. (59) Si veda Yusuf, causa T-306/01, 21 settembre 2005, paragrafo 243. (60) Si veda International Fruit Company, cause riunite 21/72 e 24/72, 12 dicembre 1992, paragrafo 11. (61) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-315/01, 21 settembre 2005, paragrafo 11. (62) Si veda MARIANI, The Implementation of UN Security Council Resolutions Imposing Economic Sanctions in the EU/EC Legal System: Interpillar Issues and Judicial Review, disponibile online alla pagina internet: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1354568 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 mità di tutti gli Stati membri. Tale circostanza in qualche modo reitera e sottolinea la volontà di tutti gli Stati di agire tramite la Comunità, fermo restando il loro impegno anche individuale in tal senso. 58. Qual è, in ogni caso, il tipo di azione che la Comunità deve intraprendere al fine di adempiere in via sussidiaria agli obblighi internazionali degli Stati membri? In ossequio al principio per cui nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, il trasferimento alla Comunità delle competenze dei paesi membri in certe aree non può aver attribuito alla Comunità poteri più ampi di quanto gli Stati, nella loro dimensione individuale, ne avessero. Al contrario, la devoluzione della competenza è avvenuta assieme alla devoluzione dei limiti a tale competenza. In altre parole, quando la competenza dello Stato membro in una certa area era una competenza vincolata, il suo trasferimento dagli Stati membri alla Comunità non ne ha determinato la mutazione in attività discrezionale o financo eventuale, con la conseguenza che l’obbligo di dare fedele esecuzione alle decisioni del Consiglio di Sicurezza si riverbera immutato sulla Comunità. 59. La causa in esame rientra nella casistica appena considerata: l’adozione del Regolamento comunitario di implementazione di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, sul cui contenuto le istituzioni comunitarie non hanno il potere di influire, si rende necessaria in ragione della devoluzione di determinati poteri dagli Stati membri alla Comunità, secondo un modello di “sussidiarietà inversa”. Conviene affrontare il problema mettendo in evidenza prima la prospettiva del diritto dei singoli Stati e poi la prospettiva comunitaria. 60. Nella prospettiva dei singoli Stati membri, come già indicato, l’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite prevede difatti che “i Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni del presente Statuto”. Parimenti, a norma dell’articolo 48 “L’azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è intrapresa da tutti i Membri delle Nazioni Unite o da alcuni di essi secondo quanto stabilisca il Consiglio di Sicurezza”. Come si è avuto modo di indicare nel capitolo precedente, ciò vale a maggior ragione per le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, quale è la Risoluzione 1267 (1999). In questi casi, come si è visto, l’attività di implementazione è doppiamente vincolata: sia nell’an, poiché gli Stati membri non potrebbero sottrarsi ai loro obblighi in base all’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite, sia nel quomodo, poiché una judicial review delle Risoluzioni medesime, salvo limitatissimi casi, è comunque esclusa nel caso in cui lo Stato voglia rispettare le proprie obbligazioni internazionali. 61. D’altra parte, a livello comunitario, in ragione della competenza esclusiva riconosciuta alla Comunità in determinati settori, competenza che gli Stati membri, originariamente titolari, hanno acconsentito a trasferire, l’implementazione di alcune Risoluzioni del Consiglio da parte degli Stati membri non solo può, ma deve avvenire tramite le procedure previste a livello comunitario. Ciò è vero in modo particolare nel caso di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che, avendo ad oggetto provvedimenti di natura economica e finanziaria quali congelamento di beni e assets, sono destinate invariabilmente a incidere sul funzionamento della Politica commerciale comune dell’Unione e del mercato comune, con riferimento ai quali la Comunità detiene una competenza esclu- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 siva (63). Se così non fosse, se, vale a dire, l’implementazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza fosse lasciata all’autonomia dei singoli Stati membri, si correrebbe il rischio di sistematiche violazioni delle norme che sovrintendono al funzionamento del mercato comune nonché alla politica commerciale comune. In certi casi, vi sarebbe pertanto il rischio di incorrere nella violazione del primato del diritto comunitario su quello dei singoli stati membri. Come ha infatti ben indicato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Simmenthal, esiste un chiaro divieto di riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della comunità, o altrimenti incompatibili con il diritto comunitario (64). Questa circostanza rende necessario l’intervento della Comunità, come sembra anche confermare l’articolo 48 secondo comma della Carta delle Nazioni Unite, secondo il quale le decisioni del Consiglio di Sicurezza sono eseguite dai Membri delle Nazioni Unite direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano Membri. 62. Ricapitolando, gli Stati membri sono vincolati al rispetto delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza a norma degli Articoli 25 e 103; la prassi degli Stati che vogliono tener fede alle loro obbligazioni internazionali esclude o limita fortemente la review di atti di mera implementazione di Risoluzioni vincolate del Consiglio; la Comunità è vincolata ai medesimi obblighi internazionali gravanti originariamente sugli Stati membri; la Comunità non potrebbe agire in modo da determinare la responsabilità internazionale dei suoi membri. Da ciò consegue che la Comunità è tenuta alla fedele implementazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza a contenuto vincolato, come quella che contiene la blacklist applicata al Sig. Kadi. 63.A ritenere diversamente, si finirebbe tra l’altro con il disconoscere la diversa rilevanza e il diverso regime giuridico cui sono riconducibili le disposizioni comunitarie che non implementano una decisione del Consiglio, ma che contribuiscono a darne contenuto, come è il caso delle misure comunitarie di recepimento della Risoluzione 1373 (2001). In questo caso la Comunità, chiamata all’esercizio di una discrezionalità politica nella adozione delle misure imposte dalla Risoluzione, non agisce quale mero agente degli Stati membri. L’atto comunitario di implementazione, in altri termini, non è mero veiculum di una determinazione già assunta ad altro livello, ma è atto comunitario autonomo, manifestazione di una volontà dell’Unione che gli organi giurisdizionali hanno a pieno titolo il diritto di sindacare, come ritenuto dal Tribunale di Primo Grado nel caso OMPI. È dunque legittimo ritenere che la diversità fra i due regimi (vincolato e autonomo) si espliciti anche sotto il profilo del controllo giurisdizionale. Profilo che, a ben guardare, costituisce una delle diverse manifestazioni delle valutazioni compiute dal Consiglio di Sicurezza nell’affrontare una determinata minaccia. In altri termini, è lecito ritenere che quando il Consiglio di Sicurezza decide di adottare una Risoluzione a carattere vincolato, lo faccia anche in ragione della particolare pericolosità della minaccia che vuole contrastare; negare la differenza fra i due regimi (autonomo e vincolato) sotto (63) La base legale per l’adozione dei provvedimenti in esame, vale a dire il combinato disposto degli articoli 60, 301 e 308, è già stata confermata e ritenuta valida nel caso Yusuf. (64) Si veda Simmenthal, causa 106/77, 9 marzo 1978. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 il profilo del controllo giurisdizionale significa in ultima analisi negare i margini di apprezzamento di cui il Consiglio di Sicurezza dispone nel suo agire a norma del Capitolo VII della Carta. C.5 Impossibilità di distinguere, ai fini del sindacato di legittimità, fra Risoluzione del Consiglio di Sicurezza e atto comunitario di mera implementazione. 64. La Repubblica italiana, nel ribadire la propria posizione in ordine alla immunità dalla giurisdizione degli atti di mera implementazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, desidera altresì focalizzare l’attenzione su un ulteriore punto, correttamente individuato dagli appellanti. La sentenza della Corte di Giustizia nel caso Kadi poggia sulla statuizione che le Risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite non possono essere sottoposte a sindacato di legittimità, in quanto tale attività costituirebbe un’illecita intrusione in una materia, la tutela della pace e della sicurezza internazionali, che, come già visto, rientra fra le competenze esclusive del Consiglio di Sicurezza. A parere della Corte, in modo particolare, la primazia della Risoluzione del Consiglio nell’ambito del diritto internazionale rimarrebbe inalterata. Al contrario, atti di implementazione di tali Risoluzioni sarebbero regolarmente sottoponibili a sindacato di legittimità. 65. Come più volte ricordato, in ogni caso, gli Stati membri non dispongono di alcun potere discrezionale nella fase di implementazione, con la conseguenza che il Regolamento comunitario riproduce pedissequamente il contenuto della Risoluzione medesima. Per dirlo con le parole di un autorevole autore, il Regolamento comunitario di implementazione della Risoluzione del Consiglio “had merely transposed the Security Council Resolutiotions into the Community legal order” (65). In questi casi, “any attempt to distinguish between the domestic implementing legislation and the UN Security Council Resolutions, and thus any attempt to claim that review of one is not necessarily also an inderect review of the other, is drawing an illusionary distinction” (66). Ancora, secondo altra parte della dottrina: “there is no doubt, indeed, that when a domestic court controls the legality of an act taken in implementation of a strict obligation imposed by the Security Council, it is infact also undertaking a review of the Council measure” (67). 66. Risulta pertanto difficile conciliare questa considerazione di tipo sostanziale con la posizione formalistica assunta dalla Corte, secondo la quale “il controllo di legittimità che deve essere garantito dal giudice comunitario deve avere ad oggetto l’atto comunitario volto ad attuare l’accordo internazionale in questione, e non quest’ultimo e, ancora, che per quanto riguarda, in particolare, un atto comunitario che, come il regolamento controverso, mira ad attuare una risoluzione del Consiglio di sicurezza adottata in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, non spetta al giudice comunitario, nell’ambito della competenza esclusiva prevista dall’art. 220 CE, controllare la legittimità di (65) Si veda: DEFEIS, Targeted Sanctions, Human Rights, and the Court of First Instance of the European Community, in Fordham Journal of International Law, 2007, 1457. (66) Si veda FINLAY, Between a Rock and a Hard Place: the Kadi Decision and Judicial Review of Security Council Resolutions, in Tulane Journal of International and Comparative Law, 2010, 478 ss. (67) Si veda TZANAKOUPOLOS, Domestic Court Reactions to UN Security Council Sanction, disponibile al sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1480184 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 una tale risoluzione adottata dal citato organo internazionale, quand’anche tale controllo si limitasse all’esame della compatibilità di tale risoluzione con lo ius cogens”(68) . Adottando l’approccio sostanziale sopra delineato, e considerando che la Corte nega la sindacabilità di un atto internazionale in quanto tale, non si può non riconoscere la illegittimità del sindacato su un atto di mera implementazione. D. Secondo motivo di appello: l’errore del Tribunale del richiedere uno standard di review “full and rigorous” 67. In subordine al punto ora indicato, la Repubblica italiana condivide e desidera associarsi alle considerazioni della Commissione europea in ordine all'errore incorso dal Tribunale di primo grado nel ritenere che la Corte di Giustizia avesse già fissato nella causa Kadi I (C-402/05 P) lo standard di judicial review richiesto per i regolamenti comunitari e che tale standard debba essere improntato ai criteri di una review “full and rigorous”. In primo luogo, come si vedrà, la Corte di Giustizia non ha fornito indicazioni in ordine a tale standard. In secondo luogo, qualora effettivamente, come la Corte ha indicato, i regolamenti comunitari di implementazione non godano di immunità dalla giurisdizione, lo standard del sindacato di giurisdizionalità non può essere quello che il Tribunale di primo grado ritiene di aver individuato nelle statuizioni della Corte di Giustizia. Tale sentenza, qualora se ne condividano i postulati, deve essere infatti applicata in maniera tale da non determinare l'imposizione agli Stati membri di un comportamento che violi inevitabilmente il diritto internazionale. D.1 Il giudizio della Corte di Giustizia (C-402/05 P) in ordine alla portata e all'intensità del controllo giurisdizionale 68. Nella causa T-85/09, il Tribunale di Primo grado ha affermato che nello stabilire, a conclusione di un lungo ragionamento, che il controllo di legittimità doveva essere in linea di principio completo, ed esercitarsi in conformità alle competenze di cui i giudici comunitari sono investiti in forza del Trattato CE, e nel respingere esplicitamente, oltretutto, la tesi del Tribunale secondo cui l’atto in questione doveva beneficiare di un’immunità giurisdizionale in quanto si limitava a dare attuazione a risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, la Corte ha fornito un’indicazione assolutamente chiara quanto alla portata e all’intensità da attribuirsi normalmente a tale controllo. Nell'opinione del Tribunale, tali standard dovrebbero conformarsi alle regole di un controllo giurisdizionale “completo e rigoroso” (69). 69. Inoltre, il Tribunale di Primo Grado ha tratto delle conclusioni in ordine all’ampiezza di tale sindacato di legittimità, ritenendo che esso debba estendersi alla verifica della fondatezza dell’atto impugnato nonché dei vizi di cui potrebbe risultare affetto. Il ragionamento del Tribunale di primo grado continua nel senso di estendere il controllo giurisdizionale del giudice comunitario non solo sulla fondatezza apparente dell’atto impugnato, ma anche sugli elementi probatori e di informazione su cui si basano le valutazioni svolte nell’atto stesso (70). (68) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 222. (69) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 177. (70) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 179. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 D.2 Il mancato pronunciamento della Corte di Giustizia sullo standard del controllo giurisdizionale 70. La Repubblica Italiana si associa alle conclusioni della Commissione secondo le quali la Corte di Giustizia nel caso Kadi (C-402/05 P) non si è pronunciata sull’intensità del controllo cui l’atto comunitario di implementazione debba essere eventualmente sottoposto. Il linguaggio utilizzato dalla Corte è infatti piuttosto sfumato e non consente di trarre le rigide conclusioni cui il Tribunale di Primo Grado è invece pervenuto. Ciò è particolarmente evidente nella versione inglese della sentenza. Secondo la Corte, “it is not a consequence of the principles governing the international legal order under the United Nations that any judicial review of the internal lawfulness of the contested regulation in the light of fundamental freedoms is excluded by virtue of the fact that that measure is intended to give effect to a resolution of the Security Council adopted under Chapter VII of the Charter of the United Nations” (71). 71. Nel parlare di “any judicial review” la Corte dunque esclude che l’atto goda di un’immunità assoluta dal controllo giurisdizionale, fermo restando che sotto alcuni profili l’atto potrebbe comunque essere sottratto al controllo dei giudici. A ciò si deve aggiungere che secondo la Corte di Giustizia, “ l’esistenza nell’ambito di tale regime delle Nazioni Unite della procedura di riesame dinanzi al comitato per le sanzioni, anche tenendo conto delle recenti modifiche che vi sono state apportate, non può comportare un’immunità giurisdizionale generalizzata nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno della Comunità” (72). Ancora una volta, l'impiego dell’aggettivo “generalizzata” non conduce alla conclusione che il controllo di legittimità debba essere pieno e rigoroso, ma che possa, e debba, al contrario, tener conto della circostanza in cui tale controllo deve essere esercitato, fra cui anche il fatto che l'atto in questione è volto a implementare una Risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza adottata a norma del Capitolo VII della Carta ONU. Il che sembra essere ulteriormente confermato dalla considerazione che, secondo la Corte, la mancanza di immunità assoluta dalla giurisdizione dell’atto di implementazione si traduce nella possibilità di effettuare un controllo non già sempre e comunque completo, ma completo solamente “in linea di principio” (73). 72. Questo linguaggio sfumato richiede perlomeno uno studio approfondito delle circostanze fattuali nell’ambito delle quali il sindacato di legittimità deve esplicitarsi. Studio che la Corte di Giustizia nel caso Kadi I (C-402/05 P) non ha compiuto e che dunque il Tribunale di Primo Grado non può aver fatto proprio. Come giustamente notato dalla Commissione nel suo atto d'appello, non avendo preso una posizione precisa sull'ampiezza e sulla portata del sindacato di legittimità, la Corte di Giustizia non ha neppure individuato “the precise standards and procedural guarantees applicable to cases such as those of Mr Kadi” (74). 73. In effetti, se deve trarsi qualche conclusione in merito allo standard del controllo giurisdizionale richiesto dalla Corte di Giustizia, risulta che questo non implica necessariamente la comunicazione delle evidenze fattuali in base alle quali una certa misura viene (71) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 5. (72) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 321. (73) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 326. (74) Si veda atto d’appello della commissione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 adottata nei confronti del ricorrente, ma solo le ragioni per cui tale misura è stata adottata. Stando al pronunciamento della Corte, infatti, “l’autorità comunitaria in questione è tenuta a comunicare detti motivi alla persona o entità interessata, per quanto possibile, al momento in cui tale inclusione è stata decisa, o, quantomeno, il più rapidamente possibile dopo tale decisione, in modo da consentire ai destinatari di esercitare, entro i termini, il loro diritto di ricorso” (75). 74. L’osservanza di tale obbligo di comunicare detti motivi è infatti necessaria sia per consentire ai destinatari delle misure restrittive di difendere i loro diritti nelle migliori condizioni possibili e di decidere, con piena cognizione di causa, se sia utile per loro adire il giudice comunitario, sia per consentire pienamente a quest’ultimo di esercitare il controllo della legittimità dell’atto comunitario di cui trattasi, cui è tenuto ai sensi del Trattato CE. La Corte di Giustizia ritiene dunque che la comunicazione dei motivi sia sufficiente per consentire “pienamente al giudice comunitario di esercitare il controllo di legittimità” (76). 75. Date le particolari circostanze dunque sembra che la Corte consideri soddisfacente ai fini della realizzazione di un controllo pieno anche solo la valutazione dei motivi, attestando lo standard della review a livelli diversi rispetto a quel rigore e quell'assolutezza cui il Tribunale di Primo Grado appare far riferimento. D.3 Conseguenze dell’applicazione dello standard di controllo giurisdizionale previsto dal Tribunale (T-85/09) 76. D'altra parte, l'applicazione dello standard di controllo giurisdizionale richiesto dal Tribunale di Primo Grado non è sostenibile per vari ordini di ragioni. (a) Rischio di mancata distinzione rispetto al regime autonomo 77. In primo luogo, il grado di intensità del sindacato richiesto dal Tribunale nella causa (T- 85/09) è quello tradizionalmente utilizzato dal Tribunale di Primo Grado per verificare la legittimità di misure di implementazione adottate nell'ambito del regime sanzionatorio autonomo, di cui si è discusso in precedenza (paragrafo 20). Richiamando le considerazioni svolte in tale sede, sembra opportuno ricordare come laddove le misure adottate a norma del regime introdotto dalla Risoluzione 1267(1999) e 1370(2001) siano sottoposte al medesimo regime di controllo, si finirebbe per negare in modo indiretto la rilevanza della distinzione politica e giuridica fra le due categorie di sanzioni: l'una rimessa alle valutazioni esclusive del Consiglio di Sicurezza; l'altra integrabile da valutazioni politiche dei singoli Stati membri nell'ambito dell'Unione e dunque censurabili anche nel merito. (b) Il consiglio di Sicurezza verrebbe a essere esautorato del suo ruolo e l'Unione perderebbe la possibilità di agire quale attore internazionale virtuoso, cosa alla quale è vincolata dai trattati 78. In secondo luogo, nel richiedere lo standard di controllo giurisdizionale pieno e completo, volto a verificare e, se del caso, contestare, la valenza probatoria del materiale su (75) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 326. (76) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 329. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 cui il Consiglio di Sicurezza ha adottato la decisione di inserire una persona in una blacklist, le istituzioni comunitarie finiscono necessariamente per sostituire la loro valutazione a quella compiuta dal Consiglio di Sicurezza. Tale conclusione è però insostenibile e confligge palesemente con la statuizione della Corte di Giustizia secondo la quale in ogni caso è preclusa agli organi comunitari la possibilità di sostituire la propria valutazione a quella del Consiglio, che a norma dell'articolo 24 delle Nazioni Unite è organo deputato in via principale alla tutela della pace e della sicurezza internazionali. 79. Come è stato correttamente indicato dalla Corte di Giustizia nel caso Kadi I (C-402/05 P), infatti, la Comunità è tenuta ad attribuire particolare importanza al fatto che, a norma dell’art. 24 della Carta delle Nazioni Unite, l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza di risoluzioni in base al capitolo VII di detta carta costituisce l’esercizio della responsabilità principale di cui è investito tale organo internazionale per mantenere, su scala mondiale, la pace e la sicurezza, responsabilità che, nell’ambito del citato capitolo VII, include il potere di determinare ciò che costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, nonché di assumere le misure necessarie per il mantenimento o il ristabilimento di queste ultime. L'opinione della Corte è tanto più condivisibile laddove si consideri che le determinazioni del Consiglio di Sicurezza si basano su un complesso sistema di intelligence ed expertise, articolato su più livelli, di cui nessun organo giurisdizionale comunitario potrebbe effettivamente disporre. 80. Qualora gli organi giudiziari comunitari o nazionali sostituissero la loro valutazione a quella del Consiglio di Sicurezza, l'intero sistema centralizzato di risposta alle crisi internazionali verrebbe a crollare sotto i colpi di interpretazioni necessariamente diverse e scoordinate di “chi o che cosa possa costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”. D.5 Conseguenze dell’eventuale annullamento del Regolamento 81. Il grado di controllo giurisdizionale che la Corte ha ritenuto opportuno nel caso Kadi risulta insostenibile anche per altre ragioni, in particolare modo per le conseguenze che esso determinerebbe in ordine al rispetto da parte degli Stati membri dei loro obblighi internazionali. In primo luogo, è chiaro che laddove una corte annulli una misura che dà attuazione a una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza, lo Stato che di fatto non provvede ad adeguarsi alla Risoluzione medesima viola i suoi obblighi a norma dell'articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò vale non solo nella prospettiva del diritto nazionale, ma anche in quella del diritto comunitario, poiché, come sottolineato nelle osservazioni precedenti, la Comunità ha assunto in alcune materie gli obblighi internazionali che in precedenza gravavano in capo agli Stati. 82. Che la decisione di una corte possa poi porre lo Stato (ovvero, la Comunità, e, di riflesso, gli Stati membri) in una condizione di violazione dei suoi obblighi internazionali è confermato autorevolmente dall'articolo 4 del Commentario della International Law Commission sulla responsabilità degli Stati per il compimento di illeciti internazionali. Secondo il report della Commissione, infatti, “the conduct of any State organ shall be considered an act of that State under international law, whether the organ exercises legislative, executive, judicial or any other functions, whatever position it holds in the organization of the State, and whatever its character as an organ of the central CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 Government or of a territorial unit of the State” (77). 83. In modo particolare, l'adozione di uno standard di review “full and rigorous”, esteso anche al merito della misura, e il conseguente potenziale annullamento del regolamento, pone gli Stati membri dell’Unione in una situazione che in termini economici si potrebbe definire di lose-lose, caratterizzata dal fatto che quale che sia la decisione in concreto assunta dallo Stato membro, esso si troverà comunque ad agire illegalmente, o sotto il profilo del diritto internazionale o sotto il profilo del diritto comunitario. Chiaramente infatti l’annullamento della misura di implementazione di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza pone obbligazioni contrastanti in capo agli Stati membri dell’Unione, determinando un problema di doppia fedeltà. Due scenari bene illustrano la situazione in esame. Si ipotizzi in primo luogo che gli organi giurisdizionali comunitari annullino il regolamento in esame. Per le ragioni esposte in precedenza questa circostanza determina la responsabilità internazionale degli Stati membri. Si ipotizzi invece, in secondo luogo, che gli Stati membri, non volendo andare incontro a responsabilità internazionale, provvedano autonomamente a dare attuazione alla misura di implementazione, facendo da soli ciò che non hanno potuto fare a livello comunitario. In questo caso, gli Stati assumerebbero un comportamento illecito dal punto di vista del diritto comunitario, arrogandosi il diritto di legiferare in materie di competenza esclusiva dell’Unione (come si è detto in precedenza l’attuazione di sanzioni individuali determina necessariamente un forte impatto sul funzionamento del mercato comune). 84. Al limite, per evitare di qualificare il comportamento come illecito alla luce del diritto comunitario, e considerarlo, per così dire, scriminato, si potrebbe invocare la norma di cui all’art. 103 della Carta ONU, che attribuisce agli obblighi derivanti dalla Carta prevalenza su qualsiasi altro obbligo internazionale. La norma, vale a dire, consentirebbe allo Stato di scegliere, nel caso di conflitto di obbligazioni, quale adempiere. Questa linea di argomentazione è però troppo formalistica. La violazione del principio della prevalenza del diritto comunitario su quello degli Stati membri, che necessariamente conseguirebbe laddove gli Stati provvedessero in maniera autonoma a legiferare su materie di esclusiva competenza comunitaria, non può essere messa alla stregua di qualsiasi altra violazione del diritto UE. Al contrario, la violazione del principio della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, metterebbe in crisi gli stessi principi fondamentali sui quali l’Unione europea si regge, ed equivarrebbe in ultima analisi allo smantellamento dei suoi presupposti ideologici e giuridici. 85. Dalle considerazioni sopra riportate risulta con chiarezza che l’adozione dello standard di review che il Tribunale di Primo Grado ha ritenuto di dover applicare, e il conseguente annullamento del regolamento contestato, forzano gli Stati in una posizione di antigiuridicità inevitabile, quale che sia il comportamento che essi decidano di mettere in atto. Che in tale situazione “contra ius” i paesi membri siano poi stati forzati dalla sentenza di un Tribunale è quanto mai paradossale. Per tale ragione è necessario che la Corte di Giustizia provveda a sanare il vulnus alla legalità internazionale arrecato dalla sentenza del Tribunale nella causa T-85/09 e a trarre gli Stati membri dell’Unione fuori dalla si- (77) Si veda UN Doc A/56/10 2001. 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tuazione di responsabilità da illecito internazionale nella quale essi al momento versano. D.6 Ulteriori considerazioni sulla impraticabilità di uno standard di review “full and rigorous” 86. Oltre a quelle già svolte, anche altre considerazioni militano nel senso della impraticabilità dello standard di sindacato di legittimità richiesto dal Tribunale nella sentenza Kadi II. Affinché le corti comunitarie possano effettuare un controllo completo quale quello postulato dal Tribunale, dovrebbero entrare in possesso di tutto il materiale probatorio e fattuale sulla base del quale il Consiglio di Sicurezza ha assunto le proprie determinazioni. Il materiale probatorio utilizzato in sede di Nazioni Unite, però, è caratterizzato da profili di segretezza e delicatezza investigativa tali da sconsigliarne la divulgazione a organismi estranei a quelli deputati alla lotta al terrorismo internazionale. Questa è senz’altro la determinazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organo politico nei confronti del quale un eventuale ordine di disclosure e di comunicazione delle informazioni per finalità giudiziarie sarebbe assolutamente impensabile, oltre che probabilmente non consentito in punto di stretto diritto per ragioni di immunità delle organizzazioni internazionali. Il controllo di legalità sarebbe dunque impedito già in questa fase. 87. D’altra parte, le informazioni che non sono nella disponibilità degli organi giurisdizionali comunitari non sono neppure accessibili alle altre istituzioni. Pertanto, quand’anche, come il Tribunale di Primo Grado ha richiesto, fosse necessario rendere edotto il destinatario di un provvedimento di congelamento dei beni delle prove, e non solo delle ragioni per cui detto provvedimento è stato adottato, non sarebbe possibile adempiere tale obbligo in ragione della indisponibilità del materiale probatorio che solo il Consiglio di Sicurezza possiede e che solo in sede di Consiglio di Sicurezza, attraverso le procedure descritte più avanti, sarebbe eventualmente possibile mettere in discussione. Tale circostanza determina uno stato di illegittimità internazionale sostanzialmente perenne: nel caso in esame, ad esempio, il Sig. Kadi continua ed essere iscritto nella lista consolidata prevista dalla Risoluzione 1267. Le autorità comunitarie, vistesi annullare il regolamento di implementazione per non aver fornito al ricorrente l’indicazione degli elementi probatori a suo carico, non sarebbero comunque nelle condizioni, anche se lo volessero, di ri-adottare il regolamento sanando il vizio individuato dai giudici, proprio perché prive delle informazioni che dovrebbero fornire alla persona colpita dal provvedimento di balckisting. 88. Ciò non significa ovviamente che le corti comunitarie debbano astenersi da qualsiasi tipo di controllo sugli atti di implementazione adottati in seno all’Unione; tale controllo, ad ogni modo, dovrebbe limitari espressamente al momento formale dell’implementazione, concentrandosi su elementi quali la base giuridica delle misure di implementazione, eventuali errori nella trasposizione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, ad esempio i casi di error in persona, nonché qualsiasi altra questione nella quale siano attribuiti alle autorità implementatrici dei margini discrezionali di apprezzamento delle determinazioni del Consiglio ONU. Laddove vizi di questo genere fossero riscontrati, contrariamente all’ipotesi valutata nel precedente paragrafo 87, essi potrebbero essere sanati dalle istituzioni comunitarie, poiché esse, avendo la piena disponibilità e il pieno controllo delle procedure formali di implementazione, non avrebbero ostacoli a confor- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 marsi alle determinazioni degli organi giurisdizionali, ad esempio ri-adottando in maniera corretta un regolamento annullato in ragione di un error in persona. D.7 La natura non penale e preventiva delle misure di asset freezing e l’impatto sullo standard della judicial review 89. Anche la natura e la corretta qualificazione delle misure adottate a norma della Risoluzione 1267 influiscono in maniera non irrilevante sul grado di controllo giurisdizionale cui tali provvedimenti debbono essere sottoposti. Non par dubbio infatti che in un’ottica di bilanciamento e contemperamento fra valori contrapposti (nel caso di specie, il diritto alla proprietà e quello alla sicurezza internazionale), la natura del bene giuridico protetto e del male giuridico minacciato siano determinanti fondamentali nella individuazione del punto di equlibrio. Il primo interrogativo da risolvere, pertanto, (interrogativo che anche il Tribunale di Primo Grado nella causa Kadi II si pone (78)), è se le misure di congelamento dei beni siano da intendersi come misure a carattere penale sanzionatorio e punitivo o se, al contrario, esse siano adottate a conclusione di un procedimento amministrativo (sebbene di alta amministrazione), configurandosi dunque come misure non penali e dal carattere meramente preventivo. In questo caso, in ragione della minore gravità del male giuridico minacciato, anche le garanzie procedimentali potranno essere calibrate nel senso di una maggiore tutela del bene giuridico protetto, consentendo ad esempio delle compressioni del diritto al contradditorio non ammesse nel caso di procedimenti penali. 90. La Repubblica italiana, associandosi alla posizione del Consiglio, della Commissione e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, ritiene che le misure in oggetto siano misure non penali a carattere preventivo e cautelare. Numerosi elementi depongono a favore di tale conclusione. 91. In primo luogo, la loro qualificazione in sede di Consiglio di Sicurezza è chiara. Come indicato in numerose risoluzioni (79), esse sono volte a prevenire il compimento di atti terroristici e a impedire in generale la possibilità che l’organizzazione terroristica target possa realizzare gli obiettivi che si prefigge. Le rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non richiamano in alcun punto il carattere punitivo o sanzionatorio delle misure in esame, qualificandole piuttosto come provvedimenti di natura cautelare (80). Parimenti, il Comitato 1267 ha definito l’asset freezing come una “misura preventiva a carattere temporaneo” (81). 92. Ancor più che alla qualificazione che di un certo provvedimento viene data in sede di Nazioni Unite, ad ogni modo, il giudice comunitario dovrebbe guardare alla esatta caratterizzazione delle misure di asset freezing alla luce del diritto dell'Unione europea. Di fatti, dall’inserimento della misura in un tipus piuttosto che in un altro, discendono conseguenze diverse sul grado di tutela giurisdizionale esperibile a livello comunitario (78) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa T-85/09, 30 settembre 2010, paragrafo 150. (79) Si veda in generale Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1822 (2008). (80) Si vedano in generale Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1822 (2008) e Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1267 (1999). (81) Si veda Comitato 1267 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Assets freeze: explanation of term 2. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 avverso il provvedimento contestato. Anche a livello di diritto dell’Unione europea, pertanto, il primo interrogativo da risolvere è se la misura in esame abbia o meno carattere penale. Questa distinzione è stata per la prima volta esplicitata dal Tribunale di Primo Grado nel caso El Morabit (82). In questo caso, il ricorrente aveva invocato il principio della presunzione di innocenza per contestare il suo inserimento in una blacklist, in ragione del fatto che la sentenza richiamata dagli organi comunitari quale base fattuale per l’inserimento nell’elencazione non era ancora definitiva. Il Tribunale, nel rigettare l’argomentazione del ricorrente, ha affermato che la presunzione di innocenza non impedisce l’adozione di una misura precauzionale a carattere preventivo, quale ad esempio il congelamento di beni, poiché queste non si configurano come sanzioni e pertanto non implicano una decisione sulla colpevolezza o non colpevolezza del soggetto affetto. L’applicazione di una misura di tal genere, ha continuato il Tribunale, non consegue all’accertamento della commissione di un reato, ma si configura semplicemente come l’esito di una procedura amministrativa la cui natura è quella della mera prevenzione, e che consente al Consiglio di combattere in maniera efficace il fenomeno terroristico (83). 93. La Corte di Giustizia dell’Unione europea nel caso Kadi I ha espressamente assunto la medesima posizione, qualificando le misure di congelamento dei beni alla stregua di misure precauzionali e temporanee. Il che è ulteriormente confermato, sebbene in maniera implicita, nel corso del giudizio: nell’escludere la necessità di sentire gli individui colpiti dal congelamento dei beni prima dell’adozione delle misure medesime, al fine di salvaguardarne il carattere della sorpresa, la Corte conferma la natura squisitamente preventiva degli atti in esame. 94. Né, ad avviso della Repubblica italiana, può addursi quale discrimine fra misure amministrative e misure penali la loro durata temporale, come pure lascia intendere parte della dottrina, con considerazioni fatte proprie anche dalla difesa del Sig. Kadi (84). Se è vero che il fattore temporale incide senza dubbio sulla compressione dei diritti della persona colpita, non sembra comunque consentito elevare tale elemento a nozione caratterizzante di una misura penale dalle finalità punitive. Invero, ad argomentare diversamente, si ricadrebbe necessariamente nell’arbitrio, in mancanza di punti di riferimento normativi certi: dopo quanto tempo una misura nata come preventiva si trasforma in punitiva? Qual è il limite temporale oltre il quale si determina la mutazione? Né vale a qualificare come punitiva, piuttosto che preventiva, una certa misura, l’elemento materiale in cui la sanzione si concretizza, come ad esempio la privazione della disponibilità di beni del soggetto colpito. A ben guardare, negli ordinamenti interni degli Stati membri, così come nel diritto dell’Unione Europea, a una medesima fattispecie materiale potrebbero corrispondere provvedimenti diversi quanto alla finalità e alla natura. Si prenda, primo fra tutti, il provvedimento di privazione della libertà di un individuo: ad esso po- (82) Si veda El Morabit, cause riunite T-37/07 e T-323/07, 2 settembre 2009, paragrafi 43-44. (83) Si veda El Morabit, cause riunite T-37/07 e T-323/07, 2 settembre 2009, paragrafi 43-44. Si veda anche VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (84) Si veda, su tutti, BOTHE, Security Council’s Targeted Sanctions Against Presumed Terrorists: The need to comply with human rights standards, in Journal of International Criminal Justice, 2008, 541 ss. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 trebbe essere sottesa tanto una finalità preventiva e cautelare, volta ad impedire la reiterazione del reato, quanto un proposito punitivo, una volta che il fatto illecito sia stato nel concreto accertato. 95. Alla luce di queste considerazioni, occorre trovare un altro criterio di distinzione, che può facilmente individuarsi nella ratio della misura, a prescindere dalle modalità operative con le quali essa si concretizza, dal pregiudizio che essa arreca al diritto della persona colpita e dalla durata temporale di tale pregiudizio. Appare dunque chiaro che la misura di congelamento dei beni è preventiva e amministrativa, in quanto prescinde da un accertamento in sede penale di un qualsiasi reato e perché perdura fintanto che perdura la minaccia che essa cerca di prevenire. Venuta meno l’una, anche l’altra perde efficacia e le procedure di revisione e delisting in seno al comitato 1267, indicate nelle pagine precedenti, dimostrano palesemente l’esistenza di un tale nesso. 96. La natura amministrativa e non penale delle misure in esame è circostanza carica di conseguenze (85), come si è già visto. A ulteriore riprova, basti considerare che in numerosi ambiti del diritto comunitario, dalla qualificazione di un provvedimento come amministrativo o penale discendono conseguenze diverse. Ad esempio, mentre misure di carattere penale ricadono senza dubbio nell’ambito di applicazione dell’Art. 6(1) della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo (86), norma interpretata in maniera estensiva dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e che riconosce in modo ampio il diritto a un equo processo, lo stesso non può dirsi per provvedimenti di carattere amministrativo. In questo caso la giurisprudenza sviluppata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, soprattutto nel caso Bolloré, si limita al riconoscimento del diritto a un “fair hearing”. Nel caso in cui ad essere adottate siano misure dal carattere amministrativo, quali indubbiamente sono le misure di congelamento dei beni di sospetti terroristi, tale diritto ad un “fair hearing”si sostanzia semplicemente nel diritto a essere sentiti dalla autorità amministrativa che ha emanato l’atto (87). Al contrario, nel caso di misure penali, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha indicato la necessità che la persona colpita sia sentita davanti a un organo giudiziario imparziale e indipendente, come puntualmente rilevato nel caso Hauschiltd (88). 97. Inoltre, il requisito di un “public hearing”, richiesto dalla giurisprudenza della Corte Europea (85) Si veda per questa elencazione VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (86) Si veda articolo 6(1) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità puó pregiudicare gli interessi della giustizia. (87) Si veda Bolloré, cause riunite 109/02 T, T 118/02, T 122/02, T 125/02, T 126/02, T 128/02, T 129/02, T 132/02, 26 aprile 2007, paragrafo 143. (88) Si veda Hauschiltd, App. 10486/83, 24 maggio 1989. Sul punto anche MAHONEY, The Right to a Fair Trial in Criminal Matters Under Art. 6 ECHR, in Judicial Studies Institute Journal, 2004, 107 ss. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dei Diritti dell'Uomo per quanto riguarda misure sanzionatorie dal carattere penale, non è contemplato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (89). 98. Un’altra fondamentale differenza fra le misure di carattere amministrativo e misure di carattere penale è costituita dalle implicazioni che esse determinano sul principio della presunzione di innocenza. Tale caposaldo del diritto processuale penale è consacrato all’articolo 6(2) della Convenzione Europea dei Diritti dell’ Uomo (90) e da esso la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha tratto numerosi corollari, relativi ai procedimenti che si concludono con l'adozione di una misura punitiva a carattere penale, quali ad esempio il principio per cui nessuno può essere costretto ad accusare se stesso e il diritto di rimanere in silenzio (91). La giurisprudenza comunitaria, al contrario, ha esplicitamente escluso che misure di carattere amministrativo possano avere un affetto avverso sul principio della presunzione di innocenza (92). 99. Ancora, secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva contenuto all’articolo 6 della Convenzione implica il diritto a ottenere assistenza legale durante tutto il procedimento penale (93). Un pari diritto non è invece rinvenibile con riguardo alla procedura di comminazione di misure amministrative. Vero è che ora tale diritto è menzionato in via implicita nella Carta delle Libertà fondamentali dell’Unione Europea (94); è però ancora incerto, secondo la dottrina, se tale previsione normativa sia oppure no applicabile a procedure che si concludono con l’adozione di provvedimenti amministrativi (95). 100. Da ultimo, una differenza fondamentale fra misure dal carattere amministrativo e misure dal carattere penale attiene all’applicazione del principio del ne bis in idem, come identificato dall'Art. 4 del Settimo Protocollo alla Convenzione europea dei Diritti dell’ Uomo (96). Se esso trova pacificamente applicazione nei procedimenti che si concludono con l’adozione di misure penali a carattere punitivo, lo stesso non può dirsi con (89) Si veda per questa elencazione VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (90) Si veda articolo 6(2) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. (91) Si veda John Murray, App. 18731/91, 8 febbraio 1996. (92) Si veda VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (93) Si veda Edwards, App. 13071/87, 16 dicembre 1999, paragrafi 33-34; Rowe and Davis, App. 28901/95, 16 febbraio 2000, paragrafo 59. (94) Si veda articolo 48(2) della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE: Il rispetto dei diritti della difesa è garantito ad ogni imputato. (95) Si veda VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (96) Si veda articolo 4 del VII protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell'articolo 15 della Convenzione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 riguardo a procedure amministrative. Anche in questo casi la Carta dei Diritti fondamentali contiene tale diritto e lo rende parte integrante del diritto comunitario (97); ma la prevalente dottrina ritiene che il campo di applicazione di tale disposizione sia limitato ai procedimenti penali (98). Quel che è certo è che ad oggi il principio non è applicato alle sanzioni amministrative né esiste un corpus di giurisprudenza che possa dar conto di una inversione di tendenza. E non potrebbe essere altrimenti, in ragione dei numerosi problemi di coordinamento che la più attenta dottrina non ha mancato di mettere in evidenza: come dovrebbe essere applicato il principio del ne bis in idem, nei rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali degli stati membri? Se una persona è colpita da una sentenza di condanna emessa dalla corte di un paese membro (il che, come si è visto, è condizione per l'applicazione del regime di sanzioni autonomo della UE) e di conseguenza subisce un provvedimento di congelamento dei beni a livello comunitario, può dirsi che il principio del ne bis in idem sia stato violato? La risposta è probabilmente negativa, in ragione del fatto che in altri settori del diritto comunitario, provvedimenti di natura amministrativa lesivi dei diritti della persona colpita, subiscono una qualche replicazione (99). Ciò avviene ad esempio in materia di competition policy, laddove sanzioni possono essere comminate sia a livello comunitario sia a livello nazionale, senza che ciò comporti la violazione del principio del ne bis in idem (100). 101. Le considerazioni sin qui svolte dimostrano che il livello di tutela giurisdizionale e di garanzie procedurali collegato all’adozione di un determinato provvedimento lesivo dei diritti di un individuo varia in ragione della natura del provvedimento medesimo. Nella fattispecie, ad una tutela piena e assoluta, assistita da garanzie sostanziali e procedurali permeanti, applicata alle misure penali di carattere punitivo si contrappone una protezione meno estesa, che espressamente deroga ad alcuni principi fondamentali del processo penale, nel caso delle misure amministrative di carattere preventivo. La differenza dipende soprattutto dal carattere temporaneo della misura amministrativa, destinata ad essere sospesa o revocata ogniqualvolta vengano meno le ragioni della sua adozione. Non sembra dunque scorretto ritenere che, in ragione del diverso grado di tutela associato ai due provvedimenti, anche il diritto di difesa del ricorrente non debba avere la stessa ampiezza associata a misure punitive di carattere penale, ma possa legittimamente attestarsi a livelli minori. Nel caso di specie, la Repubblica italiana ritiene che l’indicazione delle motivazioni al soggetto ricorrente sia misura sufficiente a garantirne il diritto alla difesa avverso misure preventive e amministrative e che tale comunicazione realizzi pienamente il diritto della persona colpita, data la peculiare natura del provvedimento assunto nei suoi confronti. E. Terzo motivo di appello: mancata considerazione dei miglioramenti nelle procedure di delisting (97) Si veda articolo 50 della Carta dei Diritti Fondamentali: Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge. (98) Si veda ESER, Human Rights Guarantees for Criminal Law and Procedure in the EU Charter of Fundamental Rights, in Ritsumeikan Law Review, 2009, 185 ss. (99) Si veda VAN DE BROEK ET AL., Asset Freezing: Smart Sanction or Criminal Charge?, in Utrecht Journal of International and European Law, 2010, 18 ss. (100) Si veda Kyowa Hakko Kogy, caso T-223/00, 9 luglio 2003. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 E.1 La procedura di listing e delisting in origine prevista dalla Risoluzione 1267 (101) 102. Congiuntamente ai punti precedentemente considerati, la Repubblica italiana rileva come le procedure per l’iscrizione, la cancellazione o la modifica di nominativi di sospetti terroristi ai sensi della Risoluzione 1267 (1999) abbiano subito nel tempo un processo di revisione ispirato ai principi della garanzia dei diritti del ricorrente, soprattutto nella prospettiva del suo diritto a una difesa piena ed effettiva. Tali considerazioni, già anticipate dalla Commissione europea nella sua memoria di difesa nella causa T-85/09, non sono state prese in considerazione dal Tribunale di Primo Grado. Anche alla luce delle ulteriori modifiche intervenute nel corso dell’anno 2010, che hanno costituito ius superveniens per la decisione della Corte in Kadi I (C-402/05 P), la Repubblica Italiana desidera associarsi alle considerazioni della Commissione e di aderirvi come segue. 103. Conviene in primo luogo ricordare che destinatari delle misure di congelamento sono persone “associate” alla rete di Al-Qaeda e dei Talebani. Tale vincolo di associazione si sostanzia in diversi gradi di integrazione nell’organizzazione terroristica, segnatamente: (a) participating in the financing, planning, facilitating, preparing or perpetrating of acts or activities by, in conjunction with, under the name of, or in support of; (b) supplying, selling or transferring arms and related material to; (c) recruiting for; or (d) otherwise supporting acts or activities of Al-Qaida, Usama bin Laden or the Taliban, or any cell, affiliate, splinter group or derivative thereof (102). 104. Ogni Stato può presentare il nome di una persona o di un gruppo ai fini del loro inserimento nella lista. Sino ad alcuni anni fa il Consiglio di Sicurezza si limitava a ratificare in via amministrativa la richiesta proveniente da altri Stati e ad attribuire alla relativa delibera valore universale con efficacia erga omnes. Alla persona inserita nella lista era preclusa la possibilità di venire a conoscenza del fatto stesso di essere stata inclusa nella elencazione; gli era preclusa la possibilità di essere messa a parte delle motivazioni del listing; né il sospetto terrorista poteva ricorrere a mezzi di tutela effettivi per ottenere la cancellazione del proprio nome dalla blacklist: l’unica via percorribile consisteva nel convincere lo Stato che aveva proposto il nominativo della erroneità della inclusione nella lista, fermo restando che il Consiglio di Sicurezza avrebbe avuto il potere discrezionale di decidere se accedere alla richiesta di delisting eventualmente proposta dallo Stato ovvero non darvi seguito. 105. Rispetto a tale situazione, il quadro procedurale è oggi mutato significativamente, anche a seguito dell’appello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a “ensure that fair and clear procedures exist for placing individuals and entities on sanctions lists and removing them, as well as for granting humanitarian exceptions” (103) 106. In primo luogo, prima del 2004, gli Stati membri delle Nazioni Unite potevano presentare richieste per l’iscrizione nella lista consolidata senza doversi attenere a linee guida (101) Per una dettagliata analisi delle procedure di listing e delisting e relative modifiche si veda il paper Blacklisted, prodotto dallo European Center for Constitutional and Human Rights. (102) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, paragrafo 2, 1617 (2005). (103) Si veda A/RES/60/1, 2005 World Summit Outcome Document [paragrafo 109]. Disponibile online, al sito internet: http://unpan1.un.org/intradoc/groups/public/documents/UN/ UNPAN021752.pdf CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 o parametri di riferimento. Di norma gli Stati procedevano a una richiesta di iscrizione sulla base di semplici indicazioni di intelligence. L’unico tentativo di individuare criteri quantomeno generali cui gli Stati avrebbero dovuto attenersi prima di presentare una richiesta di listing era quello sviluppato in sede di Unione Europea dalla posizione comune 2001/931/PESC, adottata per implementare la Risoluzione del Consiglio 1373 (2001). Secondo tale posizione, l’inserimento in una blacklist comunitaria poteva avvenire solamente “sulla base di informazioni precise o di elementi del fascicolo da cui risulta che un’autorità competente ha preso una decisione nei confronti delle persone, gruppi ed entità interessati, si tratti dell’apertura di indagini o di azioni penali per un atto terroristico, il tentativo di commetterlo, la partecipazione a tale atto o la sua agevolazione, basate su prove o indizi seri e credibili, o si tratti di una condanna per tali fatti ”. L’articolo 4 della posizione comune prosegue affermando che “ai fini dell’applicazione del presente paragrafo, per “autorità competente” s’intende un’autorità giudiziaria o, se le autorità giudiziarie non hanno competenza nel settore di cui al presente paragrafo, un’equivalente autorità competente nel settore (104). 107. Sebbene il requisito previsto dall’art. 4 della posizione comune , che sottrae la proposta di listing al mero arbitrio dello Stato interessato, non abbia un equivalente specifico a livello di Nazioni Unite, anche in questa sede sono stati fatti numerosi passi avanti per regolamentare il più possibile le procedure di proposta di iscrizione in blacklist. In modo particolare, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1617 (2005) gli Stati membri sono chiamati a fornire al Comitato 1267 una elencazione delle prove (statement of case) sulle quali essi basano l’introduzione di un certo nominativo nella elencazione di cui alla Risoluzione 1267 (105); La Risoluzione 1735 (2006) ha chiarito il contenuto di tale statement of case, che deve consistere di (a) specific information supporting a determination that the individual or entity meets the criteria above; (b) the nature ofthe information and (c) supporting information or documents that can be provided; States should include details of any connection between the proposed designee and any currently listed individual or entità (106). 108. C’è anche da rilevare come le guidelines del 9 dicembre 2008 del Comitato 1267 consigliano agli Stati che propongono l’inserimento di un nominativo nella lista consolidata di entrare in contatto in maniera preventiva con lo Stato di nazionalità o di residenza della persona sospettata, al fine di acquisire ulteriori informazioni. 109. Il Consiglio di conseguenza non si limita a ratificare in via amministrativa una decisione già assunta a livello statale, ma detiene il potere di valutare la sufficienza e la congruità delle informazioni fornite e, se del caso, rifiutare l’inserimento della persona sospetta, contrariamente a quanto richiesto dallo Stato proponente. Ciò è confermato dal linguaggio della Risoluzione che parla di “proposta” di inserimento, e dal fatto che tale inserimento deve avvenire per consensus. Gli stati che ritengano non opportune le prove fornite dal proponente o che nutrano dubbi circa la loro valenza probatoria, potrebbero in questa fase bloccare la procedura di listing. A ciò si aggiunga che a partire dal 2008 (104) Si veda Posizione Comune 2001/931/PESC, Articolo 4. (105) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, paragrafo 4, 1617 (2005). (106) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, paragrafo 5, 1735 (2006). 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 il Comitato 1267 è tenuto redigere un breve resoconto delle ragioni del listing (narrative summary), provvedendo, ove possibile, a renderlo parzialmente accessibile al pubblico tramite pubblicazione sulla pagina web del Comitato medesimo. Estratti del narrative summary relativo al sig. Kadi figura regolarmente sulla pagina online del Comitato 1267 (107). Inoltre, ancor prima di un effettivo provvedimento di listing, le Nazioni Unite dovrebbero rendere pubbliche alcune delle informazioni che costituiscono lo “statement of case” per l’iscrizione in una lista consolidata. 110. Altro miglioramento nella garanzie procedurali riconosciute a chi venga iscritto in una delle liste consolidate è costituito dalla comunicazione del provvedimento di iscrizione alla persona interessata. In un primo momento il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è limitato, con la Risoluzione 1526(2004) a esortare con forza gli Stati a “inform, to the extent possible, individuals and entities included in the Committee’s list of the measures imposed on them” (108). Successivamente il Consiglio di Sicurezza ha formalmente richiesto al Segretariato di dar comunicazione agli Stati, con cadenza trimestrale, delle iscrizioni in blacklist. 111. Con la Risoluzione 1735 (2006) il Consiglio di Sicurezza ha altresì introdotto una più trasparente procedura di notifica delle iscrizioni in lista. Entro due settimane dall’inserimento di un nuovo nominativo, il Comitato 1267 è tenuto a darne comunicazione alla Missione permanente del paese di cui la persona iscritta è cittadino o di cui possiede la residenza (109). A partire dal 2008 la finestra temporale per la notifica è stata ridotta a una settimana (110). Una volta ricevuta la notifica, gli Stati destinatari delle informazioni devono darne comunicazione alle persone interessate in tempi brevi, secondo modalità previste dal diritto interno di ciascun ordinamento (111). Vero è che alla persona inserita in blacklist viene negato il diritto essere sentita prima dell’adozione del provvedimento. 112. Tale costrizione procedurale è tuttavia giustificata alla luce della necessità di impedire che il sospetto terrorista possa porre in essere operazioni atte a vanificare il congelamento dei suoi beni (ad esempio, trasferendone nominalmente la proprietà a terzi). Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che il diritto a essere sentiti prima dell’adozione di una misure in qualche modo lesiva nei confronti dell’interessato non è assoluto. Di fatti, “al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito, misure siffatte devono, per loro stessa natura, poter beneficiare di un effetto sorpresa e, […], applicarsi con effetto immediato ” (112). 113. Le garanzie procedurali dei soggetti inseriti nelle liste hanno registrato un ulteriore miglioramento a seguito della previsione di meccanismi di revisione periodica delle liste medesime in seno al Consiglio di Sicurezza e al Comitato 1267, con la conseguenza che l’inserimento in blacklist non è a tempo indeterminato, ma cessa ogniqualvolta, in occasione della revisione, venga accertato il venir meno dei motivi dell’inserimento. Per (107) Il resoconto delle ragioni del listing (narrative summary) relativo al Sig. Kadi è disponibile alla pagina web: http://www.un.org/sc/committees/1267/NSQI02201E.shtml (108) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1526 (2004), paragrafo 18. (109) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1735 (2006), paragrafo 10. (110) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1822 (2008), paragrafo 15. (111) Si veda Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1822 (2008), paragrafo 17. (112) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 340. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 quel che concerne in particolar modo la lista prevista dalla Risoluzione 1267, la revisione è prevista con cadenza annuale. La revisione è condotta sulla base di uno scambio di informazioni fra il Comitato 1267, lo Stato che ha proposto l’inserimento della persona nella lista e gli Stati di cui la persona è cittadino o nel quale ha la residenza. Inoltre, nel 2008, il Consiglio di Sicurezza ha chiesto formalmente al Comitato 1267 di procedere a una revisione generale della blacklist istituita con la Risoluzione 1267, da completare entro due anni. In adempimento di tale indicazione del Consiglio di Sicurezza, il Comitato 1267 ha anche deciso di far circolare con cadenza fra gli Stati che propongono nomi da inserire nella lista e fra quelli di nazionalità o residenza, un outline dei nomi di volta in volta figuranti nell’elencazione, chiedendo a questi Stati di fornire, entro tre mesi, un’indicazione aggiornata delle informazioni poste alla base della inclusione nella lista stessa. Anche le procedure di de-listing adottate dal Consiglio di Sicurezza garantiscono un maggior grado di protezione agli individui che rientrano in una delle liste. 114. Difatti, seguendo la posizione delle Nazioni Unite “to ensuring that fair and clear procedures exist for placing individuals and entities on sanction lists and for removing them, as well as for granting humanitarian exceptions”(113), il consiglio di Sicurezza ha adottato una procedura di delisting nell'allegato alla Risoluzione 1730(2006). A norma della Risoluzione, esistono sostanzialmente due canali per esperir euna procedura di delisitng: o attraverso lo Stato di cittadinanza o residenza dell'individuo colpito dalla Risoluzione, ovvero attraverso l'accesso diretto a un organismo delle Nazioni Unite, il così detto Focal Point. Secondo la dottrina, l'istituzione di tale "focal point" costituisce un passo significativo nel miglioramento delle garanzie procedurali del sospettato. 115. L'accesso al focal point per chiedere una misura di de-listing è consentito solo alle persone colpite da misure di congelamento dei beni che risultino iscritti in una delle blacklists delle Nazioni Unite. Coloro che cercano un provvedimento di delisting possono oggi inoltrare una richiesta direttamente davanti ai competenti organi delle Nazioni Unite, mentre in precedenza l'unica via era quella della protezione diplomatica che, in quanto diritto dello Stato, e non dell'individuo che ne chiedeva l'esercizio, era rimessa spesso a valutazioni discrezionali di carattere politico. In secondo luogo, la protezione diplomatica viene riservata ai cittadini di un determinato Stato. L'accesso diretto consente anche a coloro che risiedano, magari da anni, in uno Stato estero, usufruiscano della procedura di de-listing, senza dover convincere lo Stato di nazionalità, con il quale potrebbero non avere più alcun legame, ad esperire tale procedura. 116. La richiesta di de-listing deve essere presentata in forma scritta e il relativo formulario è reso disponibile sul sito web del comitato 1267. Nella petizione, che dunque consente alla persona colpita di portare le Nazioni Unite a conoscenza delle sue ragioni, devono essere indicate le ragioni per cui il soggetto ritiene di non rientrare più fra i criteri delineati dalle Risoluzioni del Consiglio che lo iscrivevano in lista. Tale esposizione delle ragioni deve essere supportata dall'indicazione di documenti probatori a sostegno. 117. Una volta che il focal point riceve la richiesta di delisting, provvede a trasmetterla allo Stato che aveva chiesto l'iscrizione dell'individuo nella blacklist e allo Stato di naziona- (113) United Nations General Assembly Resolution 60/1, 2005 World Summit Outcome, paragrafo 109. 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 lità o residenza. Valutate le ragioni del ricorrente, tanto lo Stato che ha proposto il listing, quanto quello di residenza e quello di nazionalità. La proposta di de-listing deve essere successivamente inoltrata al Chairperson del Comitato 1267 e, a questo punto, la proposta di cancellazione dalla lista viene inserita nell'agenda dei lavori del Comitato. Se il focal point non riceve entro tre mesi proposte di de-listing da parte dello Stato che ha proposto l'iscrizione o da quello di nazionalità o residenza, provvede a darne comunicazione ai membri del Comitato 1267, i quali possono avanzare, sentiti gli Stati interessati, una proposta di de-listing. Laddove anche in questo caso non vengano presentate proposte di cancellazione dalla lista, la richiesta si considera respinta. 118. Nonostante i significativi miglioramenti introdotti da questa procedura, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha statuito che il meccanismo non è ancora tale da garantire una tutela giurisdizionale effettiva per quel che concerne la protezione dei diritti dei soggetti coinvolti (114). 119. In generale, la Corte ha ritenuto insufficiente il meccanismo in esame per la mancanza di imparzialità e indipendenza: sono gli Stati che decidono quali enti e individui iscrivere nella lista e sono i medesimi Stati a decidere se e con quale tempistica rimuovere tali soggetti dalla lista. Vero è che la decisione non è lasciata all'arbitrio dei membri del Comitato 1267, poiché questi debbono in qualche modo motivare le posizioni assunte. Le perplessità in ordine a una procedura dal carattere parziale e privo di indipendenza possono però superarsi alla luce degli ulteriori sviluppi che hanno caratterizzato le procedure di revisione delle blacklist in sede di Consiglio di Sicurezza. La Risoluzione 1904(2009) ha introdotto la figura dell'Ombudsperson, un organo imparziale e indipendente che ha il compito di assistere il Comitato 1267 nella gestione delle richieste di de-listing. A norma della rilevante Risoluzione del Consiglio, la figura dell' Ombusdsperson è costituita da un individuo di alta moralità, imparzialità, integrità, e di elevate competenze nel campo dei diritti umani, dell'antiterrorismo e dei vari regimi sanzionatori adottati dal Consiglio di Sicurezza. L'Ombudsperson è chiamato a svolgere la sua funzione in maniera imparziale e indipendente. 120. Sebbene la decisione finale in ordine al de-listing continui a essere riservata al Comitato 1267, l'Ombudsperson svolge un ruolo fondamentale nella raccolta delle prove e nella fase istruttoria preparatoria alla decisione del Comitato, con il quale l'Ombudsperson ha l'obbligo di confrontarsi. La Risoluzione 1904(2009) ha inoltre influito in maniera rilevante sull'accountabilty del Comitato 1267 con riguardo alle modalità di gestione dei processi di de-listing. Viene infatti a essere formalizzata una tendenza che stava già affermandosi in seno al comitato, segnatamente l'impegno da parte degli Stati membri a indicare le ragioni per cui una certa richiesta di de-listing viene rifiutata. E' importante rilevare come, sebbene il focal point fosse già esistente al momento della pronuncia della sentenza del Tribunale di Primo Grado nel caso Kadi I, gli sviluppi procedurali costituiti dall'introduzione dell'Ombudsperson sono assolute novità che non sono ancora state prese in considerazione dagli organi giurisdizionali comunitari. 121. Nelle pagine che seguono la Repubblica italiana, aderendo ai motivi d'appello presentati (114) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 322. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 dalla Commissione e dal Consiglio, cercherà di dimostrare come, alla luce della delicatezza della materia in esame, le procedure previste in sede di Nazioni Unite siano tali da consentire al ricorrente di difendere in maniera adeguata i suoi diritti. 122. Con la sentenza resa nel caso Kadi I (115), la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha riconosciuto che il procedimento di review amministrativa delle blacklists in sede di Nazioni Unite non consentiva, data la sua parzialità e il suo carattere politico, una tutela effettiva dei diritti dei potenziali ricorrenti e che pertanto il diritto a un equo processo garantito dal diritto comunitario era loro negato. Le circostanze prese in esame dalla Corte erano ovviamente quelle vigenti al momento della pronuncia e non potevano tener conto dei miglioramenti procedurali determinati soprattutto a seguito della Risoluzione 1904(2009). L'istituzione della figura dell'Ombudsperson consente infatti al ricorrente di beneficiare di un vero e proprio sistema di administrative due process, improntato ai principi della trasparenza, dell'indipendenza e della imparzialità, riconducibile a una figura istituzionale che è tenuta a non ricevere istruzioni da alcun governo. Il che evidentemente consente di superare molte delle critiche concernenti l'eccesiva politicizzazione del procedimento di review. 123. Vero è che l'ufficio dell'Ombudsperson si configura come uno strumento di carattere amministrativo, non parificabile dal punto di vista strutturale e funzionale a un organo giudiziario vero e proprio. D'altra parte però la sentenza della Corte di Giustizia nel caso Kadi non ha richiesto l'istituzione di un vero e proprio tribunale internazionale nell'ambito del sistema delle Nazioni Unite. Al contrario, la decisione della Corte sembra porre una sorta di obbligazione di risultato, richiedendo semplicemente un procedimento che offra "the guarantees of judicial protection" (116), senza indicare l'effettivo organo istituzionale deputato a porre in essere tali garanzie. 124. Se con "guarantees of judicial protection" si intendono i requisiti classici caratteristici della funzione giudiziaria, segnatamente imparzialità e indipendenza, è evidente che questi sono condivisi anche dall' Ufficio dell'Ombudsperson previsto dalla Risoluzione 1904. D'altra parte, anche i due rapporti commissionati dalle Nazioni Unite, rispettivamente al Prof. Bardo Fassbender e al Watson Institute for International Studies della Brown University, consigliano non necessariamente l'istituzione in sede di Nazioni Unite di un vero e proprio tribunale internazionale, ma al contrario l'implementazione di una procedura amministrativa che ne condivida in qualche modo i caratteri (117). 125. È chiaro inoltre che un meccanismo di revisione simile a quello dell'Ombudsperson è già impiegato nell'ambito di altre organizzazioni internazionali, come nel caso nella Banca Mondiale con il World Bank Inspection Panel. Il panel consente agli individui interessati di contestare progetti che la banca intende intraprendere sulla base della loro contrarità alle policies della Banca e alle linee guida internazionali che essa è tenuta a seguire. I membri del panel sono indipendenti rispetto alla banca e hanno il potere di esprimere un giudizio sulle decisioni contestate della Banca medesima e di produrre dei (115) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-315/01, 3 settembre 2008, paragrafi 321-326. (116) Si veda Yassin Abdullah Kadi, causa C-402/05 P, 3 settembre 2008, paragrafo 322. (117) Disponibili alle pagine web http://untreaty.un.org/ola/media/info_from_lc/Fassbender_study.pdf e http://www.watsoninstitute.org/pub/Strengthening_Targeted_Sanctions.pdf 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 reports in merito, anche se questi non hanno effetti vincolanti. 126. Di tale procedura è stato detto che “it provides some sort of hints as to [the] possibility of an independent [,] non-judicial review procedure. The essential point is that it constitutes a fruitful compromise. . . . It does not constitute an outside judicial review, it is administrative in nature. On the other hand, it provides a guarantee for an independent control of decisions and an effective remedy for those actors which are affected by the Bank's decisions. That independence and the ensuing impartiality provide a certain equivalence to a procedure of judicial review” (118). 127. D'altra parte, non solo l'istituzione di un vero e proprio organo giudiziario competente a valutare le richieste di de-listing non è richiesto dalla Corte di Giustizia; ma esso non è neppure auspicabile in ragione del ruolo del Consiglio di Sicurezza nel combattere il terrorismo quale fenomeno pregiudizievole alla pace e alla sicurezza internazionale. Una procedura di tipo amministrativo come quella ora delineata consente al Consiglio di meglio calibrare le sue strategie di lotta al crimine internazionale e costituisce una sorta di autotutela amministrativa (sebbene caratterizzata da ben più elevati standards di indipendenza e iniziata su istanza di parte) posta non solo a garanzia del ricorrente, ma del Consiglio di Sicurezza medesimo. In altre parole, la procedura amministrativa in esame, oltre a configurare uno snodo essenziale del diritto alla difesa di chi ritenga di essere stato illegittimamente inserito in una delle liste consolidate per il congelamento dei beni, costituisce anche un momento fondamentale per il perfezionamento e la definizione delle strategie che il consiglio di Sicurezza ritiene di dover adottare nell'adempimento che la Carta delle Nazioni Unite ad esso attribuisce. 128. Queste considerazioni conducono a ritenere che non solo la procedura amministrativa sia quella che meglio consente di conciliare l'interesse del ricorrente con quello della Comunità delle nazioni al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, ma anche che, laddove si continuasse a voler ammettere un controllo giurisdizionale da parte degli organi comunitari, tale procedura amministrativa sarebbe comunque pregiudiziale a tale controllo, con la conseguenza che l’organo indebitamente investito di una doglianza dovrebbe dichiarare il difetto della propria giurisdizione. 129. In primo luogo, dal punto di vista di una semplice logica implementativa, è chiaro che la Comunità è tenuta a adeguare il contenuto del diritto comunitario alle eventuali modifiche delle liste consolidate, con la conseguenza che una modifica per via amministrativa della blacklist si riverbererebbe necessariamente anche sul contenuto degli strumenti europei di implementazione, senza necessità di passare per una pronuncia di illegittimità dei medesimi. 130. Vero è che la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, cui la proposta pregiudizialità della procedura amministrativa si ispira, non è una regola generale del diritto internazionale e non potrebbe essere invocata in termini assoluti. Ma le specificità del caso in esame impongono considerazioni diverse, che derogano alle regole generali. Difatti, la procedura amministrativa in esame è stata introdotta tramite una risoluzione del (118) Si veda BOTHE, Security Council's Targeted Sanctions Against Presumed Terrorists: The Need to Comply with Human Rights Standards, in Journal of International Criminal Justice, 2008, 541. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottata a norma del Capitolo VII della Carta. Nel predisporla il Consiglio di Sicurezza ha adottato una misura che, seppur in maniera meno evidente rispetto all'iscrizione in una blacklist, condivide con essa la finalità di tutelare la pace e la sicurezza internazionali. 131. D'altra parte, che l'istituzione di un organo con funzioni giurisdizionali o quasi-giurisdizionali, come la figura dell'Ombudsperson possa costituire una misura non implicante l'uso della forza volta a contrastare una minaccia internazionale non sembra essere in discussione. Ciò risulta con chiarezza dalla statuizione della Camera d'appello del Tribunale Penale per i crimini commessi nella Ex-Jugoslavia nel caso Tadic, secondo il quale "Once the Security Council determines that a particular situation poses a threat to the peace or that there exists a breach of the peace or an act of aggression, it enjoys a wide margin of discretion in choosing the course of action". Secondo il Tribunale penale internazionale, dunque "establishment of the International Tribunal falls squarely within the powers of the Security Council under Article 41" (119). 132. Poiché l'istituzione di un Tribunale internazionale rientra dunque fra le misure che il Consiglio di Sicurezza può adottare per la tutela della pace e della sicurezza internazionali, a maggior ragione dovrebbe rientrarvi una procedura amministrativa complementare a misure che più tipicamente rientrano fra quelle riconducibili al novero dell'articolo 41, come le misure di congelamento dei beni. 133. Se questo è lo status giuridico della procedura amministrativa in esame, e se il Consiglio di Sicurezza, agendo a norma del Capitolo VII, ha considerato tale misura necessaria, essa assume natura ed effetto vincolanti. Non può più essere aggirata o “bypassata”, ma si configura come fase necessaria e preliminare rispetto a qualsiasi altro strumento di redress che la persona sospetta desideri azionare per far valere le sue ragioni. Ragionare altrimenti, e consentire al ricorrente di adire direttamente gli organi giudiziari comunitari, significherebbe negare il carattere vincolante della Risoluzione del Consiglio e non tenere in considerazione il ruolo primario che esso ha nel definire le modalità con le quali affrontare una certa minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. F. Conclusioni 134. Alla luce delle considerazioni svolte nelle pagine precedenti, la Repubblica italiana chiede alla Corte di Giustizia di annullare, nella sua interezza, la sentenza del Tribunale resa nel caso Kadi II (T-805/09) e rigettare di conseguenza la domanda di annullamento del Regolamento 1190/2008, nella misura in cui questo lo concerne Avv. Gabriella Palmieri Avv. Maurizio Fiorilli Agente del Governo Italiano Vice Avvocato Generale dello Stato (119) Prosecutor v. Dusko Tadic, a/k/a “Dule”, Interlocutory Appeal, IT-94-1-AR72, 2-10-1995, 29. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Europa: il sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali Paola Maria Zerman* SOMMARIO: 1. - La complessità del problema 2. - Il punto di partenza: il doppio binario individuato dall’art. 6 del Trattato di Lisbona 3. - La strada più percorsa. Il ricorso alla CEDU 3.1. - La CEDU nel sistema delle fonti dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona 4. - La Carta dei diritti. a) L’ambito di applicazione della Carta. b) L’attuazione dei principi contenuti nella carta. La riserva di legge nazionale. Il principio di sussidiarietà. Quale sorte per le materie escluse? 5. - Il sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali. 1. La complessità del problema Sebbene antichi come l’uomo, i diritti fondamentali della persona si delineano come la nuova frontiera con cui si confrontano giudici nazionali e comunitari in un contesto normativo particolarmente complesso. Lo sforzo ricostruttivo per delineare il sistema di protezione dei diritti fondamentali della persona si presenta all’interprete assai arduo per un duplice ordine di motivi. Il primo perché coinvolge una pluralità di fonti normative, a livello nazionale ed europeo, in cui i rapporti gerarchici hanno contorni non di rado incerti e mutevoli, anche in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Di questo disorientamento vi sono tracce nelle decisioni dei giudici nazionali, che procedono a tentoni nell’applicazione della CEDU e della Carta di Nizza e più per intuizione che per chiara consapevolezza dei limiti e dell’efficacia delle stesse (1). Il secondo motivo è rappresentato dalla particolare delicatezza delle materie coinvolte, che, per la vicinanza a temi eticamente sensibili, non di rado sono soggetti ad operazione ermeneutiche orientate se non addirittura manipolatorie. Si ricordi la vasta eco mediatica che ha riguardato vicende come quella dell’esposizione nelle aule scolastiche del crocifisso, recentemente risolta positivamente dalla Cedu (2), nonché l’ammissibilità nel nostro ordinamento del (*) Avvocato dello Stato. (1) Vedi su questo punto l’interessante disamina di LINDA D’ANCONA in www.europeanrighst.eu 2010: “L’efficacia della Carta di Nizza nella giurisprudenza nazionale dopo Lisbona”, l’autrice rileva che: “E’ utile tenere presente che, almeno in apparenza, la Carta di Nizza sembra essere stata utilizzata dai Giudici italiani senza il benchè minimo accenno ad una diversa efficacia o vigore, conseguito dalla Carta a seguito dell’approvazione del Trattato. Con estrema franchezza, sembra che i Giudici di primo grado non se ne siano accorti”. (2) Decisione della Grande Chambre del 18 marzo 2011 nel caso Lautsi c/Italia (ricorso n. 30814/06). La Corte ha osservato tra l’altro che: «Le mot «respecter», auquel renvoie l'article 2 du Protocole no 1, signifie plus que reconnaître ou prendre en considération; en sus d'un engagement plutôt négatif, ce verbe implique à la charge de l'Etat une certaine obligation positive (arrêt Campbell et Cosans précité, § 37). Cela étant, les exigences de la notion de «respect», que l'on retrouve aussi dans l'article 8 de la Con- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 matrimonio omosessuale, escluso dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 138 del 2010, e ancora al dibattito in corso sul divieto di fecondazione eterologa posto dalla legge 40 al prossimo esame della Corte Costituzionale (3). 2. Il punto di partenza: il doppio binario di tutela individuato dall’art. 6 del Trattato di Lisbona Come è a tutti noto, il 1 dicembre 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che modifica il Trattato sull'Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. Basilare, per la ricostruzione sistematica della tutela dei diritti fondamentali, è l’art. 6 del Trattato. Si riporta per completezza l’intero testo dell’articolo. 1. “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati ”. Inoltre, come ricordato dal terzo comma, i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Dalla lettura del testo riportato emerge che il sistema dei diritti fondamentali è basato su un duplice binario di tutela: a) il primo, è rappresentato dalla Carta dei diritti fondamentali delvention varient beaucoup d'un cas à l'autre, vu la diversité des pratiques suivies et des conditions existant dans les Etats contractants. Elle implique ainsi que lesdits Etats jouissent d'une large marge d'appréciation pour déterminer, en fonction des besoins et ressources de la communauté et des individus, les mesures à prendre afin d'assurer l'observation de la Convention. Dans le contexte de l'article 2 du Protocole no 1, cette notion signifie en particulier que cette disposition ne saurait s'interpréter comme permettant aux parents d'exiger de l'Etat qu'il organise un enseignement donné (voir Bulski c. Pologne (déc.), nos 46254/99 et 31888/02)» e ancora rileva l’autonomia degli Stati in relazione al valore da dare ai simboli religiosi «Selon la Cour, la décision de perpétuer ou non une tradition relève en principe de la marge d'appréciation de l'Etat défendeur. La Cour se doit d'ailleurs de prendre en compte le fait que l'Europe est caractérisée par une grande diversité entre les Etats qui la composent, notamment sur le plan de l'évolution culturelle et historique. Elle souligne toutefois que l'évocation d'une tradition ne saurait exonérer un Etat contractant de son obligation de respecter les droits et libertés consacrés par la Convention et ses Protocoles». (3) È fissata l’udienza alla Corte Costituzionale il 20 settembre 2011. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 l’Unione europea (c.d. Carta di Nizza). La novità, e l’importanza, dell’art. 6 è costituita dal fatto che viene conferita alla Carta “lo stesso valore giuridico dei trattati”. b) Il secondo, è costituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), a cui l’UE aderisce. Occorre tenere presente che l’adesione della UE non è ancora avvenuta. La stessa è regolata dal protocollo 8 della Trattato di Lisbona, e seguirà la procedura descritta nell'art. 218 TFUE (4), che prevede, tra l'altro, la decisione all'unanimità del Consiglio, l'approvazione del Parlamento europeo e l'approvazione di tutti gli Stati membri, ciascuno secondo le proprie regole costituzionali (5). Il duplice richiamo alla Carta di Nizza e alla CEDU, può determinare possibilità di sovrapposizione, come esplicitamente riconosciuto dall’art. 52 comma 3 della Carta, in base alla quale “se la stessa contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU ” il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. Anche se “la presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa” la possibilità di sovrapposizione può riguardare anche l’attività delle due Corti, quella di Giustizia e quella di Strasburgo (6), quali garanti dei diritti fondamentali, preoccupazioni che a suo tempo avevano interrotto le pro- (4) Secondo il comma 8 dell’art. 218 TFUE: “Il Consiglio delibera all'unanimità anche per l'accordo sull'adesione dell'Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; la decisione sulla conclusione di tale accordo entra in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali”. (5) Art. 2 del Protocollo n. 8 del Trattato di Lisbona stabilisce che l’accordo di adesione dell’Unione alla CEDU: “deve garantire che l'adesione non incida né sulle competenze dell'Unione né sulle attribuzioni delle sue istituzioni. Deve inoltre garantire che nessuna disposizione dello stesso incida sulla situazione particolare degli Stati membri nei confronti della convenzione europea e, in particolare, riguardo ai suoi protocolli, alle misure prese dagli Stati membri in deroga alla convenzione europea ai sensi del suo articolo 15 e a riserve formulate dagli Stati membri nei confronti della convenzione europea ai sensi del suo articolo 57 ”. (6) Preoccupazione effettivamente esistente visto la non chiara delimitazione delle competenze delle due Corti in ordine alla protezione dei diritti umani. La risoluzione del parlamento europeo del 19 maggio 2010 cerca di dissipare l’intricata matassa con un’ estesa dissertazione sul ruolo delle due Corti rappresentando comunque che: “23. L’adesione dell’UE alla CEDU fornirà uno strumento aggiuntivo per applicare i diritti umani, in particolare la possibilità di presentare una denuncia dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione a un’azione o mancata azione dell’istituzione dell’UE o di uno Stato membro nel quadro dell’attuazione del diritto dell’Unione, rientrante nell’ambito di competenze della CEDU”. Al punto 1 sottolinea poi che “la relazione tra le due Corti europee non è gerarchica ma piuttosto di una relazione di specializzazione; la Corte di giustizia dell’Unione europea avrà così uno status analogo a quello che hanno attualmente le corti supreme degli Stati membri rispetto alla Corte europea dei diritti dell’uomo”.V. anche in tal senso la dichiarazione congiunta del Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Jean Paul Costa e quello della Corte di Giustizia del 17 gennaio 2011, che focalizza l’attenzione sui futuri rapporti tra le due corti in vista dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione “Joint communication from Presidents Costa and Skouris”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 cedure di adesione, anche nel timore delle incertezze derivanti dalla sovrabbondanza di fonti di riferimento per la tutela dei diritti. L'eccesso di documenti e carte in tema di diritti potrebbe anche trasformarsi in un fattore non secondario di indebolimento della posizione del cittadino europeo (7). Il richiamo sia alla Carta che alla CEDU è da rinvenirsi nella diversità della fonte di provenienza. La prima è emanazione dell’Unione europea, la seconda del Consiglio d’Europa, cui aderiscono, come è noto, molti paesi estranei all’Unione (8), la quale ultima aderirà a sua volta alla CEDU. Come autorevolmente rilevato (9), l’attuale situazione in cui il sistema della Convenzione “vincola tutti gli Stati ma non l’Unione stessa, è fonte di incertezze, difficoltà e carenze nell’applicazione della Convenzione”. Non è possibile, quindi introdurre un ricorso alla Corte Cedu direttamente contro l’Unione, dovendo lo stesso essere diretto contro uno o più Stati membri dell’Unione. La Corte CEDU ha sul punto ritenuto che l’adesione ad una organizzazione sopranazionale con cessione alla stessa di parti della competenza propria statale, non elimina il vincolo degli Stati rispetto alla Convenzione (10). 3. La strada più percorsa. Il ricorso alla CEDU Un’ampia letteratura scientifica si è formata sul ruolo e l’incidenza della CEDU nel sistema della protezione dei diritti fondamentali, anche in seguito alla tendenza espansiva della Corte di Strasburgo, che non ha mancato di suscitare ampi dibattiti in relazione a note pronunce su temi eticamente sensibili. Tuttavia, a un anno e mezzo dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sembra da condividere lo stupore di alcuni in ragione de “il prevalente e quasi esclusivo soffermarsi della giurisprudenza (e della dottrina al seguito) spesso in modo contorto, forzato, cervellotico, sul tema della disapplicazione di norme interne per contrasto con la CEDU” (11) dando poca attenzione alla immediata attribuzione del valore giuridico primario della Carta di Nizza. La CEDU rimane quindi il binario più percorso dai giudici per la tutela dei diritti umani, anche perché, come si esaminerà in seguito, la Carta di Nizza, se pure più ampia sotto il profilo contenutistico, contiene limitazioni per quanto concerne l’ambito di applicazione soggettiva. Inoltre, le decisioni della Corte di Strasburgo, come da molti sottolineato, stanno assumendo un ruolo (7) Così CARTABIA MARTA, in “Il trattato di Lisbona” Giornale Dir. Amm., 2010, 3, 221. (8) Il Consiglio d’Europa conta oggi 47 membri. Dagli anni ‘90 ha ricevuto l’adesione di tutti gli stati europei tranne la Bielorussia che ancora non raggiunge le condizione minime di democrazia e rispetto dei diritti dell’uomo. (9) V. ZAGREBELSKI in www.europeanright.eu 2007. (10) Sentenze CEDU: Cantoni c. Francia del 15 novembre 1996 e Matthews c. Regno Unito del 18 febbraio 1999 citate in nota 2 di Zagrebelski cit. (11) Così V. SCIARABBA: “La tutela europea dei diritti fondamentali e il giudice italiano”. Relazione al “Il Workshop in Diritto internazionale dell’Unione” organizzato da Magistratura democratica e Medel, Venezia 8-9 aprile 2011. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sempre più incisivo anche in relazione alla efficacia delle decisioni (12). 3.1. La CEDU nel sistema delle fonti dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona Isolate sono rimaste le pronunce del Consiglio di Stato sez. IV n. 1220 del 2010 e Tar Lazio sez. II bis n. 11984 del 2010, che hanno ritenuto direttamente applicabile la stessa convenzione in seguito all’entrata in vigore del trattato di Lisbona. In realtà la dottrina si è schierata unanime contro la “comunitarizzazione” della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (13), ritenendo che, non essendo ancora intervenuta l’adesione al Trattato, la CEDU ha valore come norma interposta che integra il parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost. non essendo possibile la diretta applicazione ai sensi dell’art. 11 della Costituzione come ritenuto dalle due pronunce della giurisprudenza amministrativa. L’analisi della portata della CEDU, dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è stata, infatti, oggetto di alcune pronunce della Corte Costituzionale, che ha delineato con fermezza i confini di applicazione della Convenzione, come anche da ultimo sottolineato da Corte cost., Sent., 7 aprile 2011, n. 113. “A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e (12) I limiti all’efficacia delle sentenze della Corte di Strasburgo sono posti dagli art. 41 e 46 della CEDU; secondo quest’ultima norma le “Alte parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti” e prevede ai commi successivi, una procedura rivolta all’ottemperanza da parte dello Stato condannato. L’art. 41 prevede che se vi è stata violazione della CEDU e il “diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. A. GIANSANTI in “Riflessioni in ordine all’efficacia delle sentenze della Corte Europea dei diritti umani e agli obblighi di riparazione a carico dello Stato soccombente con particolare riguardo al caso Sejdovic c. Italia ” evidenzia le attuali tendenze della Corte europea ad ampliare l’ambito della propria competenza in materia di riparazione, e ad imporre agli Stati membri l’adozione di misure individuali e/o generali in luogo della prescritta “equa soddisfazione”. (13) A. CELOTTO: “Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? ” in www.giustamm.it “se è vero che il Trattato consente l’adesione della UE alla CEDU, “non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della CEDU al diritto comunitario, bensì semplicemente, una loro utilizzabilità quali principi generali del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Ad avviso di chi scrive, quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che resta, per l’Italia solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte Costituzionale”. V. anche: L. D’ANGELO: “Comunitarizzazione” dei vincoli internazionali CEDU in virtù del Trattato di Lisbona? No senza una expressio causae in www.personaedanno.it. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrino, quali «norme interposte », il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011)”. La Corte indica quindi le tappe del percorso logico che il giudice nazionale deve percorrere in relazione alle modalità di applicazione della CEDU: a) se si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; b) se tale verifica dà esito negativo - non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante - egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro di cui all’art. 117 Cost.; c) a sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione - la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione; d) in caso affermativo, dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. 4. La Carta dei diritti In seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta di Nizza ha acquistato la stessa forza giuridica dei trattati. Il Giudice nazionale, quindi, sarà tenuto a disapplicare le norme interne in contrasto con quanto stabilito dalla Carta. Tuttavia, l’operazione ermeneutica non è così semplice come può apparire da questa affermazione. La Carta, infatti, contiene precise indicazioni in ordine alla sua operatività soggettiva che comporta un serio sforzo ricostruttivo, alla luce sia dei diritti già affermati dalla Convenzione che con i rapporti con la nostra Costituzione. Per quanto concerne il contenuto della Carta, la stessa risulta più articolata e più ampia rispetto alla CEDU (14). E’ strutturata in sette capi che riguardano (14) Per la verità la CEDU ha più articoli (59 rispetto ai 46 della Carta di Nizza), ma di minor numero sono quelli dedicati ai diritti. Infatti la prima parte della CEDU (art. 1-18) riguarda i diritti. Il titolo II riguarda l’istituzione e il funzionamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo: art. 19-51, mentre il titolo III è dedicato a disposizioni varie relative all’applicazione della CEDU. 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 gli ambiti fondamentali di tutela della persona: il primo riguarda la dignità umana, dal diritto alla vita alla proibizione della schiavitù e della tortura; il secondo la tutela della libertà umana, sia per quanto concerne la vita privata e familiare che la libertà di espressione, di impresa e proprietà; il terzo pilastro riguarda la previsione del principio di uguaglianza, che si articola nel divieto di discriminazione, nella previsione dei diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili; il capo quarto concerne la solidarietà con quanto riguarda il diritto a condizioni di lavoro eque e giuste, alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale, alla sicurezza e assistenza sociale, alla protezione della salute e dell’ambiente. Il capo quinto, relativo alla cittadinanza, tutela il diritto ad una buona amministrazione, il diritto d’accesso ai documenti amministrativi, il diritto di voto. Il capo sesto, relativo alla giustizia, contiene importanti riconoscimenti dal diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, alla presunzione di innocenza, al principio di legalità e proporzionalità nelle pene. Infine, l’ultimo capo, che contiene disposizioni generali, regola l’ambito di applicazione della Carta. Su questo capo è necessario soffermarsi, per comprendere il meccanismo di operatività della Carta. a) L’ambito di applicazione della Carta A mente dell’art. 51, le disposizioni della Carta “si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze. La presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”. La disposizione delimita con precisione i confini di applicazione della Carta: essi riguardano l’Unione e gli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione e nel rispetto del principio di sussidiarietà. La Carta non comporta l’attribuzione di competenze nuove per l’Unione, principio ribadito più volte, anche dall’art. 6 del Trattato di Lisbona, dal protocollo n. 8 relativo all’adesione della UE alla Carta, dal preambolo della stessa e dalle spiegazioni alla Carta stilate sotto la responsabilità del Praesidium (sub art. 51). Circostanze che rendono difficoltoso all’interprete comprendere come riuscire in concreto a delimitare l’applicazione di un diritto entro determinate competenze; difficoltà che ha portato parte della dottrina a ritenere sostanzialmente inoperanti le norme sopra riportate relative alla competenza (15), dottrina però contrastata da chi valorizza l’importanza del dato positivo, più volte CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 ribadito dalle norme in esame, nonché dall’effettiva ampiezza delle competenze attribuite all’Unione dai trattati, sì da coprire “quasi per intero l’ambito della vita collettiva nazionale” (16). Si ritiene preferibile un’ interpretazione che rispetti il dettato normativo, anche per evitare arbitrari sconfinamenti in ambiti non previsti dalla volontà comunitaria (17). Al fine di una ricostruzione del sistema di funzionamento dei diritti previsti dalla Carta di Nizza, decisivo appare il comma 5 dello stesso articolo 51: “Le disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell'Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell'Unione, nell'esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell'interpretazione e del controllo di legalità di detti atti ”. Dal combinato disposto delle due norme emerge che la Carta contiene due tipologie di norme: a) i principi, che per loro caratteristica, devono necessariamente essere attuati mediante l’interpositio legislatoris; In questa categoria possono essere ricondotti una vasta gamma di diritti, quali quello di lavorare, o i diritti degli anziani “di condurre una vita dignitosa e indipendente” o ancora i diritti dei disabili e dei bambini. b) i diritti suscettibili di immediata applicazione, come ad es. il divieto di pratiche eugenetiche, della tortura, del lavoro forzato e della schiavitù, la libertà di religione, riunione e associazione, la libertà di espressione, il divieto del lavoro minorile ecc. In tali casi il giudice nazionale, previo discernimento circa l’immediata applicabilità del diritto, ed eventuale rinvio alla Corte di Giustizia circa la corretta interpretazione, potrà procedere alla disapplicazione di norme nazionali in contrasto con gli stessi. (15) Dà atto di tali orientamenti GIOVANNA PISTORIO, nel commento all’art. 51 in “La Carta dei diritti dell’Unione europea. Casi e materiali ” Ed. Chimienti 2009, l’autrice conclude affermando che se si consoliderà la tendenza della giurisprudenza comunitaria ad estendere i confini del campo di applicazione dei diritti fondamentali comunitari, ampliando ulteriormente i limiti dell’incorporation, sarà davvero impossibile riconoscere che le disposizioni dell’art. 51 della Carta abbiano ancora un valore. (16) G. GUARINO “Ratificare Lisbona? ” Firenze 2008, pag. 21. (17) Evidenzia V. ZAGREBELSKI in op.cit. “La Carta e la Convenzione dunque si incontrano sovrapponendosi in parte. La Carta riguarda le istituzioni e gli organi dell’Unione, nonché gli Stati membri quando questi danno attuazione al diritto dell’Unione (art. 51 §1). Ciò significa che quando danno attuazione al diritto comunitario gli Stati membri sono vincolati sia dalla Carta che dalla Convenzione, il che impone la ricerca della maggior possibile coerenza dei due ordini normativi (compreso il profilo riguardante i rispettivi sistemi di tutela giurisdizionale, al fine di evitare contraddizioni ed incoerenze che metterebbero in crisi, in una materia delicatissima, la certezza del diritto e la credibilità del sistema ”. 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 b) L’attuazione dei principi contenuti nella Carta Come sopra evidenziato, l’attuazione dei principi previsti dalla Carta implica l’interpositio legislatoris al fine della loro concreta attuazione. Assai delicata è l’individuazione dei confini di operatività del legislatore nazionale e di quello comunitario, considerato che, come evidenziato più volte, la Carta non sposta le competenze stabilite dai Trattati né attribuisce nuove competenze alla UE. La Carta stessa si preoccupa di fornire alcuni precisi parametri, che servono a delimitare l’azione degli organi legislativi comunitari e nazionali, in ragione delle varie materie trattate. • La riserva di legge nazionale Alcuni principi contenuti nella Carta rinviano in modo esplicito per la loro attuazione alla legislazione dei singoli Stati. La ragione di questo deve individuarsi nella peculiarità delle materie oggetto del rinvio e dalla consapevolezza della diversità delle culture che determinano l’assetto di tutela di alcuni diritti. Come esplicitato nel preambolo della Carta, essa “riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti dell'Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali”. La Carta è consapevole di non andare ad incidere su un territorio privo di cultura del rispetto dei diritti, ma al contrario di far propri e recepire quei diritti elaborati da una bi-millenaria cultura umanistica. In particolare, la tradizione costituzionale italiana è particolarmente ricca in tema di riconoscimento dei diritti della persona, sia nella sua dimensione individuale, che familiare e sociale. In questo contesto, la Carta correttamente si preoccupa di rispettare “la diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d'Europa, nonché dell'identità nazionale degli Stati membri”(preambolo), motivo per il quale l’attuazione di alcuni diritti, strettamente connessi a impostazioni di carattere etico, vengono lasciate all’attuazione esclusiva dei singoli Stati membri. Questo è il caso previsto dall’art. 9 relativo al matrimonio “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”. E così per quanto concerne la libertà di creare istituti di insegnamento (art. 14) e il diritto all’obiezione di coscienza (art. 10). La cogenza del principio di riserva di legge nazionale, è stata recentemente ricordata dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010 (ripresa recentemente dalla ord. Corte cost., Ord., 5 gennaio 2011, n. 4) che - ritenendo non ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone dello stesso sesso - ha affermato: “Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l'entrata in vigore del Trattato pone nell'ambito dell'ordinamento dell'Unione e degli ordinamenti nazionali, CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 specialmente con riguardo all'art. 51 della Carta, che ne disciplina l'ambito di applicazione.” “Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l'art. 9 della Carta (come, del resto, l'art. 12 della CEDU), nell'affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l'autorità del praesidium della Convenzione che l'aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l'altro) che «L'articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso». Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna. Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”. • Il principio di sussidiarietà Stati membri e UE, a mente dell’art. 51 primo comma, devono promuovere l’applicazione dei principi, nell’ambito delle rispettive competenze, secondo il principio di sussidiarietà (18). Tale principio costituisce il criterio fondamentale di delimitazione dell’agire della UE in relazione a quello degli Stati membri, secondo quanto stabilito dall’art. 3 bis del Trattato di Lisbona (che sostituisce l’art. 5 del TCE) quale principio che garantisce che “le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini dell’Unione” (premessa del protocollo): “Articolo 3bis 1. La delimitazione delle competenze dell'Unione si fonda sul principio di attribuzione. L'esercizio delle competenze dell'Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. 2. In virtù del principio di attribuzione, l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclu- (18) Come è noto, il principio di sussidiarietà è stato recepito nell’art. 118 della Costituzione italiana e diversificato nella c.d. sussidiarietà verticale e in quella orizzontale (quarto comma), avendo riguardo, la prima, ai rapporti tra istituzioni e la seconda a quella Stato-cittadini. Il principio di sussidiarietà verticale è ispirato al criterio dell’azione amministrativa più vicina ai cittadini, così che l’art. 118 della Cost. proclama che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Il principio di sussidiarietà opera quindi, nell’ordinamento italiano, nell’ambito amministrativo, mentre le competenze legislative sono specificamente individuate dall’art. 117 della Costituzione con un criterio di rigida delimitazione delle materie attribuite a Regioni e Stato. P. M. ZERMAN “Lo Stato sussidiario” Rassegna avvocatura dello stato - 2006 / 3; V. anche: M. BARUCCO: “Il ruolo del principio di sussidiarietà nell’ordinamento europeo” in www.jus.unitn.it. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 siva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. Le istituzioni dell'Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo”. Il principio di sussidiarietà pertanto trova applicazione allorché : a) sia attribuita la competenza alla UE; b) tale competenza sia concorrente con quella degli Stati membri; c) e pertanto, al di fuori dei casi di competenza esclusiva della UE o di quella dei singoli Stati. Come ben si può leggere dal comma 3 dell’art. 3 bis il criterio di valutazione dei presupposti per l’azione sussidiaria della UE è piuttosto elastico (se non addirittura vago), laddove fa riferimento a criteri, quali quello della sufficienza e del migliore conseguimento degli obbiettivi, che lascia ampi margini di valutazione discrezionale. In realtà, come è a tutti noto, l’azione della UE sta diventando sempre più espansiva (da alcuni si parla anche di aggressività), sicchè il principio di sussidiarietà non di rado si tramuta in uno scrupolo facilmente superato con il richiamo ad una formula tralaticia nel preambolo dell’atto comunitario adottato. Il controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà è affidato, in base al protocollo sull’applicazione del principio, ai Parlamenti nazionali (art. 4) a cui vengono trasmessi gli atti legislativi, nonché, in base all’art. 8, alla Corte di Giustizia, la quale “è competente a pronunciarsi sui ricorsi per violazione, mediante un atto legislativo, del principio di sussidiarietà” secondo le modalità previste dall’art. 230 del TFUE promossi da uno Stato membro. Diversi sono i principi, nella Carta, dove si fa riferimento ad una competenza concorrente sia della UE che ai singoli Stati, quali ad es. la libertà di impresa (art. 16) che è riconosciuta “conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”; così come il diritto dei lavoratori all’informazione (art. 27) e il diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 27) e “la tutela in caso di licenziamento ingiustificato”(art. 30). • Quale sorte per le materie escluse? Al di là dei principi di attuazione dei singoli Stati o di competenza concorrente, si pongono quei principi che non sono riconducibili a materie attribuite alla UE né riservati dalla Carta alla esclusiva legislazione nazionale. Ampio e vivace è il dibattito circa la sorte di tali principi (si pensi, tra gli altri, alla protezione della famiglia “sul piano giuridico, economico e sociale” (art. 33 comma 1); o ai diritti dei bambini “alla protezione e alle cure neces- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 sarie per il loro benessere”). Se i destinatari della Carta sono innanzitutto “le istituzioni e gli organi e organismi dell’Unione e gli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” dovrà la UE promuovere l’attuazione di tali principi nell’ambito delle sue comunque ampie competenze, sia con provvidenze economiche che sostengano progetti di promozione di tali diritti, che in ambito politico mediante l’adozione di atti di natura politica che diano, promuovano culturalmente la tutela di tali principi e l’azione dei singoli Stati membri in tal senso. Questi ultimi, dal canto loro, dovranno promuovere l’attuazione di tali principi con la duplice responsabilità derivante dai vincoli comunitari e da quelli delle singole Costituzioni, che, come detto, già impegnano non poco il legislatore nazionale sulla via di tutela dei diritti della persona, spesso ancora in gran parte da percorrere (si pensi ad esempio quanto le norme di sostegno alla famiglia ai sensi degli art. 29 e seg. della Costituzione siano rimaste inattuate). 5. Il sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali Da quanto sopra esposto, si rende palese la complessità del sistema di tutela dei diritti fondamentali derivante dalle fonti comunitarie e dal necessario coordinamento con quelle nazionali. Lo stato di oggettiva incertezza derivante dalla moltiplicazione delle fonti e degli organismi di garanzia (la Corte di Strasbugo, la Corte di Giustizia, la Corte Costituzionale), pone il giudice nazionale, chiamato a tutelare un diritto, di fronte alla faticosa individuazione della strada più corretta, se quella della CEDU, con i vincoli posti dalla Corte Costituzionale in ordine alle modalità di risoluzione delle antinomie, o quello della diretta disapplicazione in applicazione della Carta di Nizza, con il conseguente sforzo ermeneutico circa la riconduzione del diritto contestato all’ambito di operatività della Carta. Stato di incertezza peraltro incrementato dal continuo evolversi della normazione europea sì che gli interpreti si trovano ad operare in uno spazio “liquido” anche in ragione delle ricordate tendenze espansive delle Corti europee accompagnate dalla ricerca di una sempre maggiore efficacia generale delle pronunce. Questa situazione però non può non far rilevare l’indubbia spinta positiva impressa dall’Europa per il superamento di ingiustizie endemiche del nostro Paese, in primis l’eccessiva durata dei processi (19) e la scarsa effettività della (19) Come è noto per rispondere alle continue condanne di violazione dei diritti umani, lo Stato italiano con la legge 21 marzo 2001 n. 89 (legge Pinto), ha fornito un rimedio interno che prevede il rilascio di un indennizzo per l’eccessiva durata del processo. “Esso è ancorato all'accertamento della violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento "ex se" lesivo del diritto della persona alla definizione del suo 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tutela giurisdizionale (20), o ancora nell’ambito della tutela del diritto di proprietà, anche in relazione alla nota vicenda relativa all’occupazione acquisitiva da parte della p.a. (poi legittimata, dalla previsione dell’ “occupazione sanante” di cui all’ art. 43 D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 e dichiarata illegittima da Corte Costituzionale sent. 293/2010 per eccesso di delega). In tale incerta situazione, ben vengano i “paletti” posti dalla Corte costituzionale, che rilevando la impossibilità del sindacato diffuso per contrasto alla CEDU, così come la delimitazione della competenza della Carta di Nizza, sta limitando il rischio di espandersi di interpretazioni soggettive se non anche arbitrarie e contraddittorie del contenuto dei diritti umani a seconda della sensibilità del singolo giudice (21). Ecco che proprio su questo punto dovrà invece svilupparsi quell’auspicato “dialogo tra Corti” già inaugurato dalla Corte Costituzionale con la nota ordinanza n. 103 del 15 aprile 2008 (22) con la quale rinviava alla Corte di Giuprocedimento in una durata ragionevole”. Cass. sez. I 8712 del 2006. Ma la CEDU ritiene eccessiva anche la durata dei processi risarcitori ex lege Pinto “Lo Stato deve garantire l’ effettiva soddisfazione delle pretese risarcitorie ex lege Pinto entro sei mesi dall’esecutività delle sentenze che riconoscono tali pretese sul piano interno. Lo Stato non può richiedere ai propri cittadini di ricorrere avverso le inefficienze della L. Pinto attraverso la legge Pinto stessa. Si raccomanda allo Stato italiano di intervenire per arginare quanto prima tale situazione, emendando ove necessario la legge Pinto ed istituendo un fondo ad hoc per il risarcimento dei danni da eccessiva durate del processo” (Sent. 21 dicembre 2010 ricorso n. 45867/07). (20) L’emanazione del codice del processo amministrativo del 2010, “... recepisce organicamente e consapevolmente il diritto processuale europeo (della Unione Europea e della C.E.D.U.), ossia la c.d. “rete europea di garanzie”, in linea generale, attraverso l’esplicito richiamo contenuto nell’art. 1 (rubricato: “Effettività”) alla tutela piena ed effettiva secondo i principi del diritto europeo ed, in particolare, ribadendo e perfezionando (anche per gli appalti “sotto soglia”) l’attuazione della Direttiva 2007/66/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 Dicembre 2007 ...” Il Codice del processo amministrativo - la gestione del processo: nuovi termini e adempimenti, E. D’ARPE, 2010 in www.giustizia-amministrativa. it. (21) Come correttamente osservato da: ELISABETTA LAMARQUE in Corriere giur. 2010, 7, 955: Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte Costituzionale italiana, i giudici nazionali hanno dato applicazione alla Carta senza troppo “sottilizzare” sul fatto che prima del 2009 la stessa non avesse ancora efficacia diretta, né che la stessa si applica agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’unione, e che quindi al di fuori da questo ambito non è dotata di effetti diretti. (22) Si legge tra l’altro nella motivazione dell’ordinanza: “che, al riguardo, va premesso che, ratificando i Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte dell'ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base all'art. 11 Cost., l'esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome) nei settori definiti dai Trattati medesimi; che le norme dell'ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell'intangibilità dei princípi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell'uomo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del 1984); che, nei giudizi davanti ai giudici itaani, tale vincolo opera con diverse modalità, a seconda che il giudizio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale; che, nel caso di giudizio pendente davanti al giudice comune, a quest'ultimo è precluso di applicare le leggi nazionali (comprese le leggi regionali), ove le ritenga non compatibili con norme comunitarie CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 stizia per la corretta interpretazione della normativa comunitaria. Sicuramente un passo importante per districarsi nell’ampio panorama normativo, anche in vista della adesione della UE alla CEDU. aventi efficacia diretta; che detto giudice, al fine dell'interpretazione delle pertinenti norme comunitarie, necessaria per l'accertamento della conformità della norme interne con l'ordinamento comunitario, si avvale, all'occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE di cui all'art. 234 del Trattato CE; che nel caso, come quello di specie, in cui il giudizio pende davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale dallo Stato e ha ad oggetto la legittimità costituzionale di una norma regionale per incompatibilità con le norme comunitarie, queste ultime «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all'art. 117, primo comma, Cost.» (sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004) o, più precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale della norma regionale giudicata incompatibile con tali norme comunitarie; che, in relazione alle leggi regionali, questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi: davanti al giudice comune deve applicarsi la legge la cui conformità all'ordinamento comunitario deve essere da lui preliminarmente valutata; davanti alla Corte costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione di detta conformità si risolve, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma ne dichiara l'illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes; che, pertanto, l'assunzione della normativa comunitaria quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituisce la precondizione necessaria per instaurare, in via di azione, il giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale che si assume essere in contrasto con l'ordinamento comunitario; che, dunque, la censura in esame è ammissibile, perché le norme comunitarie sono state evocate nel presente giudizio di legittimità costituzionale quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituito dall'art. 117, primo comma, Cost.; che, quanto ai limiti entro cui il diritto comunitario può essere preso in considerazione come elemento integrativo del parametro costituzionale evocato nel presente giudizio, va osservato che, in forza del combinato disposto degli artt. 23, 27 e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - secondo cui, nei giudizi in via principale, la Corte costituzionale dichiara quali sono le disposizioni legislative illegittime, nei limiti dei parametri costituzionali e dei motivi di censura indicati nel ricorso -, questa Corte può esaminare esclusivamente le violazioni denunciate dal ricorrente, riguardanti gli artt. 49, 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», e 87 del Trattato CE ...”. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Caso Hirsi ed altri contro Italia L’intervento orale del Governo italiano Cour Européenne des Droits de l’Homme Grande Chambre – Audience 22 juin 2011 Requête n. 27765/09 – Hirsi et autres contre l’Italie Plaidoirie du Gouvernement Italien 1. Dans les affaires dans lesquelles l’Italie est impliquée, elle a agi dans le respect des principes guides dictés par l’Union européenne en matière d’immigration et d’asile. Le Pacte européen sur l’immigration et l’asile, dans le texte n. 13440/08 du 24 septembre 2008, élaboré par le Conseil de l’Union européenne, prévoit entre autres: - Une limitation des flux migratoires car « l’Union européenne n’a toutefois pas les moyens d’accueillir dignement tous les migrants » et d’où la nécessité d’une règlementation; - La nécessité de « lutter contre l’immigration irrégulière, notamment en assurant le retour dans leur pays d’origine ou vers un pays de transit, des étrangers en situation irrégulière »; - Le renforcement de « l’efficacité des contrôles aux frontières »; - La création d’« un partenariat global avec les pays d’origine et de transit ». Plus particulièrement, le Conseil de l’Union, afin de lutter efficacement contre l’immigration clandestine, souligne l’importance d’un « renforcement de la coopération des Etats membres et de la Commission avec les pays d’origine et de transit » et d’une « politique de coopération policière et judiciaire », afin « d’assurer l’éloignement des étrangers en situation irrégulière », et recommande aux Etats membres « le contrôle des frontières extérieures… dans un esprit de co-responsabilité, pour le compte de l’ensemble des Etats membres ». Pour atteindre ces buts, le Conseil a décidé « d’inviter les Etats membres et la Commission à mobiliser tous les moyens disponibles pour assurer un contrôle plus efficace des frontières extérieures terrestres, maritimes et aériennes » et « de donner à l’agence FRONTEX … les moyens d’exercer pleinement sa mission de coordination dans la maîtrise de la frontière extérieure de l’Union européenne ». Le Conseil réaffirme à nouveau la nécessité d’« approfondir la coopération avec les pays d’origine et de transit pour le renforcement du contrôle de la frontière extérieure et la lutte contre l’immigration irrégulière en accroissant l’aide de l’Union européenne pour la formation et l’équipement de leurs personnels chargés de la maîtrise des flux migratoires » et « de conclure au niveau communautaire ou à titre bilatéral des accords avec les pays d’origine et de transit… en vue de dissuader ou combattre l’immigration clandestine ». Les mêmes principes et les mêmes objectifs ont été formulés par le Parlement de l’Union européenne dans sa Résolution du 26 septembre 2007 n. 2006/2250 (cf. en particulier les paragraphes 12, 23 et 24) et dans les « Lignes directrices Frontex » d’avril 2010 (en particulier partie II, ligne directrice 2.1). Pour réaliser ces lignes politiques bien nettes et déterminées, la Commission européenne a CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 ouvert des négociations avec la Libye pour la stipulation d’un accord de collaboration et l’Italie a souscrit avec la Libye à Bengasi le 30 août 2008 le Traité d’amitié, partenariat et coopération, ratifié et entré en vigueur entre janvier et février 2009. 2. Ce traité proclame expressément la nécessité pour chaque partie contractante de respecter les « normes du droit international reconnues universellement » (art. 1) et « les principes de la Charte des Nations Unies et la Déclaration universelle des Droits de l’Homme » (art. 6). L’art. 19 du Traité s’occupe de la Collaboration dans la lutte contre le terrorisme, la criminalité organisée, le trafic des stupéfiants, l’immigration clandestine, en prévoyant, à l’alinéa 3, une étroite collaboration entre les Etats signataires afin de définir des « initiatives, aussi bien bilatérales que dans le cadre régional, pour prévenir le phénomène de l’immigration clandestine dans les Pays d’origine des flux migratoires ». 3. L’Etat italien a par conséquent mis en oeuvre sa politique, pour combattre l’immigration clandestine, en respectant le cadre et les obligations définis par l’Union européenne et le Traité bilatéral avec la Libye. En particulier, l’Italie a, d’une part, réalisé l’invitation de l’Union à stipuler des accords avec les pays frontaliers pour combattre l’immigration clandestine (et la Libye est certainement un pays frontalier avec l’Italie qui s’étend dans la mer méditerranée comme frontière méridionale de l’Union et est sujette plus que n’importe quel autre pays aux flux migratoires via mer) et, d’autre part, a conclu un accord de coopération bilatéral avec la Libye, parallèlement aux négociations en cours entre la Libye et la Commission européenne, comme cela a déjà été précisé. Dans le cadre du Traité bilatéral, l’Etat italien a rappelé les principes généraux du droit international et de sauvegarde des Droits de l’Homme (articles 1 et 6 cités plus haut) tel que guide et engagement pour les signataires ; face à ce rappel expresse et solennel, les éventuelles perplexités faisant suite à la non souscription de la part de la Libye de la Convention de Genève sur les réfugiés de 1951 ont disparu (perplexités, par ailleurs, non justifiées face à la souscription de l’homologue Convention de l’Union africaine – OUA – sur les réfugiés en Afrique). Il faut encore souligner qu’à l’époque de la stipulation du Traité bilatéral d’amitié, les bureaux du Haut Commissariat des Nations-Unies pour les réfugiés et l’Organisation internationale pour les migrations étaient actifs à Tripoli. Les opérations, qui ont été effectuées en haute mer dans les mois qui ont suivi immédiatement l’entrée en vigueur du Traité, doivent être évaluées dans le cadre, décrit ci-dessus, des obligations internationales prises par l’Italie tel qu’Etat membre de l’Union européenne et signataire du Traité bilatéral avec la Libye. 4. Bien entendu, nous ne voulons pas invoquer l’exonération de la responsabilité du seul fait d’avoir mis en oeuvre ces obligations internationales, mais nous voulons souligner, d’une part, que les Organismes représentatifs de l’Union obligeait et oblige toujours d’affronter le problème de la lutte contre l’immigration clandestine par le biais d’accords bilatéraux avec les Pays frontaliers, dans l’intérêt de tous les Etats membres, et d’autre part, que dans le Traité avec la Libye l’Italie s’était préoccupée d’obliger ce pays au respect, entre autres, des principes de la Convention sur les Droits de l’Homme. Ainsi, elle pouvait de façon légitime compter 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sur le respect de ces principes à l’occasion des opérations de lutte contre l’immigration clandestine qui se faisaient en exécution des obligations du Traité. Cet engagement solennel, conjointement aux autres circonstances importantes décrites ci-dessus (présence à Tripoli des bureaux du Haut Commissariat des Nations Unies et de l’Organisation Internationale pour les migrations),justifiaient pleinement la conviction des Autorités italiennes sur la sécurité que garantissait la Libye eu égard au respect des droits des migrants débarqués sur son territoire et, par conséquent justifiaient la restitution à la Libye - comme lieu sûr – des personnes secourues en haute mer et ayant quitté ce pays, en application de l’objectif établi dans l’art.19 du Traité pour prévenir l’immigration clandestine dans les pays d’origine des flux migratoires, avec l’accord qu’à cet endroit ces personnes auraient été traitées dans le respect de leurs droits et auraient pu demander la reconnaissance du statut de réfugié (comme cela s’est en effet produit). En outre, dans le pays de départ il aurait été plus facile d’individualiser et de capturer les affiliés à l’association criminelle qui avait organisé et mené le voyage de ces désespérés. Il n’y avait aucune intention de priver les personnes secourues de leurs droits fondamentaux et de la possibilité de demander et d’obtenir la protection internationale, mais seulement la mise en oeuvre de la politique européenne et italo-libyenne de promouvoir et valoriser la compétence du Pays d’origine ou de transit pour la mise en oeuvre des droits des migrants. Il ne s’agit d’aucune expulsion collective de personnes mais, tout au plus, d’un refus d’entrée sur le territoire national à des personnes privées d’autorisation mais ayant la possibilité de se munir d’une légitimation à l’immigration (grâce, en particulier, à la reconnaissance du statut de réfugié) dans le pays duquel ils étaient partis, comme il était possible à l’époque et comme cela a été possible pour les requérants qui ont obtenu la reconnaissance du statut de réfugié par le bureau du Haut Commissariat des Nations Unies actif à Tripoli. La situation difficile dans laquelle se trouve l’Italie, en tant qu’Etat de frontière de l’Union européenne, et les obligations de protection des frontières et de lutte contre l’immigration clandestine qui incombent à ses Autorités, face aux importants flux migratoires, est prise en considération par l’Assemblée Parlementaire du Conseil de l’Europe dans son rapport du 1er juin 2011 n. 12628 et est à la base du projet de recommandation formulé à l’égard de la position de l’Union. Nous pouvons lire au point 16 de la partie C du Rapport qu’ « il est dans l’intérêt légitime des Etats de garantir leur intégrité territoriale. Tout Etat a donc le droit souverain d’exercer le contrôle de ses frontières et de prendre les mesures jugées nécessaires pour prévenir les entrées illégales sur son territoire». 5. Après la première période de mise en oeuvre du Traité bilatéral, les Autorités italiennes ont pris acte que l’Etat libyen avait ordonné la fermeture du bureau du Haut Commissariat des Nations Unies à Tripoli et de cette façon avait rendu difficile la protection des droits fondamentaux des migrants sur son territoire (voir à ce propos le point 46 du rapport de l’Assemblée Parlementaire cité plus haut). Par conséquent, les modalités de secours des migrants en haute mer ont été modifiées et les personnes à bord des embarcations provenant de la Libye ont été accompagnées sur le territoire italien dans le cas où elles ont été secourues ou ont été, de toute façon, autorisées à accoster sur les côtes de l’île de Lampedusa. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 Tous les journaux rapportent presque quotidiennement des nouvelles concernant cette situation et nous pouvons désormais considérer que l’activité des forces de l’ordre italien pour venir en aide aux migrants est reconnue. Aucune pratique administrative de repoussement en haute mer des migrants ne s’est jamais avérée, et de toute façon, actuellement et depuis longtemps aucun empêchement de rejoindre le territoire italien n’est opposé aux migrants provenant de la Libye et des autres Pays africains (en particulier, de la Tunisie, d’où est né le fameux flux migratoire). Pour ces raisons nous pouvons tranquillement affirmer que les personnes à qui le statut de réfugié politique a été reconnu par le Haut Commissariat des Nations Unies (y compris les requérants) peuvent entrer sur le territoire italien et exerçaient les droits qui leur sont reconnus par la Convention européenne sur les Droits de l’Homme et par les lois nationales, y compris le droit d’accès à une autorité juridictionnelle. Giuseppe Albenzio Avocat de l’Etat Udienza 22 giugno 2011 dinanzi alla Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire Hirsi e altri C. ITALIE – Bozza di intervento orale 1. Nelle vicende di cui è causa l’Italia ha agito nel rispetto dei principi guida dettati dall’Unione Europea in materia di immigrazione e asilo. Il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, nel testo n. 13440/08 del 24 settembre 2008, elaborato dal Consiglio dell’Unione Europea, prevede, fra l’altro: - una limitazione dei flussi migratori perché “l’Unione europea non dispone dei mezzi per accogliere degnamente tutti i migranti” e la conseguente necessità di una loro regolamentazione; - la necessità di “combattere l’immigrazione clandestina, in particolare assicurando il ritorno nel loro paese di origine o in un paese di transito degli stranieri in posizione irregolare”; - il rafforzamento dell’efficacia dei controlli alle frontiere; - la creazione di “un partenariato globale con i paesi di origine e di transito”. In particolare, il Consiglio dell’Unione, al fine di una efficace lotta all’immigrazione clandestina, sottolinea l’importanza di una “cooperazione degli Stati membri e della Commissione con i paesi di origine e di transito” anche per l’attività “di polizia e giudiziaria”, al fine di “assicurare l’allontanamento degli stranieri in posizione irregolare”, e raccomanda agli Stati membri “il controllo delle frontiere esterne… in uno spirito di corresponsabilità, per conto dell’insieme degli Stati membri”. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Per assicurare il raggiungimento di questi scopi, il Consiglio conviene di “invitare gli Stati membri e la Commissione a mobilitare tutti i mezzi disponibili per assicurare un controllo più efficace alle frontiere esterne terrestri, marittime e aeree” e di “dotare l’agenzia FRONTEX… dei mezzi per esercitare pienamente la sua missione di coordinamento del controllo della frontiera esterna dell’Unione europea”. Ancora, il Consiglio ribadisce la necessità di “approfondire la cooperazione con i paesi di origine e transito per rafforzare il controllo della frontiera esterna e combattere l’immigrazione clandestina aumentando l’aiuto dell’Unione europea per la formazione e l’equipaggiamento del personale incaricato del controllo dei flussi migratori” e stipulando “a livello comunitario o bilaterale accordi con i paesi di origine e di transito… per scoraggiare o combattere l’immigrazione clandestina”. Gli stessi principi e gli stessi obiettivi erano stati formulati dal Parlamento dell’Unione europea nella Risoluzione 26 settembre 2007 n. 2006/2250 (si vedano, in particolare, i paragrafi 12, 23, 24) e nella Direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 (art. 2, comma 2, lett. A). In attuazione di queste linee politiche ben nette e determinate, la Commissione europea ha aperto trattative con la Libia per la stipulazione di un accordo di collaborazione e l’Italia ha sottoscritto con la Libia a Bengasi il 30 agosto 2008 il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, ratificato ed entrato in vigore fra gennaio e febbraio 2009. 2. Questo Trattato proclama espressamente la necessità per entrambe le parti contraenti di rispettare le “norme del diritto internazionale universalmente riconosciute” (art. 1) e i “principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (art. 6). L’art. 19 del Trattato si occupa della Collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina, prevedendo, al comma 3, una stretta collaborazione fra gli Stati firmatari al fine di definire “iniziative, sia bilaterali sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori”. 3. Lo Stato italiano ha, quindi, attuato la sua politica di contrasto alla immigrazione clandestina nell’ambito e secondo gli obblighi definiti dall’Unione europea e dal Trattato bilaterale con la Libia. In particolare, da un lato, l’Italia ha attuato l’invito dell’Unione a stipulare accordi con i paesi di frontiera per il contrasto dell’immigrazione clandestina (e la Libia è certamente Stato di frontiera per un Paese, quale l’Italia, proteso nel mare Mediterraneo come confine meridionale dell’Unione e soggetto più di ogni altro Stato membro ai flussi migratori via mare) e, dall’altro, ha raggiunto un accordo di cooperazione bilaterale con la Libia, contestualmente alle trattative aperte, come già detto, anche dalla Commissione europea. Nell’ambito del Trattato bilaterale, lo Stato italiano si è preoccupato di richiamare i principi generali del diritto internazionale e della salvaguardia dei diritti dell’uomo (articoli 1 e 6 sopra citati) quale guida ed impegno per entrambi i firmatari; a fronte di tale espresso e solenne richiamo vengono meno le eventuali perplessità conseguenti alla mancata sottoscrizione da parte della Libia della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 (peraltro non giustificate a fronte della sottoscrizione dell’omologa Convenzione dell’Unione africana - OUA - sui rifugiati in Africa). Occorre, ancora, sottolineare che all’epoca della stipulazione del Trattato bilaterale di amicizia erano operanti in Tripoli uffici dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Le operazioni effettuate in alto mare nei mesi immediatamente successivi alla entrata in vigore del Trattato vanno inquadrate e valutate nel descritto quadro di impegni internazionali assunti dall’Italia quale Stato membro dell’Unione europea e firmatario del Trattato bilaterale con la Libia. 4. Non vogliamo, certo, invocare l’esonero da responsabilità per il solo fatto di aver dato attuazione a quegli impegni internazionali ma vogliamo sottolineare che – da un lato – gli Organismi rappresentativi dell’Unione imponevano e impongono di affrontare il problema della lotta all’immigrazione clandestina anche mediante accordi bilaterali con i Paesi frontalieri, nell’interesse di tutti gli Stati membri, e che – dall’altro lato – nel Trattato con la Libia l’Italia si era preoccupata di vincolare quel Paese al rispetto, fra l’altro, dei principi della Convenzione sui diritti dell’uomo, così che poteva legittimamente fare affidamento sul rispetto di questi principi in occasione delle operazioni di lotta alla immigrazione clandestina che venivano poste in essere in esecuzione degli obblighi del Trattato. Questo solenne impegno, unitamente alle altre circostanze rilevanti sopra descritte (presenza in Tripoli di uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per le Migrazioni), ben giustificavano la convinzione delle Autorità italiane sulla raggiunta sicurezza della Libia riguardo al ri- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 spetto dei diritti dei migranti sbarcati sul suo territorio e, quindi, giustificavano la restituzione alla Libia – quale luogo sicuro – delle persone soccorse in alto mare e partite da quel Paese, in attuazione dell’obiettivo sancito nell’art. 19 del Trattato di prevenire l’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori, con l’intesa che lì sarebbero state trattate nel rispetto dei loro diritti ed avrebbero potuto richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato (come in effetti avvenuto). Oltretutto, nel Paese di partenza sarebbe stato più agevole individuare e colpire gli affiliati all’associazione criminale che aveva organizzato e condotto il viaggio disperato. Nessun intento di privare le persone soccorse dei loro diritti fondamentali e della possibilità di richiedere e ottenere la protezione internazionale, solo l’attuazione della politica europea e italo-libica di promuovere e valorizzare la competenza del Paese di origine o di transito per l’attuazione dei diritti dei migranti. Nessuna espulsione collettiva di persone ma, tutt’al più, un rifiuto di ingresso nel territorio nazionale a persone prive di titolo autorizzatorio con la possibilità di munirsi di una legittimazione all’immigrazione (mediante, in particolare, il riconoscimento dello status di rifugiato) nel Paese dal quale erano partiti, come era possibile all’epoca e come è stato in effetti possibile per i ricorrenti che hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite operante in Tripoli. La difficile situazione nella quale si trova l’Italia quale Stato di confine dell’Unione europea e gli obblighi di tutela delle frontiere e di lotta alla immigrazione clandestina che sulle sue Autorità incombono a fronte di flussi migratori pesantissimi, è presa in considerazione dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nel suo Rapporto del 1° giugno 2011 n. 12628 e posta a base del progetto di raccomandazione formulato riguardo alla posizione dell’Unione. Possiamo leggere al punto 16 parte C del Rapporto che “è nell’interesse legittimo degli Stati garantire la loro integrità territoriale. Tutti gli Stati hanno dunque il diritto sovrano di esercitare il controllo delle proprie frontiere e di prendere le misure giudicate necessarie per prevenire gli ingressi illegali sul proprio territorio”. 5. Dopo il primo periodo di attuazione del Trattato bilaterale, le Autorità italiane hanno preso atto che lo Stato libico aveva disposto la chiusura dell’ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite in Tripoli e rendeva in tal modo difficile la tutela dei diritti fondamentali dei migranti sul suo territorio (si veda a questo proposito il punto 46 del Rapporto dell’Assemblea Parlamentare citato sopra). Sono state, quindi, cambiate le modalità di soccorso dei migranti in mare e le persone a bordo delle imbarcazioni provenienti dalla Libia sono state accompagnate in territorio italiano qualora soccorse o, comunque, sono state fatte attraccare negli approdi dell’isola di Lampedusa. Tutti i giornali riportano quasi quotidianamente notizie in tal senso e possiamo considerare ormai di comune conoscenza l’attività che le forze dell’ordine italiane pongono in atto per aiutare i migranti. Nessuna prassi amministrativa di respingimenti in mare dei migranti si è, quindi, mai formata e, ad ogni modo, attualmente e da tempo nessun impedimento al raggiungimento del territorio italiano è opposto ai migranti provenienti dalla Libia e dagli altri Paesi africani (in particolare, dalla Tunisia, da cui si è sviluppato il notevole flusso migratorio a tutti noto). Per queste ragioni possiamo tranquillamente affermare che le persone cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite (compresi gli odierni ricorrenti) ben possono entrare nel territorio dello Stato italiano e qui esercitare i diritti loro riconosciuti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e dalle leggi nazionali, ivi compreso il diritto ad un’istanza giurisdizionale. Giuseppe Albenzio Avvocato dello Stato 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE La Corte di giustizia salva le tariffe forensi massime (Nota a Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, sentenza 29 marzo 2011, causa C-565/08, Commissione / Italia) Wally Ferrante* Con sentenza del 29 marzo 2011, causa C-565/08, Commissione / Italia, la Corte di Giustizia dell’Unione europea – Grande sezione ha respinto il ricorso della Commissione volto a dimostrare l’incompatibilità della legislazione italiana che impone agli avvocati di rispettare tariffe massime con gli articoli 43 e 49 del Trattato CE. In detta decisione, la Corte, pur disattendendo la tesi del Governo italiano secondo la quale nessuna norma di legge prevederebbe l’inderogabilità delle tariffe forensi massime (a differenza di quanto già previsto per le tariffe minime), ha ricordato che una normativa di uno Stato membro non costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libertà di prestazione dei servizi per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio (punto 49). Ha inoltre precisato che l’esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato CE non può essere desunta dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari per prestazioni fornite in Italia, abituarsi alle norme applicabili in tale Stato membro (punto 50), dovendosi ritenere che una tale restrizione esista solo se detti avvocati sono privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci (punto 51). Pertanto, pur affermando il carattere obbligatorio e vincolante delle tariffe massime, la Corte ha ritenuto che la Commissione non abbia dimostrato che la normativa italiana in questione sia tale da pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza, al mercato italiano dei servizi legali, osservando come tale normativa sia caratterizzata da una certa flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati (punto 53). La procedura di infrazione, instaurata inizialmente anche per contestare (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 la compatibilità con gli articoli 43 e 49 del Trattato CE dei minimi tariffari, è proseguita solo in relazione ai massimi a seguito della abrogazione dei minimi tariffari inderogabili con il c.d. decreto Bersani (art. 2 del decreto legge 4 luglio 2006 convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248). In relazione alle tariffe forense minime, va ricordato che la Corte di giustizia, con la sentenza del 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e Macrino, pur ritenendo che le stesse siano compatibili con le regole della concorrenza (articoli 10, 81 e 82 CE), ha affermato che una normativa che vieti in maniera assoluta di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa forense, quale quella italiana, costituisce una restrizione della libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE, spettando comunque al giudice nazionale verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità di applicazione, sia giustificata dagli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia e se le restrizioni che essa impone non appaiano sproporzionate rispetto a tali obiettivi. Esistendo tale precedente, la difesa del Governo italiano si è incentrata, in via principale, sulla contestazione dell’inderogabilità delle tariffe forensi massime e, solo in subordine, si è soffermata sulla giustificabilità della misura, ove considerata restrittiva ai sensi degli articoli 43 e 49 CE, sulla base di imperativi motivi di interesse pubblico, quali l’accesso alla giustizia da parte di tutti i cittadini, la tutela dei destinatari dei servizi e la buona amministrazione della giustizia. Infatti, prima del decreto Bersani, l’inderogabilità delle tariffe a pena di nullità era prevista dall’ordinamento italiano esclusivamente per le tariffe minime ed in particolare dall’art. 24 della legge n. 794 del 1942 e dal decreto ministeriale sulle tariffe forensi n. 127 del 2004, diviso in tre Capitoli, rispettivamente per le prestazioni civili, penali e stragiudiziali e precisamente dall’art. 4, comma 1 del Capitolo I, dall’art. 1, comma 5 del Capitolo II e dall’art. 9 del Capitolo III. E’ invece sempre stato possibile superare le tariffe massime, sia per volontà delle parti, che rimane il primo criterio di determinazione del compenso professionale ai sensi dell’art. 2233 del codice civile, sia da parte del giudice. La tariffa professionale costituisce quindi un criterio sussidiario, utilizzabile solo in mancanza di pattuizione tra le parti e finalizzata comunque ad orientare il giudice nella liquidazione del compenso. Anche l’art. 61, comma 2 del R.D. n. 1578 del 1933 prevede che l’onorario dell’avvocato, salvo patto speciale, è determinato sulla base delle tariffe e “può essere anche maggiore di quello liquidato a carico della parte condannata alle spese” in relazione “alla specialità della controversia o al pregio o al risultato dell’opera prestata”, fermo restando il potere (preventivo o successivo) del Consiglio dell’ordine di verificare la congruità del compenso richiesto. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 La liquidazione del giudice non è quindi vincolante nei rapporti clienteavvocato, potendo le parti concordemente superare l’importo liquidato sulla base delle tariffe forensi. Il decreto Bersani ha altresì abrogato il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti ed è quindi incontestabile, anche sotto tale profilo, la possibilità di superare i massimi tariffari con il c.d. patto di quota lite in cui il compenso, parametrato in percentuale sul risultato della lite, è determinato sulla base di un metodo di calcolo forfetario che prescinde del tutto dalle diverse voci della tariffa. Peraltro, il superamento del tetto massimo della tariffa era comunque già consentito in tutte le cause di particolare importanza, complessità o difficoltà per le questioni giuridiche trattate, e quindi tutt’altro che in ipotesi limitate o eccezionali. Infatti, le parti possono stabilire, senza alcun necessario parere del Consiglio dell’ordine, l’aumento fino al doppio dei massimi di tariffa per la materia civile (art. 5, comma 2 del Capitolo I) e fino al quadruplo per la materia penale (art. 1, comma 2 del Capitolo II del D.M. 8 aprile 2004 n. 127). Il previo parere del Consiglio dell’ordine è invece richiesto, in caso di straordinaria importanza della controversia per la materia civile (art. 5, comma 3 del Capitolo I) e stragiudiziale (art. 1, comma 3 del Capitolo III), per aumentare il compenso fino al quadruplo nonché, in caso di manifesta sproporzione tra la prestazione professionale e l’onorario previsto dalla tariffa, per aumentare il compenso anche oltre tale limite (art. 4, comma 2 del Capitolo I, art. 1, comma 3 del Capitolo II e art. 9 del Capitolo III). Ricorrendo tali circostanze, dunque, il massimo tariffario può essere superato senza alcun limite. Esaminate tali argomentazioni, la Corte di giustizia non ha nemmeno affrontato la questione della giustificabilità della misura, non ritenendone provata la natura restrittiva della libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. Infatti, sebbene la Corte abbia affermato il carattere vincolante delle tariffe massime, ha ritenuto che la loro applicazione non comportasse comunque una preclusione per i legali di altri Stati membri di penetrare nel mercato italiano in condizioni normali di concorrenza. Alla luce di tali principi andrà quindi valutata la compatibilità con le norme dell’Unione dei minimi tariffari reintrodotti nel disegno di legge di riforma della professione forense già approvato da un ramo del Parlamento. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 Corte di giustizia (Grande Sezione) sentenza 29 marzo 2011 nella causa C-565/08 - Pres. A. Tizzano, Rel. U. Lõhmus, Avv. gen. J. Mazák - Commissione europea / Repubblica italiana. «Inadempimento di uno Stato – Artt. 43 CE e 49 CE – Avvocati – Obbligo di rispettare tariffe massime in materia di onorari – Ostacolo all’accesso al mercato – Insussistenza» (Omissis) 1 Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di constatare che, prevedendo disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE. Contesto normativo nazionale 2 La professione di avvocato è disciplinata in Italia dal regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore legale (GURI n. 281, del 5 dicembre 1933, pag. 5521), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (GURI n. 24, del 30 gennaio 1934), come successivamente modificato (in prosieguo: il «regio decreto legge»). In base agli artt. 52-55 del regio decreto legge, il Consiglio nazionale forense (in prosieguo: il «CNF») è istituito presso il Ministero della Giustizia ed è costituito da avvocati eletti dai loro colleghi, in numero di uno per ciascun distretto di Corte d’appello. 3 L’art. 57 del regio decreto legge prevede che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati ed ai procuratori in materia tanto civile, penale quanto stragiudiziale sono stabiliti ogni biennio con deliberazione del CNF. Tali criteri devono essere successivamente approvati dal Ministro della Giustizia, sentito il parere del Comitato interministeriale dei prezzi e previa consultazione del Consiglio di Stato. 4 Ai sensi dell’art. 58 del regio decreto legge, i criteri di cui all’art. 57 del medesimo decreto sono stabiliti con riferimento al valore delle controversie e al grado dell’autorità giudiziaria adita, nonché, per i giudizi penali, alla durata degli stessi. Per ogni atto o serie di atti devono essere fissati un limite massimo ed un limite minimo dell’importo degli onorari. In materia stragiudiziale occorre tenere conto dell’importanza dell’affare. 5 L’art. 60 del regio decreto legge stabilisce che la liquidazione degli onorari è fatta dall’autorità giudiziaria sulla base dei citati criteri, tenendo conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Tale liquidazione deve mantenersi entro i limiti massimi e minimi previamente fissati. Tuttavia, nei casi di straordinaria importanza, tenuto conto della specialità delle controversie e qualora il valore intrinseco della prestazione lo giustifichi, il giudice può oltrepassare il limite massimo. Viceversa egli può, quando la causa risulta di facile trattazione, fissare onorari in misura inferiore al limite minimo. In entrambi i casi la decisione del giudice dev’essere motivata. 6 Ai sensi dell’art. 61, n. 1, del regio decreto legge, gli onorari praticati dagli avvocati nei confronti dei propri clienti, in materia sia giudiziale che stragiudiziale, sono determinati, salvo patto speciale, in base ai criteri di cui all’art. 57, tenuto conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Conformemente al n. 2 del medesimo articolo, tali onorari possono essere maggiori di quelli liquidati a carico della parte condannata alle spese se la specialità della controversia o il valore della prestazione lo giustificano. 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 7 L’art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile (GURI n. 172, del 23 luglio 1942), prevede che sono inderogabili gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati, a pena di nullità di qualsiasi accordo derogatorio. 8 L’art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, sulla libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini di altri Stati membri della Comunità europea (GURI n. 42, del 12 febbraio 1982, pag. 1030), che recepisce la direttiva del Consiglio 22 marzo 1977, 77/249/CEE, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU L 78, pag. 17), estende l’obbligo di rispettare le tariffe professionali in vigore agli avvocati di altri Stati membri che svolgono in Italia attività giudiziali e stragiudiziali. 9 I diritti e gli onorari degli avvocati sono stati successivamente disciplinati da più decreti ministeriali di cui gli ultimi tre sono il D.M. 24 novembre 1990, n. 392, il D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, e il D.M. 8 aprile 2004, n. 127. 10 Conformemente alla deliberazione del CNF allegata al decreto ministeriale 8 aprile 2004, n. 127 (GURI n. 115, del 18 maggio 2004; in prosieguo: la «deliberazione del CNF»), le tariffe applicabili agli onorari degli avvocati si suddividono in tre capitoli, vale a dire il capitolo I, relativo alle prestazioni giudiziali in materia tanto civile, amministrativa quanto fiscale, il capitolo II, concernente le prestazioni giudiziali in materia penale, e il capitolo III, riguardante le prestazioni stragiudiziali. 11 Per il capitolo I, l’art. 4, n. 1, della deliberazione del CNF vieta qualsiasi deroga agli onorari e diritti stabiliti per le prestazioni degli avvocati. 12 Per quanto riguarda il capitolo II, l’art. 1, nn. 1 e 2 di suddetta deliberazione dispone che, per la determinazione dell’onorario di cui alla tabella, deve tenersi conto della natura, complessità e gravità della causa, delle contestazioni e delle imputazioni, del numero e dell’importanza delle questioni trattate e della loro rilevanza patrimoniale, della durata del procedimento e del processo, del valore della prestazione effettuata, del numero di avvocati che hanno collaborato e condiviso la responsabilità della difesa, dell’esito ottenuto, anche avuto riguardo alle conseguenze civili, nonché delle condizioni finanziarie del cliente. Per le cause che richiedono un particolare impegno, per la complessità dei fatti o per le questioni giuridiche trattate, gli onorari possono giungere fino al quadruplo dei massimi stabiliti. 13 Per quanto concerne il capitolo III, l’art. 1, n. 3, della deliberazione del CNF sancisce che, nelle pratiche di particolare importanza, complessità e difficoltà, il limite massimo degli onorari può essere aumentato fino al doppio e quello degli onorari per le pratiche di straordinaria importanza fino al quadruplo, previo parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente. L’art. 9 di tale deliberazione precisa che, nell’ipotesi di manifesta sproporzione, per particolari circostanze del caso, tra la prestazione e gli onorari previsti dalla tabella, su parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente, i massimi possono essere maggiorati anche oltre quanto previsto dall’art. l, n. 3, della deliberazione in parola e i minimi possono essere diminuiti. 14 Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (GURI n. 153, del 4 luglio 2006), convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248 (GURI n. 186, dell’11 agosto 2006; in prosieguo: il «decreto Bersani») è intervenuto sulle disposizioni in materia di onorari d’avvocato. L’art. 2 del CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 predetto decreto, intitolato «Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali», ai suoi nn. 1 e 2, dispone quanto segue: «1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; (...) 2. Sono fatte salve le disposizioni riguardanti (...) le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti. Il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale (...)». 15 A norma dell’art. 2233 del codice civile italiano, in generale, il compenso per un contratto di prestazione di servizi, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi in vigore, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso, la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Ogni patto concluso dagli avvocati o i praticanti abilitati con i loro clienti che stabilisca i compensi professionali è nullo se non è redatto in forma scritta. La fase precontenziosa 16 Con lettera di diffida del 13 luglio 2005, la Commissione ha richiamato l’attenzione delle autorità italiane su una possibile incompatibilità di talune disposizioni nazionali, relative alle attività stragiudiziali degli avvocati, con l’art. 49 CE. Le autorità italiane hanno risposto con lettera del 19 settembre 2005. 17 In seguito, la Commissione ha completato due volte l’analisi effettuata nella lettera di diffida. In una prima lettera di diffida supplementare, datata 23 dicembre 2005, la Commissione ha considerato incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE le disposizioni italiane che stabiliscono l’obbligo di rispettare tariffe imposte per le attività giudiziali e stragiudiziali degli avvocati. 18 La Repubblica italiana ha risposto con lettere del 9 marzo, del 10 luglio nonché del 17 ottobre 2006, informando la Commissione della nuova normativa italiana applicabile in materia di onorari degli avvocati, ossia il decreto Bersani. 19 Con una seconda lettera di diffida supplementare, datata 23 marzo 2007, la Commissione, tenendo conto di questa nuova normativa, ha integrato ulteriormente la sua posizione. La Repubblica italiana ha risposto con lettera datata 21 maggio 2007. 20 Con lettera del 3 agosto 2007, la Commissione ha poi chiesto alle autorità italiane informazioni in merito alle modalità di rimborso delle spese sostenute dagli avvocati. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 28 settembre 2007. 21 Non essendo rimasta soddisfatta da tale risposta, il 4 aprile 2008 la Commissione ha trasmesso un parere motivato alla Repubblica italiana, adducendo che le disposizioni nazionali che impongono l’obbligo per gli avvocati di rispettare tariffe massime sono 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE. Tale obbligo risulterebbe, in particolare, dalle disposizioni di cui agli artt. 57 e 58 del regio decreto legge, dall’art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, dall’art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, dalle pertinenti disposizioni dei decreti ministeriali 24 novembre 1990, n. 392, 5 ottobre 1994, n. 585, e 8 aprile 2004, n. 127, nonché dalle disposizioni del decreto Bersani (in prosieguo, complessivamente: le «disposizioni controverse»). Essa ha invitato tale Stato membro ad adottare, entro un termine di due mesi dal ricevimento di tale parere, le misure necessarie per adeguarvisi. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 9 ottobre 2008. 22 Ritenendo che la Repubblica italiana non avesse rimediato all’infrazione addebitatale, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. Sul ricorso Argomenti delle parti 23 Con il suo ricorso la Commissione addebita alla Repubblica italiana di aver previsto, in violazione degli artt. 43 CE e 49 CE, disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime per la determinazione dei propri onorari. 24 Ad avviso della Commissione, detto obbligo deriva dal decreto Bersani che, pur abrogando le tariffe fisse o minime applicabili agli onorari degli avvocati, ha esplicitamente mantenuto l’obbligo di rispettare tariffe massime in nome della protezione dei consumatori. Tale interpretazione sarebbe peraltro confermata dal CNF, dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino nonché dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei rispettivi documenti ufficiali. 25 Il fatto che questo stesso decreto abbia abolito il divieto di stabilire contrattualmente compensi dipendenti dal conseguimento degli obiettivi perseguiti, ossia il cosiddetto «patto del quota lite», non può inficiare la conclusione che il rispetto di tali tariffe massime è ancora obbligatorio in tutti i casi in cui un siffatto patto non sia stato concluso. D’altronde, durante la fase precontenziosa, le autorità italiane non avrebbero mai negato l’obbligatorietà delle tariffe massime di cui trattasi. 26 Del pari, la Commissione sottolinea che le eccezioni previste per le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati non escludono, ma anzi confermano, che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale. 27 La Commissione sostiene che le disposizioni controverse producono l’effetto di disincentivare gli avvocati stabiliti in altri Stati membri a stabilirsi in Italia o a prestarvi temporaneamente i propri servizi e, di conseguenza, configurano restrizioni alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE nonché alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE. 28 Infatti, essa considera che un tariffario massimo obbligatorio, che si applichi indipendentemente dalla qualità della prestazione, dal lavoro necessario per effettuarla e dai costi sostenuti per attuarla, possa rendere il mercato italiano delle prestazioni legali non attraente per i professionisti stabiliti in altri Stati membri. 29 A giudizio della Commissione, tali restrizioni derivano, in primo luogo, dall’obbligo imposto agli avvocati di calcolare i propri onorari in base ad un tariffario estremamente complesso che genera un costo aggiuntivo, in particolare per gli avvocati stabiliti fuori dell’Italia. Nel caso in cui questi avvocati avessero utilizzato fino ad allora un diverso CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 sistema di calcolo dei loro onorari, essi sarebbero obbligati ad abbandonarlo per adeguarsi al sistema italiano. 30 In secondo luogo, l’esistenza di tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati impedirebbe che i servizi degli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana siano correttamente remunerati dissuadendo taluni avvocati, i quali chiedono onorari più elevati di quelli stabiliti dalle disposizioni controverse, dal prestare temporaneamente i propri servizi in Italia, ovvero dallo stabilirsi in tale Stato membro. Infatti, secondo la Commissione, il margine di guadagno massimo è fissato indipendentemente dalla qualità del servizio prestato, dall’esperienza dell’avvocato, dalla sua specializzazione, dal tempo da lui dedicato alla causa, dalla situazione economica del cliente, e, ancor più, dall’eventualità che l’avvocato sia tenuto a spostarsi per lunghi tragitti. 31 La Commissione considera, in terzo luogo, che il sistema di tariffazione italiano pregiudichi la libertà contrattuale dell’avvocato impedendogli di fare offerte ad hoc in determinate situazioni e/o a clienti particolari. Le disposizioni controverse potrebbero dunque comportare una perdita di competitività per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri perché esse privano gli stessi di efficaci tecniche di penetrazione nel mercato legale italiano. Di conseguenza, la Commissione ritiene che le disposizioni controverse costituiscano un ostacolo all’accesso al mercato italiano dei servizi legali per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri. 32 In via principale, la Repubblica italiana contesta non l’esistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di dette tariffe massime, bensì il carattere vincolante delle medesime, sostenendo che esistono numerose deroghe per superare tali limiti, o per volontà degli avvocati e dei loro clienti, o tramite l’intervento del giudice. 33 Secondo tale Stato membro, il criterio principale che consente di fissare gli onorari degli avvocati risiede, a norma dell’art. 2233 del codice civile italiano, nel contratto concluso tra l’avvocato e il suo cliente, mentre il ricorso alle tariffe applicabili agli onorari degli avvocati costituisce soltanto un criterio sussidiario, utilizzabile in mancanza di compenso liberamente fissato dalle parti contrattuali nell’esercizio della loro autonomia contrattuale. 34 Inoltre, gli onorari calcolati su base oraria sarebbero espressamente previsti al punto 10 del capitolo III della deliberazione del CNF come metodo alternativo di calcolo degli onorari in materia stragiudiziale. 35 Del pari, in seguito all’adozione del decreto Bersani, il divieto di concludere un accordo tra cliente ed avvocato, che preveda un compenso dipendente dall’esito della controversia, sarebbe stato definitivamente abolito dall’ordinamento giuridico italiano. 36 Per quanto riguarda le deroghe alle tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati, la Repubblica italiana sottolinea che, in tutte le cause di particolare importanza, complessità o difficoltà per le questioni giuridiche trattate, gli avvocati e i loro clienti possono convenire, senza che sia necessario alcun parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente, che gli onorari vengano aumentati fino al doppio dei massimi di tali tariffe o anche, in materia penale, fino al quadruplo di tali massimi. 37 Il previo parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente sarebbe invece richiesto, in materia sia civile che stragiudiziale, nei casi di straordinaria importanza delle controversie, per aumentare il compenso fino al quadruplo dei massimi previsti nonché, 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 in caso di manifesta sproporzione tra la prestazione professionale e l’onorario previsto dalle tariffe applicabili a tali onorari, per aumentare del pari gli onorari di cui trattasi anche oltre tali massimi. 38 In subordine, la Repubblica italiana sostiene che le disposizioni controverse non contengono alcuna misura restrittiva della libertà di stabilimento o della libera prestazione dei servizi e che gli addebiti della Commissione non sono fondati. 39 Infatti, per quanto riguarda i costi aggiuntivi, l’esistenza di una duplice normativa, ossia quella dello Stato membro d’origine e quella dello Stato membro ospitante, non potrebbe, di per sè, costituire un motivo che consenta di sostenere che le disposizioni controverse sono restrittive poiché le norme professionali in vigore nello Stato membro ospitante sarebbero applicabili agli avvocati provenienti da altri Stati membri in forza delle direttive del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 77/249 e 98/5/CE, volte a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36), indipendentemente dalle norme applicabili nello Stato membro d’origine. 40 Per quanto attiene all’asserita riduzione dei margini di guadagno, le disposizioni controverse prevederebbero in modo dettagliato il rimborso integrale di tutte le spese di missione in base a documenti giustificativi e concederebbero inoltre un’indennità di trasferta per le ore di lavoro perse durante quest’ultima. Tali spese si aggiungerebbero ai diritti, agli onorari e alle spese generali degli avvocati e sarebbero rimborsate, in applicazione del principio di non discriminazione, tanto agli avvocati stabiliti in Italia, che devono spostarsi sul territorio nazionale, quanto agli avvocati stabiliti in altri Stati membri che devono spostarsi in Italia. Giudizio della Corte 41 In via preliminare, va constatato come dall’insieme delle disposizioni controverse emerga che le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati costituiscono norme giuridicamente vincolanti in quanto sono previste da un testo di legge. 42 Pur supponendo che gli avvocati e i loro clienti siano, in concreto, liberi di pattuire contrattualmente il compenso degli avvocati su base oraria o a seconda dell’esito della causa, come fatto valere dalla Repubblica italiana, resta nondimeno il fatto che le tariffe massime continuano ad essere obbligatorie nell’ipotesi in cui non esista un patto tra gli avvocati e i clienti. 43 Peraltro, la Commissione ha giustamente considerato che l’esistenza di deroghe che consentano di superare, in presenza di determinate condizioni, i limiti massimi dell’importo degli onorari portandoli al doppio o al quadruplo o addirittura oltre, conferma che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale. 44 Di conseguenza, non può essere accolto l’argomento della Repubblica italiana secondo cui, nel suo ordinamento giuridico, non esiste alcun obbligo per gli avvocati di osservare tariffe massime per la determinazione dei loro onorari. 45 Per quanto riguarda, poi, l’esistenza di restrizioni alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione di servizi, di cui rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE, da una giurisprudenza costante emerge che siffatte restrizioni sono costituite da misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tali libertà (v., in tal senso, sentenze 15 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 gennaio 2002, causa C-439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I-305, punto 22; 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 11; 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 31, e 4 dicembre 2008, causa C-330/07, Jobra, Racc. pag. I-9099, punto 19). 46 In particolare, la nozione di restrizione comprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri (v., in particolare, sentenze CaixaBank France, cit., punto 12, e 28 aprile 2009, causa C-518/06, Commissione/Italia, Racc. pag. I-3491, punto 64). 47 Nella specie, è pacifico che le disposizioni controverse si applichino indistintamente a tutti gli avvocati che forniscono servizi sul territorio italiano. 48 La Commissione ritiene, tuttavia, che tali disposizioni costituiscano una restrizione ai sensi degli articoli summenzionati, in quanto possono infliggere agli avvocati, stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana e che forniscono servizi in quest’ultimo Stato, costi aggiuntivi generati dall’applicazione del sistema italiano degli onorari nonché una riduzione dei margini di guadagno e dunque una perdita di competitività. 49 A tal riguardo, giova ricordare anzitutto che una normativa di uno Stato membro non costituisce una restrizione ai sensi del Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio (v. sentenza 28 aprile 2009, Commissione/Italia, cit., punto 63 e giurisprudenza ivi citata). 50 L’esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato non può dunque essere desunta dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari per prestazioni fornite in Italia, abituarsi alle norme applicabili in tale Stato membro. 51 Per contro, una restrizione del genere esiste, segnatamente, se detti avvocati sono privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci (v., in tal senso, sentenza CaixaBank France, cit., punti 13 e 14; 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 59, nonché 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45). 52 Orbene, è giocoforza constatare che la Commissione non ha dimostrato che le disposizioni controverse abbiano un tale scopo o effetto. 53 Infatti, essa non è riuscita a dimostrare che la normativa in discussione è concepita in modo da pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui trattasi. Va rilevato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni, inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare l’importo 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 degli onorari. 54 Pertanto, non avendo dimostrato che le disposizioni controverse ostacolano l’accesso degli avvocati provenienti dagli altri Stati membri al mercato italiano di cui trattasi, l’argomentazione della Commissione, diretta alla constatazione dell’esistenza di una restrizione ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE, non può essere accolta. 55 Ne consegue che il ricorso dev’essere respinto. Sulle spese 56 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana non ha chiesto la condanna della Commissione alle spese, si deve decidere che ciascuna parte sopporti le proprie spese. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione europea e la Repubblica italiana sopportano le proprie spese. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 La cancellazione dell’iscrizione all’albo degli avvocati in caso di esercizio concomitante della professione forense e di un impiego come dipendente pubblico a tempo parziale (Nota a Corte di giustizia, Quinta Sezione, sentenza 2 dicembre 2010 nella causa C-225/09, Jakubowska) Luca Ventrella*, Laura Zoppo** La questione pregiudiziale su cui si è pronunciata la Corte di giustizia nella sentenza in esame attiene all’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione europea relative all’esercizio della professione forense ed alla compatibilità con esse della normativa italiana in tema di cancellazione obbligatoria dall’albo degli avvocati dei dipendenti pubblici part-time. Il relativo rinvio è stato disposto dal Giudice di pace di Cortona nell’ambito di una controversia instaurata per ottenere il risarcimento dei danni (quantificati in 200 €) derivanti dal danneggiamento di un’automobile. In tale giudizio l’attrice era infatti rappresentata da due avvocati, entrambi dipendenti pubblici a tempo parziale, i quali, nelle more del procedimento, hanno subito la cancellazione d’ufficio dall’albo professionale in virtù della legge 25 novembre 2003, n. 339. Prima dell’entrata in vigore delle suddetta legge, l’art. 1, commi 56 e 56 bis della legge 23 dicembre 1996, n. 662 consentiva ai pubblici dipendenti part-time di svolgere la professione forense. La nuova normativa ha invece sancito un divieto generale, equiparando i pubblici dipendenti a tempo parziale ai titolari di qualunque altro impiego o ufficio alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione, per i quali era già escluso il contestuale esercizio della professione di avvocato, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578. Essa ha inoltre fissato un termine a favore di coloro che avevano beneficiato del regime previgente e risultavano pertanto iscritti all’albo degli avvocati, onde poter scegliere se conservare il rapporto d’impiego o alternativamente mantenere l’iscrizione all’albo. Infine, in caso di mancata opzione, essa attribuiva ai consigli degli ordini professionali il potere di provvedere d’ufficio alla cancellazione degli avvocati part-time. Il Giudice a quo ha sottoposto alla Corte di giustizia una serie di quesiti concernenti, in particolare, la compatibilità di tale normativa con le regole dell’Unione europea in materia di concorrenza (1), nonché con la disciplina dettata dalla direttiva n. 98/5, volta a facilitare l’esercizio permanente della (*) Avvocato dello Stato. (**) Dottore di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europea, già praticante presso l’Avvocatura dello Stato. (1) E segnatamente con l’art. 81 del Trattato CE, oggi trasfuso, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, nell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Sul primo punto la Corte, richiamando alcuni propri precedenti (2), ha affermato che sussiste la violazione della disciplina europea sulla libera concorrenza tutte le volte in cui uno Stato membro revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica. Poiché però, nel caso di specie, i consigli dell’ordine non hanno alcuna influenza sull’adozione d’ufficio dei provvedimenti di cancellazione, che è prescritta per legge, non vi è, secondo la Corte, alcuna delega a privati dell’esercizio di poteri pubblici. Quanto al secondo aspetto, i Giudici di Lussemburgo hanno innanzitutto precisato che l’obiettivo principale della direttiva n. 98/5 è rappresentato dall’armonizzazione completa dei requisiti preliminari per l’iscrizione nello Stato ospitante. Per contro, le specifiche regole professionali e deontologiche in vigore nei diversi Stati membri non sono state oggetto di alcuna armonizzazione e possono quindi divergere in maniera considerevole le une dalle altre. In particolare, l’art. 8 della citata direttiva riguarda una categoria specifica di tali regole professionali e deontologiche, vale a dire quelle che determinano in quale misura gli avvocati iscritti presso uno Stato membro possono esercitare la professione come lavoratori subordinati di altri avvocati, di associazioni o società di avvocati oppure di imprese pubbliche o private. La norma conferisce quindi a ciascuno Stato il potere di disciplinare ed eventualmente limitare l’esercizio di talune categorie di impieghi pubblici o privati da parte degli avvocati iscritti presso la competente autorità nazionale. Una siffatta autonomia si giustifica, nell’opinione della Corte, con l’esigenza di lasciare gli Stati liberi di far ricorso agli strumenti di volta in volta ritenuti più idonei ad evitare conflitti d’interesse, a garanzia dell’indipendenza e della libertà di mandato dell’avvocato nell’esercizio della professione. In altri termini, l’art. 8, secondo l’interpretazione datane dalla Corte, autorizza lo Stato membro ospitante ad imporre agli avvocati ivi iscritti e che siano impiegati (vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale) presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, indipendentemente dal diverso regime eventualmente vigente nello Stato d’origine, allo scopo di garantire agli avvocati una posizione di piena indipendenza nei confronti dei pubblici poteri e di tutti gli altri operatori di cui non devono subire l’influenza. (2) V. Sentenza della Corte del 19 febbraio 2002 in causa C-35/99, Procedimento penale a carico di Manuele Arduino, con l’intervento di: Diego Dessi, Giovanni Bertolotto e Compagnia Assicuratrice RAS SpA, in Raccolta 2002, pag. I-1529, punto 35; sentenza della Corte del 5 dicembre 2006 in cause riunite C-94/04 e C-202/04, Federico Cipolla c. Rosaria Portolese in Fazari (C-94/04) e Stefano Macrino e Claudia Capoparte c. Roberto Meloni (C-202/04), in Raccolta 2006, pag. I-11421, punto 47. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 Resta però salvo il limite della proporzionalità delle regole adottate rispetto allo specifico obiettivo della prevenzione dei conflitti d’interesse, nonché quello dell’applicazione generalizzata delle regole medesime a tutti gli avvocati iscritti nello Stato, a prescindere dalla circostanza che abbiano ottenuto il titolo professionale nello Stato stesso o in un altro Stato membro, onde evitare che si producano forme di discriminazione alla rovescia. La decisione giunge quindi a conclusioni tutto sommato scontate, come si evince anche dalla circostanza che le osservazioni presentate dalla Commissione e dagli Stati membri intervenuti nel procedimento sono state in larga parte conformi ai principi poi affermati dalla Corte. La sola eccezione è rappresentata dal Governo portoghese, che ha utilizzato argomenti contrastanti, puntualmente smentiti nella motivazione della sentenza in commento. In particolare, esso muoveva dal presupposto che le norme nazionali sull’incompatibilità tra esercizio della professione forense e titolarità di impieghi pubblici non riguardassero la disciplina della professione forense ma piuttosto quella dell’impiego pubblico, mirando a garantire la fedeltà dei pubblici dipendenti alla loro missione pubblica. Conseguentemente, il Portogallo sosteneva che le esigenze sottostanti al divieto di esercizio della professione forense per i dipendenti pubblici part-time, essendo fondate esclusivamente sull’interesse dell’Italia a tutelare la propria funzione pubblica, non potessero essere opposte ad un avvocato proveniente da altro Stato membro e dipendente pubblico del proprio Stato di origine che intendesse esercitare la professione in Italia in regime di stabilimento. Come si è visto, però, la Corte ha negato qualunque fondamento a simili argomentazioni basando le proprie conclusioni sull’esigenza di prevenire i conflitti d’interesse nell’esercizio della professione forense e di evitare ogni forma di discriminazione all’indietro. Può osservarsi, in conclusione, come nel caso in esame una vicenda di modesta portata abbia offerto alla Corte di giustizia l’occasione di affrontare una questione, se non particolarmente complessa dal punto di vista giuridico, comunque piuttosto delicata, come dimostrato anche dall’ordinanza interlocutoria n. 24689, depositata il 6 dicembre scorso, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 339/2003 in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione (3). Orbene, se l’oggetto del procedimento svolto dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea non era costituito tanto dalla valutazione della di- (3) La Corte ha ritenuto “non manifestamente infondata la tesi dei ricorrenti secondo cui la nuova normativa dettata dalla legge del 2003 non avrebbe tenuto nel debito conto delle situazioni già in atto venutesi a creare in applicazione della precedente normativa sconvolgendo in tal modo preesistenti e consolidati equilibri”. Le Sezioni Unite hanno invece dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni concernenti l’asserita violazione del diritto dell’Unione europea. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sciplina nazionale (com’è noto, trattandosi di un rinvio pregiudiziale) quanto dall’interpretazione delle normativa comunitaria, un’eventuale pronuncia della Corte costituzionale comporterebbe invece un’approfondita disamina della disciplina stessa e della sua conformità con i principi fondamentali dell’ordinamento (4). La sorte del divieto di contemporaneo esercizio della professione forense per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale resta quindi ancora incerta, nonostante la declaratoria di non incompatibilità con il diritto dell’Unione europea contenuta nella sentenza in commento. Corte di giustizia (Quinta Sezione) sentenza 2 dicembre 2010 nella causa C-225/09 - Pres. E. Levits, Rel. M. Ilešic, Avv. gen. N. Jääskinen - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Giudice di pace di Cortona (Italia) - Edyta Joanna Jakubowska / Alessandro Maneggia. «Norme dell’Unione relative all’esercizio della professione di avvocato – Direttiva 98/5/CE – Art. 8 – Prevenzione dei conflitti d’interessi – Normativa nazionale che vieta l’esercizio concomitante della professione forense e di un impiego come dipendente pubblico a tempo parziale – Cancellazione dell’iscrizione all’albo degli Avvocati» (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE, della direttiva del Consiglio 22 marzo 1977, 77/249/CEE, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU L 78, pag. 17), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36), nonché dei principi generali della tutela del legittimo affidamento e del rispetto dei diritti quesiti. 2 Detta domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Jakubowska e il sig. Maneggia in merito ad una domanda di risarcimento dei danni, controversia sfociata in un procedimento attualmente pendente dinanzi al Giudice di pace di Cortona, nelle more del quale, a carico degli avvocati che rappresentavano la sig.ra Jakubowska, è stata emessa una delibera di cancellazione dall’albo degli Avvocati di Perugia. (4) Peraltro già effettuata in passato dal Giudice delle leggi, che, con sentenza n. 390 del 2006, ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Cuneo. Tuttavia, come sottolinea la Cassazione, tale pronuncia non ha affrontato né il problema della legittimità della legge n. 339/2003 nella parte in cui estende i suoi effetti anche a coloro che erano già iscritti negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione sulla base della disciplina preesistente al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, né il problema della legittimità del divieto, sopravvenuto a carico di costoro, di continuare l’esercizio dell’attività professionale già legittimamente intrapresa. V. anche l’ordinanza n. 91, depositata il 27 marzo 2009, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 Contesto normativo Il diritto dell’Unione La direttiva 77/249 3 L’art. 1, n. 1, primo comma, della direttiva 77/249 così recita: «La presente direttiva si applica, nei limiti e alle condizioni da essa previst[i], all’attività di avvocato esercitata a titolo di prestazione di servizi». 4 L’art. 6 della medesima direttiva prevede quanto segue: «Ogni Stato membro può escludere gli avvocati dipendenti, legati da un contratto di lavoro ad un ente pubblico o privato, dall’esercizio delle attività di rappresentanza e di difesa in giudizio di questo ente nella misura in cui gli avvocati stabiliti in detto Stato non siano autorizzati ad esercitare tali attività». 5 Considerate le differenti versioni linguistiche di tale art. 6, e al fine di garantire che tutte queste versioni abbiano la stessa portata, i termini «ente pubblico o privato» che compaiono nella versione italiana di tale articolo devono essere intesi come riferiti alla nozione di «impresa pubblica o privata». La direttiva 98/5 6 L’art. 3 della direttiva 98/5 così prevede: «1. L’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro. 2. L’autorità competente dello Stato membro ospitante procede all’iscrizione dell’avvocato su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine. (...) (...)». 7 L’art. 6, n. 1, della stessa direttiva così dispone: «Indipendentemente dalle regole professionali e deontologiche cui è soggetto nel proprio Stato membro di origine, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante per tutte le attività che esercita sul territorio di detto Stato». 8 L’art. 7, n. 1, di detta direttiva così prevede: «Se l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine non ottempera agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante si applicano le regole di procedura, le sanzioni e i mezzi di ricorso previsti nello Stato membro ospitante». 9 L’art. 8 della direttiva 98/5 così recita: «L’avvocato iscritto nello Stato membro ospitante con il titolo professionale di origine può esercitare la professione come lavoratore subordinato di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di un ente pubblico o privato, qualora lo Stato membro ospitante lo consenta agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia». 10 Considerate le differenti versioni linguistiche di tale art. 8, e al fine di garantire che tutte queste versioni abbiano la stessa portata, i termini «ente pubblico o privato» che compaiono nella versione italiana di tale articolo devono essere intesi come riferiti alla nozione di «impresa pubblica o privata». 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 La normativa nazionale 11 L’art. 3, secondo comma, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore legale (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 281 del 5 dicembre 1933), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia n. 24 del 30 gennaio 1934), così dispone: «[L’esercizio, in particolare, della professione di avvocato è] incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni (...) ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni». 12 La legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante misure di razionalizzazione della finanza pubblica (Supplemento ordinario alla GURI n. 303 del 28 dicembre 1996), come modificata dal decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, recante misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 (GURI n. 123 del 29 maggio 1997, pag. 5; in prosieguo: la «legge n. 662/96»), prevede, al suo art. 1, commi 56 e 56 bis, quanto segue: «56. Le disposizioni (...) di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno. 56 bis. Sono abrogate le disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali per i soggetti di cui al comma 56. Restano ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l’iscrizione ad albi professionali e per l’esercizio delle relative attività. Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione». 13 La legge 25 novembre 2003, n. 339, recante norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato (GURI n. 279 del 1° dicembre 2003, pag. 6; in prosieguo: la «legge n. 339/2003»), entrata in vigore il 2 dicembre 2003, al suo art. 1 così dispone: «Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge [n. 662/96] non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni». 14 L’art. 2 della stessa legge ha il seguente tenore: «1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge [n. 662/96] e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d’impiego, dandone comunicazione al consiglio dell’ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell’iscritto al proprio albo. 2. Il pubblico dipendente, nell’ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma l, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l’iscrizione all’albo degli avvocati. 4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l’opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell’opzione presso l’Amministrazione di appartenenza. In tal caso l’anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione». Causa principale e questioni pregiudiziali 15 La sig.ra Jakubowska ha convenuto il sig. Maneggia dinanzi al Giudice di pace di Cortona per il pagamento di una somma di EUR 200 a titolo di risarcimento dei danni, in ragione del fatto che quest’ultimo aveva accidentalmente danneggiato l’automobile di sua proprietà. 16 Nell’ambito di tale controversia, la sig.ra Jakubowska si è fatta rappresentare dagli avv.ti. Mazzolai e Nardelli, iscritti all’albo degli Avvocati di Perugia. Questi ultimi, in quanto dipendenti pubblici con impiego a tempo parziale, rientravano nell’ambito di applicazione dell’art. 1, commi 56 e 56 bis, della legge n. 662/96. 17 Dopo l’entrata in vigore della legge n. 339/2003 e la scadenza del termine prescritto dall’art. 2, n. 1, della stessa, il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, in pendenza del procedimento a quo dinanzi al giudice del rinvio, ha emesso due delibere che disponevano la cancellazione di detti avvocati da tale albo. 18 La sig.ra Jakubowska ha presentato una memoria nella quale chiedeva che i suoi avvocati fossero autorizzati a continuare a rappresentarla, adducendo che la legge n. 339/2003 è contraria al Trattato CE nonché ai principi generali della tutela dell’affidamento legittimo e del rispetto dei diritti quesiti. 19 In tale contesto, il Giudice di pace di Cortona ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le questioni seguenti: «1) Se gli artt. 3, lett. g), [CE], 4 [CE], 10 [CE], 81 [CE] e 98 [CE] debbano essere interpretati in modo da ritenere che ostino ad una disciplina nazionale, quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003], che reintroducono l’incompatibilità all’esercizio della professione forense da parte dei dipendenti pubblici part-time e negano agli stessi, pur in possesso di un’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, l’esercizio della professione disponendone la cancellazione dall’albo degli avvocati con provvedimento del competente consiglio dell’ordine degli avvocati, salvo che il pubblico dipendente opti per la cessazione del rapporto di impiego. 2) Se gli artt. 3, lett. g), [CE], 4 [CE], 10 [CE] e 98 [CE] debbano essere interpretati in modo da ritenere che ostino ad una disciplina nazionale, quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003] (...). 3) Se l’art. 6 della direttiva [77/294] (...) debba essere interpretato in modo da ritenere che esso osti ad una disciplina nazionale quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003] (...) laddove tale disciplina nazionale sia applicabile 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 anche agli avvocati dipendenti che esercitano l’attività forense in via di libera prestazione dei servizi. 4) Se l’art. 8 della direttiva [98/5] (...) debba essere interpretato in modo da ritenere che esso non si applichi all’avvocato dipendente pubblico part time. 5) Se i principi generali di diritto [dell’Unione] della tutela del legittimo affidamento e dei diritti quesiti ostino ad una disciplina nazionale quale quella risultante dagli articoli 1 e 2 della legge [n. 339/2003], che introducono l’incompatibilità all’esercizio della professione forense da parte dei dipendenti pubblici part-time e si applicano anche agli avvocati già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge (...), prevedendo all’art. 2 solo un breve periodo di “moratoria” per l’opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione forense». 20 In risposta ai quesiti scritti che sono stati posti dalla Corte ai rappresentanti ad litem della sig.ra Jakubowska, in applicazione dell’art. 54 bis del regolamento di procedura della Corte, l’avv. Nardelli ha prodotto, con lettera del 31 maggio 2010, un’attestazione del consiglio dell’Ordine degli Avvocati dalla quale risulta che egli resta formalmente iscritto all’albo di tale Ordine fino a che a quest’ultimo sia comunicata la data di notifica della delibera del Consiglio nazionale forense recante rigetto del ricorso dell’avv. Nardelli avverso la decisione di cancellazione che lo concerne. 21 Con la stessa lettera, il sig. Nardelli ha informato la Corte che l’avv. Mazzolai aveva rinunciato alla procura conferitagli nella causa principale. Inoltre, ha fatto sapere che la sig.ra Jakubowska aveva conferito una procura ad litem all’avv. Frigessi di Rattalma al fine di rappresentarla all’udienza dinanzi alla Corte. Sulle questioni pregiudiziali Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali 22 Preliminarmente, occorre rilevare che la circostanza che le questioni pregiudiziali non presentino alcun nesso con l’oggetto stesso dell’azione introdotta dalla sig.ra Jakubowska contro il sig. Maneggia non le rende irricevibili. Infatti, dette questioni mirano a consentire al giudice del rinvio di valutare la legittimità di una normativa nazionale la cui applicazione ha suscitato un incidente processuale nella causa principale. Dato che detto incidente fa parte di tale causa, è consentito al giudice interrogare la Corte in merito all’interpretazione delle norme del diritto dell’Unione che, a suo avviso, sono pertinenti al riguardo. 23 Senza rimettere in discussione la possibilità di un siffatto rinvio pregiudiziale, taluni governi che hanno presentato osservazioni alla Corte, nonché la Commissione europea, hanno nondimeno sollevato eccezioni d’irrecevibilità con riferimento alle questioni sottoposte dal Giudice di pace di Cortona. 24 I governi irlandese e austriaco sottolineano che tutti gli elementi della causa principale, relativi alla possibilità che i procuratori ad litem della sig.ra Jakubowska esercitino la professione forense, sono circoscritti all’interno di un solo Stato membro. I problemi di diritto dell’Unione sollevati dal giudice del rinvio sarebbero, quindi, meramente ipotetici e la domanda di pronuncia pregiudiziale dovrebbe, per questo motivo, essere dichiarata irricevibile. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 25 Secondo il governo ungherese, la normativa italiana menzionata dal giudice del rinvio, comunque, esorbita dall’ambito di applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione relative all’esercizio della professione forense, dato che detta normativa nazionale riguarda i dipendenti pubblici, mentre le direttive 77/249 e 98/5 concernono l’esercizio di tale professione da parte di avvocati indipendenti o che lavorano in qualità di lavoratori subordinati di un altro avvocato, di un’associazione o di un’impresa. 26 La Commissione, per parte sua, reputa che la terza questione debba essere considerata come ipotetica e quindi irricevibile, poiché tale questione concerne l’esercizio della professione forense a titolo di prestazione di servizi, mentre la normativa in questione nel procedimento principale riguarda lo stabilimento in qualità d’avvocato. 27 La Commissione esprime anche dubbi quanto alla ricevibilità della quinta questione, alla luce del fatto che la normativa italiana con riferimento alla quale si domanda l’interpretazione di principi generali del diritto dell’Unione non è stata adottata al fine di dare esecuzione ad obblighi imposti alla Repubblica italiana da tale diritto. 28 Alla luce di queste varie eccezioni d’irricevibilità, va rammentato che le questioni pregiudiziali riguardanti il diritto dell’Unione beneficiano di una presunzione di pertinenza. Il rigetto di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v. in tal senso, in particolare, sentenze 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 25, nonché 1° giugno 2010, cause riunite C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 36). 29 Orbene, quanto alla prima, alla seconda e alla quarta questione, non risulta in modo manifesto che l’interpretazione richiesta non abbia alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto dell’incidente processuale intervenuto nell’ambito della causa principale o che la questione sollevata sia di tipo ipotetico. 30 Da una parte, occorre ricordare che una legge che si estende a tutto il territorio di uno Stato membro può, eventualmente, pregiudicare il commercio tra Stati membri ai sensi dell’art. 81 CE (v., in tal senso, sentenze 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino, Racc. pag. I-1529, punto 33, nonché Cipolla e a., cit., punto 45). Di conseguenza, la prima e la seconda questione, dirette a determinare se le norme del diritto dell’Unione in materia di concorrenza ostino ad una normativa nazionale quale la legge n. 339/2003, non sono manifestamente prive di pertinenza. 31 Dall’altra parte, per quel che riguarda la quarta questione, occorre rilevare che, come è stato sostenuto all’udienza dal governo italiano e dalla Commissione, la norma sancita dall’art. 8 della direttiva 98/5 non ha solo lo scopo di accordare agli avvocati iscritti in uno Stato membro ospitante con il loro titolo professionale ottenuto in un altro Stato membro gli stessi diritti di cui godono gli avvocati iscritti in detto Stato membro ospitante con il titolo professionale ottenuto nello stesso. Invero, tale norma garantisce anche che questi ultimi non subiscano una discriminazione alla rovescia, il che potrebbe accadere se le norme loro imposte non venissero applicate anche agli avvocati iscritti in detto 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Stato membro ospitante con un titolo professionale ottenuto in un altro Stato membro. 32 Pertanto, il fatto che il procedimento di cancellazione dall’albo degli Avvocati di Perugia, che è alla base delle questioni pregiudiziali, riguardi avvocati che esercitano la professione di cui trattasi in Italia con il titolo professionale ottenuto in tale Stato membro non comporta assolutamente che la quarta questione sollevata sia ipotetica. Al contrario, l’interpretazione richiesta dell’art. 8 della direttiva 98/5 aiuterà il giudice del rinvio a determinare se la legge n. 339/2003 crei una discriminazione alla rovescia in contrasto con il diritto dell’Unione. 33 La ricevibilità della quarta questione pregiudiziale non è, del resto, inficiata dall’argomento del governo ungherese secondo cui la legge n. 339/2003, riguardando i dipendenti pubblici, non disciplina nessuna delle situazioni di cui all’art. 8 della direttiva 98/5, che concerne solo gli avvocati che lavorano in qualità di lavoratori subordinati «di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di [un’impresa pubblica o privata]». 34 Al riguardo occorre ricordare che la deroga richiamata dal governo ungherese – vale a dire l’inapplicabilità del diritto dell’Unione ai dipendenti pubblici – vale unicamente per gli impieghi che comportino una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri e che presuppongano, pertanto, l’esistenza di un particolare rapporto con lo Stato. Per contro, le norme del diritto dell’Unione in materia di libera circolazione restano applicabili ad impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (v. in tal senso, in particolare, sentenze 30 settembre 2003, causa C-405/01, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, Racc. pag. I-10391, punti 39 e 40, nonché 10 dicembre 2009, causa C-345/08, Pesla, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31). 35 Quanto, più precisamente, alla nozione di impresa pubblica che figura all’art. 8 della direttiva 98/5, secondo giurisprudenza consolidata, allorché un ente integrato nell’amministrazione pubblica esercita attività che presentano un carattere economico e non rientrano nell’esercizio di prerogative dei pubblici poteri, esso dev’essere considerato come una siffatta impresa (v., in tal senso, sentenze 27 ottobre 1993, causa C-69/91, Decoster, Racc. pag. I-5335, punto 15; 14 settembre 2000, causa C-343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I-6659, punto 33, nonché 26 marzo 2009, causa C-113/07 P, SELEX Sistemi Integrati/Commissione, Racc. pag. I-2207, punto 82). 36 Da ciò consegue che l’ambito di applicazione della legge n. 339/2003 – la quale, letta in combinato disposto con il regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, cui fa rinvio, riguarda gli avvocati iscritti all’albo di uno degli ordini degli Avvocati della Repubblica italiana che hanno anche un rapporto d’impiego presso una pubblica amministrazione o un’istituzione pubblica soggetta a tutela o a vigilanza della Repubblica italiana o di un suo ente territoriale – coincide con quello dell’art. 8 della direttiva 98/5 per quanto concerne gli avvocati impiegati da un ente che, benché soggetto a vigilanza dello Stato italiano o di uno dei suoi enti locali, costituisca un’«[impresa pubblica] ». 37 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, la domanda di pronuncia pregiudiziale dev’essere considerata ricevibile per quanto concerne la prima, la seconda e la quarta questione sollevate. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 38 Quanto, per contro, alla terza questione, relativa alla direttiva 77/249 e, quindi, all’esercizio della professione di avvocato a titolo di libera prestazione di servizi, si deve necessariamente constatare che una risposta della Corte a tale questione non potrebbe essere utile al giudice del rinvio. Infatti, l’incidente sollevato dinanzi a tale giudice riguarda la questione se la cancellazione di avvocati dall’albo in applicazione della legge n. 339/2003 sia compatibile con il diritto dell’Unione. Come la Commissione ha giustamente fatto osservare, nel presente contesto viene in considerazione lo stabilimento in qualità d’avvocato e, quindi, la materia disciplinata dalla direttiva 98/5, e non l’esercizio della professione forense a titolo di libera prestazione di servizi. 39 Pertanto, la domanda di pronuncia pregiudiziale dev’essere dichiarata irricevibile per quanto concerne la terza questione sollevata. 40 Con riguardo, infine, alla quinta questione, dalla decisione di rinvio risulta che, con tale questione, il Giudice di pace di Cortona invita la Corte ad esaminare, basandosi sulla sua giurisprudenza relativa ai principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto, la modifica in senso sfavorevole risultante, per coloro che vogliono esercitare contemporaneamente la professione forense e un impiego a tempo parziale presso un ente pubblico, dalla legge n. 339/2003, la quale ha posto fine al regime a loro più favorevole, introdotto dalla legge n. 662/96. 41 Orbene, senza che occorra statuire in merito all’argomento d’irricevibilità formulato dalla Commissione con riguardo a tale questione, basti constatare che, comunque, la Corte non può utilmente rispondervi, in mancanza degli elementi necessari per farlo. 42 Quanto al principio della certezza del diritto, per giurisprudenza consolidata una normativa che comporta conseguenze svantaggiose per i singoli dev’essere chiara e precisa, e la sua applicazione dev’essere prevedibile per gli amministrati (sentenza 14 settembre 2010, causa C-550/07 P, Akzo Nobel Chemicals e Akcros Chemicals/Commissione, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 100 e giurisprudenza ivi citata). Ebbene, né la decisione di rinvio né le osservazioni presentate consentono alla Corte di stabilire sotto quale profilo o per quale ragione la chiarezza o la prevedibilità della legge n. 339/2003 sarebbero messe in discussione. 43 Tutt’al più, il giudice del rinvio ha chiarito la questione relativa a tale principio spiegando che la legge n. 339/2003 produce effetti retroattivi, effetti cui osterebbe il principio della certezza del diritto. La pretesa retroattività della legge n. 339/2003 è, tuttavia, manifestamente contraddetta dalla constatazione, anch’essa contenuta nella decisione di rinvio, che l’entrata in vigore di tale legge non pregiudica il diritto di esercizio concomitante conferito, fino a tale entrata in vigore, dalla legge n. 662/96, considerato peraltro che la legge n. 339/2003 instaura un periodo transitorio di tre anni al fine di evitare che il cambiamento da essa introdotto sia immediato. 44 Relativamente al principio della tutela del legittimo affidamento, per giurisprudenza costante gli amministrati non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (sentenza 10 settembre 2009, causa C-201/08, Plantanol, Racc. pag. I-8343, punto 53 e giurisprudenza ivi citata). Alla luce di questa giurisprudenza consolidata, una questione pregiudiziale quale la quinta questione sollevata nell’ambito del presente procedimento non può essere utilmente esaminata dalla 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Corte, in mancanza di una minima descrizione degli elementi dedotti nella causa principale per dimostrare che l’adozione della normativa ivi discussa configura un’ipotesi diversa da quella in cui il legislatore semplicemente modifichi, per l’avvenire, la normativa esistente. 45 Nel caso di specie, il giudice del rinvio si è essenzialmente limitato a spiegare che la legge n. 339/2003 modifica in modo particolarmente sostanziale e, per taluni, sorprendente il regime precedentemente in vigore in forza della legge n. 662/96. Ebbene, si deve constatare che il solo fatto che il legislatore abbia adottato una nuova legge e che quest’ultima sia considerevolmente diversa da quella anteriormente in vigore non offre alla Corte una base sufficiente per procedere ad un prudente apprezzamento della quinta questione. 46 Alla luce di quanto precede, la domanda di pronuncia pregiudiziale è irricevibile anche per quanto concerne la quinta questione sollevata. Nel merito Sulla prima e sulla seconda questione 47 Con la sua prima e la sua seconda questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE ostino ad una normativa nazionale, quale quella risultante dagli artt. 1 e 2 della legge n. 339/2003, che nega ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale, pur in possesso di un’abilitazione all’esercizio della professione forense, l’esercizio di tale professione, disponendone la cancellazione dall’albo degli Avvocati. 48 Se è pur vero che, di per sé, l’art. 81 CE riguarda esclusivamente il comportamento delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, nondimeno tale articolo, letto in combinato disposto con l’art. 10 CE, fa obbligo agli Stati membri di non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere praticamente inefficaci le regole di concorrenza applicabili alle imprese (citate sentenze Arduino, punto 34, nonché Cipolla e a., punto 46). 49 La Corte ha, in particolare, dichiarato che si è in presenza di una violazione degli artt. 10 CE e 81 CE qualora uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 81 CE, o rafforzi gli effetti di tali accordi, oppure revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica (citate sentenze Arduino, punto 35, nonché Cipolla e a., punto 47). 50 Orbene, il fatto che uno Stato membro prescriva agli organi di un’associazione professionale quali i consigli dell’Ordine degli Avvocati dei differenti fori di procedere d’ufficio alla cancellazione dell’iscrizione all’albo degli Avvocati dei membri di tale professione che siano anche dipendenti pubblici a tempo parziale e che non abbiano optato, entro un termine fisso, vuoi per il mantenimento dell’iscrizione a detto albo, vuoi per il mantenimento della relazione di lavoro con l’ente pubblico presso il quale sono impiegati, non è idoneo a dimostrare che tale Stato membro abbia revocato alla propria normativa il suo carattere pubblico. Infatti, i consigli dell’Ordine non hanno alcuna in- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 fluenza per quel che riguarda l’adozione d’ufficio, prescritta per legge, delle decisioni di cancellazione. 51 Per motivi analoghi, non si può ritenere che una normativa nazionale come quella in questione nella causa principale imponga o agevoli accordi in contrasto con l’art. 81 CE. 52 Tali considerazioni non sono affatto inficiate né dall’art. 3, n. 1, lett. g), CE, che prevede l’azione dell’Unione europea per quanto concerne un regime che assicuri che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, né dagli artt. 4 CE e 98 CE, che mirano all’instaurazione di una politica economica nel rispetto del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza. 53 Alla luce di quanto precede, occorre risolvere la prima e la seconda questione sollevate nel senso che gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendone la cancellazione dall’albo degli Avvocati. Sulla quarta questione 54 Come esposto nella decisione di rinvio, con la sua quarta questione, il Giudice di pace di Cortona domanda, in sostanza, se la possibilità lasciata dall’art. 8 della direttiva 98/5 allo Stato membro ospitante di disciplinare e, quindi, se del caso, di limitare l’esercizio di talune categorie di impieghi da parte degli avvocati iscritti in tale Stato valga anche nei confronti degli avvocati che desiderino esercitare uno di tali impieghi solo a tempo parziale. 55 Al fine di risolvere tale questione, giova rammentare anzitutto che, con l’adozione della direttiva 98/5, il legislatore dell’Unione ha inteso, in particolare, porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative ai requisiti d’iscrizione come avvocato (sentenza 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson, Racc. pag. I-8613, punto 64). 56 La Corte ha già precisato che, in considerazione di tale obiettivo della direttiva 98/5, occorre ritenere che essa proceda ad un’armonizzazione completa dei requisiti preliminari per l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante, requisiti essenzialmente limitati alla presentazione a tale autorità di un documento attestante l’iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro di origine (v., in tal senso, sentenza Wilson, cit., punti 65-67). 57 Tuttavia, come risulta inequivocabilmente dall’art. 6 della direttiva 98/5, l’iscrizione in uno Stato membro ospitante di avvocati che esercitano con un titolo ottenuto in uno Stato membro diverso assoggetta tali avvocati all’applicazione delle regole professionali e deontologiche in vigore nello Stato membro ospitante. Ebbene, tali regole, contrariamente a quelle relative ai requisiti preliminari per l’iscrizione, non sono state oggetto di un’armonizzazione e possono quindi divergere considerevolmente da quelle in vigore nello Stato membro d’origine. Del resto, come conferma l’art. 7, n. 1, della stessa direttiva, l’inosservanza di dette regole può portare alla cancellazione dell’iscrizione nello Stato membro ospitante. 58 Occorre constatare che l’art. 8 della direttiva 98/5 riguarda una categoria specifica delle 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 regole professionali e deontologiche richiamate dall’art. 6 della stessa direttiva, vale a dire quelle che determinano in quale misura gli avvocati iscritti possono «esercitare la professione come lavoratore subordinato di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di [un’impresa pubblica o privata]». 59 In considerazione degli ampi termini scelti dal legislatore dell’Unione, si deve ritenere che detto art. 8 ricomprenda tutte le regole che lo Stato membro ospitante ha introdotto al fine di prevenire i conflitti d’interesse che potrebbero, secondo le sue valutazioni, risultare da una situazione nella quale un avvocato sia, da una parte, iscritto all’albo degli Avvocati e, dall’altra, impiegato presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati, un’impresa pubblica o privata. 60 Il divieto imposto dalla legge n. 339/2003 agli avvocati iscritti in Italia di essere impiegati, anche solo a tempo parziale, di un ente pubblico rientra nelle regole di cui all’art. 8 della direttiva 98/5, almeno nei limiti in cui detto divieto concerne l’esercizio concomitante della professione forense e di un impiego presso un’impresa pubblica. 61 Del resto, il fatto che la normativa così introdotta dalla Repubblica italiana possa essere considerata restrittiva non è di per sè censurabile. La mancanza di conflitto d’interessi è, infatti, indispensabile all’esercizio della professione forense ed implica, in particolare, che gli avvocati si trovino in una situazione di indipendenza nei confronti dei pubblici poteri e degli altri operatori di cui non devono subire l’influenza (v., in tal senso, sentenza 19 febbraio 2002, causa C-309/99, Wouters e a., Racc. pag. I-1577, punti 100-102). Occorre, certo, che le regole stabilite al riguardo non vadano al di là di quello che è necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse. La proporzionalità di un divieto come quello imposto dalla legge n. 339/2003 non deve, tuttavia, essere esaminata nell’ambito della presente questione, che non riguarda tale aspetto. 62 Infine, come già constatato nell’ambito dell’esame della ricevibilità di tale questione, occorre sottolineare che l’art. 8 della direttiva 98/5 implica che le norme dello Stato membro ospitante si applichino a tutti gli avvocati iscritti in tale Stato membro, a prescindere dal fatto che essi esercitino con il titolo professionale ottenuto nello stesso Stato o con quello ottenuto in un altro Stato membro. 63 Con riserva di verifica da effettuare al riguardo da parte dei giudici italiani, non risulta che la legge n. 339/2003 si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e produca in tal modo una discriminazione alla rovescia. Certamente, gli avvocati presi in considerazione da detta legge sono quelli interessati ad esercitare un impiego presso enti soggetti a tutela o a vigilanza della Repubblica italiana o dei suoi enti locali. Tuttavia, almeno nei limiti in cui si tratta di impieghi presso imprese pubbliche, gli avvocati iscritti all’albo di uno degli ordini degli Avvocati della Repubblica italiana e sui quali incide quindi il divieto di esercizio concomitante di un tale impiego possono essere non solo cittadini italiani, bensì anche cittadini di altri Stati membri. 64 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la quarta questione sollevata dichiarando che l’art. 8 della direttiva 98/5 dev’essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti e che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni al- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 l’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro. Sulle spese 65 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: 1) Gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli Avvocati. 2) L’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev’essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro. C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E Conoscibilità e garanzia del contribuente (Nota a Cass. civ., Sez. V, sentenze nn. 6102 e 6114 del 16 marzo 2011) Francesco Meloncelli* SOMMARIO: 1. Due sentenze della Corte di cassazione per due diversi orientamenti culturali o in contrasto tra loro? - 2. Il regime della conoscenza in sede di notificazione - 3. La conoscenza secondo la natura dell’uomo - 3.1. Premessa - 3.2. La conoscenza in sé - 3.3. La conoscenza secondo natura - 4. La conoscenza giuridica - 5. La valutazione delle tesi principali della Corte di cassazione in tema di conoscenza effettiva e di conoscibilità - 5.1. L’effetto della notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria: la conoscibilità e non la conoscenza effettiva - 5.2. La graduazione della conoscibilità - 6. La questione del procedimento di notificazione al contribuente non temporaneamente irreperibile. I. Cassazione civ., Sez. V, sentenza 16 marzo 2011, n. 6102. Contribuente irreperibile - notificazione dell’avviso di accertamento con procedimento ex art. 60.1.e) DPR 29 settembre 1973, n. 600 - riduzione in deroga al procedimento ex art. 140 cpc - ritualità. La notificazione dell'avviso di accertamento al contribuente ex art. 60.1.e) DPR 29 settembre 1973, n. 600, è ritualmente effettuata, se nel comune nel quale deve eseguirsi non v'è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, mediante l'affissione dell'avviso del deposito prescritto dall’art. 140 cpc nell'albo comunale, senza necessità di spedizione mediante raccomandata, e la notificazione stessa si ha per eseguita nell'ottavo giorno successivo a quello di affissione. II. Cassazione civ., Sez. V, sentenza 16 marzo 2011, n. 6114. Contribuente con domicilio eletto nel comune di domicilio fiscale - notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria nel domicilio eletto - obbligo per l’ufficio tributario. Contribuente con domicilio eletto nel comune di domicilio fiscale - notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria nel domicilio fiscale - invalidità. In caso di elezione di domicilio dal parte del contribuente, nel comune di domicilio fi- (*) Avvocato dello Stato. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 scale, ai fini della notificazione degli atti e degli avvisi che lo riguardano, ai sensi dell’art. 60.1.d) DPR 29 settembre 1973, n. 600, la notificazione al domicilio eletto è, per l'amministrazione fiscale, obbligatoria, mentre è invalida la notificazione dell'atto impositivo eseguita in luogo diverso dal domicilio eletto ai sensi dell’art. 140 cpc. 1. Due sentenze della Corte di cassazione per due diversi orientamenti culturali o in contrasto tra loro? Le sentenze della Corte di cassazione 16 marzo 2011, n. 6102 e 6114, sono accomunate dal fatto che, pur affrontando questioni diverse, decidono entrambe sulla conoscenza posseduta dal contribuente. Lette una di seguito all’altra, come mi è capitato di fare per la contemporaneità della loro pubblicazione, mi sono di primo acchitto apparse fondate su visioni culturali contrapposte, perché, mentre la prima si limita a ribadire un consolidato orientamento giurisprudenziale, tendenzialmente restrittivo, in tema di notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria al contribuente irreperibile, la seconda intraprende, a proposito della rilevanza dell’elezione di domicilio, e della sua prevalenza sul domicilio fiscale, un filone interpretativo, per la notificazione dei medesimi atti, favorevole al contribuente. A prima vista sembra che manchi il presupposto perché le due sentenze si pongano in contrasto tra di loro, dal momento che le questioni affrontate sono diverse, ma è netta l’impressione che sotto la superficie della copiosa produzione giurisprudenziale di legittimità in materia tributaria sia avvenuto un movimento significativo, che potrebbe manifestarsi, in futuro, in forti evoluzioni. Se, poi, esse realizzino anche un contrasto, potrà emergere solo dall’approfondimento delle varie questioni che si effettui in occasione del loro esame congiunto. La prima pronuncia affronta la questione della perfezione della notificazione di atti impositivi e la risolve ricorrendo al principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui << la notificazione dell'avviso di accertamento al contribuente DPR 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. e), il quale deroga, in materia, all’art. 140 c.p.c., è ritualmente effettuata quando nel comune nel quale deve eseguirsi non v'è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, mediante l'affissione dell'avviso del deposito prescritto dal citato art. 140 nell'albo comunale, senza necessità di spedizione mediante raccomandata, e la notificazione stessa si ha per eseguita nell'ottavo giorno successivo a quello di affissione, senza, peraltro, che ciò dia adito a dubbi di legittimità costituzionale>>. La seconda sentenza affronta, invece, una questione nuova, consistente nel chiedere se esista alternatività tra il domicilio fiscale del contribuente e il domicilio da lui eletto nello stesso Comune al fine della notificazione di un atto d’imposizione tributaria o se l’ufficio tributario sia vincolato a tener conto solo del secondo e ad indirizzare la sua notificazione al domicilio elettivo, ricorrendo, poi, in caso di irreperibilità, alla notificazione ex art. 140 cpc. Tale CONTENZIOSO NAZIONALE 93 questione viene risolta nel senso che si deve escludere l’alternatività e, quindi, a contrario, si deve affermare l’obbligo, per l’amministrazione tributaria, di notificare l’atto d’imposizione presso il domicilio eletto, con conseguente invalidità della notificazione eseguita presso il domicilio fiscale o, comunque, in un luogo diverso dal domicilio eletto. Testualmente la Corte si esprime così: <>. Le soluzioni adottate dalle due sentenze, pur relative a questioni diverse, sembrano ispirate all’individuazione, da parte della Corte, di un fondamento normativo, in materia di notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria, che, nel primo caso, privilegia l’interesse dell’amministrazione tributaria e, nel secondo caso, privilegia l’interesse del contribuente. Infatti, la sentenza n. 6102 ritiene che, in deroga alla normativa generale, la notificazione degli atti impositivi si perfezioni con la realizzazione di un’operazione procedimentale in meno rispetto al procedimento ordinario di notificazione agli irreperibili e, quindi, facilita il compito dell’amministrazione; la sentenza n. 6114, invece, ancora una volta in deroga alla normativa generale, ma in applicazione analogica della normativa speciale sull’elezione di domicilio effettuata in un contratto, esclude qualsiasi alternatività tra domicilio eletto e domicilio fiscale e privilegia così l’interesse del contribuente. Le due soluzioni sembrano evidenziare una divaricazione di fondo tra orientamenti normativi, che s’ispirano a visioni divergenti dei rapporti tra contribuente e amministrazione tributaria. Lo scopo di questo commento, però, è quello di sostenere che, in realtà, le norme desunte dalla giurisprudenza di legittimità - tradizionalmente o no - dalle lettere c), d) ed e) dell’art. 60 del DPR 29 settembre 1973, n. 600, sono ispirate tutte allo stesso fondamento normativo di particolare tutela del contribuente, pur sempre nell’ambito di un equilibrato bilanciamento coll’interesse erariale. 2. Il regime della conoscenza in sede di notificazione Se tanto può bastare, per il momento, per segnalare la funzione disvelatrice dei fondamenti normativi che è svolta dalla giurisprudenza, un’altra serie di considerazioni è sollecitata dalla seconda delle pronunce segnalate (la n. 6114), il cui esame potrebbe indurre a rivedere anche la posizione assunta dalla Corte nella prima sentenza (la n. 6102). Si tratta del bagaglio concettuale in tema di conoscenza utilizzato nel § 4 della sentenza n. 6114. In essa si afferma che <>. Stabilito, poi, che si è vincolati a fornire, delle norme, un’interpretazione adeguatrice alla L. 27 luglio 2000, n. 212, (Statuto del contribuente), si afferma, con specifico riguardo al suo art. 6, primo comma, primo periodo, per il quale << L'amministrazione finanziaria deve assicurare l'effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati>>, che <<è vero che, con la locuzione "effettiva conoscenza", il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l'assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato a essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui "restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari". E tuttavia resta inteso che ... la corretta esegesi dell'art. 6, comma 1 resta nel senso che esso intende assicurare l'effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorché restino ferme le disposizioni in materia di notifica. / Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell'amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile. / Ampia traccia di simile lettura si rinviene, d'altronde, nella sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell'indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, il cui essenziale periodo motivante è nel riconoscimento che "un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall'esigenza di garantire al notificatario l'effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell'atto notificato e, quindi, l'esercizio del suo diritto di difesa (così C. cost. 2003/360) >>. La Corte fa, poi, riferimento ad un possibile parallelismo con l’art. 141 cpc, affermando che, <<[e]ssendo alla notifica dei mentovati atti o avvisi correlato l'avvio della fase dinamica, preordinata all'attuazione del rapporto obbligatorio d'imposta, è in questo senso agevole cogliere la similitudine con la ratio che sottende l'obbligatorietà della notifica ex art. 141 c.p.c, comma 2, di garantire la conoscenza effettiva del contraente con riguardo alle pretese inerenti alle obbligazioni nascenti dal contratto>>. Il ragionamento seguito dalla Corte e la conclusione cui essa è giunta meritano pieno consenso. Tuttavia, nella sentenza n. 6114 si rinvengono numerose CONTENZIOSO NAZIONALE 95 espressioni che sollevano più d’un problema e meritano una qualche considerazione. Da parte del legislatore, anzitutto, si parla di “assicurazione dell’effettiva conoscenza” degli atti amministrativi d'imposizione tributaria (art. 6.1.1 L. 27 luglio 2000, n. 212); il giudice di legittimità, poi, pur dopo aver preso le distanze dal significato letterale della disposizione legislativa, parla, probabilmente per un mero lapsus, di “garanzia della conoscenza effettiva del contraente come ratio sottesa all’obbligatorietà della notifica ex art. 141.2 cpc”; e ancora, non senza qualche dose di equivocità, di “amplificazione della maggiore garanzia di conoscenza effettiva della funzione propria della notificazione”; s’impiegano, quindi, le espressioni di “conoscibilità legale”, di “conoscibilità effettiva” e di “grado della conoscibilità”, per attribuire, infine, all’espressione legislativa “conoscenza effettiva” il significato di “grado di conoscibilità il più elevato possibile”. In sostanza, se, da un lato, la Corte argomenta bene e conclude altrettanto bene sulla specifica questione sottoposta al suo esame, dall’altro, la scelta delle parole per confezionare la motivazione della sentenza può lasciare qualche dubbio intorno agli istituti giuridici della conoscenza. In particolare, l’esigenza di chiarire le ragioni per le quali la conoscenza effettiva dev’essere tenuta ben distinta dalla conoscibilità e la necessità di approfondire la gradualità della conoscibilità inducono ad una preliminare rivisitazione teorica degli istituti di conoscenza variamente richiamati dalla Corte. 3. La conoscenza secondo la natura dell’uomo 3.1. Premessa E’ necessario, a tal fine, aver chiaro che cosa s’intenda, in natura, per conoscenza, quali specie se ne possano dare e quali ne siano le caratteristiche. Il quadro che si tenterà di delineare, peraltro, non prescinde affatto dall’esperienza giuridica e, in particolare, dall’esperienza normativa, così da descrivere la conoscenza pregiuridica, non come quel fenomeno delicatissimo e complesso che studiosi di altre scienze (filosofia, epistemologia, biologia, neurologia, psicologia, pedagogia ed altre ancora) rendono oggetto delle loro autonome indagini, ma per quei soli aspetti che le norme giuridiche ritengono rilevanti per la regolazione dei rapporti sociali. In questa sede non possiamo che dare per noti i profili della conoscenza naturale che, diffusamente richiamati dalle più diverse norme giuridiche, sono assunti come giuridicamente rilevanti dall’ordinamento giuridico italiano (1), (1) Perciò, mi sia consentito il rinvio, senza pretesa di esaustività, a quegli studi che, nella dottrina giuridica italiana, hanno fornito un contributo durevole in tema di conoscenza: CARNELUTTI, Francesco Teoria giuridica della circolazione [1933].[Napoli], Edizioni scientifiche italiane, 1981, passim; CARNELUTTI, Francesco La prova civile. Roma, Ateneo, 1947, 2. ed., 63-65; PUGLIATTI, Salvatore, La trascrizione. Vol. I - Tomo I. La pubblicita' in generale. Milano, Giuffrè, 1957, passim; FALZEA, Angelo, Accertamento: I. Accertamento: a) Teoria generale, in Enciclopedia del diritto I, 1958, 205 ss.; PU- 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 ma non possiamo esimerci dall’osservare preliminarmente che, in genere, i produttori di norme, così come del resto ha fatto il giudice di legittimità nella sentenza n. 6114, dispongono in tema di conoscenza, senza definire e senza spiegare, ma dando per presupposto che siano sufficienti le parole impiegate perché la loro volontà sia sufficientemente chiara ai destinatari, che debbono conseguentemente darvi attuazione. Tutto ciò premesso, cerchiamo di evidenziare, avendo riguardo ai temi affrontati nella sentenza, quel che il legislatore presuppone, fornendo un quadro dei fenomeni naturali ai quali egli si riferisce quando si occupa di conoscenza. 3.2. La conoscenza in sé Anzitutto, si desume dall’osservazione della realtà che la conoscenza è un fenomeno mentale consistente nella rappresentazione, nell'intelletto di un soggetto, di un oggetto, di un qualsiasi oggetto: la conoscenza è la relazione mentale che collega un soggetto con un oggetto. La seconda constatazione pacifica è che la relazione mentale soggettooggetto è il risultato eventuale di un’attività infungibile del soggetto volta ad acquisire la conoscenza dell’oggetto: la conoscenza come rappresentazione mentale è il risultato positivo, ma eventuale, di un’attività cognitiva del soggetto, la quale è infungibile, perché essa può esser svolta solo dal soggetto conoscente. La conoscenza come attività evidenzia, poi, che il soggetto si attiva e impegna delle energie per passare, attraverso un procedimento che possiamo chiamare cognitivo, da uno stato iniziale di mancanza di conoscenza, o di ignoranza (stato di conoscenza negativa), o di una data specie di conoscenza di un dato oggetto (conoscenza positiva di tipo A), alla condizione finale di conoscenza dell’oggetto positiva o di conoscenza diversa (conoscenza di tipo B) rispetto a quella iniziale. Ancora: a fronte dell’ignoranza di un oggetto, che è sempre la mancanza totale di conoscenza, non si pone un solo stato di conoscenza, che, per esser contrapposto all’ignoranza, è altrettanto totale (conoscenza piena e vera), ma si pongono tanti possibili stati cognitivi di livello intermedio e variamente graduati (per quantità e per qualità). Quanto all’attività cognitiva, l’osservazione della realtà ci segnala che GLIATTI, Salvatore Conoscenza, in Enciclopedia del diritto IX, 1961, 45 ss.; FALZEA, Angelo Fatto di conoscenza [1978], in Angelo FALZEA Voci di teoria generale del diritto, Milano, Giuffrè, 1978, 531 ss.; MELONCELLI, Achille, Pubblicità: e) Diritto pubblico, in Enciclopedia del diritto XXXVII, 1988, 1027. Inoltre, soltanto al fine di fornire una bibliografia recondita sull’intimo collegamento tra gli studi giuridici sulla conoscenza e le indagini al riguardo svolte dalle scienze naturali, sociali e umanistiche, mi sia permesso di rimandare anche al mio volume: MELONCELLI, Francesco, La conoscenza dello stato d'insolvenza nella revocatoria fallimentare. Milano, Giuffrè, 2002, passim. CONTENZIOSO NAZIONALE 97 alla conoscenza di alcunché un soggetto perviene percorrendo due strade: o per via autonoma, cioè da solo, con le sue sole forze, o indirettamente, attraverso l’acquisizione della conoscenza da un altro soggetto. La conoscenza autonoma è di due specie, a seconda dello strumento acquisitivo impiegato: se il soggetto si avvale solo della sua mente, la sua conoscenza è noetica, o per idee, mentre la sua conoscenza è empirica, se egli si serve della sua percezione sensoriale e della conseguente elaborazione intellettiva. La conoscenza derivata è, invece, quella che il soggetto acquisisce per la trasmissione che gliene faccia un altro soggetto che la possedeva prima di lui: colui che trasmette ad altri la propria conoscenza non se ne priva, ma associa i destinatari della trasmissione nella sua precedente conoscenza, cosicché, dopo la trasmissione, la conoscenza diventa comune al trasmittente e ai destinatari. Una volta che la conoscenza sia stata acquisita, direttamente (autonomamente) o indirettamente (derivativamente), essa risiede nella mente del soggetto e costituisce un suo patrimonio esclusivo, ignoto agli altri, fino a quando egli non la manifesti e non la renda disponibile anche a qualcun altro soggetto specificamente determinato o, indeterminatamente, agli altri membri della società. La messa a disposizione di altri della conoscenza di un soggetto viene attuata o attraverso un suo comportamento indirizzato ad altri, cioè con la trasmissione ad altri della sua conoscenza, o con un suo comportamento attivo ridotto, che consiste nella mera realizzazione di una situazione di accessibilità di altri alla sua conoscenza, che devono, perciò, attivarsi per realizzare l’accesso alla fonte della conoscenza. Per la trasmissione della conoscenza o per la sua accessibilità, è necessario che la rappresentazione intellettiva, interna alla mente del soggetto conoscente, sia ulteriormente rappresentata a fini comunicativi, ossia che essa venga convertita in una una forma idonea alla comunicazione con altri. Se l’oggetto della conoscenza è uno stato materiale, ossia una cosa o uno stato di determinate cose o un comportamento materiale umano (operazione), naturalisticamente parlando potrebbe bastare qualunque comportamento idoneo a sollecitare istantaneamente, anche senza possibilità di ripetizione, gli organi di senso altrui, come, per esempio, la produzione di un suono musicale. Senz’altro, tuttavia, la forma di maggior rilievo per il diritto che è idonea e sufficiente alla comunicazione di quei fenomeni materiali è la documentazione, cioè la loro rappresentazione in un documento, che è la cosa materialmente idonea a rappresentare durevolmente una situazione. Se, invece, l’oggetto della conoscenza è uno stato immateriale (idea, pensiero, sentimento), esso si presta ad essere rappresentato quasi esclusivamente attraverso una formulazione semantica del soggetto conoscente, cioè attraverso una dichiarazione; in questo caso la conoscenza dev’essere dapprima codificata e la sua formulazione dev’essere, poi, trasmessa o in forma instabile (comunicazione orale) o in forma stabile, tramite la sua documentazione, ossia la sua rappresentazione in un do- 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 cumento (naturale - marmo, per esempio -, o artificiale, come frutto di una tecnologia (carta, fotografia, documento informatico o altro)). Per instaurare un parallelismo con l’esemplificazione già accennata, si pensi ancora una volta al fenomeno musicale, la cui conoscibilità, anziché essere fornita mediante la produzione del suono da parte del soggetto che vuole associarne altri nella conoscenza, sia da lui perseguita mediante la notazione redatta su uno spartito. Si evidenzia così agevolmente come, a seconda della rappresentazione dell’oggetto da conoscersi, possano ottenersi conoscenze diverse, qualitativamente e quantitativamente. Infine, affinché la conoscenza del soggetto conoscente sia intellettivamente rappresentata anche nella mente di un altro soggetto, non è sufficiente che il primo la renda disponibile per il secondo mediante la trasmissione o l’accesso, ma è sempre necessario che l’altro s’impegni nell’adozione di un comportamento, a volte anche faticoso, di acquisizione della conoscenza altrui. Al termine di tale processo cognitivo la conoscenza diverrà, come ad altro fine s’è appena detto, comune ad entrambi i soggetti, perché la conoscenza acquisita indirettamente da un soggetto circola, non attraverso lo scambio con altri, come se fosse un prodotto ad uso individuale alternativo, ma attraverso l’associazione di altri nella conoscenza del soggetto originario: la derivazione della conoscenza da un soggetto non estingue la conoscenza originaria dell’altro soggetto, ma allarga il numero dei soggetti conoscenti. 3.3. La conoscenza secondo natura Se, ora, per approfondire quell’osservazione della realtà, poc’anzi effettuata, relativa all’attività di conoscenza e al suo risultato, si utilizza il criterio di distinzione statica/dinamica, si può cogliere l’ulteriore intrinseca complessità dialettica del fenomeno cognitivo. Infatti, in ogni fenomeno di conoscenza si rilevano due fasi statiche ed una fase dinamica, perché sempre il soggetto conoscente muove da una condizione iniziale statica di (relativa) ignoranza, per giungere, attraverso un’attività di conoscenza (fase dinamica) ad un’altra condizione statica, questa volta finale, di conoscenza (tendenzialmente) diversa da quella iniziale. L’insieme delle due fasi statiche, iniziale e finale, e della fase dinamica centrale, può esser chiamato ciclo di conoscenza. Le due fasi statiche si distinguono, non solo per la loro diversa posizione, ma anche in base al criterio di contrapposizione tra potenzialità ed effettività: la fase iniziale del ciclo cognitivo è quella della (relativa) ignoranza e dell’eventuale conoscibilità (conoscenza potenziale), nel senso che, quale che sia lo stato in cui versa la mente del soggetto conoscente in un dato momento, egli può trovarsi, oppure no, anche in una condizione a partire dalla quale può iniziare una fase dinamica di un ciclo cognitivo; la fase finale, altrettanto statica, del ciclo cognitivo è quella del conosciuto, cioè del risultato della fase dinamica, e consiste nella conoscenza effettiva prodotta da quel ciclo cogni- CONTENZIOSO NAZIONALE 99 tivo, la quale può sia coincidere ancora con quella iniziale sia essere diversa e costituire una nuova situazione statica iniziale per un’eventuale ulteriore fase dinamica di un nuovo ciclo cognitivo. Quanto alla conoscibilità quale elemento della situazione statica iniziale, valgono le seguenti considerazioni. In natura si dà una sorta di conoscibilità oggettiva, che tuttavia è priva di rilevanza giuridica. Se si fa credito all’uomo di una capacità cognitiva ad incremento potenzialmente illimitato, qualsiasi oggetto potrebbe essere da lui conosciuto e la sfera della conoscibilità coinciderebbe con tutto ciò che gli è attualmente ignoto, cioè con l’infinito, a meno di quell’epsilon, tendente a zero, che gli è, o che gli fosse, riuscito finora di conoscere. Non è questa la conoscibilità rilevante per il diritto, per il quale, invece, conta solo ciò che un singolo soggetto dell’ordinamento, vincolato a conoscere effettivamente, è in condizione di conoscere. Trascurando qui il profilo del vincolo, un soggetto può, in natura, conoscere un oggetto quando si realizzano le seguenti condizioni: che l’oggetto esista, che il soggetto sia dotato di un’idonea capacità di conoscerlo, che si dia al soggetto la possibilità di accedere all’oggetto, cosicché egli possa rappresentarselo intellettivamente. La conoscibilità è, dunque, una condizione statica del soggetto: è una condizione soggettiva, perché indica la posizione del soggetto rispetto all’oggetto; essa è anche, però, una condizione oggettiva, nel senso che qualsiasi soggetto che versasse in essa potrebbe conoscere l’oggetto accessibile. In sostanza, la conoscibilità è una condizione statica oggettiva relativamente soggettiva. Quella parte della fase statica iniziale che è la conoscibilità ha, dunque, una struttura interna articolata in tre elementi. Tra di essi una peculiare attenzione merita la capacità cognitiva, la quale è un dato e, in quanto dato, un elemento naturale. Si consideri, peraltro, che la capacità cognitiva è un elemento variabile in natura, non solo nel senso che non tutti i soggetti ne sono parimenti dotati, ma soprattutto nel senso che, volendo, ogni soggetto può affinare e potenziare la propria. Ora, se, come si verifica, le norme giuridiche sottopongono alcuni soggetti al vincolo di potenziare e di affinare la loro capacità cognitiva, allora, in natura, all’interno di quell’elemento della fase statica della conoscenza che è la capacità cognitiva, è possibile che si avvii un processo dinamico attraverso il quale il soggetto vincolato si attiva per incrementare e migliorare la sua capacità cognitiva. In questo senso, nella conoscibilità può rinvenirsi anche un profilo dinamico. Resta, però, fermo, che rispetto ad un dato oggetto, specificamente individuato, la conoscibilità, che è complessivamente una componente della situazione statica, non basta per modificare lo stato cognitivo del soggetto, pur essendo necessaria per l’inizio fruttuoso della fase dinamica della conoscenza. La fase centrale del ciclo, cioè la fase dinamica dell’attività di conoscenza posta tra le due fasi statiche iniziale e finale, ha, a sua volta, una struttura interna, la quale è costituita da due specie di fenomeni: la percezione, che è 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 l’esplicazione e l’attuazione della percepibilità insita nella conoscibilità, e il comportamento cognitivo, cioè l’esercizio della capacità cognitiva, altrettanto presente nello stato di conoscibilità. Il primo elemento è quello del contatto tra conoscente ed oggetto da conoscere: a seconda della specie di conoscenza realizzabile, conoscenza noetica o conoscenza empirica, il contatto si stabilisce o con le idee del soggetto conoscente cui egli stesso pone mente o con l’oggetto di un rapporto di percepibilità fisica relativo al soggetto di riferimento, anche creato da parte di altri. Il soggetto che aspiri alla conoscenza deve, poi, erogare delle energie per attivare la sua capacità naturale di conoscere e sforzarsi di adottare tutti i comportamenti necessari per ottenere una rappresentazione intellettiva dell’oggetto. Infine, quanto alla situazione statica finale del ciclo, l’esplicazione della capacità di conoscere e lo svolgimento dell’attività cognitiva conduce ad uno stato di conoscenza effettiva, quale che essa sia. Infatti, siccome ogni processo cognitivo conduce dallo stato iniziale di una conoscenza data ad una situazione statica finale di conoscenza diversa, si possono ottenere gradi diversi di conoscenza dell’oggetto, che potrà, in natura, considerarsi piena e vera (quantità e qualità della conoscenza) dopo la realizzazione anche di un solo percorso procedimentale, ma che potrebbe richiedere la reiterazione di più processi cognitivi, secondo una rappresentazione a spirale del processo cognitivo, in base alla quale il risultato ottenuto di volta in volta costituisce il punto di partenza per un ulteriore e più proficuo percorso intellettivo. Quando la conoscenza finale si possa considerare piena e vera è problema da risolvere secondo un criterio di relatività, la cui soluzione dipende dall’oggetto della conoscenza e dallo scopo che si propone il soggetto conoscente. 4. La conoscenza giuridica La descrizione dei fenomeni naturali di conoscenza che si è tentato di effettuare è, qui ed ora, sufficiente per passare all’analisi della conoscenza giuridica. L’attribuzione di rilevanza giuridica alla conoscenza naturale si verifica solo quando la conoscenza è considerata dalla normazione idonea a soddisfare un bisogno di qualche soggetto. A tal fine la conoscenza, o qualcuno dei profili naturali della conoscenza che si sono descritti, dev’essere assunta dalla norma giuridica come elemento della propria struttura per modellare, in relazione ad esso, un rapporto tra due soggetti, utilizzando la tecnica delle situazioni giuridiche soggettive, attive e passive: dalla regolamentazione normativa dei rapporti giuridici si desume quali siano i soggetti che possono vantare una pretesa e i soggetti che sono sottoposti ad un vincolo di conoscere, o di far conoscere, alcunché nei confronti di altri. I dati strutturali del rapporto giuridico di conoscenza emergono così chiaramente: l’oggetto della conoscenza, in ordine al quale si danno soggetti che vantano la pretesa o sono vincolati ad un compor- CONTENZIOSO NAZIONALE 101 tamento cognitivo. Se la pretesa di conoscere si può presentare sotto le due specie del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, che non danno luogo, almeno ai fini dell’oggetto di questa nota, a particolari questioni, il vincolo di conoscere presenta maggiori tratti problematici. Il vincolo di conoscere è, anzitutto, una specie di vincolo che si presta ad essere ulteriormente specificato solo in tre delle quattro possibili specie del generale vincolo giuridico: nel dovere, nell’obbligo, nell’onere, ma non nella soggezione. Infatti, per sua natura, l’acquisizione della conoscenza consiste in un’attività, in un comportamento dinamico volto a rappresentare, nella (memoria “documentale” della) mente di un soggetto, un oggetto che era ignoto prima della sua azione cognitiva. Il comportamento cognitivo è, dunque, incompatibile con l’inerzia tipica della soggezione. L’esclusione della soggezione dalle specie di situazione giuridica passiva proprie del vincolo giuridico è una conseguenza dell’ineliminabile, per la natura delle cose, infungibilità del comportamento cognitivo e del carattere associativo della circolazione della conoscenza. Il soggetto è vincolato a conoscere un dato oggetto, dunque, in quanto sia collocato da una norma giuridica in una delle altre tre specie di vincolo: il dovere di conoscere o l’obbligo di conoscere o l’onere di conoscere. Quel che interessa la nostra tematica è rilevare che, indipendentemente dalla natura del vincolo giuridico, il regime giuridico del comportamento del soggetto vincolato a conoscere si compone dei seguenti elementi: 1) anzitutto, deve figurare nell’ordinamento giuridico una norma giuridica che strutturi, secondo generalità ed astrattezza, un rapporto giuridico in modo tale che un soggetto sia sottoposto, nei confronti di un altro soggetto, al vincolo di conoscere alcunché; 2) in secondo luogo, deve esistere nella realtà di specie ultima l’oggetto della conoscenza astrattamente prefigurato dalla norma; in mancanza dell’oggetto il soggetto titolare della pretesa corrispondente al vincolo non può ritenere che il soggetto vincolato debba attivarsi; 3) in terzo luogo, il soggetto deve esser dotato, o deve fornirsi, di capacità cognitiva adeguata al rapporto giuridico del quale è parte; 4) in quarto luogo, il soggetto deve trovarsi, o deve esser collocato, o deve porsi, nella situazione di poter percepire (condizione di percepibilità fisica); 5) inoltre, il soggetto conoscente deve adottare un comportamento cognitivo idoneo ad acquisire la conoscenza oggetto del vincolo; 6) infine, il soggetto conoscente deve adottare un comportamento conforme alla legge in coerenza con la conoscenza vincolativamente acquisita. Come si vede, la normazione aggiunge molto di suo ai dati naturali della conoscenza. In particolare, però, interessa qui mettere in risalto che lo snodo 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 principale del passaggio dalla realtà extragiuridica alla realtà giuridica è costituito dalla conoscibilità, che, composta com’è dall’oggetto, dalla capacità cognitiva e dalla percepibilità, occupa ben tre delle sei posizioni nell’elenco degli elementi del regime del comportamento cognitivo. Perché sia adempiuto il vincolo è, dunque, molto rilevante, fino ad essere determinante, che il soggetto vincolato “possa” conoscere. Non sempre basta, ma in molti casi è sufficiente. In generale, poi, al fine della prova liberatoria da responsabilità per inosservanza del vincolo di conoscere, è necessario che i soggetti del rapporto cognitivo, provino, secondo le regole che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova per lo specifico rapporto di cui i soggetti del vincolo e della pretesa di conoscere sono parti, l’esistenza o l’inesistenza di ciascuno degli elementi in cui si articola la struttura del vincolo. Questo è il quadro teorico generale del regime della conoscenza, che è necessario, ma anche sufficiente, per valutare la fondatezza delle due principali tesi della sentenza n. 6114: la prima è quella secondo la quale la notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria non svolge, tra le altre funzioni, quella di garantire che il notificatario acquisisca l’effettiva conoscenza, ma quella di garantire il grado più elevato possibile di conoscibilità; la seconda è quella secondo la quale la conoscibilità è graduabile. 5. La valutazione delle tesi principali della Corte di cassazione in tema di conoscenza effettiva e di conoscibilità 5.1. L’effetto della notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria: la conoscibilità e non la conoscenza effettiva La Corte, dando esattamente per scontato che sia impossibile assicurare la conoscenza effettiva di chicchessia, interpreta la formulazione letterale dell’art. 6, comma 1, primo periodo, della L. 27 luglio 2000, n. 212, nel senso di attribuirgli, sulla base del vincolo, per il giudice, d’interpretazione adeguatrice alla normativa di principio contenuta nello Statuto del contribuente, il significato massimo possibile consentito dalla natura delle cose e dalla natura dell’istituto giuridico della notificazione, cioè quello di scegliere tra le varie forme possibili di notificazione, estraibili dalla normativa in tema di notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria, quella che pone il contribuente nella condizione di massima conoscibilità possibile. Quel che la Corte non ha detto, dandolo per implicitamente noto, com’è normale che avvenga in una pronuncia giurisprudenziale, attiene a due ordini di ragioni. La prima risiede nella natura delle cose ed è generale. La descrizione che s’è operata nel § 3 dei fenomeni naturali della conoscenza e l’articolazione del ciclo cognitivo in due fasi statiche, iniziale e finale, e in una fase dinamica intermedia, mostra la netta distanza che separa la conoscibilità dalla cono- CONTENZIOSO NAZIONALE 103 scenza effettiva e la loro diversità strutturale, anche sotto il profilo del contenuto: mentre la conoscibilità rientra nella fase statica iniziale ed è strutturata nei tre elementi dell’oggetto, della capacità cognitiva e dell’accessibilità del soggetto all’oggetto (percepibilità), la conoscenza effettiva è la rappresentazione dell’oggetto nella mente del soggetto, che abbia tratto origine, infungibilmente, dalla fase dinamica del ciclo cognitivo e dalle sue due sottofasi della percezione e del comportamento cognitivo. La Corte, definendo “solenne” l’enunciazione contenuta nell’art. 6, comma 1, primo periodo, dello Statuto del contribuente, secondo cui l’ufficio tributario deve assicurare l’effettiva conoscenza dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria, mette in luce come, in realtà, se si stesse alla lettera della disposizione, si richiederebbe all’amministrazione finanziaria una missione impossibile, perché l’acquisizione della conoscenza di alcunché non può mai avvenire se il soggetto conoscente, pur partendo da una situazione di conoscibilità, non completasse personalmente il ciclo cognitivo, in quanto nessuno può sostituirsi a lui nella percezione e nel comportamento cognitivo. Ne deriva che non esiste una sola tecnica giuridica di trasmissione della conoscenza - la comunicazione, la notificazione, la pubblicazione (orale, a stampa, per deposito, informatica), la pubblicità per registri, la presenza allo svolgimento di una data attività, l’accesso (a documenti o a luoghi) - che riesca ad assicurare, di per sé, al trasmittente e al destinatario della trasmissione che quest’ultimo raggiunga uno stato più significativo della mera possibilità di conoscere l’oggetto trasmesso. La seconda ragione per la quale la notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria non assicura la loro effettiva conoscenza da parte del contribuente consegue, più specificamente, dalla natura giuridica della notificazione, che è idonea a fornire la certezza legale della sola conoscibilità. Secondo la definizione comunemente accolta, infatti, la notificazione è una complessa operazione di conoscenza, attraverso la quale un soggetto (il notificante) - per il tramite di un terzo (notificatore: ufficiale giudiziario, anche in eventuale combinazione coll’ufficiale postale, messo dell’ufficio, avvocato) o, sia pure eccezionalmente, in via diretta - trasferisce nella sfera di disponibilità materiale e, quindi, della percepibilità, di un altro soggetto (notificatario) un documento rappresentativo di una situazione, semantica e/o no, creandosi a favore del notificatario, con la forza della certezza legale, una situazione giuridica oggettiva di conoscibilità e confezionandosi a favore del notificante la prova del trasferimento, comprese le sue modalità soggettive (consegnatario) e oggettive (di luogo e di tempo), del documento al notificatario. Non basta, quindi, un comportamento trasmissivo di conoscenza piuttosto complicato, qual è la notificazione, ad assicurare la conoscenza effettiva del destinatario della trasmissione: la notificazione, ponendo in essere una parte della prima fase del ciclo cognitivo, riesce soltanto a porre il notificatario nella situazione di conoscibilità, cioè lo stato a partire dal quale solo il notificatario 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 può, se lo vuole, completare il ciclo cognitivo e passare dal suo stato iniziale di ignoranza dell’oggetto notificato alla sua conoscenza positiva. Le caratteristiche specifiche della notificazione non riguardano, perciò, l’effetto cognitivo, che è uguale a quello di tutti gli altri istituti di pubblicità ed è costituito dalla creazione della conoscibilità, ma consistono nell’attribuzione della forza di certezza legale alla realizzazione di tale situazione e nella confezione della prova della conoscibilità realizzata. 5.2. La graduazione della conoscibilità Resta da esaminare la seconda tesi della Corte di cassazione, secondo la quale la conoscibilità potrebbe essere graduata, in modo tale che, quando la legge vincoli l’ufficio tributario ad assicurare la “conoscenza effettiva”, da parte del contribuente, dell'atto amministrativo di imposizione tributaria, il destinatario del vincolo deve adottare l’operazione di conoscenza (la notificazione, nel caso in esame) del livello massimo di conoscibilità: secondo le disposizioni normative di specie (art. 60 DPR 29 settembre 1973, n. 600) ciò si realizza con il vincolo a notificare nel luogo del domicilio eletto, con esclusione della notifica all’irreperibile nel domicilio fiscale ai sensi dell’art. 140 cpc. Per la piena valutazione della posizione così assunta dalla Corte possono giovare alcune considerazioni generali sulla graduazione della conoscibilità. Anzitutto, si deve prender atto di questa realtà giuridica: a prestarsi alla graduazione non è la conoscibilità come fenomeno di genere prodotto da un istituto di pubblicità, ma solo la conoscibilità che è prodotta dalle varie specie di ciascun istituto di pubblicità: dato un istituto di pubblicità (comunicazione, notificazione, pubblicazione, pubblicità per registri, presenza, accesso), esso produce una data forma di conoscibilità, che è diversa da quella di tutte le altre, rispetto alle quali, tuttavia, non è possibile redigere una graduazione. Invece, sono le varie specie in cui può manifestarsi ciascun istituto pubblicitario che producono delle forme di conoscibilità che possono essere tra loro graduate. La tesi può essere dimostrata considerando che la natura di ciascuno degli istituti di pubblicità, cioè la loro struttura e la loro funzione, comporta la produzione di tante corrispondenti forme di conoscibilità, ognuna delle quali presenta una forza diversa, che dipende dal carattere attivo (comunicazione, notificazione) o passivo (pubblicazione, pubblicità per registri, presenza, accesso) dell’istituto, dalla determinatezza (comunicazione, notificazione, presenza, accesso)/indeterminatezza (pubblicazione, pubblicità per registri, presenza, accesso) dei soggetti destinatari, dalla tecnica della prova dell’uso dell’istituto e dalla partecipazione al procedimento di pubblici ufficiali con compiti di certificazione (notificazione ordinaria, pubblicità per registri). Se, poi, si raffrontano le conoscibilità prodotte da ciascuno degli istituti di pub- CONTENZIOSO NAZIONALE 105 blicità, si può anche convenire sulla constatazione che la notificazione - che è l’istituto di pubblicità di riferimento nella sentenza n. 6114 - realizzi un grado di conoscibilità molto elevato, perché ha carattere attivo, in quanto è il notificante che si rivolge al notificatario, che è un soggetto determinato, e si avvale, salvo ipotesi minoritarie, dell’intermediazione di un pubblico ufficiale (notificatore), che procura al notificante la prova della ricezione da parte del notificatario, cui la legge attribuisce la forza della certezza legale; invero, se la forza di un istituto si misura in base agli effetti giuridici che si producono, quella della notificazione, pur con la riduzione ai soggetti particolari e determinati cui è destinata, è una forza ben robusta. Tuttavia, pare fuori luogo tentare di stabilire una graduatoria tra le conoscibilità realizzabili dai vari istituti di pubblicità e, in particolare, per la prospettiva che qui interessa, tra il grado di conoscibilità della notificazione e quello degli altri istituti pubblicitari. Basti considerare, per limitarci in questa sede ad un solo confronto, che un pubblico registro, pur operando con carattere di passività, perché è il soggetto conoscente che deve attivarsi per realizzare il contatto con esso, è dotato di generalità, che costituisce un aspetto di forza di grandissimo rilievo; ed è dotato, oltre che di efficacia di certezza legale, di stabilità, perché è tendenzialmente permanente nel tempo, cosicché la sua forza ne viene, sotto questo profilo, sicuramente incrementata. Tanto può bastare per concludere che è vano tentare di stabilire delle graduazioni tra le conoscibilità prodotte da ciascuno degli istituti pubblicitari considerati come genere. Invece, sempre sul piano generale, se si tiene conto della struttura della conoscibilità che s’è poc’anzi illustrata, s’intravvede la possibilità che essa, all’interno di un medesimo istituto pubblicitario, venga graduata discrezionalmente dal legislatore - ossia con la libertà di scelta che gli deriva dalla titolarità del potere d’indirizzo politico, ma con il limite della ragionevolezza -, attraverso la modellazione di ciascuno degli elementi di cui la conoscibilità si compone: dell’oggetto, della sua percepibilità da parte del soggetto e della capacità cognitiva del soggetto conoscente (2). Basandosi sulla struttura e sulla funzione delle specie in cui si manifesta ciascun istituto di pubblicità, si riscontrano, invero, varie possibilità di graduazione. Limitandoci qui, ancora una volta, alla notificazione, è agevole convenire, ad esempio, sul fatto che, nel processo tributario, la notificazione per ufficiale giudiziario e quella mediata da una diversa figura di notificatore producono effetti di conoscibilità diversi, sia con riguardo alla conformità tra la dichiarazione incorporata nel documento originario e quella incorporata nel (2) Non mancano nella più recente giurisprudenza della Corte sentenze che, in particolare, si soffermano acutamente sulla modellazione della capacità cognitiva, così da graduare, in relazione ad essa, anche la conoscibilità. Ci si riferisce a Corte di cassazione 21 gennaio 2011, n. 1364, e 12 maggio 2011, n. 10417. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 documento consegnato al notificatario, sia con riguardo, in sede di appello, all’obbligo per l’ufficiale giudiziario e all’onere per il contribuente, notificante senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, di comunicare alla Commissione tributaria provinciale, autrice della sentenza appellata, la proposizione dell’impugnazione. Analogamente, la scelta delle modalità per la consegna del documento al notificatario può differenziare il grado della conoscibilità: per le notificazioni degli atti d’impugnazione si deve indicare il difensore e non la parte, per assicurare il massimo grado di tempestività della conoscibilità, al fine di consentire la valutazione tecnica della prosecuzione del giudizio che la controparte ha scelto (3). Con specifico riguardo al nostro tema, poi, si può osservare che anche le modalità spaziali della consegna influiscono sul grado della conoscibilità, perché, come ha ben deciso la Corte, graduando i criteri di scelta del luogo della notificazione degli atti amministrativi d’imposizione tributaria, può realizzarsi un diverso grado probabilistico di percepibilità dell’atto notificato: se il contribuente ha eletto domicilio in un luogo diverso da quello del domicilio fiscale, ma pur sempre nell’ambito del Comune di domicilio fiscale - limite posto dalla normativa tributaria in favore dell’amministrazione fiscale - la notificazione nel primo realizza una situazione giuridica oggettiva di conoscibilità di grado più elevato della notificazione che fosse effettuata nel secondo. Conseguentemente, il vincolo, per l’ufficio tributario, a scegliere come luogo della notificazione il domicilio eletto ad esclusione del domicilio fiscale, discende dal principio, malamente formulato dal legislatore, dell’(impossibile) assicurazione della conoscenza effettiva del contribuente. Lo stesso principio, tuttavia, non dovrebbe far dimenticare che, ammesso che lo scopo fissato dal legislatore sia quello di perseguire la maggior probabilità di conoscenza effettiva del contribuente (che vale realizzazione della conoscibilità di grado più elevato possibile), alla notifica presso il domicilio eletto dovrebbe preferirsi la notifica, ovunque essa avvenga, ivi incluso il domicilio fiscale, nelle mani proprie del contribuente, come del resto risulta scontato, se si tiene conto dei dati naturalistici del fenomeno cognitivo descritto e se si considera la normativa speciale contenuta nell’art. 60 DPR 29 settembre 1973, n. 600, ove al primo comma si rinvia all’art. 137, commi 2 e 4, cpc e all’art. 138 cpc e ove alla lett. c) del primo comma si fa <>. (3) Anche la previsione della notifica di un’impugnazione al difensore costituito, piuttosto che direttamente alla parte, può essere vista come un’ipotesi di graduazione della conoscibilità in dipendenza della graduazione della capacità cognitiva. Infatti, solo il difensore è dotato di quella capacità cognitiva tecnica adeguata a conoscere il contenuto di un’impugnazione e ad adottare, quindi, i conseguenti atti di difesa. CONTENZIOSO NAZIONALE 107 6. La questione del procedimento di notificazione al contribuente non temporaneamente irreperibile Ci si potrebbe domandare, a questo punto, tornando a riesaminare la prima sentenza (la n. 6102), se lo stesso ragionamento non possa, o addirittura non debba, per assicurare uniformità alla giurisprudenza della Corte in materia, valere per la diversa ipotesi di notificazione sulla quale il giudice di legittimità si è pronunciato in conformità al proprio precedente consolidato orientamento. Infatti, la mutilazione del procedimento di notificazione ai contribuenti (durevolmente) irreperibili, rispetto a quanto previsto dall’art. 140 cpc richiamato nell’art. 60, comma 1, lett. e) del DPR 29 settembre 1973, n. 600, potrebbe essere ora, dopo la sentenza n. 6114, considerata in contrasto col principio tendenziale previsto nell’art. 6, comma 1, primo periodo, dello Statuto del contribuente. Potrebbe sostenersi, infatti, che, se l’art. 60, comma 1, nelle lett. c) e lett. d), dev’essere letto congiuntamente all’art. 6, comma 1, primo periodo, dello Statuto del contribuente, sulla scia tracciata dalla sentenza della Corte n. 6114, allora anche l’art. 60, comma 1, lett. e), sugli adempimenti da compiersi in caso di notifica all’irreperibile, dovrebbe essere letto alla luce del principio tendenziale contenuto nella predetta disposizione dello Statuto, con la conseguenza che la posizione assunta nella sentenza n. 6102 della Corte non potrebbe più essere considerata tanto pacifica. La rimeditazione, eventualmente anche sotto l’aspetto della compatibilità costituzionale, potrebbe ancorarsi alla suggestiva argomentazione per cui il regime della notificazione dell’atto impositivo tributario dovrebbe - per coerenza subsistematica interna - sempre ispirarsi al principio del maggiore grado di conoscibilità in capo al contribuente (4). In effetti, una volta che la legge abbia richiamato un procedimento (4) Peraltro, la Corte di cassazione, nella sentenza del 3 aprile 2006, n.7773, s’è già espressa per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 60, primo comma, lett. e), del DPR 29 settembre 1973, n. 600: <>. Insomma, il procedimento di notificazione completo carico del contribuente che non abbia abitazione, ufficio o azienda nel comune dove deve essere eseguita la notificazione, è posto l'onere di eleggere domicilio nel luogo del proprio domicilio fiscale, (se vuole evitare una notifica ai sensi dell'art. 140 c.p.c. con affissione presso il Comune) e in ogni caso di comunicare le variazioni dell'indirizzo. Pertanto, in relazione alla proposta questione di legittimità costituzionale del citato art. 60, deve concludersi che la norma in questione appare conformata alla specificità del complessivo rapporto impositivo, nonché strumentale alle esigenze funzionali ed operative dell'Amministrazione, rispondenti all'interesse generale e non al fine di un ingiustificato privilegio per il fisco, laddove, peraltro, la notificazione mediante affissione può essere evitata agevolmente con l'assolvimento di un onere certamente non così gravoso da incidere sulle garanzie del contribuente (sul punto vedi, sia pure con riferimento alla prospettazione di diversa questione di costituzionalità, Cass. n. 12834 del 1995 e n. 9922 del 2003)>>. CONTENZIOSO NAZIONALE 109 previsto dall’art. 140 cpc si applica agli atti d’imposizione tributaria se il contribuente è soltanto temporaneamente irreperibile. In ipotesi d’irreperibilità non temporanea, l’art. 60, comma 1, lett. f), DPR 29 settembre 1973, n. 600, prescrive che alla notifica degli atti tributari non si applichi l’art. 143 cpc, cioè il regime della notificazione a destinatario di residenza, dimora o domicilio sconosciuti, a cui è sostituito, invece, l’art. 60, comma 1, lett. e) dello stesso DPR. Le ragioni sembrano due. In primo luogo, per la legge tributaria il domicilio del contribuente non può darsi per sconosciuto, se non a posteriori, cioè dopo l’effettivo riscontro scaturente dal tentativo di notifica. Infatti, per il comma 1 del predetto art. 58, <>, cioè una serie di norme contenenti presunzioni legali assolute, le quali dal fatto noto di un certo collegamento del soggetto passivo d’imposizione con un luogo dello Stato traggono il fatto ignoto che ivi sia collocato il suo domicilio, rilevante per l’applicazione delle imposte sui redditi, incluse le fasi dell’accertamento e della riscossione. Si tratta di una finzione giuridica che, per un verso, è pro fisco, per l’effetto dell’agevolazione indotta dall’individuazione ex lege del luogo di notifica (v. art. 60, comma 1, lett. c DPR 29 settembre 1973, n. 600), e che, tuttavia, non sembra porsi in contrasto col principio garantistico per il contribuente, dato che, per altro verso, anche al contribuente è reso noto in anticipo il luogo che per legge l’amministrazione dovrà considerare come luogo di notifica, con conseguente possibilità per lui di predisporsi all’eventuale ricezione di atti d’imposizione tributaria proprio in quel luogo. Inoltre, nel descritto regime del domicilio fiscale è lasciato uno spazio all’esplicazione del principio del maggior grado di conoscibilità del contribuente. Invero, al quarto comma del citato art. 58, è data rilevanza alla comunicazione del contribuente all’Erario (<< In tutti gli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentati agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell'indirizzo >>) e, al quinto comma del medesimo art. 58, è prevista l’efficacia immediata della variazione dell’indirizzo comunicata dal contribuente, per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, come non ha mancato di ricordare anche la Corte di cassazione nella sentenza n. 6114. In secondo luogo, dalla presunzione legale di domicilio fiscale discende un vero e proprio onere per il contribuente di tener conto che l’amministrazione fiscale potrebbe notificarvi gli atti d’imposizione tributaria, sicché, se egli non vi viene reperito per causa non temporanea, non potendosi applicare l’art. 143 cpc, perché esso ha per presupposto l’ignoranza incolpevole del domicilio del destinatario, l’art. 60, comma 1, lett. e), DPR 29 settembre 1973, n. 600, richiama il procedimento dell’art. 140 cpc, che è stato strutturato per l’ipotesi in cui si conosca in anticipo, prima della notifica, quale sia il luogo 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 ove è reperibile il destinatario. S’introduce, però, un triplice correttivo che assimila il procedimento a quello previsto nell’art. 143 cpc: l’affissione dell’avviso di deposito, all’albo del comune anziché alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda, la mancanza di necessità di dare notizia del deposito con raccomandata e, infine, la decorrenza più breve (otto giorni anziché venti) per il perfezionamento della notifica dall’affissione dell’avviso. Così, al contribuente che risulti durevolmente irreperibile nel domicilio fiscale, o in quello eletto, si applica soltanto quella fase procedimentale ex art. 140 cpc che non sia resa inutile dall’accertata - e inaspettata - natura durevole dell’irreperibilità, cioè, l’affissione dell’avviso. Si può, allora, sostenere che non sussiste contrasto all’interno della giurisprudenza della Corte, la quale non avrebbe fatto altro che evidenziare un calibrato bilanciamento degli interessi in gioco, previsto dal legislatore e attuato nei limiti della sua discrezionalità. Il differente bilanciamento risponderebbe anche al criterio della ragionevolezza. Infatti, la disposizione normativa in tema di notifica a soggetto durevolmente irreperibile, che è derogatoria rispetto al sistema generale processualcivilistico (art. 140 cpc), che pur vi è richiamato, non si pone realmente in contrasto, all’interno del subsistema tributario, col principio della maggiore conoscibilità possibile da parte del contribuente. L’apparente favore per il Fisco, rispetto al regime ordinario ex art. 140 cpc, è giustificato dal fatto che il contribuente destinatario dell’atto impositivo risulta irreperibile - non temporaneamente - nel luogo che ex ante, cioè anteriormente all’effettuazione del procedimento di notifica, assicuri il massimo grado possibile di conoscibilità in funzione del luogo, cioè nel domicilio eletto, qualora dal contribuente sia esercitata la facoltà di elezione di domicilio, o nel domicilio fiscale, ove, al contrario, la facoltà non sia stata esercitata. Se, in quei luoghi, il contribuente risulti durevolmente irreperibile (ad esempio, perché trasferitosi in luogo sconosciuto), in ragione dell’interesse pubblico erariale all’effettiva riscossione dei tributi è giustificabile un procedimento di notifica accelerato e semplificato, ma pur sempre più complesso di quello previsto dall’art. 143 cpc (obbligatorietà dell’avviso di deposito), in conformità tendenziale al principio previsto nell’art. 6, comma 1, primo periodo, dello Statuto del contribuente. Il diverso trattamento del contribuente temporaneamente irreperibile, per il quale la notifica si perfeziona col decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento, rispetto al contribuente non temporaneamente irreperibile, per il quale la notifica si perfeziona soltanto una volta decorso il termine di otto giorni dall’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio di raccomandata, è commisurato proporzionalmente alla diversa realtà fattuale delle due ipotesi, tenuto conto che è contrastante col principio di buon andamento dell’amministrazione la reiterazione CONTENZIOSO NAZIONALE 111 del tentativo di contatto mediante spedizione di raccomandata nel luogo del domicilio fiscale, ove il contribuente non si è fatto trovare, e così, a maggior ragione, nel domicilio eletto, cioè nel luogo dove egli stesso ha scelto liberamente di fissare la sua reperibilità. Cassazione civile, Sez. V, sentenza 16 marzo 2011, n. 6102 (Pres. M. Adamo, Rel. ed est. R. Polichetti, P.M. E.A. Sepe (difforme)). (Omissis) Svolgimento del processo - Motivi della decisione (...) con i due motivi formulati, con i quali denunciano rispettivamente "violazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 48 disp. att." e "falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in combinato disposto ex art. 137 c.p.c.", nonché vizio di motivazione, i ricorrenti assumono che, ai sensi del citato art. 140, per il perfezionamento della notificazione occorre che siano adempiute tutte e tre le formalità previste dalla norma (deposito dell'atto nella casa comunale, affissione dell'avviso del deposito e spedizione della raccomandata); (... ) il ricorso (...) è manifestamente infondato e va, pertanto, rigettato; (...) infatti, premesso che il vizio di motivazione non può costituire oggetto di ricorso per cassazione quando riguarda l'applicazione di principi giuridici (da ult., Cass., sez. un., n. 21712 del 2004), secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi -, la notificazione dell'avviso di accertamento al contribuente D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. e), il quale deroga, in materia, all’art. 140 c.p.c., è ritualmente effettuata quando nel comune nel quale deve eseguirsi non v'è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, mediante l'affissione dell'avviso del deposito prescritto dal citato art. 140 nell'albo comunale, senza necessità di spedizione mediante raccomandata, e la notificazione stessa si ha per eseguita nell'ottavo giorno successivo a quello di affissione, senza, peraltro, che ciò dia adito a dubbi di legittimità costituzionale (cfr. Cass. nn. 8363 del 1993, 7120 e 9922 del 2003, 7773 del 2006). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; nulla spese. Cassazione civile, Sez. V, sentenza 16 marzo 2011, n. 6114 (Pres. M. D’Alonzo, Rel. ed est. F. Terrusi, P.M. P.P.M. Ciccolo (conforme)). (Omissis) Svolgimento del processo La S. impugnò, con ricorso 9.10.2002, una cartella di pagamento per interessi su maggiore Irpef relativa all'anno 1994, emessa dalla banca Monte dei Paschi di Siena quale concessionaria del servizio riscossione tributi per la provincia di Roma. Ne chiese l'annullamento sul rilievo di non aver mai ricevuto il propedeutico avviso di accertamento. Al ricorso resistette l'agenzia delle entrate di Roma, che allegò, invece, che l'avviso era stato regolarmente notificato. La commissione tributaria provinciale accolse l'impugnazione. La sentenza - gravata da appello - fu riformata in sede regionale. Il giudice di appello osservò che vi era stata elezione di domicilio della contribuente ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d), ma ritenne che ciò non avesse inciso sulla ritualità della notificazione dell'avviso di accertamento 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 così come in concreto eseguita, presso il domicilio fiscale, ai sensi dell’art. 140 c.p.c. Sostenne che, in difetto di disposizioni sanzionatorie per il caso di eseguita noti-fica in luogo diverso da quello eletto, dovevano dirsi applicabili le regole contenute nell’art. 141 c.p.c. in tema di notificazione presso il domiciliatario. Dal criterio generale che vuole tale forma di notificazione solo facoltativa, e come tale alternativa alle correnti modalità di cui agli artt. 138 e seg. c.p.c., era da ricavarsi la ritualità della notifica, non eseguita, nella specie, presso il domicilio eletto, sebbene ai sensi dell’art. 140 c.p.c. al domicilio fiscale della contribuente. (...) Ricorre per cassazione la S. (...) Motivi della decisione (...) 3. - In ordine al primo motivo va osservato che la commissione regionale ha dato atto dell'avvenuta elezione di domicilio del contribuente secondo la previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d), presso lo studio di un commercialista posto nel comune del domicilio fiscale. Ha poi motivato la ritenuta validità della notifica dell'avviso di accertamento, di contro eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. nel domicilio anagrafico fiscale di cui all'art. 58 del medesimo d.p.r., sul rilievo della facoltatività (e quindi dell'alternatività) della forma di notificazione presso il domiciliatario rispetto ai modi ordinari stabiliti dagli artt. 138 e seg. in tal senso ha tratto argomento dall’art. 141 c.p.c., comma 1, la cui applicabilità per la notifica degli atti tributari ha osservato non essere esclusa dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f). Difatti l’art. 141 c.p.c. considera obbligatoria la prevista forma di notificazione presso il domiciliatario solo quando l'elezione di domicilio risulti inserita in un contratto (comma 2). Viceversa la ricorrente sostiene che, una volta che il contribuente abbia esercitato la facoltà di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), e il domicilio eletto si trovi nell'ambito del medesimo comune di domicilio fiscale, la notificazione degli atti impositivi dovrebbe necessariamente essere eseguita dall'amministrazione finanziaria presso il domicilio eletto, rimanendo la possibilità di notifica ex art. 140 c.p.c relegata al solo caso in cui le relative condizioni si realizzino con riguardo a questo. A giudizio della Corte questa proposizione, con le precisazioni che seguono, va condivisa. 4. - Necessaria premessa del discorso è che, in ambito tributario, la funzione propria della notificazione - di dirigerne l'oggetto verso il destinatario e di metterglielo a disposizione in modo da provocarne la presa di conoscenza - è, stante l'effetto che ne discende in rapporto all'atto contenente una pretesa impositiva, amplificata nel segno della maggiore garanzia di conoscenza effettiva. Tanto è da affermare in ragione del principio generale dettato dall'art. 6 dello statuto del contribuente (L. 27 luglio 2000, n. 212), a tenore del quale l'amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l'effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati. Siffatto principio partecipa dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede in cui trova esplicitazione l'intera logica sottesa allo statuto, cui, in sede di interpretazione [adeguatrice allo statuto del contribuente], il giudice deve fare riferimento al fine di risolvere eventuali dubbi ermeneutici nel senso più consono ai principi dallo stesso espressi (cfr. Cass. 2005/9407), e in forza del quale l'amministrazione deve comportarsi sempre con lealtà e chiarezza, (guidando e) facilitando l'adempimento dei doveri da parte dei privati. Alla luce della delineata premessa, questa Corte ha già del resto affermato che, prima che il contribuente abbia conoscenza degli atti che incidono sulla sua posizione debitoria o creditoria nei confronti del fisco, gli atti stessi non possono produrre effetti (cfr. Cass. 2001/4760 e soprattutto, con riguardo alla sanatoria dei possibili vizi della notificazione e ai suoi effetti, Cass. sez. un. CONTENZIOSO NAZIONALE 113 2004/19854). Ora, è vero che, con la locuzione "effettiva conoscenza", il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l'assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato a essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui "restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari". E tuttavia resta inteso che - come esattamente osservato in dottrina - non coglierebbe il significato della previsione concludere che essa, facendo salve le disposizioni sulla notificazione, si riferisce esclusivamente agli atti per i quali il legislatore non prevede il procedimento notificatorio sebbene una mera comunicazione, in sostanza, la corretta esegesi dell'art. 6, comma 1 resta nel senso che esso intende assicurare l'effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorché restino ferme le disposizioni in materia di notifica. Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell'amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile. Ampia traccia di simile lettura si rinviene, d'altronde, nella sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell'indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, il cui essenziale periodo motivante è nel riconoscimento che "un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall'esigenza di garantire al notificatario l'effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell'atto notificato e, quindi, l'esercizio del suo diritto di difesa (così C. cost. 2003/360). 5. - Alla luce dei superiori principi è da ritenere che, laddove vi sia stata, da parte del contribuente, una valida elezione di domicilio, nel comune di domicilio fiscale, stante la precipua funzione della elezione detta in rapporto alla ricezione degli atti tributari, non residua, per l'amministrazione, altra possibilità in sede di notificazione all'indirizzo del dichiarante. Dall'inciso di apertura del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, si desume, invero, che la struttura portante della notificazione degli atti tributari è sì retta dalle norme stabilite dagli artt. 137 e seg. c.p.c., ma così come nello specifico integrate e modificate dai successivi incisi, e quindi anche mercè la prevista facoltà del contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale in vista della "notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano". Né a diversa conclusione si giunge volendosi mantenere il parallelismo con l’art. 141 c.p.c. Essendo alla notifica dei mentovati atti o avvisi correlato l'avvio della fase dinamica, preordinata all'attuazione del rapporto obbligatorio d'imposta, è in questo senso agevole cogliere la similitudine con la ratio che sottende l'obbligatorietà della notifica ex art. 141 c.p.c., comma 2, di garantire la conoscenza effettiva del contraente con riguardo alle pretese inerenti alle obbligazioni nascenti dal contratto. Nel senso che detta ratio non differisce da quella che caratterizza la comunicazione di elezione di domicilio in materia fiscale, da parte del contribuente che intenda ivi ricevere la notificazione degli atti o degli avvisi in cui si esprime la pretesa tributaria a seguito dell'asserito verificarsi della fattispecie prevista dalla norma impositiva. Mentre, diversamente opinando, della previsione speciale D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, comma 1, lett. d), andrebbe ritenuta la sostanziale inutilità, ove all'amministrazione fosse poi consentito di non tenere in alcun conto il fatto, dal contribuente debitamente comunicato, dell'avvenuta elezione di un ben determinato luogo di ricezione degli atti e/o degli av- 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 visi, pur sempre compreso nel comune di domicilio fiscale. 6. - Nel caso di specie, va dunque ritenuta, in accoglimento del primo motivo, la nullità della notificazione dell'atto impositivo presupposto, siccome eseguita, ex art. 140 c.p.c., in luogo diverso dal domicilio eletto agli specifici fini, giacché la procedura di notifica, di cui al ridetto art. 140, adottata per l'avviso di accertamento, è stata utilizzata senza che ne ricorressero le condizioni. La nullità della notifica dell'atto impositivo comporta l'invalidità derivata degli atti conseguenti, e cioè, per quanto qui rileva, della cartella esattoriale. Invero per ormai consolidata giurisprudenza (cfr. sez. un. 2007/6412) l'invalidità dell'atto impositivo può essere dedotta, sia come vizio proprio di tale atto, sia come vizio del procedimento, dal quale deriva l'invalidità degli atti successivi, nell'ambito dell'impugnazione di questi ultimi (v. anche Cass. 2009/20098). La Corte deve, quindi, enunciare il seguente principio di diritto: "in caso di elezione di domicilio da parte del contribuente, nel comune di domicilio fiscale, ai fini della notificazione degli atti e degli avvisi che lo riguardano, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d), la notificazione al domicilio eletto è, per l'amministrazione fiscale, obbligatoria; pertanto è invalida la notificazione dell'atto impositivo eseguita in luogo diverso dal domicilio eletto ai sensi dell’art. 140 c.p.c”. L'accoglimento del primo motivo del ricorso assorbe il secondo e comporta la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la Corte, nell'esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 1, accoglie altresì il ricorso originariamente proposto dalla S. avverso la cartella di pagamento. La mancanza di precedenti giurisprudenziali sullo specifico profilo di diritto sopra esaminato giustifica la compensazione integrale delle spese processuali. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo; dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso avverso la cartella. Compensa le spese. CONTENZIOSO NAZIONALE 115 Orientamenti giurisprudenziali in tema di efficiacia delle sentenze ecclesiastiche: verso una maggior pervasività del controllo operato dal giudice italiano (Nota a Cassazione civ., Sez. I , sentenza 20 gennaio 2011 n. 1343) Alessandra Bruni* Niccolò Guasconi** SOMMARIO: 1. Il rilievo del matrimonio come rapporto tra disciplina civilistica e canonistica - 2. I rapporti tra Stato e Chiesa in tema di delibabilità delle sentenze ecclesiastiche: da controllo meramente formale ad un vaglio anche di sostanza - 3. Il controllo sostanziale nell'evoluzione della giurisprudenza della Cassazione: la giurisdizione italiana e il divenire del limite di ordine pubblico - 4. Conclusioni. 1. Il rilievo del matrimonio come rapporto tra disciplina civilistica e canonistica Con la sentenza 20 gennaio 2011, n. 1343, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della clausola di ordine pubblico come limite alla delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, con una pronuncia di particolare rilievo, la quale sembra poter essere foriera di sviluppi impensabili solo fino a qualche anno fa. Il giudizio prende le mosse dalla decisione di un marito di adire la giurisdizione ecclesiastica per sentir dichiarare la nullità del proprio matrimonio in ragione della decisione della moglie, asseritamente anteriore alla contrazione del matrimonio, di non avere figli. La statuizione in commento definisce la controversia con l'accoglimento del ricorso presentato dalla moglie avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Venezia, in sede di giudizio di rinvio, aveva dichiarato l'esecutività della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale. Il quesito di diritto su cui la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi era formulato nei termini che seguono: “Se possa essere riconosciuta nello Stato italiano la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio, quando i coniugi abbiano convissuto come tali per oltre un anno, nella fattispecie per vent'anni, e se detta sentenza produca effetti contrari all'ordine pubblico, per contrasto con gli artt. 123 c.c. e 29 Cost.” La questione investe apertamente la vexata quaestio della rilevanza della convivenza coniugale ai fini della delibabilità e comporta un considerevole scostamento dalla pronuncia a Sezioni Unite del 1988, n. 4700, che era giunta a riconoscere la configurabilità della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale anche quando la relativa azione fosse stata proposta (*) Avvocato dello Stato. (**) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dopo che tra le parti si era protratta la convivenza successivamente alla celebrazione del matrimonio invalido. Il revirement si basa sulla considerazione che nell'ordine pubblico italiano il matrimonio – rapporto ha un'incidenza rilevante e meritevole di tutela in virtù dei principi emergenti dalla Costituzione e dalla disciplina codicistica dopo la riforma del 1975 (il riferimento è in particolare agli artt. 120 cpv., 121 comma 3 e 123 cpv. c.c.). Pertanto, una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo, è contrario ai principi di "ordine pubblico" rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze. In conclusione, è reputato principio di ordine pubblico la tutela del rapporto coniugale dopo la celebrazione, radicato sulla condivisa convivenza dei coniugi, i quali pur potendo impugnare la nullità del matrimonio secondo le norme del codice civile, preferiscono mantenere e continuare il loro rapporto matrimoniale, nato con la celebrazione non impugnata e convalidato dalla volontà di proseguire la vita matrimoniale, che, nel caso di specie, si era protratta per oltre venti anni. Del resto, seguendo il medesimo principio, la disciplina codicistica della simulazione matrimoniale riconosce efficacia invalidante soltanto alla simulazione totale intesa come esclusione (bilaterale) di ogni comunione materiale e spirituale tra i coniugi. Le parti, dunque, decadono dall'azione nel caso in cui, malgrado la iniziale volontà contraria, la comunione tra loro si sia realizzata nei fatti con la convivenza come coniugi. La ratio sottesa alla previsione è sempre la salvaguardia del matrimonio come rapporto e, conseguentemente, della certezza dello status coniugale: non così nel diritto canonico in cui, in ragione della centralità assunta dalla purezza del consenso, la nullità del matrimonio (per simulazione anche unilaterale) può essere sempre fatta valere, anche dopo molti anni di convivenza ed in presenza di stabile comunione di vita. In altri termini, mentre nel diritto canonico, in considerazione del carattere essenzialmente sacramentale del matrimonio, è attribuita precipua rilevanza ad un consenso cristallino d'ambo le parti, la disciplina civilistica assume come principio inderogabile la tutela della buona fede e dell’affidamento del coniuge incolpevole nei casi in cui il coniuge autore della riserva non avesse esternato all’altro la sua intenzione. Risulta quindi evidente che la pronuncia qui in commento è destinata ad incidere su due binari, tra loro sempre più strettamente connessi: i rapporti tra Stato e Chiesa nell'ambito delle rispettive giurisdizioni e la considerazione del rapporto matrimoniale che si sta progressivamente affermando nella giurisprudenza italiana. CONTENZIOSO NAZIONALE 117 2. I rapporti tra Stato e Chiesa in tema di delibabilità delle sentenze ecclesiastiche: da controllo meramente formale ad un vaglio anche di sostanza La qualificazione dell’ordinamento italiano in materia religiosa è desumibile dalle norme costituzionali e parte dal presupposto che nel nostro sistema le relazioni ecclesiastiche si sono volute conciliare con la tradizione di rispetto della libertà religiosa, quale maturata dalla esperienza separatista, con un sistema articolato, improntato al contrattualismo, e che prevede attualmente i Patti Lateranensi, che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, e le Intese, che disciplinano i rapporti con i culti non cattolici. La conciliazione tra contrattualismo e libertà religiosa ha portato a qualificare il nostro Stato come laico. L’art. 8 della Costituzione, affermando che “tutte le confessioni sono egualmente libere di fronte alla legge”, esclude così che lo Stato sia in qualche modo portato a favorire l’espansionismo di una confessione rispetto ad un'altra. La libertà religiosa viene dunque intesa sia come tutela dalla discriminazione per motivi religiosi che come libertà di non professare alcuna religione. La Corte costituzionale con la pronuncia n. 203 del 1989, definisce la laicità come di uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, e l'orientamento in parola è ribadito anche dalla sentenza del 1990 n. 259. Il principio di laicità non si traduce in indifferenza, ma implica garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione nell'ambito di un regime di pluralismo confessionale e culturale. Il Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121, di ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede esordisce, in riferimento all'art. 1, prescrivendo che “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”, con chiara allusione all'art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: “L'Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell'art. 1 dello Statuto del Regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel Trattato lateranense del 1929, viene così anche formalmente abbandonata nel Protocollo addizionale all'Accordo del 1985, riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato laico della Repubblica italiana. Ciò premesso, è evidente che ordinamento canonico ed ordinamento statuale sono due ambiti che possono rimanere reciprocamente impermeabili, ma che, in virtù del procedimento di delibazione - riconoscimento - delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, si incontrano con importanti conseguenze in sede civilistica. Il codice civile, infatti, prevede e regola la patologia del matrimonio anche al di fuori dei percorsi più noti di separazione e divorzio (si vedano in proposto gli articoli dall’84 all’88 c.c. e dal 119 al 123 c.c.) e le conseguenze pratiche di un vincolo annullato o accertato come nullo avranno valore comunque, che a pronunciarsi sia stato un tribunale statale oppure ec- 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 clesiastico (purché, in quest'ultimo caso, sia seguita la delibazione). Resta da precisare, tuttavia, che nel rapporto tra lo Stato Italiano e la Chiesa, a differenza che tra lo Stato Italiano ed altri Stati stranieri, la reciprocità è univoca. Invero lo Stato riconosce le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio trascritto, ma la Chiesa non riconosce le sentenze di nullità di tale negozio pronunciate dal giudice statale. Nell’ordinamento canonico, infatti, vige ancora il principio affermato dal Concilio di Trento del XVI sec., secondo il quale, data la natura sacramentale del matrimonio tra battezzati, la nullità di detto vincolo è pronunciabile solo dal giudice ecclesiastico. Alla luce del rapporto tra i due ordinamenti, ben si comprende come lo stesso abbia avuto significative ricadute sul meccanismo di delibazione. Il procedimento, finalizzato a recepire le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale nell'ordinamento italiano, risale al Concordato lateranense del 1929 (l. 27 maggio 1929, n. 810), nel cui alveo è stata per la prima volta riconosciuta la validità ai fini civili (previa trascrizione) del matrimonio canonico. All'epoca, i tribunali ecclesiastici avevano competenza esclusiva in materia di nullità matrimoniale e le Corti d'Appello, in sede di delibazione, procedevano ad un controllo meramente formale. Nel 1984 seguiva, poi, la revisione del Concordato con l'Accordo di Villa Madama (l. 25 marzo 1985, n. 121) in virtù del quale veniva previsto, tra l'altro, un esame non più meramente formale ma sostanziale da parte del giudice italiano, analogo a quello che all'epoca era previsto per la delibazione delle sentenze straniere. Tale disciplina, peraltro, non è stata alterata dalla legge n. 218 del 31 maggio 1995, secondo cui la necessità del giudizio di delibazione per le sentenze straniere veniva superata dal principio del riconoscimento automatico. Questo meccanismo, infatti, veniva considerato non applicabile per le sentenze ecclesiastiche, il cui iter di recepimento nell'ordinamento italiano era stato previsto da una fonte atipica, munita di copertura costituzionale, e, come tale, di rango superiore rispetto ad una legge ordinaria. E' dunque con la revisione concordataria del 1984 che si iniziano a porre le basi per un controllo sostanziale e più pervasivo da parte del giudice della delibazione. Tuttavia, lo sviluppo in parola non potrebbe essere colto appieno nelle sue motivazioni e future evoluzioni senza considerare il ruolo essenziale giocato dalla Consulta, che già nel 1982 aveva affermato due principi cardine in materia, ritenendo che la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale può esser dichiarata esecutiva dalla Corte di Appello solo se: (a) garantisca il diritto alla difesa e (b) non contenga disposizioni contrarie all'ordine pubblico italiano (Corte cost., sent. 2 febbraio 1982, n. 18). Nella sentenza additiva emerge chiaramente la rilevanza costituzionale dei principi ivi affermati, i quali il giudice italiano, nell'ordinario giudizio di delibazione ex art. 797 c.p.c., è tenuto a soddisfare prima di dare ingresso nell'ordinamento a sentenze emesse da organi giurisdizionali ad esso estranei. In altri termini, sulle Corti CONTENZIOSO NAZIONALE 119 d'Appello incombe l'onere di controllare che nel procedimento ecclesiastico siano stati rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e resistere in difesa dei propri diritti, e garantita la tutela dell'ordine pubblico italiano, onde impedire l'attuazione nell'ordinamento delle disposizioni contenute nella sentenza medesima che siano ad esso contrarie. Entrambe le esigenze si ricollegano a principi ascrivibili nel novero dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale e pertanto ad essi non possono opporre resistenza le norme denunciate, pur assistite da copertura costituzionale, nella parte in cui si pongono in contrasto con i principi medesimi (illegittimità costituzionale parziale dell'art. 1 della l. 810/1929, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 34, del Concordato, comma sesto, dell'11 febbraio 1929, e dell'art. 17, comma 2, della l. 27 maggio 1929, n. 847, nella parte in cui tali norme non prevedono che alla Corte d'appello, all'atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all'ordine pubblico italiano). Del resto, il diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost., oltre ad essere qualificabile come diritto inviolabile dell'uomo, è da ascrivere, nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, fra i princìpi supremi dell'ordinamento italiano, perché è connesso con lo stesso principio di democrazia assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio rispettosi dei principi costituzionali. Allo stesso modo l'inderogabile tutela dell'ordine pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società, è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nel comma secondo dell'art. 1, e ribadita nel comma primo dell'art. 7 Cost. 3. Il controllo sostanziale nell'evoluzione della giurisprudenza della Cassazione: la giurisdizione italiana e il divenire del limite di ordine pubblico La strada aperta nei termini poc'anzi riferiti dalle sentenze della Corte costituzionale è stata nell'ultimo trentennio ampiamente esplorata dalla Cassazione nel tentativo di estendere l'incidenza del giudizio di delibabilità, fino a giungere a configurazioni del rapporto coniugale anche profondamente diverse da quelle fatte proprie dal diritto canonico. Ripercorrendo l'evoluzione storica della giurisprudenza di legittimità in materia, possono individuarsi tre periodi di particolare interesse. Un primo periodo, che va dall'entrata in vigore della Costituzione fino agli accordi di villa Madama del 1984, caratterizzato dalle profonde ed incisive modifiche del contesto sociale, culturale, economico, mette in luce l'applicazione dei principi costituzionali e la ferma volontà di limitare gli effetti dei 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Patti Lateranensi di fronte alla nuova legislazione (diritto di famiglia e divorzio), mantenendo in vita gli obblighi e i rapporti verso i soggetti più deboli della famiglia, nonostante l'annullamento del matrimonio religioso. Un secondo periodo, che va dall'entrata in vigore del nuovo Concordato alla fine del secolo scorso, caratterizzato da un clima politico profondamente modificato. Di fronte al nuovo testo, dai più ritenuto volutamente ambiguo, si evidenziano ripensamenti e perplessità, tra chi considera ormai perduta la riserva di giurisdizione a favore del matrimonio canonico e chi si adopera a favore di una ritrovata riserva di giurisdizione. Il terzo è quello attuale, nel quale, lentamente, emerge una giurisprudenza della Cassazione costituzionalmente orientata che, in forza della clausola dell'ordine pubblico, rivaluta il rapporto matrimoniale. In quest'ultimo ambito si colloca a pieno titolo la sentenza 1343/2011, che rappresenta l'approdo di un percorso lento ma inesorabile. Dall’esame dell’iter giurisprudenziale riferibile alla tripartizione temporale sopra richiamata emergono alcune pronunce significative, incidenti su aspetti specifici e nel complesso volte ad ampliare i confini del giudizio di delibazione. Di estremo interesse è la pronuncia delle Sezioni Unite, n. 1824 del 1993 in tema di giurisdizione. Nella fattispecie, la ricorrente adiva il giudice di legittimità al fine di ottenere la dichiarazione della sussistenza della riserva di giurisdizione in capo ai tribunali ecclesiastici in materia di annullamento matrimoniale; più precisamente la questione prospettata dalla ricorrente si sostanziava nello stabilire “se, nell'Accordo di revisione del Concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984, sia stata conservata la riserva di giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici nelle cause di nullità del matrimonio contratto da cittadini italiani secondo il rito canonico”. La Corte, dopo un confronto tra vecchia e nuova normativa con riferimento all’accordo di revisione del 1984, specifica che quest'ultimo parte da volontà contrattuali differenti rispetto a quelle che hanno caratterizzato il Concordato del 1929. Mentre nell'accordo previgente l'automatismo della delibazione era riconnesso all'esclusività della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità matrimoniale, nel nuovo testo si è espressamente tenuto conto "del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa del Concilio Vaticano II", "avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico"; e si è affermato, in armonia con l'art. 7 Cost., che Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 1). E' vero che lo Stato riconosce CONTENZIOSO NAZIONALE 121 alla Chiesa l'esercizio della giurisdizione in materia ecclesiastica (art. 2 n. 1) e attribuisce effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico (art. 8 n. 2), ma nell'Accordo del 1984 non si rinviene una disposizione che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, qual era contenuta nell'art. 34 del Concordato del 1929. Sul piano di assoluta parità delle rispettive sfere di sovranità assunto dalle Parti, l'Accordo di revisione non contiene alcuna disposizione dalla quale la giurisdizione in materia matrimoniale appaia come una prerogativa dell'ordinamento canonico (sì che la Chiesa debba consentire la giurisdizione statale in tema di separazione personale) e non come espressione di sovranità riconosciuta concorrentemente a entrambi gli ordinamenti. Né in esso vi è alcun accenno alla sacramentalità del matrimonio ed alla volontà dello Stato di uniformarsi alla tradizione cattolica, sì che il matrimonio canonico non viene più recepito come tale, nella sua sacramentalità, e quello civile assume dignità non inferiore a quello disciplinato dal diritto canonico. In questa nuova logica risulta chiaro il significato da attribuire all'art. 13 dell'Accordo, nella parte in cui stabilisce che “le disposizioni del Concordato (del 1929), non riprodotte nel nuovo testo, sono abrogate”, facendosi salvo soltanto quanto previsto dall'art. 7, n. 6, non riguardante la materia matrimoniale. La norma vuol dire che il massimo del sacrificio dalle proprie prerogative, consentito da ciascuna Parte, è quello che risulta espressamente dall'Accordo, oltre al quale non è possibile ammetterne altri. Pertanto, poiché l'art. 8 n. 2 dell'Accordo di revisione riproduce, sia pure con rilevanti modificazioni, le disposizioni dell'art. 34 relative alla delibazione, ma non anche quella contenente la riserva di giurisdizione ai tribunali ecclesiastici delle cause concernenti la nullità del matrimonio, quest'ultima disposizione è rimasta abrogata ai sensi dell'art. 13. Con il venir meno della riserva, anche i poteri del giudice italiano in sede di delibazione sono profondamente mutati, nel senso che come l'automatismo sancito dal Concordato del 1929, pur se man mano attenuato nella giurisprudenza, si raccordava al carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica, così la nuova disciplina della delibazione, com'é ora impostata quale cerniera tra le due giurisdizioni e raccordo tra due concorrenti competenze, depone nel senso della negazione del carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica nelle cause di nullità del matrimonio. Venuta meno la riserva di giurisdizione in materia ecclesiastica la delibazione non è più automatica e la barriera al riconoscimento è legata alla incompatibilità assoluta con l’ordinamento interno, sostanziatosi nel concetto di ordine pubblico, assoluto e relativo. In questo senso si deve richiamare la pronuncia delle Sezioni Unite n. 19809 del 2008, che ha ritenuto non delibabili le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale contraddistinte da incompatibilità assoluta con l'ordine pubblico italiano, ritenendo viceversa possibile la delibazione in caso di 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 incompatibilità relativa. Più nel dettaglio, l'incompatibilità con l'ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è "assoluta" allorchè i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia. L'incompatibilità con l'ordine pubblico interno va qualificata invece "relativa", quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili. Solo le incompatibilità assolute impediscono l'esecutività in Italia della sentenza ecclesiastica, potendosi, invece, superare quelle relative in ragione del peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato a riconoscere a tali pronunce. Non si tratta quindi di mere differenze di disciplina tra i due ordinamenti, ma del rilievo cogente della formazione e manifestazione del consenso per il nostro ordine pubblico interno, i cui vizi possono risultare solo da circostanze esterne e oggettive, potendo riconoscersi la efficacia in Italia della sentenza attuativa dell'ordinamento canonico, sempre che abbia deliberato in base a circostanze oggettive, e non solo per aver dato attuazione a valori che, per il sistema interno, sono metagiuridici, rispettabili e significativi per il foro interno e la coscienza personale, ma non assumibili come rilevanti per l'ordine pubblico italiano. Il caso concreto esaminato dalla Suprema Corte aveva ad oggetto una nascosta infedeltà prematrimoniale di uno dei coniugi, e se la stessa potesse incidere come errore sulla qualità della persona ai fini di estendersi fino alla validità del consenso prestato dall’altro coniuge. La decisione interessa, anche perché evidenzia la differenza relativamente ai vizi del consenso tra diritto civile e diritto canonico. La disciplina civilistica dei vizi del consenso attinenti alla materia matrimoniale, troppo spesso ritenuta secondaria rispetto a quella canonistica, è più restrittiva. Nell'ordinamento italiano, infatti, la gamma dei vizi del consenso, per quanto ampliata dalla riforma del 1975, non comprende ogni possibile vizio della volontà, restandone esclusi la riserva mentale, il dolo e l'errore nei casi diversi da quelli espressamente previsti. Con particolare riferimento all'errore, la disciplina vigente contempla, accanto all'errore sull'identità, l'errore, determinante e essenziale, su qualità dell'altro coniuge, che integri una delle ipotesi elencate dall'art. 122, comma 3, c.c. In altre parole, l'errore si risolve in un vizio invalidante solo ove esso realizzi una situazione capace di inibire il rapporto coniugale, di modo che il vizio del matrimonio-atto si traduca in un vizio del matrimonio-rapporto, divenuto, in tal modo, inidoneo a perseguire i suoi fini. CONTENZIOSO NAZIONALE 123 4. Conclusioni Dal percorso giurisprudenziale sopra richiamato risulta evidente il continuum tra la sentenza 19809/2008 e la 1343/2011 nell'attribuire rilievo al matrimonio- rapporto come limite di ordine pubblico in grado di rendere non delibabili sentenze ecclesiastiche di nullità, i cui effetti ex tunc rischiano di incidere negativamente sulla certezza dello status coniugale, soprattutto quando vengano pronunciate dopo diversi anni di convivenza. In altre parole, la volontà di protrarre la convivenza quando si sarebbe potuto chiedere lo scioglimento ab origine del vincolo sana, ai fini civilistici, l'eventuale vizio del matrimonio-atto. Ne risulta una diversa configurazione del rapporto coniugale sotto l'aspetto civilistico e canonistico, espressione in una certa misura dell'indipendenza di due ordinamenti posti, anche in questa materia, in posizione paritaria, ciascuno dei quali tutela i valori che avverte come principi supremi e fondativi. Sotto un profilo puramente statistico, può essere utile evidenziare che sono molto rare le richieste di annullamento quando sia intercorso un lungo periodo di convivenza tra le parti, pertanto il clamore destato dalla pronuncia tra gli operatori del settore forse può essere ridimensionato. Da ultimo, pare opportuno porre in luce che la sentenza qui in commento costituisce altresì espressione della rilevanza del divenire dei principi di ordine pubblico in materia familiare nell'interpretazione giurisprudenziale. In questo senso i giudici civili si sono fatti portatori della evoluzione storico-sociale dei costumi, delle istanze della collettività e degli istituti giuridici. A ben vedere, infatti, dietro le ultime pronunce analizzate si può forse scorgere una tendenza giurisprudenziale a valorizzare il matrimonio come rapporto, sempre più considerato, come si è visto, il vero fulcro della relazione coniugale, nel protrarsi di una convivenza stabile. Tuttavia, le risultanze sinora individuate non appaiono ancora come un approdo definitivo, se si considera che la convivenza assume rilievo anche nelle unioni di coppia diverse dal matrimonio e probabilmente la Corte si è fatta portatrice anche della evoluzione sociale e politica sul punto. In questo senso appare quanto mai opportuno il richiamo alla recentissima sentenza n. 12278/2011, con cui la Suprema Corte ha equiparato la famiglia tradizionale alle unioni di fatto ai fini del risarcimento del danno, attribuendo a queste ultime la rilevanza sociale di sodalizio familiare strutturato al pari di quella legittima e quindi degna anch'essa di tutela giuridica. Quel che può azzardarsi al riguardo è una possibile futura saldatura, almeno parziale, degli indirizzi giurisprudenziali richiamati alla luce della considerazione che, se la convivenza rileva anche nelle c.d. famiglie di fatto, a maggior ragione non può non riconoscersi un valore pregnante alla stessa nel matrimonio per come costituzionalmente previsto. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Cassazione, Sez. I civ., sentenza 20 gennaio 2011 n. 1343 - Rel. Pres. P. Vittoria, P.M. P. Abbritti (conforme). (Omissis) Svolgimento del processo 1. - V.G.M., con citazione 26 novembre 2002, conveniva in giudizio davanti alla corte d'appello di Venezia R.M. L.. Esponeva d'avere contratto con lei matrimonio concordatario il (...). Il matrimonio era stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale ligure con sentenza 25 novembre 1994, confermata dal Tribunale ecclesiastico della Rota Romana e dichiarata esecutiva dal Supremo tribunale della Segnatura apostolica con Decreto del 29 marzo 2001. L'attore chiedeva quindi che fosse dichiarata l'efficacia agli effetti civili della pronuncia di nullità del matrimonio. R.M.L. si opponeva alla domanda e tra l'altro deduceva che la pronuncia di nullità era in contrasto con l'ordine pubblico italiano, perchè mancava la prova che il suo rifiuto di avere figli fosse anteriore al matrimonio. 2. - La corte d'appello di Venezia, con sentenza 15 ottobre 2002, rigettava la domanda. Considerava che dagli atti del processo ecclesiastico non risultava che la R. avesse manifestato al marito, prima del matrimonio, la volontà di non avere figli e neppure che una tale intenzione fosse riconoscibile: conseguentemente la decisione del tribunale ecclesiastico doveva essere ritenuta in contrasto con l'ordine pubblico. 3. - Su ricorso di V.G.M. proposto per due motivi, questa Corte, con sentenza 28 gennaio 2005, ne accoglieva il secondo, dichiarava assorbito il primo, cassava e rinviava alla corte di appello di Venezia. 4. - La Corte, in quella circostanza, ha osservato che la corte d'appello di Venezia aveva ritenuto che il limite dell'ordine pubblico impedisce la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica, qualora l'intentio contraria ad uno dei bona matrimonii, riferibile ad uno solo degli sposi, non sia stata conosciuta e conoscibile da parte dell'altro, anche se - come nella specie era accaduto - la relativa domanda sia stata proposta dal coniuge ignaro. Cassando la sentenza ha enunciato il seguente principio di diritto: - "La dichiarazione di esecutività nell'ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio concordatario, a causa dell'esclusione da parte di uno dei coniugi di uno dei bona matrimonii, trova ostacolo nell'ordine pubblico, qualora detta esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e non sia stata manifestata, ovvero conosciuta o conoscibile dall'altro coniuge, in quanto si pone in contrasto con l'inderogabile principio della tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole, il quale è tuttavia ricollegato ad un valore individuale che appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto ed è preordinato a tutelare questo valore contro gli ingiusti attacchi esterni. Pertanto, al suo titolare va riconosciuto il diritto di scegliere la non conservazione del rapporto viziato per fatto dell'altra parte e, conseguentemente non sussiste ostacolo alla delibazione della sentenza nel caso in cui il coniuge che ignorava, o non poteva conoscere, il vizio del consenso dell'altro coniuge chieda la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica da parte della Corte d'appello". 5. - Il giudizio è stato riassunto da V.G.M. e davanti alla corte d'appello in sede di rinvio R.M. L. si è costituita ed ha riproposto le proprie precedenti difese. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 Il giudice di rinvio - dopo aver constatato che il caso oggetto della domanda era appunto quello descritto nel principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione - soffermandosi sulle difese svolte dalla R. - ha osservato - secondo quanto viene riferito nella sentenza di rinvio - che costei aveva insistito su altra questione, ostativa al riconoscimento della sentenza ecclesiastica, già dedotta nel precedente grado di merito, concernente la problematica relativa all'applicabilità del limite posto dall'art. 123 c.c.. La R. - così riferisce la corte d'appello di Venezia - sosteneva che, stante la convivenza ventennale tra i coniugi dopo la celebrazione del matrimonio, alla stregua della citata norma del codice civile - espressione di un principio di ordine pubblico sarebbe stata inibita la dichiarazione di simulazione del matrimonio (certamente equivalente al caso che era in esame), con la conseguenza che la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione dei "bona matrimonii" non avrebbe potuto essere riconosciuta nel nostro ordinamento. Al riguardo - giudicando la questione non fondata - la corte d'appello ha rilevato che la giurisprudenza di questa Corte era molto chiara nel senso di ritenere che il principio di cui all'art. 123 c.c., e di conseguenza il suo presupposto in fatto, cioè la convivenza, non costituiscono espressione di principi e regole fondamentali all'istituto del matrimonio. 6. - Della sentenza 11 giungo 2007 della corte d'appello di Venezia pronunziata in sede di rinvio, a lei notificata il 3 ottobre 2007, R.M.L. ha chiesto la cassazione con ricorso, la cui notifica, chiesta il 3 dicembre 2007 - successivo a giorno festivo - è stata eseguita il 6 dicembre 2007. V.G.M. ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 1. - Il ricorso contiene un motivo. La cassazione vi è chiesta per il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8; L. 31 maggio 1995, n. 219, art. 64, lett. g); art. 123 c.c., e art. 29 Cost.). E' concluso dal seguente quesito di diritto: - "Se possa essere riconosciuta nello Stato italiano la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio, quando i coniugi abbiano convissuto come tali per oltre un anno, nella fattispecie per vent'anni, e se detta sentenza produca effetti contrari all'ordine pubblico, per contrasto con l'art. 123 c.c., e art. 29 Cost.". 2. - La parte ha ripercorso l'itinerario della giurisprudenza di legittimità osservando, che sino alla sentenza 4701 del 1988 delle sezioni unite, la Corte sì era in prevalenza orientata nel senso di riconoscere la contrarietà all'ordine pubblico della sentenza del tribunale ecclesiastico che non avesse tenuto in conto la disposizione dell'art. 123 c.c., comma 2, e ciò perchè l'effettiva instaurazione del rapporto matrimoniale con la pienezza della convivenza morale e materiale dei coniugi avrebbe precluso ogni possibilità di far valere vizi simulatori dell'atto matrimoniale - come sentenze orientate in questo senso ha indicato la 192 del 1988, le 5358 e 5354 del 1987. Dopo aver affermato che - come risultava dalla citazione in riassunzione - il matrimonio era stato contratto nel (...) e la separazione era stata omologata nel (...), la parte ha concluso dicendo di reputare che "vanificare una convivenza ventennale con perdita per la ricorrente dei diritti derivati dal matrimonio dichiarato nullo (in caso di passaggio in giudicato della sentenza ora impugnata) sia in contrasto, oltre che con l'ordine pubblico, con il dettato costituzionale, che all'art. 29 assicura l'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi". 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Dal canto suo il resistente ha ribattuto richiamandosi a quanto statuito, in senso contrario, nella sentenza 4700 del 1988 delle sezioni unite e poi in una successiva decisione, indicata nella sentenza 10143 del 2002. 3. - Il motivo è fondato. La rivisitazione della precedente giurisprudenza della Corte, compiuta in questa materia dalle sezioni unite con la sentenza 18 luglio 2008 n. 19809, ha consentito di mettere in rilievo che "L'ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese "favor" per la validità del matrimonio quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l'ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l'annullamento in sede civile". Nella medesima decisione si è osservato come nella sentenza 6 marzo 2003 n. 3339 fosse stato dato implicito rilievo anche al matrimonio - rapporto, che nell'ordine pubblico italiano ha una incidenza rilevante, per i principi emergenti dalla Costituzione e dalla riforma del diritto di famiglia, ed impedisce di annullare il matrimonio dopo che è iniziata la convivenza e spesso se questa è durata per un certo tempo (come si desume dall'art. 120 cpv c.c., art. 121 c.c., comma 3, e art. 123 cpv. c.c.). Si è quindi osservato che "Non appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata tra cause di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri ordinamenti con l'ordine pubblico interno, qualificare come relative quelle delle pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza e di coabitazione dei coniugi, ritenendo l'impedimento a chiedere l'annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità da considerare esterna e irrilevante come ostacolo d'ordine pubblico alla delibazione". La considerazione di fondo che sorregge tale scelta è in ciò, che, riferita a date situazioni invalidanti dell'atto matrimonio, la successiva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito e con questa volontà è incompatibile il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge. La Corte condivide questa impostazione. Ritiene dunque che la sentenza impugnata presenti il vizio denunziato nel motivo, per avere considerato in linea di principio non ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, pronunciata a motivo del rifiuto della procreazione, sottaciuto da un coniuge all'altro, la loro particolarmente prolungata convivenza oltre il matrimonio. 4. - Il ricorso è accolto e la sentenza è cassata. 5. - La Corte ritiene che - dedotto e non contestato che la convivenza si è protratta per quasi un ventennio - non siano necessari ulteriori accertamenti per addivenire sulla domanda ad una pronunzia di merito, che rientra dunque, secondo l'art. 384 c.p.c., nei suoi poteri. La conclusione è che la domanda deve essere rigettata. 6. - Le spese dell'intero giudizio debbono essere interamente compensate: il processo ha conosciuto alterne vicende e nel suo corso gli orientamenti della giurisprudenza si sono venuti modificando. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e pronunciando nel merito rigetta la domanda; compensa le spese dell'intero giudizio. CONTENZIOSO NAZIONALE 127 Elusione ed evasione, interposizione e simulazione, abuso del diritto tributario non armonizzato. Querelles antiche e nuove sulle orme di un reasoning del Supremo Collegio (Nota a Cassazione, Sez. V Civile, sentenza 26 febbraio 2010, n. 4737) Federico Maria Giuliani, LL.M.* SOMMARIO: 1. Il caso concreto e la questione all’esame della Sezione Tributaria. - 2. Le soluzioni del Supremo Collegio. - 3. Considerazioni a margine. - 4. Spunti giurisprudenziali e dottrinali. 1. Il caso concreto e la questione all’esame della Sezione Tributaria L’agenzia delle Entrate di Avellino accerta un (cospicuo) maggior reddito IRPEF a carico di una persona fisica residente in Italia, sportivo professionista, relativamente al periodo d’imposta 1993. L’accertamento, afferente il reddito di lavoro dipendente del contribuente, si basa su di un p.v.c. redatto dai militari della Guardia di Finanza, nel quale è evidenziato che una limited liability company avente sede in Dublino aveva stipulato, con altra società irlandese, un contratto per l’acquisizione di diritti di sfruttamento dell’immagine di atleti ingaggiati da società sportive appartenenti a una medesima holding. A mezzo di tali contratti - osserva l’ente accertatore - l’atleta è individuato in codice con le ultime due lettere del nome e del cognome, così da garantirgli all’estero una considerevole integrazione dell’ingaggio per le prestazioni sportive da lui rese, risiedendo in Italia, alla società sportiva italiana. Impugnato l’accertamento, il contribuente soccombe sia in prime cure sia nel giudizio d’appello. Al che propone ricorso per cassazione. In tale sede si discute, anzitutto (primo motivo), di violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37, comma 3, d.p.r. n. 600 del 1973, nonché di un asserito vizio motivazionale, sul punto stesso, della sentenza della commissione tributaria regionale della Campania. Tralasciando il secondo motivo di ricorso, aggiungiamo che, con il terzo e il quarto motivo, si lamenta ancora un vizio motivazionale in tema di prova della percezione dei compensi accertati da parte del ricorrente. Quanto al primo motivo, ad avviso del contribuente mancherebbe la prova della simulazione soggettiva contemplata dal 3° comma dell’art. 37 del d.p.r. n. 600/1973, poiché si sarebbe nell’accertamento - e di riflesso nella sentenza impugnata - provato al più l’oggetto delle pattuizioni simulatorie ma non il soggetto cui il reddito effettivo dovrebbe essere attribuito. Ciò in quanto - os- (*) Libero Foro di Milano. Cassazionista. 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 serva il ricorrente - l’Agenzia sostanzialmente attribuisce al ricorrente soltanto la “consapevolezza” della triangolazione simulatoria (interponente-interposto/ beneficiario apparente-beneficiario effettivo), e non già la sua effettiva partecipazione ad essa. Strettamente legati a questo assunto difensivo, sono poi il terzo e il quarto motivo di ricorso, che la Sezione Tributaria della Corte tratta congiuntamente, al paragrafo 2.4 della motivazione su riportata. In buona sostanza, ivi la parte sostiene che nella sentenza d’appello manchi una degna motivazione sulla questione se i compensi de quibus siano stati effettivamente percepiti dallo sportivo professionista residente in Italia - e non siano invece, per esempio, rimasti nel patrimonio della società irlandese. Al di sotto - in un certo senso - di questi motivi di ricorso, si pongono rilevanti questioni di diritto tributario, antiche e attualissime al contempo, in materia di elusione e di evasione, nonché di abuso e di simulazione. E infatti, per sciogliere i nodi sollevati dai quesiti postigli, il Giudice di Legittimità deve chiedersi: a) qual è l’esatta portata dell’art. 37, comma 3°, d.p.r. n 660/1973? La simulazione in esso contemplata è solamente quella soggettiva - quale emerge dalla lettera della norma - oppure è anche quella oggettiva, attinente al contratto piuttosto che non ai soggetti? b) e qual è il rapporto fra il 3° comma dell’art. 37, testé menzionato, e l’art. 37-bis dello stesso d.p.r. n. 600 del 1973? Detto altrimenti, la norma antielusiva per antonomasia, cioè l’art. 37-bis, interviene in applicazione là dove, in presenza di simulazione oggettiva, non soccorre l’art. 37, comma 3°? c) e siccome l’art. 37-bis appena ricordato fu introdotto con legge del 1997, quid iuris per l’epoca antecedente in tema di simulazione (oggettiva), come nel caso di specie che risale al 1993? d) come si pone, rispetto a tutto ciò, l’ampia elaborazione della Suprema Corte in punto di abuso del diritto tributario? e) infine, sul piano strettamente probatorio, come si prova efficacemente, in accertamento, la simulazione in una fattispecie quale quella in esame? 2. Le soluzioni del Supremo Collegio Osserva la Sezione Tributaria di piazza Cavour che, nel caso concreto di cui trattasi, sussistono e si compenetrano - in collegamento - ambedue le forme di simulazione: (i) quella soggettiva perché la società irlandese interposta, facente capo allo sportivo professionista, percepisce al fine somme di denaro dalla società sportiva italiana, le quali au fond - cioè al di là del velo societario estero, soggettivamente interposto - sono erogate allo sportivo stesso, il quale è residente in Italia ai fini delle imposte sui redditi; (ii) quella oggettiva, perché (parte de) il contratto di lavoro subordinato, intercorrente tra la società sportiva italiana e l’atleta, è e(s)tero-vestito da contratto a titolo oneroso per lo sfrut- CONTENZIOSO NAZIONALE 129 tamento della immagine dello sportivo stesso. Per quel che concerne in particolare la simulazione oggettiva, i Giudici della Quinta Sezione bene precisano che, contrariamente a quanto allega parte ricorrente, va condiviso l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, secondo cui essa può ben essere accertata e contestata nell’ambito della verifica tributaria sulla imposizione reddituale. Quanto all’argomento (sempre del ricorrente), giusta il quale la sentenza d’appello si sarebbe limitata ad asserire una “consapevolezza”, in capo all’atleta professionista, dell’accordo trilatero simulatorio (v. par. prec.), la Corte respinge una tale tesi, formalistica e debole, precisando che si è anche acclarato e affermato, nella sentenza impugnata, che la società sportiva e l’atleta avevano pattuito di deviare, per così dire, parte del compenso sulla società estera facente capo allo stesso sportivo, a titolo di apparente corrispettivo per lo sfruttamento dei diritti della di lui immagine. Si è posta, poi, la questione dell’epoca della entrata in vigore dell’art. 37- bis del decreto sull’accertamento, il quale articolo notoriamente risale al 1997, laddove invece le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate allo sportivo professionista, nel caso di specie, riguardano l’anno 1993. Su questo punto, che concerne la norma antielusiva “generale” in materia reddituale, il Collegio ritiene che la questione sia meritevole di esame, e che sia altresì superabile a mezzo della teorica dell’abuso del diritto in materia tributaria, quale si è sviluppato negli ultimi anni nella giurisprudenza dello stesso Supremo Collegio. In particolare, i Giudici della Quinta Sezione affermano che, anche con riferimento ai tributi “non armonizzati” nell’ambito UE - e dunque in materia d’imposizione reddituale come nel caso di specie, e non in materia d’imposta sul valore aggiunto -, vale e si applica la teoria dell’abuso quale “principio generale antielusivo”, secondo il quale non sono opponibili all’amministrazione finanziaria i negozi stipulati “in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione” e aventi il solo fine di conseguire un beneficio fiscale a mezzo dell’uso distorto di strumenti giuridici. Un siffatto principio, nei tributi non armonizzati in ambito UE qual è la nostra IRPEF, discende - rammenta il Supremo Collegio - dai principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività delle aliquote, di cui all’art. 53 della Carta fondamentale. Sì che la questione del tempo di entrata in vigore dell’art. 37-bis del decreto sull’accertamento si dilegua. E infatti la Sezione Tributaria, riprendendo da ultimo le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30055 e Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029), afferma che è irrilevante che il periodo d’imposta accertato, nel caso di specie, sia il 1993 laddove la norma antielusiva in materia reddituale è del 1997, poiché la teoria dell’abuso si fonda - come testé detto - sull’art. 53 della Carta fondamentale, e dunque retroagisce rispetto all’ingresso dell’art. 37-bis nell’ordinamento. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Residua, infine, la tesi difensiva secondo cui non vi sarebbe stata data degna motivazione sull’avvenuta percezione, da parte dell’atleta, delle somme estero-vestite. Al riguardo il Supremo Collegio si pronuncia nel senso della fondatezza del motivo di ricorso, ravvisando in effetti, nella impugnata sentenza, una motivazione contraddittoria e/o insufficiente. 3. Considerazioni a margine Come anticipato, i temi e la fattispecie concreta all’esame del Collegio nella causa in rassegna sono “antichi e nuovi”. Antichi, poiché le e(s)tero-vestizioni di compensi agli atleti professionisti residenti in Italia costituiscono dati operazionali che subito rimandano a casi ben noti della nostra giurisprudenza tributaria, quali in primis l’affaire di Diego Armando Maradona, il quale pure aveva fatto “deviare”, in combutta con la società calcistica partenopea, parte dei suoi corrispettivi di lavoro nelle casse intermedie di una società di Vaduz facente capo al campione, la quale formalmente gli erogava quella stessa parte di compensi a titolo di corrispettivo per lo sfruttamento della immagine. Constano storicamente, al riguardo, una cristallina pronuncia dell’allora Commissione Tributaria di 1° grado di Napoli, favorevole al fisco, e successivamente la sentenza d’appello della Commissione Tributaria di 2° grado, la quale è stata meno apprezzata di quella di prime cure, da parte della dottrina che si occupò subito di quel processo (FALSITTA). Nuovi sono però, al contempo, i temi e la fattispecie concreta qui all’esame della Corte - si diceva -, perché nel frattempo si è sviluppata, nella giurisprudenza del Supremo Collegio (anche) nella materia tributaria, la teorica dell’abuso del diritto, la quale in ambito fiscale è poggiata essenzialmente su due basi, a seconda dei tributi che vengono in considerazione; e infatti, se per quel che riguarda i tributi armonizzati a livello europeo - e dunque l’I.V.A. in particolare - il fondamento è reperito nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, per quel che concerne invece i tributi non armonizzati, la giurisprudenza tende a fare discendere la teoria dell’abuso tributario dall’art. 53 della Carta fondamentale. Antica e nuova, al contempo, è poi la questione se, all’interno dei poteri della pubblica amministrazione in materia d’imposte sui redditi, rientri anche quello di fare valere, in sede accertativa, la simulazione posta in essere dal contribuente. Questa questione è antica, poiché da sempre si afferma che, fra i “terzi” di cui all’art. 1415 cpv. c.c., rientra anche - e soprattutto, qualcuno ha precisato - l’amministrazione finanziaria; nuova è d’altronde la medesima questione perché, se l’antico assunto testé formulato prospettava l’azione di simulazione esercitata dal fisco dinnanzi all’A.G.O., la dottrina più recente, dopo averne messo in luce le carenze strutturali e funzionali, ha piuttosto invocato l’applicazione delle norme del codice civile sulla simulazione (in particolare il pre- CONTENZIOSO NAZIONALE 131 detto art. 1415), anche nel diverso contesto del plesso dei public powers contemplati dal d.p.r. n. 600 del 1973. Sicché, in quest’ultima prospettiva, si tende a dimostrare - e per l’effetto ad affermare - che anche concretamente, in sede di accertamento reddituale - oltre che astrattamente in azione civile -, l’Agenzia delle Entrate può contestare e dimostrare la sussistenza della simulazione secondo i parametri di cui agli artt. 1414 ss. c.c., trasposti all’interno del procedimento accertativo. Ciò premesso, andiamo a vedere come la Corte ha risolto queste problematiche con riferimento al caso in rassegna. Anzitutto affermano i Giudici della Sezione Tributaria, senza circonlocuzioni dubitative di sorta, che merita respingimento l’eccezione del privato ricorrente, secondo cui la simulazione oggettiva - a differenza di quella soggettiva di cui all’art. 3° comma dell’art. 37, d.p.r. n. 600/1973 - non potrebbe ex lege rientrare nell’ambito dei poteri accertativi spettanti all’Agenzia delle Entrate. L’assunto in diritto è motivato mediante il richiamo a un paio di precedenti dello stesso Supremo Collegio (Cass., 26 ottobre 2005, n. 28816; Cass., 10 giugno 2005, n. 12353). Si tratta di un’affermazione di notevole momento, poiché essa - molto lucidamente ad avviso di chi scrive - oltrepassa e accantona, in modo netto e assoluto, quella lettura angusta dell’artt. 37, comma 3°, la quale, arrestandosi al dato meramente letterale della disposizione - e concependo la medesima come attributiva di una sorta di potere ad hoc (stra-ordinario, per certi versi) dato agli enti accertatori -, perviene appunto al riduttivo esito ermeneutico, secondo cui solamente l’interposizione fittizia di persona, e dunque la simulazione soggettiva, rientra non soltanto nella sfera di applicazione della norma stessa, ma altresì - e questo è quanto nel caso di specie il ricorrente ha allegato in Cassazione - nella sfera dei poteri degli enti accertatori. Si tratta di argomenti che, secondo una parte degli interpreti (il FALSITTA in primis, e più modestamente chi scrive) non può essere affatto accolta, dacché angusta e cieca e per certi versi superficiale: si può ben dire infatti che, anzitutto, sol che si osservi con attenzione la moderna dottrina civilistica in tema di simulazione (GENTILI), ci si avvede del fatto che, quasi sempre, alla interposizione fittizia si accompagna - e si compenetra - una simulazione oggettiva della tipologia contrattuale; non solo, ma l’art. 47, comma 3° - a ben vedere -, nel contesto e nel complesso dei poteri accertativi attribuiti all’amministrazione finanziaria ex d.p.r. n. 600/1973, non costituisce una disposizione eccezionale o innovativa, ma semplicemente esemplificativa e chiarificatrice di un pouvoir public che già c’era, e che certamente non può non estendersi a tutte le forme di simulazione. Ecco allora che in questa prospettiva si deve salutare con apprezzamento anche quell’altro passo della sentenza in rassegna, dove si prende esplicita cognizione del fatto che - come ricorre in prassi -, nel caso della esterovestizione di compensi spettanti ad atleti professionisti residenti in Italia, accanto alla in- 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 terposizione di società estere in Paesi a bassa fiscalità, costituite ad hoc, vi è anche il travestimento di un contratto di lavoro dipendente, per prestazioni sportive, in contratto per lo sfruttamento dell’immagine dell’atleta. Detto questo, meno si comprende la soluzione che il S.C. adotta con riferimento alla ulteriore questione in diritto, sollevata dall’argomento del ricorrente, giusta il quale l’art. 37-bis del decreto sull’accertamento è del 1997 e invece l’anno d’imposta, cui si riferisce la verifica tributaria nel caso di specie, è il 1993. Su questo aspetto, stanti le premesse adottate dai Giudici della Quinta Sezione, ci si attenderebbe che la Corte stessa, molto semplicemente, rimandi un siffatto argomento al mittente, sulla base del fatto che esso è assolutamente irrilevante nel caso di specie proprio alla luce delle premesse poste. Ed invero, l’art. 37-bis, a differenza dell’art. 37, terzo comma, disciplina e considera il fenomeno della elusione e non già della evasione, posto che è evidente che il ricorso alla simulazione, soggettiva e oggettiva o entrambe assieme collegate, sempre a una violazione diretta della norma tributaria dà luogo, e non pone - diversamente - in essere un negozio o un collegamento negoziale apparentemente legittimo anche sul versante fiscale, sebbene vòlto precisamente ad aggirare le norme imperative tributarie e a conseguire, mediante un uso distorto dei negozi, solo un risparmio tributario. E pertanto già il considerare e l’applicare, nel caso della e(s)terovestizione simulatoria di compensi, l’art. 37-bis porta – ad avviso di che scrive – fuori strada. In un caso come quello all’esame del S.C., dove vi è - come la stessa Corte perspicuamente rileva - una simulazione soggettiva ed oggettiva nel contempo, le norme da prendere in considerazione e applicare sono piuttosto, come si è detto, l’art. 37, comma 3°, in una con le altre disposizioni del decreto sull’accertamento nonché insieme agli artt. 1414 ss. del codice civile. Diversamente argomentando, si finisce con il trattare una fattispecie concreta di evidente evasione alla stregua di una condotta meramente elusiva da parte del contribuente, con un inquadramento che, fra l’altro, distoglie anche dai possibili risvolti penali della condotta posta in essere in danno erariale. Sì che, a ben vedere, il fatto che l’art. 37-bis sia entrato in vigore solamente nel 1997 - là dove l’anno d’imposta accertato nel caso di specie era il 1993 - non significa proprio nulla sul piano dei poteri dell’Agenzia, i quali appieno sussistevano già nel 1993, per sventare – in accertamento – una evasione simulatoria ai danni del fisco. Ergo anche il richiamo all’abuso del diritto diventa forviante. Stupisce così il fatto che a esso abbia finito con il fare richiamo la Suprema Corte, poiché proprio sulla base delle premesse lucidamente poste alla base del ragionamento - scilicet la simulazione complessa, accertabile dall’Agenzia sulla scorta dei suoi “ordinari” poteri - , si sarebbe dovuti pervenire direttamente alla reiezione del ricorso del contribuente, sul punto, senza biso- CONTENZIOSO NAZIONALE 133 gno alcuno di fare ricorso alla teorica dell’abuso del diritto - la quale, per sua stessa natura, concerne situazioni e comportamenti tutt’affatto diversi: cioè comportamenti negoziali apparentemente leciti e validi, nonché del tutto efficaci, sia sul piano sia civilistico sia sul versante tributario, e invece al fondo viziati da quella mala fede verso il fisco, che si reperisce nell’esclusivo intento di non esborsare imposte - tanto da dover essere disapplicati i negozi stessi, e dunque resi inefficaci nei confronti del fisco. Né si dica che si tratta di una distinzione puramente teoretica, poiché a ben vedere i corollari sono di notevole momento. Oltre ai possibili aspetti penali correlati alla sola evasione di cui si è detto, va aggiunto che, di converso, solamente in tema di elusione si pone il delicato dibattito sulla concreta linea di confine tra legittimo risparmio d’imposta e abuso elusivo. Sì che i riferimenti di questa pronuncia all’abuso e all’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/73 non convincono chi scrive, anche perché la teorica dell’abuso è tutta incentrata, in materia d’imposizione reddituale, sul sostanziale ampliamento della sfera di applicazione dello stesso art. 37-bis al di là dei casi concreti ivi contemplati; sicché se non vi era - come non vi era - nel caso all’esame alcun bisogno d’invocare l’art. 37-bis, allo stesso modo e per lo stesso motivo non vi era ragione per addentrarsi nel campo dell’abuso. E per la verità, una volta inquadrato limpidamente il problema in termini di simulazione evasiva (soggettiva e oggettiva al contempo), anche l’esame, da parte della Corte, dell’ultima questione - quella cioè relativa alla effettiva percezione o meno delle somme da parte del contribuente - lascia, a una prima lettura, piuttosto perplessi. Viene cioè da pensare che tale questione avrebbe dovuto essere affrontata diversamente: posto, cioè, che in ipotesi sussisteva una simulazione fra l’altro soggettiva - e posto dunque che la società dublinese, facente capo all’atleta professionista, era ivi il soggetto interposto e oltrepassabile -, ne conseguiva che la società estera medesima si sostanziava in una sorta di mero “velo di Maja”, ai fini reddituali, tra la società sportiva italiana, datrice di lavoro, e lo sportivo residente in Italia, lavoratore dipendente della società sportiva. Per conseguenza il fatto che la somma fosse stata percepita dalla società dublinese, facente capo alla persona fisica contribuente, equivaleva al fatto dell’impossessamento di quel danaro da parte del contribuente stesso. Nondimeno, se si legge con attenzione la sentenza in rassegna, ci si avvede che il motivo in parola non è proposto al Collegio della difesa del contribuente, bensì dell’Avvocatura dello Stato per conto dell’Agenzia delle Entrate. Esso investe la insufficiente motivazione, al riguardo, della sentenza d’appello. Sì che la Corte di Legittimità, cassando con rinvio sul punto la pronuncia di seconde cure, riapre la questione della percezione o meno in termini probatori e motivazionali, indicando al giudice del rinvio i criteri - correttamente individuati come anche presuntivi - cui attenersi. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Di ciò preso atto, non sembrano movibili, alla sentenza che si annota, le stesse critiche che furono mosse, da parte della dottrina, alla decisione di secondo grado del caso Maradona, laddove essa, ribaltando la perspicua pronuncia di primo grado, finì con l’annullare l’accertamento poiché in esso sarebbe mancata la prova della percezione del danaro, transitato per la società di Vaduz, da parte del calciatore. Epperò in conclusione la pronuncia in rassegna dev’essere particolarmente apprezzata nei passaggi sui poteri dell’Amministrazione vòlti ad accertare ogni forma di simulazione ai fini reddituali. Va altresì condivisa, e salutata con favore, laddove essa, posta di fronte a un caso di e(s)terovestizione di compensi, ravvisa una compenetrazione indissolubile tra simulazione soggettiva e oggettiva. Non può essere, di contro, condivisa a nostro avviso, sul piano strettamente motivazionale (pur nella condivisione del dispositivo), laddove essa invoca, in un caso evasivo-simulatorio, la teorica dell’abuso del diritto tributario. 4. Spunti giurisprudenziali e dottrinali • Comm. Trib. 1° grado Napoli, 25 ottobre 1993, n. 3230; • Comm. Trib. 2 grado Napoli, 29 giugno 1994, n. 126; • Cass., 26 ottobre 2005, n. 28816; • Cass., 10 giugno 2005, n. 12353; • Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30055; • Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029; • F. M. GIULIANI, La simulazione dal diritto civile all’imposizione sui redditi, Cedam, Padova, 2009 (con ampi riff. a margine). Corte di cassazione, Sez. Tributaria, sentenza 26 febbraio 2010, n. 4737 - Pres. Miani, Rel. Campanile. D.N.F. (avv. Magnani) c. Agenzia entrate (avv. gen. Stato). (Omissis) FATTO 1.1 La Commissione tributaria regionale della Campania, con la decisione indicata in epigrafe, ha rigettato l'appello proposto da D.N.F., nei confronti dell'Agenzia delle Entrate di Avellino, avverso la sentenza di primo grado con cui era stato respinto il proprio ricorso avverso l'avviso di accertamento con il quale il reddito da lavoro dipendente ai fini IRPEF relativo all'anno 1993 era stato elevato da L. 3.251.387.000 a L. 3.714.137.000. 1.2. Detto avviso si fondava su un processo verbale di constatazione redatto il 27 novembre 1998 dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano, nel quale era stato evidenziato che la società S.M.G. Ltd, con sede in Dublino, aveva stipulato con la S.I.I. Ldt un contratto per l'acquisizione dei diritti di sfruttamento dell'immagine passiva di atleti ingaggiati da società svolgenti attività sportiva in diverse discipline appartenenti alla medesima holding, aventi la funzione di garantire agli atleti - individuati da un codice costituito dalle ultime due lettere del nome e del cognome - una cospicua integrazione dell'ingaggio per le prestazioni sportive effettuate. CONTENZIOSO NAZIONALE 135 1.3 La Commissione tributaria regionale, premesso che la prova dell'interposizione fittizia di regola viene raggiunta per presunzioni, osservava che già la contrattazione dei diritti di sfruttamento del nome e dell'immagine con una società estera, "collocata in un paradiso fiscale", costituiva il primo indizio, grave e preciso, dell'interposizione, potendosi agevolmente dedurre che si fosse "inteso ostacolare gli accertamenti dell'Amministrazione finanziaria", e che, pertanto, si fosse "voluto nascondere la reale destinazione delle somme indicate fittiziamente come cessione dei menzionati diritti di sfruttamento". Richiamata la valenza, sul piano probatorio, delle risultanze inerenti agli accertamenti effettuati dai revisori della A.A. & CO., si rilevava che ulteriori elementi probatori erano costituiti: a) dall'assenza di prove circa l'effettivo sfruttamento dell'immagine del D.N.; b) dall'indicazione del medesimo - secondo un sistema utilizzato anche per altri atleti - con il nome in codice (...), formato con le sillabe finali del nome e del cognome; c) dalla dislocazione delle società cessionarie, costituite in coincidenza con l'acquisizione dei menzionati diritti di sfruttamento dell'immagine, in "paradisi fiscali"; d) dalla loro appartenenza, infine, al medesimo gruppo (...) cui era inserita la società sportiva (...) che aveva ingaggiato il D.N.. 1.4. Avverso detta decisione il D.N. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati con memoria. 1.5. Si sono costituiti con controricorso l'Agenzia delle Entrate e il Ministero dell'Economia e delle Finanze, concludendo per il rigetto del ricorso. DIRITTO 2.1 Va preliminarmente dichiarata l'inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze, che non è stato parte del giudizio d'appello, instaurato nei confronti della sola Agenzia delle entrate, nella sua articolazione periferica, dopo la data del 1 gennaio 2001, con implicita estromissione, dell'ufficio periferico del Ministero (Cass., Sez. Un., n. 3166 del 2006). Ricorrono giusti motivi (rilievo ufficioso dell'inammissibilità, proposizione del ricorso in epoca anteriore alla richiamata pronuncia delle SS.UU. di questa Corte) per la compensazione, in parte qua - delle spese processuali. 2.2. a - Passando all'esame del ricorso proposto nei confronti dall'Agenzia delle Entrate, va osservato che il primo motivo, con il quale si deduce, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, nonchè vizio di motivazione, è infondato. In particolare, con la censura inerente alla violazione della norma contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, il ricorrente osserva in sostanza che il richiamo a tale disposizione non sarebbe consentito in merito alla "prova della simulazione del contratto stipulato fra SII e SMG, prova che riguarda l'oggetto delle pattuizioni e non i soggetti tra cui essi effettivamente intercorsero". Si aggiunge che, poichè il soggetto interponente, nella decisione impugnata, sarebbe indicato nella SII, mentre di tale interposizione il D.N. sarebbe soltanto "consapevole", non sarebbe applicabile a costui la norma in questione, che consente l'imputazione del reddito al solo soggetto interponente. Sotto tale profilo sarebbe riscontrabile anche un vizio motivazionale, relativamente alle modalità, non ben esplicitate, con cui il compenso sarebbe pervenuto al calciatore. 2.2.b. La motivazione della decisione impugnata, quanto meno per quanto attiene alla descrizione dei rapporti negoziali attraverso i quali si sarebbe verificata l'evasione d'imposta (ed a prescindere da quanto si dirà, in prosieguo, circa gli aspetti di natura probatoria), rinvia, a ben vedere, a un complesso meccanismo che si giova di due distinte forme di simulazione, fra loro collegate ma non coincidenti: da un lato, l'interposizione soggettiva, nel senso che una 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 parte dei compensi al calciatore sarebbero stati versati a una società cessionaria dei diritti di sfruttamento del nome e dell'immagine del predetto; dall'altro, una vera e propria simulazione oggettiva, nel senso che la cessione di detti diritti non sarebbe stata in realtà voluta (nell'ambito di un contratto che non avrebbe mai avuto una concreta attuazione), ma sarebbe stata utilizzata come schermo per giustificare i passaggi di danaro relativi al pagamento di una parte del compenso dovuto all'atleta. Non può, invero, dubitarsi, del riferimento, nella decisione impugnata, al meccanismo testè descritto, così come, per altro, posto alla base dell'accertamento in esame: “Il M., società sportiva del Gruppo (...), ingaggia come calciatore il D.N. e pattuisce un certo compenso per le di lui prestazioni, del quale una parte appare ufficialmente e una parte viene simulata come sfruttamento d'immagine mediante la stipulazione di contratti fittizi tra le altre società del Gruppo (...)". Appare, pertanto, evidente, come la simulazione della cessione dei diritti di sfruttamento dell'immagine, così come le forme di pagamento attuate mediante soggetti interposti, costituiscano tante facce del poliedrico meccanismo sopra descritto, nel quale il D.N. non assume di certo la veste di "terzo", ancorchè consapevole, essendo chiaramente indicato, non solo come beneficiario, ma anche come uno dei principali artefici del meccanismo stesso, mediante il testuale riferimento - sopra richiamato - all'accordo intervenuto fra lui e la società sportiva M. circa la ripartizione del compenso pattuita in una parte "ufficiale" ed in un'altra (quella oggetto dell'avviso di accertamento impugnato) da versarsi mediante il ricorso alle attività di altre società del gruppo. Appare quindi evidente come sia del tutto riduttiva l'analisi di un singolo frammento del citato meccanismo per rinvenire la giustificazione, sul piano normativo, della tesi sostenuta dall'Agenzia delle Entrate. Di certo, ove si consideri che la Commissione tributaria regionale era investita, tramite il primo motivo di appello (riportato nella parte narrativa della decisione impugnata), della questione inerente esorbitanza dai poteri della commissione tributaria di primo grado di sindacare (in quanto - si sosteneva - riservata al giudice ordinario) la simulazione oggettiva, appare comprensibile che i giudici di secondo grado si siano a lungo profusi sulla figura della simulazione, analizzandone i vari aspetti e richiamando, quanto a quella soggettiva, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3. Va rilevato, per completezza di esposizione, che la tesi secondo cui l'accertamento della simulazione relativa oggettiva sarebbe precluso nel procedimento tributario non trova riscontro nè nella migliore dottrina, nè nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., 26 ottobre 2005, n. 28816; Cass., 10 giugno 2005, n. 12353). 2.2.c. Tanto premesso, occorre precisare che la tesi secondo cui la norma più volte richiamata sarebbe stata erroneamente applicata perchè il D.N. non sarebbe indicato come "interponente", bensì come mero soggetto "consapevole dell'accordo triangolare nel quale la società estera sarebbe il soggetto interposto, mentre la società S.I.I. il soggetto interponente", si fonda su un brano della sentenza impugnata contenente una breve esposizione della tesi sostenuta dall'Amministrazione finanziaria, in cui, se la definizione dell'interposizione è - forse in maniera poco felice - relegata al solo aspetto della delegazione di pagamento dissimulata, essendo cioè, riferita a una limitata frazione del meccanismo complessivamente posto in essere, tuttavia la sostanza del fenomeno, per quanto qui maggiormente interessa, è sostanzialmente colta dalla Commissione tributaria regionale con l'affermazione secondo cui il contratto collegato in esame avrebbe avuto ben altre finalità, nel senso che "le relative somme fittiziamente pattuite per il suddetto sfruttamento costituirebbero una ben mascherata integrazione del pagamento dello stipendio di calciatore pagato al D.N.F." (altrove, con riferimento all'indicazione in codice del nome dell'atleta, ci si riferisce espressamente al "mascheramento del contratto dissimulato, cioè di quello vero di pattuizione di un extra-ingaggio"). CONTENZIOSO NAZIONALE 137 2.2.d. Non potendo, quindi, dubitarsi che la Commissione tributaria regionale abbia correttamente colto, e posto alla base della sua decisione, la sostanza del fenomeno come sopra descritto, inquadrandolo altresì, con l'esplicito riferimento al calciatore come "effettivo possessore per interposta persona" del reddito, nella previsione della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, la qualificazione giuridica della fattispecie deve essere operata con il riferimento alla legittimità dell'accertamento in quanto inerente a un meccanismo, come quello descritto, artificiosamente posto in essere allo scopo di ottenere indebiti vantaggi di natura fiscale. Giova, in proposito, richiamare l'orientamento che, movendo da ben precise pronunce comunitarie, ha evidenziato come, anche prima dell'entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, fosse presente nel nostro ordinamento il divieto dell'abuso del diritto per conseguire indebiti vantaggi sul piano fiscale (Cass., 21 Ottobre 2005, n. 20398; Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816; Cass., 14 novembre 2005, n. 22932; Cass., 29 settembre 2006, n. 21221; Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374). Di recente le Sezioni Unite di queste Corte hanno affermato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione" (Cass., 23 dicembre 2008, n. 30055; successivamente richiamata da Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029). Tanto premesso, appare evidente come il complesso delle attività sopra evidenziate, fra loro coordinate e finalizzate - secondo la tesi recepita nella decisione impugnata - all'occultamento di parte del compenso corrisposto al ricorrente, non possa considerarsi opponibile all'Amministrazione finanziaria, che legittimamente può far valere la reale situazione sottesa alla situazione apparente, allo scopo di affermare la fondatezza della pretesa fiscale. 2.3 - Deve considerasi infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale, in merito alla utilizzazione di dati emergenti dalle relazioni della società di revisione, o da dichiarazioni di singoli relatori, ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2729 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. In proposito vale bene richiamare una recente pronuncia di questa Corte (Cass., 12 marzo 2009, n. 5926 ), condivisa dal Collegio, nella cui parte motiva, premessa una ricostruzione dei compiti e delle responsabilità delineate dal quadro normativo, si è affermato che l'istituto della revisione del bilancio delle società commerciali si caratterizza per alcuni profili particolarmente forti del suo regime, quali sono quelli del controllo pubblicistico (iscrizione all'Albo e vigilanza della Consob) e della responsabilità civile e penale del revisore, che, se pur non consentono di affermare che la relazione di revisione garantisce la verità del bilancio, vincolano a riconoscere, a pena dell'inutilità dell'istituto, che essa costituisce una pronuncia qualificata sulla verità della contabilità e del bilancio. Da tanto si è con- 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 divisibilmente desunto che "ogni volta che la relazione di revisione venga messa a disposizione dell'ufficio tributario e del giudice tributario, le autorità devono tenerla in conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perche manca una norma legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia l'ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell'ufficio. Tale prova non può essere fornita attraverso la rilevazione di semplici indizi di non veridicità relativamente alle motivazioni addotte nella relazione di revisione, ma attraverso la produzione di documenti che siano idonei a dimostrare che nel giudizio di revisione il revisore è incorso in errore o ha realizzato un inadempimento. Tra i documenti che sono in grado di esprimere tale forza di confutazione della relazione di revisione possono annoverarsi, senza che esauriscano la categoria: a) quelli che dimostrino il carattere omissivo del comportamento del revisore, b) quelli che, pur tributariamente rilevanti, non siano stati oggetto di valutazione da parte del revisore, perchè non se ne prevedeva l'inserimento nelle procedure di revisione; c) quelli che sono stati occultati, perchè idonei a provare comportamenti dolosi". 2.4 - Tanto premesso, deve rilevarsi la fondatezza del terzo e del quarto motivo di ricorso, che possono essere congiuntamente trattati, in quanto attinenti a vizi della motivazione relativamente alla prova della percezione dei compensi da parte del D.N.. La questione attiene, principalmente, all'assenza di specifici riferimenti, nella motivazione della sentenza scrutinata, al tema fondamentale, proposto con l'appello, "della prova della percezione delle somme da parte del ricorrente". Sul punto la decisione impugnata appare carente sotto il profilo motivazionale (come affermato da questa Corte, in relazione ad analoga fattispecie, con la decisione n. 13660/2009), per non aver ben evidenziato – anche mediante il ricorso a presunzioni - come il ricorrente fosse con certezza identificabile nella sigla (...) utilizzata nelle fatturazioni (il cui utilizzo, contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, è in ogni caso significativo di attività non ostensibile, epperò fraudolenta; per non aver affrontato il tema dei rapporti fra lo stesso e la società interposta, in relazione ai movimenti di danaro ai quali si fa riferimento sia nel ricorso (precisandosi tuttavia che il D.N. non sarebbe incluso fra i beneficiari diretti dell'erogazione di somme provenienti dalle società estere) sia nel controricorso, nonchè alle relazioni - anche sotto il profilo diacronico - fra l'attività svolta dalle società coinvolte nell'affare della cessione dei diritti di sfruttamento dell'immagine e il contratto intercorso fra il ricorrente e la società sportiva. Un altro aspetto, che appare contraddittorio, consiste nell'aver la decisione impugnata evidenziato i rapporti fra le società del gruppo, anche in relazione alla decurtazione dei costi, senza collocare in tale quadro la posizione del D.N.. 2,5. La pronuncia impugnata, pertanto, va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria regionale della Campania, che procederà a nuovo esame - anche sulla base dei principi di diritto enunciati - della fattispecie concreta. P.Q.M. La Corte di Cassazione, dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze e compensa le relative spese. Pronunciando sul ricorso proposto dall'Agenzia delle Entrate, accoglie il terzo e il quarto motivo, e rigetta i rimanenti. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della CTR della Campania. CONTENZIOSO NAZIONALE 139 La disciplina dell’onere della prova nel codice del processo amministrativo (Nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16 maggio 2011 n. 2955 ) Carlo Bellesini* Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha affrontato la questione dell’onere della prova nei giudizi amministrativi dopo l’entrata in vigore del Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, con il quale è stato introdotto il nuovo codice del processo amministrativo. Un’impresa aveva proposto ricorso al Tar del Lazio per la condanna del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittima esclusione dall’Albo Nazionale dei Costruttori Edili (ANCE), e della conseguente impossibilità di esercitare la propria attività nel settore dei lavori pubblici. Il giudice di prime cure, pur riconoscendo l’illegittimità dell’esclusione dell’impresa dall’ANCE, ha respinto il ricorso in quanto il ricorrente non ha comunque fornito alcun elemento di prova del danno patito e non ha ottemperato all’onere della prova a lui spettante, ai sensi dell’art. 64 del codice del processo amministrativo. La sentenza di primo grado è stata confermata dal giudice d’appello, il quale ha, inoltre, affermato che: “anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice approvato con D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 (cfr. art. 64, comma 3, cod. proc. amm.), il sistema probatorio è fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice”. Tale affermazione non è del tutto condivisibile. In particolare, a parer di chi scrive, il temperamento del principio dispositivo con il metodo acquisitivo è concetto che va rimeditato ai sensi dell’attuale contesto normativo e giurisprudenziale. Tuttavia, prima di approfondire tale critica alla sentenza in commento, è necessario ricostruire la disciplina e la ratio dell’onere della prova nel processo amministrativo alla luce del suddetto principio dispositivo con metodo acquisitivo. In primis, giova rilevare che il suddetto principio è stato introdotto dal Prof. Feliciano Benvenuti nel suo scritto “L’istruzione probatoria nel processo amministrativo” (1) alla metà degli anni Novanta, prima, dunque, dell’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo (Legge n. 241/90) e del novello codice del processo amministrativo (D.lgs. n. 104/2010). A riguardo, la norma di riferimento era, naturalmente, l’art. 2697 del co- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Il prof. Guido Corso - Università degli Studi di Roma 3 - è stato relatore della tesi discussa dal dott. Bellesini “L’onere della prova nel processo amministrativo”. (1) Vd. BENVENUTI, F., L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, ora in Id., Scritti giuridici, Milano, 2006, I, 1 ss. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dice civile, il quale pone a carico di chi vanta un diritto in giudizio, l’onere di fornire la prova dei fatti che ne costituiscono il fondamento. Tale regola va poi affiancata all’art. 115 del codice di procedura civile secondo cui, salvi i casi previsti dalla legge, il giudice non può porre a fondamento della sua decisione fatti che non siano allegati e provati dalle parti: il giudice deve decidere, dunque, “iuxta alligata et probata partium”. In altre parole, le parti hanno il potere di iniziativa nel raccogliere gli elementi di prova circa i fatti su cui il giudice è chiamato a decidere (2). Il principio dispositivo è inteso ad assicurare il rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio, al fine d’impedire che una parte possa subire una decisione basata su fatti ad essa sconosciuti ed in relazione ai quali non si sia potuta difendere (cfr. Cass. Civ. sez. II, n. 1165/1983 e Cass. Civ., sez. II, n. 12980/2002). Riassumendo, l’istruzione del caso è nella disponibilità esclusiva delle parti, senza possibilità per il giudice di ampliare ex officio il thema probandum (3). Ebbene, nel pensiero di Benvenuti, il principio dispositivo vale anche per l’istruttoria nel giudizio amministrativo, con alcune varianti, rectius attenuazioni, rispetto al giudizio civile. In particolare, secondo il principio dispositivo con metodo acquisitivo, al ricorrente spetta l’onere di fornire un principio di prova, ossia una mera allegazione, e non prova, dei fatti a sostegno della sua pretesa: mentre al giudice sono forniti poteri probatori, anche officiosi, idonei a completare l’istruzione del caso. Quest’assetto è frutto della disparità che contraddistingue il rapporto tra le parti in giudizio: ricorrente e Pubblica Amministrazione. Tale disuguaglianza è conseguenza delle difficoltà che il ricorrente incontra nel reperire il materiale probatorio idoneo a sostenere il ricorso. Infatti, la Pubblica Amministrazione ha la disponibilità esclusiva degli atti e dei documenti che hanno portato all’emissione dell’atto impugnato e sulla base dei quali può, dunque, sostenersi la sua illegittimità (4). Il temperamento del principio dispositivo con il metodo acquisitivo è concetto che andava già rivisto alla luce della Legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo. A riguardo, il c.d. metodo “acquisitivo” aveva un senso in un regime nel quale al privato non veniva garantito l’accesso alla documentazione amministrativa. Il discorso è oggi diverso dopo l’introduzione del diritto di accesso ai documenti amministrativi (5). (2) Sul punto si veda LA CHINA, S., Esibizione delle prove nel processo civile, Milano, Giuffrè, 1960. (3) Per un approfondimento sul tema si rinvia a FABIANI, E., I poteri istruttori del giudice civile, Ed. scientifiche italiane, 2008. (4) A riguardo si vd. DE LISE, P., L’istruzione nel processo amministrativo - Testo della relazione al Convegno su Feliciano Benvenuti e il diritto amministrativo nel nuovo secolo, svoltosi al Consiglio di Stato il 23 aprile 2008 in www.giustizia-amministrativa.it. (5) Per un approfondimento si rinvia a G. CORSO, La prova (diritto amministrativo), in Enciclopedia giuridica Treccani, 1999, e SAITTA, F., Il sistema probatorio del processo amministrativo dopo la CONTENZIOSO NAZIONALE 141 Modificata la norma sul segreto d’ufficio, al principio di segretezza viene sostituito un opposto principio di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa (artt. 1 e 28 L. n. 241/90). Pertanto, gli artt. 22 e ss. della suddetta legge prevedono, per il privato cittadino e per soggetti portatori di interessi pubblici o diffusi, il diritto di accedere alla documentazione amministrativa: legittimati sono coloro che vantano un interesse concreto, diretto e attuale all’accesso, che, in sostanza, corrisponde a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento: ciò per impedire un controllo generalizzato sull’attività della P.A (6). Inoltre, l’effettività del “diritto di accesso” è assicurata dal rito speciale in materia di accesso ai documenti amministrativi previsto dall’art. 116 del codice del processo amministrativo. In particolare, nell’ipotesi che la P.A. opponga un rifiuto alla domanda di accesso, allegando una delle ragioni che lo giustificano (segreto di Stato, sicurezza, ordine pubblico, ecc. ai sensi dell’art. 24 L. n. 241/90) o mantenga semplicemente il silenzio, l’interessato può rivolgersi al Tribunale amministrativo regionale che deciderà sulla richiesta di accesso in un termine, di norma, non superiore a trenta giorni. Pertanto, venuta meno quella impossibilità - o somma difficoltà - per il privato di procurarsi la disponibilità del materiale probatorio, anche nel processo amministrativo deve trovare piena applicazione la regola dell’onere della prova, senza deroghe o attenuazioni di sorta, secondo gli schemi tipici del processo civile (7). Tutto ciò trova conferma nella recente riforma del processo amministrativo: l’art. 64 del nuovo codice del processo amministrativo, al I e II co., riproduce fedelmente la disciplina espressa dai succitati artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. (8). Il “nuovo codice” ha, quindi, definitivamente sancito l’operatività del principio dispositivo nella disciplina dell’onere della prova nel processo amministrativo. Ora, questa tesi ha recentemente trovato riscontro anche nella giurisprudenza. In particolare, il T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, con la sentenza n. 26440 del 1 dicembre 2010, sulla base delle medesime argomentazioni suesposte, ha affermato che, dopo l’entrata in vigore della legge 241 del 1990 e del nuovo codice del processo amministrativo, non è più consentita l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo; pertanto, prosegue il T.A.R.: legge n. 241 del 1990: spunti ricostruttivi in Dir. proc. amm., I, 1996, pag. 1 e ss. e RAGGI, R., Diritto alla prova e diritto al documento dopo la legge n. 241 del 1990: due categorie distinte ed autonomia in Dir. proc. amm., I, 1996. pagg. 136 e ss. (6) Vd. CORSO, G., Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2008. (7) Ci si riferisce, in particolare allo studio di G. VIRGA, Attività istruttoria primaria e processo amministrativo, Milano, 1991. (8) Per completezza, l’articolo 64 del Dlgs n. 104/2010, rubricato “Disponibilità, onere e valutazione della prova”, dispone al I co. “Spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”. Al II co. dispone: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonchè i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite”. 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 “il giudice non deve supplire con propri poteri istruttori ad incombenti cui la parte può diligentemente provvedere; l’istruttoria ufficiosa subentra dunque quando il giudice ritenga di attivare i suoi poteri d’ufficio al (superiore) fine di decidere, solo dopo però che le parti abbiano delineato (provato) il tema del contendere”. Tuttavia, per parte della dottrina (9), anche dopo la riforma del procedimento amministrativo, continuerebbe a sussistere una disparità tra privato e pubblica amministrazione nel disporre del materiale probatorio: tale tesi poggia sull’assunto che nel termine sessagesimale di decadenza dell’azione di annullamento non si potrebbe ragionevolmente pretendere che chi intende impugnare un provvedimento, oltre a dover redigere il ricorso, debba anche doversi munire di tutte le prove necessarie ad istruire la causa, visto che la maggior parte degli atti e documenti oggetto di tale prove sono nella esclusiva disponibilità della Pubblica Amministrazione resistente; quest’ultima, infatti, avrebbe trenta giorni di tempo per evadere le richieste di accesso, secondo la disciplina del “silenzio- dissenso”: e nei confronti dei dinieghi e dei silenzi in tema di accesso quello ex art. 116 del codice del processo amministrativo sarebbe sì un rito accelerato, ma, ciò nonostante, non potrebbe concludersi in tempo utile per fornire il materiale probatorio necessario al ricorrente. La vigenza di un onere della prova non attenuato sarebbe affermabile solo in ordine a controversie afferenti alla giurisdizione esclusiva, che possono essere promosse entro l’ordinario termine di prescrizione delle azioni a difesa dei diritti soggettivi, e nei giudizi risarcitori, dove i fatti posti a fondamento della pretesa risarcitoria sono sempre nella disponibilità del ricorrente. Dunque, conclude tale tesi, nei giudizi di legittimità del provvedimento amministrativo, l’affermazione di un’uguaglianza formale tra cittadino e amministrazione in ordine al materiale probatorio servirebbe solo a celare una persistente diseguaglianza sostanziale. Tale tesi non è condivisibile perché poggia su una premessa errata. Nel processo di impugnazione del provvedimento amministrativo un onere della prova in senso tecnico non c’è, salvo, in parte, in alcuni casi di eccesso di potere (10). (9) V. in particolare, L. BERTONAZZI, L’istruttoria nel processo amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, 2005, 640 e ss. e F. SAITTA, Il sistema probatorio del processo amministrativo dopo la legge 241/90: spunti ricostruttivi, in Dir. Proc. Amm., 1996, 1 ss. (10) Alcune manifestazioni dell’eccesso di potere richiedono un esame che trascende l’atto impugnato (nei casi di contraddittorietà rispetto a precedenti provvedimenti; violazione di prassi amministrativa; disparità di trattamento; travisamento dei fatti), altre richiedono che si ripercorra l’iter dell’istruttoria procedimentale (si vedano i casi di omessa considerazione di circostanze di fatto segnalate dalla parte interessata, insufficiente istruttoria ecc.). Ebbene, entrambi i casi necessitano di un’indagine su fatti esterni all’atto. Giova rilevare che il fatto da provare riguarda sempre il potere sul quale viene sollecitato il sindacato di legittimità. Per ragioni di chiarezza si dovrebbe dire che, in tali casi, sul ricorrente non grava un onere della prova, ma un mero onere di allegazione: tale allegazione si esaurisce in quella che il codice del processo amministrativo qualifica come: “esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso” (art. 40, I co., lett. c ), per un approfondimento si rinvia a CORSO, G., Prova (processo amministrativo), in Enc. Giur. Treccani, 1999. CONTENZIOSO NAZIONALE 143 Nell’azione di annullamento per violazione di legge e incompetenza, infatti, la cognizione del fatto è cognizione estrinseca e formale dei vizi dell’atto come emergono dal tenore testuale del provvedimento stesso. Pertanto, il ricorrente si limita a dedurre la violazione di regole di azione da parte della pubblica amministrazione: non venendo in rilievo una quaestio facti non vi è prova e non sorge, quindi, un problema di onere della prova (11). In altre parole chi agisce deve asserire a pena di inammissibilità del ricorso che il potere amministrativo, dall’esercizio del quale ha subito un pregiudizio, è stato esercitato in modo illegittimo; denunciando l’illegittimità, dunque, il ricorrente nega l’esistenza di uno dei presupposti di legittimità dell’esercizio di tale potere (es. inesistenza del parere dal quale il provvedimento doveva essere preceduto ecc.). Sicché, al giudice basterà un confronto tra fattispecie concreta e fattispecie normativa per accertare l’esistenza, o meno, del presupposto di legittimità del provvedimento impugnato. Dunque, la struttura del giudizio di legittimità risulta evidentemente in contrasto con la struttura del giudizio sul fatto: quest’ultimo, infatti, consiste nella verifica che un fatto sia accaduto, o meno. Sindacare la legittimità di un provvedimento amministrativo significa, invece, porre in essere un giudizio di valore. Come si desume dall’art. 64 del novello codice del processo amministrativo, l’onere della prova sorge solamente in relazione ai “fatti” posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Pertanto, la prova non è concettualmente conciliabile con la struttura del giudizio di legittimità del provvedimento amministrativo (12). Sconfessata la tesi favorevole all’applicazione del metodo acquisitivo, nulla osta all’applicabilità piena del principio dispositivo nell’istruttoria nel processo amministrativo, laddove - ripetesi - venendo in rilievo una quaestio facti, sorge un problema di prova: e ciò accade nei giudizi afferenti alla giurisdizione esclusiva, almeno nei casi in cui si faccia questione di diritti soggettivi, e nei giudizi per il risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa (13). In particolare, nell’azione risarcitoria, il ricorrente fa valere in giudizio una pretesa risarcitoria, la quale, in quanto pretesa giuridica, deve fondarsi su un “fatto” e su “una regola”, dalla applicazione della quale si vuole trarre una (11) Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo si svolge confrontando la fattispecie concreta portata alla sua cognizione, e che si incentra nell’atto amministrativo, con le norme giuridiche che ne disciplinano la produzione le quali dettano regole formali e prevedono il contenuto del provvedimento, sul punto cfr. SANDULLI M. A., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, pag. 36., FOLLIERI, E., Il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità pura o amministrativa - Le figure sintomatiche sono norme giuridiche, non sintomi, in Dir. proc. Amm. 2008. (12) Si rinvia a M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici: nozioni generali, Milano, Giuffrè, 1992. (13) Come sostenuto da CORSO, G., Prova (processo amministrativo), in Enc. Giur. Treccani, 1999, DI MODUGNO, La nuova giurisdizione esclusiva e la prova nel processo amministrativo: prime riflessioni sulla recente riforma in Dir. proc. amm, 2000 e DE GIORGI CEZZI, G., La ricostruzione del fatto nel processo amministrativo, Jovene, Napoli, 2003. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 conclusione: per esemplificare, in caso di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c. (norma), dall’inadempimento della prestazione (fatto) deriva la responsabilità del debitore al risarcimento dei danni sofferti dal creditore (pretesa giuridica). Il suddetto schema trova pieno riscontro nel citato art. 64 del codice del processo amministrativo, il quale, ricalcando la disciplina di cui all’art. 2697 c.c., prevede l’onere del ricorrente di fornire gli elementi di prova, che siano nella loro disponibilità, riguardanti i “fatti” posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. In tali giudizi grava sul ricorrente un onere della prova pieno, senza attenuazioni, in ossequio al principio dispositivo. A riguardo, seguendo un orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione - espresso nella Sent. n. 13533 del 30 ottobre 2001 (14) - il principio dispositivo subisce attenuazioni, o ampliamenti, in base a quanto la parte sia vicina, o meno, al materiale probatorio. Secondo il suddetto teorema giurisprudenziale, ispirato al cd. principio di “vicinanza alla prova”, l'onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Dunque, nei giudizi risarcitori promossi contro la P.A., l'onere della prova sia del fatto illecito, che del danno, è in toto a carico di chi chiede il risarcimento, trattandosi di elementi che sono nella disponibilità della parte e in relazione ai quali non si giustifica un potere di soccorso o, peggio, di supplenza da parte del giudice (cfr. Cons. Stato Sez.VI, 8 giugno 2010, n. 3641, Società Edile Immobiliare Rio di Albertini e C. S.A.S. c. Ministero per i Beni e le Attività Culturali e altri). Non a caso, il codice del processo amministrativo, al II co. dell’art. 64, ricalcando il dettato dell’art. 115 c.p.c., prevede che il giudice ponga a fondamento della decisione solo i fatti provati dalle parti e quelli non specificatamente contestati (15). Peraltro, l’art. 2 del suddetto codice stabilisce che nel processo amministrativo si attuino i principi di parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’art. 111, primo comma, della Costituzione: tutti principi di rango costituzionale, il cui rispetto postula l’applicazione del principio dispositivo nell’istruttoria processuale. D’altro canto, indebite intrusioni del giudice nell’istruttoria procedimentale porterebbero ad una lesione del principio della parità delle parti, del contraddittorio e della terzietà del giudice. Giova ripeterlo, il principio dispositivo regola l’istruttoria nel processo, civile o amministrativo che sia, al fine d’impedire che una parte possa subire una decisione basata su fatti ad essa sconosciuti ed in relazione ai quali non si sia potuta di- (14) Cfr. Cassazione, SS.UU., Sent. n. 13533 del 30 ottobre 2001, in Foro It., IX, 983. (15) Si veda sul punto CARINGELLA F., Codice del nuovo processo amministrativo: commento articolo per articolo al D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e a tutte le altre leggi della giustizia amministrativa, Dike, Roma, 2010. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 fendere (cfr. Cass. Civ. sez. II, n. 1165/1983 e Cass. Civ., sez. II, n. 12980/2002). Concludendo, una lettura plausibile delle norme del nuovo codice del processo amministrativo in materia di onere della prova, alla luce del diritto di accesso ai documenti amministrativi previsto dalla Legge n. 241/90, sembra nel senso che l’onere del principio di prova e il metodo acquisitivo non trovino più ragioni che ne giustifichino l’applicazione; laddove, invece, nel processo amministrativo sorga in capo al ricorrente un onere di prova, questo deve essere fondamentalmente retto dal principio dispositivo, stante l’evidente parità delle parti nel disporre del materiale probatorio e in ossequio, quindi, ai principi costituzionali del giusto processo. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16 maggio 2011 n. 2955 - Pres. G. Giaccardi, Est. F. Rocco - F.G. (avv.ti F. Camerini e A. Rossi) c. Ministero infrastrutture e trasporti (n.c.). (Omissis) FATTO e DIRITTO 1. La vicenda che ha condotto all’instaurazione del presente giudizio scaturisce dall’ormai ben risalente esito dell’istanza presentata in data 9 maggio 1984, con la quale l’Impresa (...) aveva chiesto, dopo un periodo di cancellazione, la reiscrizione all’Albo Nazionale dei Costruttori (ANC), nel quale era stata iscritta dal 1966, per le categorie 1, 2, 6, 9/a, 10/a, 10/b, 10/c, 11 e 13/a, per un importo complessivo pari a lire 20.250.000.000. Con deliberazione del 14 marzo 1985 il Comitato Centrale dell’Albo Nazionale Costruttori ha peraltro escluso l’Impresa (...) dall’iscrizione per sei delle predette categorie, consentendola soltanto per le restanti tre categorie e per importi bassissimi. L’Impresa (...) ha contestato tale provvedimento, proponendo ricorso al T.A.R. per il Lazio. In pendenza di tale giudizio, il Comitato Nazionale Costruttori ANC, con deliberazione assunta in data 22 aprile 1986 ha confermato il contenuto della precedente deliberazione del 14 marzo 1985 e, di conseguenza, l’Impresa è stata quindi costretta a proporre un secondo ricorso innanzi al medesimo giudice. I due ricorsi sono stati riuniti e accolti con sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sez. III, 11 febbraio 1988 n. 196, con la quale sono state annullate le due predette deliberazioni per carenza di valutazione e di motivazione. Peraltro, riferisce la medesima parte ricorrente che il Comitato Centrale ANC non ha dato seguito a tale statuizione, costringendo pertanto l’Impresa a proporre ricorso per ottemperanza. Anche tale ricorso è stato accolto con sentenza del TAR Lazio, sez. III, 22 settembre 1988 n. 1093, con la quale il giudice ha dichiarato l’obbligo del Comitato Centrale di esternare le motivazioni concernenti la decisione della domanda di reiscrizione all’ANC. Nel corso del giudizio per ottemperanza la ricorrente ha preso conoscenza della deliberazione del Comitato Centrale ANC del 27 aprile 1988, sostanzialmente confermativa della precedente e, quindi, l’Impresa (...) proponeva un nuovo ricorso ordinario ed un nuovo ricorso per ottemperanza. Questi ultimi due ricorsi sono stati decisi con sentenze del TAR Lazio, sez. III, 15 luglio 1989 n. 1306 e 1307; più esattamente, con la prima di esse è stata annullata la deliberazione impugnata per omesso adeguamento di tre categorie ai nuovi maggiori importi di classifica stabiliti 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 con L. 15 novembre 1986 n. 768, nel mentre con la seconda è stato nominato un Commissario ad acta. (...) ha quindi proposto un nuovo ricorso per l’ottemperanza relativa alle sei categorie relativamente alle quali non conosceva ancora i motivi per cui il Comitato Centrale ANC aveva disatteso le proprie domande. Il Comitato Centrale ANC ha emesso la deliberazione in data 14 novembre 1989, sostanzialmente confermativa di tutte le precedenti. Nel frattempo, tuttavia, il Ministero dei Lavori Pubblici ed il Comitato Centrale ANC avevano proposto appello avverso la predetta sentenza n. 1306 del 1989, nel mentre nel relativo giudizio l’Impresa (...) ha proposto appello incidentale. Anche tale giudizio si è concluso favorevolmente per l’Impresa (...) mediante decisione n. 747 dd. 30 aprile 1999, resa da questa stessa Sezione. Avverso la deliberazione del 14 novembre 1989 l’Impresa (...) ha proposto un ulteriore ricorso, conclusosi con sentenza del TAR per il Lazio, sez. III, 6 febbraio 2002 n. 832, con la quale l’impugnativa è stata accolta e la deliberazione predetta annullata. Tale sentenza, non impugnata, è passata in giudicato. 1.2. Ciò posto, con ulteriore ricorso proposto innanzi al T.A.R. per il Lazio l’Impresa (...) ha proposto nei confronti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti una domanda di risarcimento danni, evidenziando che il giudice amministrativo ha riconosciuto la fondatezza della propria pretesa all’iscrizione all’ANC per le 9 categorie richieste originariamente e per l’importo complessivo di 18 miliardi di lire, contro le tre categorie riconosciute per sole lire 2,1 miliardi di lire. In sostanza, la ricorrente, valutando il fatto di non aver potuto esercitare la propria attività nel campo di lavori pubblici per un lungo periodo di tempo, e ciò a causa dell’illegittimità dell’attività provvedimentale dell’Amministrazione, ha chiesto di essere risarcita per equivalente. Ad avviso della ricorrente, le voci di danno da considerare consisterebbero: 1) nella mancata partecipazione dell’Impresa agli appalti pubblici per quasi venti anni e, quindi, nel relativo mancato lucro; 2) nel danno all’immagine subito dall’Impresa, con ricaduta anche sui rapporti con i terzi. 1.2. Con sentenza n. 8218 dd. 1 settembre 2004 la Sezione III del T.A.R. per il Lazio ha respinto il ricorso. 2. Con l’appello in epigrafe l’Impresa (...) chiede pertanto la riforma di tale ultima sentenza, insistendo per l’accoglimento delle proprie domande risarcitorie. 3. Non si è costituito in giudizio il pur intimato Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 4. Alla pubblica udienza dell’8 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione. 5. Tutto ciò doverosamente premesso, va evidenziato che il giudice di primo grado ha respinto il ricorso innanzi a lui proposto in quanto il ricorrente, sebbene abbia puntualmente ricostruito la propria vicenda processuale e gli esiti favorevoli della stessa, non ha comunque fornito alcun elemento di prova al fine di dimostrare il danno patito o, comunque, non ha prodotto spunti di valutazione neanche per un’eventuale consulenza tecnica d’ufficio al fine della valutazione del danno subito. In buona sostanza, quindi, ad avviso del T.A.R. il ricorrente non ha ottemperato all’onere della prova contemplato dall’art. 2697 c.c., il cui principio vige anche nel processo amministrativo, laddove i poteri istruttori del giudice amministrativo possono essere infatti esercitati soltanto in ragione dell'incompletezza dell'istruttoria, ma non anche in totale mancanza di essa; le indagini istruttorie, infatti, possono essere disposte d’ufficio dal giudice solo ove la parte abbia CONTENZIOSO NAZIONALE 147 offerto almeno un serio principio di prova idoneo a suffragare la pretesa azionata. Anche questo giudice concorda in linea di principio con la tesi espressa dal T.A.R. Invero, nel processo amministrativo, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice approvato con D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104 (cfr. art. 64, comma 3, cod. proc. amm.), il sistema probatorio è fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, il quale comporta l’onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6118): e ciò, per l’appunto, è contemplato dal “sistema” proprio in quanto il ricorrente, di per sé, non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell’esclusivo possesso dell’amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova. Viceversa, la disciplina contenuta nell’art. 2697 cod. civ. (corrispondente, ora, all’art. 64, comma 1, cod. proc. amm.) secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, deve trovare integrale applicazione anche nel processo amministrativo ogniqualvolta non ricorra tale disuguaglianza di posizioni tra Pubblica Amministrazione e privato, come - per l’appunto - nel caso di specie, laddove si verte esclusivamente sulla spettanza, o meno, di un risarcimento del danno: con la conseguenza che, a pena di un’inammissibile inversione del regime dell’onere della prova, non è consentito al giudice amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando quest’ultima si trovi nell’impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato , Sez. V, 10 novembre 2010 n. 8006). A ragione, quindi, il giudice di primo grado ha rilevato che il ricorrente avrebbe potuto – e dovuto – fornire elementi di valutazione circa il danno patito, producendo, ad esempio, atti e documenti relativi al fatturato dell’impresa e a ai suoi bilanci (nel periodo in cui era iscritta all’ANC per tutte le categorie indicata e nel periodo successivo all’adozione dei provvedimenti annullati), alle gare bandite nel periodo, ecc.. La parte ricorrente, invece, pur essendosi riservata all’inizio del giudizio di provare e quantificare la misura del danno (cfr. pag. 7 del ricorso), ha prodotto gli atti relativi ai vari procedimenti giudiziali da essa promossi, limitandosi a sollecitare la nomina di un consulente tecnico d’ufficio per quantificare i danni patiti (cfr. la memoria prodotta in primo grado dd. 24 giugno 2004). In buona sostanza, quindi, la ricorrente non ha dimostrato di aver subito una perdita economica in conseguenza dell’adozione degli atti annullati nei ricorsi da essa precedentemente proposti; né può essere accordata la richiesta consulenza tecnica d’ufficio al fine di quantificare i danni da essa asseritamente patiti, posto che tale incombente assolve alla funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche da lui non possedute, ma non è per certo deputata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste: fatti che, come detto innanzi, devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall'art. 2697 c.c. In sede di appello la parte ricorrente, all’evidenza ben conscia di tali carenze, ha rimarcato - tra l’altro - che il danno risulterebbe comprovato in re ipsa dalla stessa circostanza che essa, proprio per effetto della sostanziale esclusione dall’ANC da essa per lungo tempo subita, ha potuto accedere al solo mercato privato degli appalti di lavori, notoriamente meno remunerativo per le imprese rispetto a quelli pubblici, e che il danno da essa subito (da intendersi quindi come differenziale tra quanto da essa effettivamente ricavato nel tempo dall’attività nel settore privato con quanto solo presuntivamente ricavabile nell’ipotesi in cui fosse proseguito l’accesso alle commesse pubbliche) dovrebbe essere valutato equitativamente da questo giudice 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 a’ sensi dell’art. 1226 c.c., ovvero mediante una stima ex post delle chances di aggiudicazione non concretatesi per la propria impresa. Tale valutazione equitativa, tuttavia, può soccorrere soltanto, come precisa la stessa disciplina codicistica, qualora “il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare”: e, per l’appunto, il mancato deposito agli atti di causa dei bilanci societari comunque impedisce ex se di fondare qualsivoglia valutazione anche in ordine alle risorse finanziarie e di personale che la ricorrente avrebbe potuto adibire per la propria attività in ambito pubblico; né risulta logicamente possibile accedere alla prospettazione della medesima ricorrente, formulata sempre in sede di appello, secondo la quale il danno sarebbe ricavabile mediante l’applicazione in via del tutto apodittica di percentuali sui valori delle categorie per le quali essa non è stata ammessa all’iscrizione all’ANC. 6. Peraltro, a parziale riforma della sentenza impugnata, può comunque essere accolta la domanda risarcitoria limitatamente al c.d. “danno curriculare”. Il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico, anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante, costituisce infatti fonte per l’impresa di un vantaggio non patrimoniale ma - comunque - economicamente valutabile, poiché di per sé accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti. In tale ottica deve pertanto ritenersi risarcibile il danno anzidetto, il quale segnatamente consiste nel pregiudizio subito dall’impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio “curriculum” professionale, ossia per la circostanza di non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell’Amministrazione (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 09 giugno 2008 n. 2751). Tale ben particolare pregiudizio, a prescindere dalla carenza di prove offerte dalla ricorrente in ordine alle perdite economiche da essa subite, fuoriesce - altresì - dagli ambiti meramente probabilistici della valutazione delle chances e si pone in termini obiettivi per il fatto stesso dell’intervenuta esclusione della ricorrente dal mercato “pubblico”, ed è pertanto intrinsecamente e necessariamente valutabile da questo giudice in termini equitativi a’ sensi dell’art. 1226 c.c. Il Collegio, in tal senso, reputa pertanto congruo stimare la perdita di professionalità dell’Impresa (...) conseguente alla sua forzata esclusione dal mercato pubblico in € 10.000,00.- (diecimila/ 00), da riconoscersi a carico del Ministero intimato. In considerazione della parziale soccombenza della società ricorrente e della particolarità dell’ultima questione trattata, le spese e gli onorari del giudizio, complessivamente definiti nella misura di € 5.000,00.- (cinquemila/00) oltre ad I.V.A. e C.P.A., sono compensati nella misura del 50%, e sono pertanto posti a carico del Ministero intimato e liquidati a favore della ricorrente nella misura di € 2500,00.- (duemilacinquecento/00) oltre ad I.V.A. e C.P.A. A carico del Ministero intimato va pure posto il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, condanna il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture a corrispondere alla ricorrente la somma di € 10.000.- (diecimila/00) a titolo di danno curriculare (...). CONTENZIOSO NAZIONALE 149 Impugnabilità dei provvedimenti adottati dal Commissario ad acta Incidenza della normativa sopravvenuta sul giudicato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza del 26 agosto 2011 n. 4816) 1. Gli atti adottati dal Commissario ad acta in sede di ottemperanza del giudicato sono impugnabili con ordinario ricorso giurisdizionale solo allorquando il giudicato abbia lasciato margini di discrezionalità all’amministrazione, cosicchè l’attività svolta dal Commissario possa considerarsi espressione di un potere amministrativo, come tale sindacabile in sede d’impugnazione ordinaria. 2. Le sopravvenienze di fatto o di diritto verificatesi anteriormente alla notificazione della sentenza costituente giudicato rappresentano ostacolo o limite alla sua esecuzione, mentre sono irrilevanti le sopravvenienze successive a detta notificazione perché, in tal caso, trova piena applicazione la regola secondo cui la durata del processo non deve andare in danno della parte vittoriosa, la quale ha diritto all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento della ridetta notificazione (*) Consiglio di Stato, Sez. Terza, sentenza del 26 agosto 2011 n. 4816 - Pres. G. P. Cirillo, Cons. Est. L. Balucani - Min. interno (avv. gen. Stato) c. Commissario ad acta e M.R.S. ed altri (avv. M. Spagna). (Omissis) FATTO Con istanza in data 23 luglio 1991 la sig.a S. M. R., unitamente alle figlie, chiedeva la speciale elargizione a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (ex art.1 L.20 ottobre 1990, n.302) in relazione al decesso del coniuge B. M., avvenuto a seguito di un conflitto a fuoco nel quale era rimasto ucciso anche un esponente di un clan camorristico del Casertano. La predetta elargizione veniva negata non essendo stata rilevata con certezza la assoluta estraneità del B. “ad ambienti e rapporti delinquenziali”. Dopo che il TAR Campania, sezione terza, con sentenza n.3358 del 1998 aveva respinto il ricorso proposto dalla sig.a S. avverso il provvedimento di diniego, il Consiglio di Stato, Sez. VI, ha pronunciato le seguenti decisioni: - con decisione 6 giugno 2008, n. 2715 ha accolto l’appello avverso la sentenza del TAR annullando l’atto di diniego; - con decisione 26 giugno 2009, n. 4414 ha accolto il ricorso in ottemperanza ordinando alla Amministrazione di dare esecuzione al giudicato e nominando come Commissario “ad acta” il Prefetto della provincia di Caserta; - con decisione 3 agosto 2010, n. 5146 ha dichiarato elusivo il provvedimento adottato in data 11 dicembre 2009 dal Commissario “ad acta” (che aveva ribadito la non accoglibilità della domanda di elargizione), assegnando al Commissario il termine di sessanta giorni per l’adozione dei provvedimenti satisfattivi del giudicato. A questo punto il Commissario “ad acta” con provvedimento 7 ottobre 2010 ha concesso il (*) Massime dell’avv. Stato che si è occupato della trattazione della causa, avv. CARLO SICA. 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 beneficio. Avverso detto provvedimento è insorto il Ministero dell’Interno con ricorso proposto dinanzi al TAR Lazio denunciando la violazione dell’art. 2 quiquies D.L. n.151 del 2008 (come modificato prima dall’art. 1 L. di conversione n. 186 del 2008 e successivamente dall’art. 2, comma 21, L n. 94 del 2009) che vieta la concessione dei benefici di legge ai “superstiti delle vittime della criminalità organizzata, che siano parenti o affini entro il 4° grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3bis C.P.P.” E ciò in quanto due fratelli del deceduto B., quindi parenti entro il 4° grado dei superstiti, risultavano gravati da precedenti penali. Il TAR adito con sentenza 31 gennaio 2011, n. 842 ha dichiarato inammissibile il ricorso avendo ritenuto che competente a conoscere della controversia sia il Consiglio di Stato, stante che il provvedimento emesso dal Commissario “ad acta” ha carattere del tutto vincolato rispetto allo “iussus iudicis”; conseguentemente ha escluso la fondatezza della questione di giurisdizione, e così pure della questione di competenza territoriale sollevata dalla parte resistente. Avverso la sentenza del TAR il Ministero dell’Interno ha interposto appello sostenendo la competenza del TAR a conoscere della controversia: ciò in quanto la norma ostativa alla concessione della speciale elargizione richiesta non ha costituito oggetto di giudicato, e pertanto il provvedimento del Commissario, in quanto adottato in violazione di una norma sopravvenuta, è impugnabile in via ordinaria dinanzi al Giudice Amministrativo. Si è costituita in giudizio la sig.a S., unitamente alle figlie, contestando i motivi dell’atto di appello, del quale ha chiesto il rigetto. Alla pubblica udienza del 24 giugno 2011 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO L’appello è infondato. Secondo un orientamento consolidato nella giurisprudenza amministrativa gli atti adottati dal Commissario “ad acta” in sede di ottemperanza del giudicato sono impugnabili con l’ordinario ricorso giurisdizionale solo allorquando il giudicato abbia lasciato margini di discrezionalità all’Amministrazione, sì che l’attività svolta dal Commissario possa considerarsi espressione di un potere amministrativo, come tale sindacabile in sede di impugnazione ordinaria. Al contrario, laddove non sussista alcun margine di discrezionalità nel compito affidato al Commissario, allora competente a conoscere della esatta esecuzione del giudicato è soltanto il giudice della ottemperanza. Nella fattispecie in esame, dal momento che la decisione del Consiglio di Stato di cui era stata chiesta l’esecuzione obbligava il Commissario “ad acta” ad adottare i provvedimenti realmente satisfattivi del giudicato, vale a dire la concessione della speciale elargizione prevista dall’art. 34 L. n. 222/2007, senza riservare alcuna discrezionalità al riguardo, è indubbia la competenza di questo Consiglio a conoscere della controversia azionata con il ricorso del Ministero avverso il provvedimento del Commissario in data 7 ottobre 2010 che ha concesso il beneficio in questione. E’ dunque corretta la statuizione sulla competenza contenuta nella sentenza di primo grado. Ritenuta la competenza del giudice dell’ottemperanza, si può passare all’esame del motivo di gravame prospettato dal Ministero con l’anzidetto ricorso, vale a dire la asserita violazione, da parte del Commissario, della sopravvenuta disposizione di cui all’art. 2 quinquies D.L. 2 ottobre 2008, n. 151 (conv. con modificazioni in L. 28 novembre 2008, n. 186), come modificato dall’art. 2, comma 21 L. 15 luglio 2009, n.94, che - come esposto in punto di fatto - ha CONTENZIOSO NAZIONALE 151 vietato la concessione dei benefici in favore della vittime della criminalità organizzata ai “superstiti …che siano parenti o affini entro il 4° grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3bis C.P.P.”. Il motivo è infondato. Se è vero infatti che l’esecuzione del giudicato può trovare ostacolo e/o limite nelle sopravvenienze di fatto e di diritto verificatesi anteriormente alla notificazione della sentenza, restano invece irrilevanti le sopravvenienze successive alla notificazione medesima, perché in tal caso si deve dare piena espansione alla regola secondo cui la durata del processo non deve andare in danno della parte vittoriosa, la quale ha diritto alla esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento. In tal senso è il consolidato indirizzo di questo Consiglio (cfr. tra le altre: Cons. St. VI, 22 ottobre 2002, n.5816; 3 novembre 2010, n.7761; 17 giugno 2010, n.3851). Ciò posto, poiché nel caso in questione la disposizione normativa ritenuta ostativa alla concessione del beneficio ex lege n. 302/1990 è stata introdotta con l’art. 2,comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94, che è posteriore alla stessa decisione del Consiglio di Stato con la quale veniva nominato il Commissario “ad acta” (dec. 13 luglio 2009, n. 4414), ne consegue che la normativa sopravvenuta non può incidere sul giudicato e dunque non può impedire la concessione della speciale elargizione in favore della parte appellata. Per quanto precede l’appello del Ministero deve essere respinto Sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali del presente grado di giudizio tra le parti in causa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Legittimazione ed interesse di una P.A. all’iniziativa giurisdizionale (Nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza del 13 giugno 2011 n. 3567) Damiano Marini* SOMMARIO: 1. Il caso di specie - 2. Il dictum del Consiglio di Stato - 3. L’atto presupposto e l’atto preparatorio - 4. La categoria dell’ invalidità derivata nelle due forme “ad effetti caducanti” e “ad effetti vizianti” - 5. La portata generale della sentenza - 6. Una differente soluzione interpretativa. 1. Il caso di specie La sentenza del Consiglio di Stato n. 3567 del 13 giugno 2011 risulta di notevole interesse non solo e non tanto per la pronuncia nel merito della controversia (1), quanto piuttosto per la statuizione in rito con cui viene riconosciuta all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (2) la legittimazione, nonché l’interesse, ad impugnare le sentenze aventi ad oggetto i provvedimenti di segnalazione delle stazioni appaltanti. Con simili provvedimenti quest’ultime comunicano all’AVCP le avvenute esclusioni di operatori economici dalle gare di appalto da esse indette al fine dell’iscrizione di simili circostanze nel Casellario Informatico. Per una migliore comprensione della portata della sentenza in esame risulta necessario rappresentare la peculiarità del caso di specie all’attenzione del Supremo Consesso della giustizia amministrativa. La vertenza, infatti, ha avuto inizio con il ricorso promosso, da un’impresa partecipante ad una procedura aperta per l’affidamento di un contratto pubblico di lavoro, avverso il provvedimento con cui la stazione appaltante aveva proceduto all’esclusione della stessa dalla gara, a causa del riscontrato difetto di uno dei requisiti generale prescritti dall’art. 38 D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (Codice degli appalti pubblici) (3). Con lo stesso ricorso venivano altresì impugnati i provvedimenti, sempre della stazione appaltante, con cui quest’ultima (*) Dottore in giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’ Avvocatura dello Stato. (1) Il Consiglio di Stato ha infatti censurato l’interpretazione avallata dal TAR secondo la quale la triplice sanzione (esclusione dalla gara, escussione della cauzione provvisoria e segnalazione all’AVCP) va applicata solamente in caso di riscontro della mancanza dei requisiti di ordine speciale ex art. 48 D.lgs. 163/2006, ribadendo, invece, come la stessa vada irrogata anche in caso di difetto dei requisiti di ordine generale ex art. 38 D.lgs. 163/2006. Nello steso senso, Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2004 n. 5792; Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2007 n. 554; Cons. St., sez. VI, 4 agosto 2009, n. 4905. (2) D’ora in poi AVCP. (3) Nella specie, la stazione appaltante, dopo aver aggiudicato provvisoriamente la gara alla ditta ricorrente, nel controllare il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti di ordine generale necessari per la partecipazione alle procedure di affidamento di commesse pubbliche aveva riscontrato, a carico del legale rappresentante della società, una condanna definitiva per omicidio colposo relativa ad un sinistro occorso ad un apprendista impiegato nell’azienda. La società veniva così, conseguentemente, esclusa per difetto del requisito prescritto dalla lettera c) dell’art. 38 D.lgs. 163/2006. CONTENZIOSO NAZIONALE 153 segnalava all’AVCP l’avvenuta esclusione, al fine dell’iscrizione della stessa nel Casellario Informatico, nonché escuteva la cauzione provvisoria. Il T.a.r. Piemonte (4) accoglie solo parzialmente il ricorso confermando il provvedimento di esclusione dalla gara di appalto, ma annullando i relativi provvedimenti di segnalazione all’AVCP e di escussione della cauzione provvisoria. L’AVCP ha quindi impugnato la sentenza di prime cure limitatamente alla parte relativa all’annullamento del provvedimento di segnalazione, del resto l’unico capo della sentenza verso cui nutriva interesse, in quanto a seguito dell’annullamento della segnalazione era stata disposta la cancellazione della relativa iscrizione nel Casellario Informatico. Fin dai primi scritti difensivi, però, la società appellata eccepisce l’inammissibilità dell’appello per carenza di legittimazione e difetto di interesse da parte dell’AVCP, in quanto trattasi d’impugnazione di una sentenza avente ad oggetto un provvedimento di altra autorità, o meglio della stazione appaltante. Il Consiglio di Stato sembra essere dello stesso avviso quando in sede di ordinanza cautelare, che respinge l’istanza di sospensione della sentenza impugnata, rileva come “… in via preliminare, appare da dubitarsi della legittimazione all’appello dell’Autorità con riferimento ad una determinazione annullata, e ad una conseguente soccombenza, riferibili alla stazione appaltante” (5). 2. Il dictum del Consiglio di Stato Evidenti le conseguenze che una simile statuizione, se confermata in sentenza, avrebbe prodotto nella sfera di interessi dell’Autorità di vigilanza; infatti, in tal modo non sarebbe possibile per l’AVCP difendere processualmente la legittimità delle segnalazioni provenienti dalle stazioni appaltanti che risultano necessarie per la corretta e aggiornata tenuta del Casellario Informatico. Necessarie poiché le iscrizioni nel Casellario Informatico dipendono dalle previe segnalazioni dei fatti da iscrivere; come del resto dimostrato anche nel caso di specie dove a seguito dell’annullamento del provvedimento di segnalazione da parte del giudice territoriale, e per ottemperare alla sentenza, la stessa Autorità ha provveduto alla cancellazione dell’inscrizione. Inizialmente, il Consiglio di Stato, in sede di giudizio cautelare, non sembrava condividere un simile avviso in quanto probabilmente riteneva non necessario un intervento processuale dell’AVCP, poiché trattandosi di un atto di altra amministrazione sarebbe quest’ultima ad essere titolare del potere - dovere di difendere la legittimità dei propri atti. L’inesattezza di una simile considerazione, però, viene in rilievo nei casi, (4) Con la sentenza n. 957/2010. (5) Ordinanza cautelare n. 3762 del 30 luglio 2010. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 come quello di specie in cui il giudice di prime cure provvede ad annullare non l’esclusione dalla gara, ma solamente la relativa segnalazione; in queste circostanze le sentenze passano in giudicato a causa della mancata impugnazione delle stazioni appaltanti che hanno un preciso interesse alla sola legittimità del provvedimento di esclusione. A tal punto il Supremo Consesso si trovava ad un bivio essendo solamente due le strade da poter percorrere: attribuire l’esclusivo interesse alla legittimazione dei provvedimenti di segnalazione alle sole stazioni appaltanti (va ricordato, però, che le segnalazioni vengono effettuate al solo fine della successiva iscrizione, e che quest’ultime dipendono dalle prime), oppure attribuire il predetto interesse anche all’AVCP. Se a sostegno della prima opzione soccorre il dato formale costituito dalla titolarità del provvedimento della segnalazione in capo alle stazioni appaltanti, di contro vi è il rilievo per cui le stazioni appaltanti sono spesso disinteressate ad impugnare le sentenze dei giudici amministrativi regionali tutte le volte che si vedono confermato il loro provvedimento di esclusione, indipendentemente da un contestuale annullamento dell’atto relativo alla segnalazione. Rilevanti, allora, sarebbero le conseguenze di una simile scelta: in ottemperanza alle sentenze di annullamento delle segnalazioni debbono essere cancellate le relative iscrizioni, la cui legittimità, tuttavia, non potrebbe essere tutelata in giudizio. Si creerebbe, così, un vuoto di tutela per il Casellario Informatico, nonché per la stessa AVCP, accettabile solamente disconoscendo l’ importanza dell’istituto de quo all’interno del nostro ordinamento; una scelta, quest’ultima, implicante una responsabilità che il Consiglio di Stato non si è voluto assumere. Come evidenziato nelle argomentazioni dell’Avvocatura di Stato, disconoscere l’importanza del Casellario Informatico non è impresa facile. Quest’ultimo è stato istituito presso l’Osservatorio costituito all’interno dell’AVCP, che è un organismo indipendente creato per vigilare sui contratti pubblici affinché sia garantito il rispetto dei principi di correttezza e trasparenza nelle procedure di scelta del contraente, di economica ed efficiente esecuzione dei contratti, e delle regole della concorrenza nelle singole procedure di gara espletate. Tra i poteri di vigilanza attribuiti all’Autorità vi è appunto la tenuta del Casellario Informatico che assolve la funzione di informare le stazioni appaltanti di circostanze negative riguardanti gli operatori economici partecipanti a pubbliche gare che influiscono sui requisiti generali e tecnici che gli aggiudicatari di commesse pubbliche devono possedere (6). Si tratta quindi di uno strumento che contribuisce a consentire la scelta del miglior contraente, nonché l’efficiente esecuzione dei contratti pubblici. (6) Infatti, le stazioni appaltanti una volta effettuata l’aggiudicazione provvisoria provvedono al controllo circa il possesso dei requisiti prescritti dal Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. 163/2006); per la verifica ricorrono anche al Casellario Informatico. CONTENZIOSO NAZIONALE 155 Inoltre, si trattava di considerare le cause genetiche di un simile eventuale vulnus di tutela, che certamente non potevano ravvisarsi nella mancanza di strumenti diretti a tal fine visto che il rimedio dell’appello è un istituto portante del nostro sistema processual-amministrativo. La causa, allora, andava cercata altrove e, precisamente, nella ricostruzione degli interessi sottesi ai provvedimenti di segnalazione. Non restava quindi che percorrere la seconda, strada riconoscendo gli interessi propri dell’AVCP ed affermando la sua legittimazione ad impugnare le sentenze riguardanti i provvedimenti di segnalazione delle stazioni appaltanti. Infatti, si legge nella sentenza, “il Collegio ritiene che l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sia legittimata a proporre appello avverso la sentenza del T.a.r. che abbia annullato la segnalazione della stazione appaltante circa i provvedimenti di esclusione di un'impresa da una gara pubblica. Tale segnalazione, invero, pur provenendo da una diversa Amministrazione (il soggetto che bandisce la gara) è, comunque, un atto strumentale e necessario per l'esercizio, da parte dell'Autorità di vigilanza, di una sua specifica competenza provvedimentale, quella, appunto, di procedere alla relativa iscrizione nel Casellario informatico. Tra la segnalazione della stazione appaltante e la successiva iscrizione nel Casellario ad opera dell'Autorità vi è, certamente, un rapporto di presupposizione, con la conseguenza che l'annullamento del provvedimento presupposto (l'atto di segnalazione) va ad incidere inevitabilmente sulla validità del provvedimento presupponente (l'iscrizione). Il nesso di presupposizione che avvince questi due provvedimenti radica in capo all'Autorità di vigilanza una posizione differenziata e giuridicamente rilevante, togliendo ogni dubbio in ordine all'esistenza di una sua legittimazione processuale che le consente di difendere in giudizio, anche mediante la proposizione di un autonomo appello, il provvedimento di segnalazione adottato dalla stazione appaltante”. In merito alla legittimazione all’impugnazione è stata così ritenuta irrilevante la circostanza che l’atto annullato provenga da altra Amministrazione mentre è stata prediletta l’analisi degli interessi sostanziali lesi dalla sentenza da impugnare. Del resto si trattava di applicare i principi generali in tema di interesse ad impugnare. In dottrina è stato sostenuto come “… il soggetto che agisce contro il giudizio non può essere che quegli che a subito, a cui carico sia stata posta la normativa, ossia il soccombente, che è l’unico che abbia un interesse tutelato a reagire, a muovere contro il giudizio, per eliminare o almeno modificare la normativa che ne è scaturita” (7). Per riconoscere la lesività della sentenza impugnata rispetto agli interessi dell’AVCP il Supremo Giudice amministrativo riconduce i provvedimenti di (7) TOMEI, “Legittimazione ad agire” in Enciclopedia del diritto, XXIV, Milano, 1980, 90-91. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 segnalazione alla categoria degli atti presupposti riconoscendo come “… tra la segnalazione della stazione appaltante e la successiva iscrizione nel Casellario ad opera dell'Autorità vi è, certamente, un rapporto di presupposizione, con la conseguenza che l'annullamento del provvedimento presupposto (l'atto di segnalazione) va ad incidere inevitabilmente sulla validità del provvedimento presupponente (l'iscrizione). Il nesso di presupposizione che avvince questi due provvedimenti radica in capo all'Autorità di vigilanza una posizione differenziata e giuridicamente rilevante, togliendo ogni dubbio in ordine all'esistenza di una sua legittimazione processuale che le consente di difendere in giudizio, anche mediante la proposizione di un autonomo appello, il provvedimento di segnalazione adottato dalla stazione appaltante”. 3. L’atto presupposto e l’atto preparatorio La categoria dell’atto presupposto è da tempo molto utilizzata in giurisprudenza per individuare quegli atti amministrativi che seppur non configurabili come atti conclusivi di un procedimento si distinguono dai meri atti preparatori. Infatti, il procedimento amministrativo non è altro che una sequenza di atti e operazioni, collegati tra loro, diretta alla produzione di un provvedimento finale produttivo di effetti giuridici. La giurisprudenza amministrativa si è dimostrata nel tempo sempre più sensibile alla possibilità che non sia solamente il provvedimento finale a ledere eventualmente gli interessi privati, che invece possono risultare compromessi anche da provvedimenti intermedi del procedimento. Al fine di individuare quali tra gli atti intermedi possano avere una propria e immediata capacità lesiva, ancor prima che si sia manifestata la capacità lesiva del provvedimento finale, si è distinto, all’interno della categoria degli atti intermedi, tra atti presupposti e atti preparatori. Il primo che ha approfondito il tema in questione è stato Sandulli, secondo il quale gli atti preparatori sono quegli atti endoprocedimentali che inseriti all’interno del procedimento non hanno al di fuori di questo un’autonoma valenza sul piano del diritto in quanto incapaci di produrre autonomi effetti giuridici diversi da quelli propri del provvedimento finale. Gli atti presupposti, invece, sarebbero quegli atti esoprocedimentali che godono di un’autonomia rispetto al procedimento cui accedono, poiché oltre a condizionare il provvedimento finale sono funzionalmente diretti all’emanazione di distinti effetti giuridici (8). Quindi, da quegli atti meramente preparatori preordinati all’emanazione di un atto successivo, senza la cui esistenza non hanno ragione d’essere, si sono distinti gli atti definiti invece presupposti caratterizzati da una propria (8) SANDULLI, “Il procedimento amministrativo”, Milano, 1940, 54-56, la cui prospettiva è stata definita “funzionale”. CONTENZIOSO NAZIONALE 157 anima e funzionalmente autonomi rispetto all’atto successivo (atto presupponente) (9). In altri termini, mentre l’atto preparatorio risulta legato alla serie di atti successivi da un rapporto meramente strumentale, esclusivamente funzionale all’emanazione di un atto conclusivo, per cui di regola ad un atto preparatorio segue sempre un atto conclusivo (del procedimento), l’atto presupposto esplica una propria funzione e può estrinsecare la sua validità sia autonomamente che in dipendenza dell’atto conclusivo (10). Ne discende che l’atto preparatorio non è in grado di ledere gli interessi privati colpiti dall’agire dell’Amministrazione poiché produce solamente effetti parziali e prodromici ai fini dell’effetto finale prodotto esclusivamente dall’atto conclusivo, l’unico effettivamente lesivo (11). L’atto presupposto, invece, ha una propria capacità lesiva autonoma in grado di colpire immediatamente gli interessi di un soggetto, mentre l’atto ad esso successivo fa “semplicemente” sorgere e perfezionare tale stretto rapporto (12). Per inquadrare un atto amministrativo in una delle due categorie appena accennate, la giurisprudenza utilizza la prospettiva funzionale, analizzando proprio l’autonoma capacità lesiva dell’atto, che difetta negli atti preparatori, mentre sussiste in quelli presupposti (13). Per tale ordine di motivi, viene riconosciuto solamente a quest’ultimi la possibilità di essere immediatamente impugnabili da chi ritenga di aver subito da essi una lesione, senza attendere l’emanazione dell’atto conclusivo; l’atto preparatorio invece non può essere impugnato se non unitamente con l’atto conclusivo. A contrario è facilmente deducibile che se un provvedimento amministra- (9) Cfr. LUBRANO, “Atto amministrativo presupposto: spunti di una teorica”, Roma, 1992, 50 ss., che ha distinto la funzionalità generica caratterizzante gli atti preparatori, dalla funzionalità specifica propria degli atti presupposti. (10) Infatti, se l’atto successivo per qualsiasi motivo non viene ad esistenza, l’atto strumentale non ha più ragione d’esistere. Se, invece, l’atto presupponente non viene emesso, l’atto presupposto non per questo perde la sua autonomia e validità in quanto nasce come atto già da sé indipendente; è l’atto presupponente che trova la sua giustificazione ed origine in quello precedente e che gode quindi di una posizione meno autonoma. (11) Vedi VIRGA, “Diritto amministrativo, Atti e ricorsi”, Milano, 1987, II, 315-316. Cfr. Cons. Stato, V, 11 gennaio 2011, n. 80 e Cons. Stato, VI, 20 ottobre 2010, n. 7586 che qualificano il provvedimento di aggiudicazione provvisoria come atto endoprocedimentale (rectius, preparatorio). (12) Esempi di atti presupposti sono i bandi di gara per l’affidamento di contratti di appalto di servizi, nonché i bandi di concorso a pubblici impieghi nel caso in cui le disposizioni in essi contenute non permettano la partecipazione alla gara o al concorso; vedi, rispettivamente, Cfr. Cons., St. V, 8 marzo 2011, n. 1463 e Cons., St. VI, 24 gennaio 2011, n. 456. Inoltre atto presupposto è anche il provvedimento di approvazione e autorizzazione del progetto esecutivo di un’opera pubblica in una procedura d’occupazione d’urgenza (Cons. St., IV, 10 giugno 2010, n. 3684). (13) Si è quindi escluso l’utilizzo della solo prospettiva “strutturale”, dominante in passato, che distingue gli atti preparatori da quelli presupposti in base al rilievo che solamente i primi sono necessariamente collocati al’interno del procedimento, mentre i secondi si trovano in una posizione autonoma anche se facenti parte di esso. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tivo intermedio viene considerato dalla giurisprudenza autonomamente impugnabile, significa che quest’ultimo è stato qualificato come atto presupposto (14). Nel caso di specie il Consiglio di Stato allora non ha fatto altro che conformarsi all’orientamento generale che permette l’autonoma impugnazione del provvedimento di segnalazione (15); come del resto aveva fatto il ricorrente che ha provveduto all’impugnazione della sola segnalazione (16). 4. La categoria dell’ invalidità derivata nelle due forme “ad effetti caducanti” e “ad effetti vizianti” Se a prima vista la qualificazione della segnalazione come atto presupposto sembra irrilevante ai fini di un’indagine circa la legittimazione processuale dell’AVCP, un simile giudizio muta se si valuta il regime giuridico proprio di tale categoria di atti, e, in particolare, le conseguenze che l’annullamento di un atto presupposto produce sul relativo atto presupponente, in tal caso il provvedimento dell’AVCP di iscrizione nel Casellario Informatico. Viene quindi in rilievo il fenomeno dell’invalidità derivata relativo all’influenza dell’atto presupposto sulla validità dell’atto conseguente. Si tratta di quel fenomeno, utilizzando le parole di Sandulli “che consiste nel fatto che un certo atto resti a sua volta invalidato dall’invalidità di un atto precedente, il quale si poneva nei suoi confronti come presupposto” (17); in altri termini “l’invalidità derivata è l’invalidità di un atto, di per sé valido, la quale consegue dal fatto che esso trova il suo fondamento in un atto invalido” (18). L’istituto dell’invalidità derivata riguarda sia gli atti preparatori che gli atti presupposti ma si atteggia in maniera diversa rispetto a tali due categorie di atti. Gli atti preparatori, come chiarito sopra, non hanno rilevanza esterna e non sono immediatamente lesivi per cui un loro eventuale vizio si trasmette automaticamente sul primo atto lesivo successivo di rilevanza esterna (19). In merito agli atti presupposti, invece, essendo questi autonomamente funzionali, direttamente lesivi e quindi immediatamente impugnabili, un loro vizio non può ripercuotersi sugli atti successivi perché delle due l’una: o viene impugnato nei termini, e quindi se viziato annullato, oppure non viene tempesti- (14) CORSO, “Atto amministrativo presupposto e ricorso giurisdizionale”, Padova, 1990, 66-67. (15) Vedi Cons. St., VI, 20 luglio 2009, nn. 4504, 4505, 4506. (16) Oltre al provvedimento di esclusione e di incameramento della cauzione provvisoria, aspetti non rilevanti ai fini del presente contributo. Nel senso di qualificare il provvedimento di segnalazione come atto presupposto della successiva iscrizione nel Casellario Informatico vedi anche Cons. St., VI, 23 marzo 2010, n. 1691. (17) SANDULLI, op. cit., 332. (18) CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914, III, 1321. (19) Vedi VIRGA, “Diritto amministrativo”, Milano, 1987, II, 84. CONTENZIOSO NAZIONALE 159 vamente impugnato con la conseguenza che se viziato viene “sanato” (20). Allora, nel caso degli atti presupposti l’invalidità derivata degli atti presupponenti non sarà conseguenza della trasmissione del vizio da parte dell’atto precedente, quanto, piuttosto, dell’annullamento di quest’ultimo (21). In sintesi, in caso di atti preparatori si avrà l’invalidità derivata dell’atto successivo per trasmissione del vizio da parte dell’atto precedente (quindi, vizio non solo dell’atto preparatorio, ma anche proprio dell’atto finale); nel caso di atti presupposti, invece, l’invalidità derivata dell’atto presupponente sarà causa dell’annullamento dell’atto presupposto. L’istituto dell’invalidità derivata, inoltre, si distingue nelle due sottospecie dell’“invalidità caducante” e dell’“invalidità viziante”. L’invalidità ad effetti caducanti si verifica quando l’annullamento dell’atto presupposto provoca il travolgimento automatico degli atti da esso dipendenti a prescindere dalla loro autonoma impugnazione giurisdizionale; l’invalidità viziante invece ammette come, dall’annullamento dell’atto presupposto, derivi un vizio nell’atto presupponente che però deve essere appositamente impugnato per ottenere un suo annullamento (22). Ai fini dell’individuazione degli atti presupponenti che vengono immediatamente travolti dall’annullamento degli atti presupposti va analizzato il legame tra i secondi ed i primi, o meglio il loro nesso di presupposizione. Infatti, l’annullamento dell’atto presupposto travolge automaticamente solo quegli atti successivi legati al primo da un nesso di consequenzialità immediata, diretta e necessaria nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente (23). Un così stretto nesso di presupposizione è stato ravvisato nella circostanza che l’atto precedente risulta l’unico presupposto nell’atto conseguente, ovvero nella maggiore vincolatività dell’atto presupposto nei confronti nell’atto pre- (20) Non è perfettamente corretto parlare di effetto sanante quanto piuttosto effetto stabilizzante dell’efficacia dell’atto. Riprova che l’invalidità dell’atto non viene meno con il decorso dei termini di impugnazione è la possibilità da parte della P.A. di ricorrere all’annullamento in via di autotutela. Resta salva, comunque, l’impugnazione dell’atto presupponente per vizi suoi propri, non derivategli dall’atto presupposto. (21) L’atto presupponente sarà quindi invalido perché emesso in difetto dell’atto presupposto. Così GRECO, “La trasmissione dell’antigiuridicità (dell’atto amministrativo illegittimo)”, in Dir. Proc. Amm., n. 2/2007, 327-330. (22) La ratio degli effetti caducanti dell’invalidità derivata va ravvisata nell’esigenza di giustizia e nel rispetto dei diritti del cittadino e della tutelabilità delle sua posizione giuridiche. L’istituto de quo, infatti, offre una garanzia al ricorrente evitando di pregiudicare la tutela delle sue situazioni giuridiche solo per il fatto che al momento dell’impugnazione di un atto non si è poi provveduto, per un qualsiasi motivo, ad impugnare l’atto ad esso conseguente. Vedi Cons. Stato, Ad. Pl., n. 4 del 1970 tra le prime sentenze ad occuparsi del tema in esame. (23) Cons. St., V, 25 agosto 2011, n. 4805; Cons. St., V, 25 novembre 2010, n. 8243; Cons. St., I, 30 aprile 2010, n. 1969; Cons. St., VI, 23 ottobre 2007, n. 5559. Cfr. DETTORI, Il rapporto di presupposizione nel diritto amministrativo, Napoli, 2006, 122, il quale distingue tra funzionalità debole e forte per affermare l’operatività degli effetti caducanti solo nel secondo caso. 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 supponente (24). Orbene, applicando tali rilievi giurisprudenziali non vi è dubbio che tra il provvedimento di segnalazione e la successiva iscrizione nel Casellario Informatico vi sia un nesso di presupposizione particolarmente intenso, o meglio, particolarmente intimo in quanto il primo costituisce presupposto unico del secondo. Del resto, il Supremo Giudice Amministrativo quando ha definito il provvedimento di segnalazione come “atto strumentale e necessario” rispetto al provvedimento di iscrizione nel Casellario Informatico non ha fatto altro che riscontrare il nesso particolarmente “intimo” tra i due provvedimenti. Il Consiglio di Stato, allora, ha preso in considerazione questo stretto legame tra i due provvedimenti di esclusione e di segnalazione per evidenziare la lesione che l’AVCP subisce per effetto di una sentenza di annullamento del secondo (25). Infatti, a seguito di una simile sentenza vengono colpiti da invalidità derivata ad effetti caducanti i relativi provvedimenti di iscrizione dell’Autorità di vigilanza che vede così leso non solo il proprio potere di iscrizione, ma, più in generale, il proprio potere - dovere di corretta tenuta dello stesso Casellario. Sono queste le considerazioni che hanno permesso al Supremo Consesso di rilevare come “… dall'annullamento giurisdizionale del provvedimento di segnalazione deriva, infatti, un ostacolo giuridico all'esercizio del potere di iscrizione nel Casellario informatico. E l'Autorità, che di tale potere di iscrizione è titolare, ha senz'altro un interesse giuridicamente rilevante alla rimozione di quell'ostacolo, al fine di poter curare l'interesse pubblico, particolare e concreto, in vista del quale la legge le attribuisce il potere di iscrizione”. 5. La portata generale della sentenza A tal punto risulta necessario rappresentare le conseguenze che discendono da tale pronuncia. In primo luogo, va evidenziato che riconoscere la lesività di un’eventuale pronuncia di annullamento di un provvedimento di segnalazione nella sfera d’interessi dell’AVCP, significa attribuire necessariamente a quest’ultima la qualità di controinteressato nei giudizi riguardanti tali atti amministrativi. Del resto, già il Consiglio di Stato, nella già citata sentenza Ad. Pl. n. 4 del 1970, aveva evidenziato come nel caso dell’annullamento degli atti presupposti si pone un problema di integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti i cui interessi sostanziali, direttamente toccati dai soli provvedi- (24) Tra le altre Cons. St., V, 7 febbraio 2000, n. 672. (25) “… è evidente che l'annullamento giurisdizionale della segnalazione della stazione appaltante incide sul potere dell'Autorità appellante, impedendone ab origine l'esercizio. Annullando la segnalazione di un provvedimento di esclusione legittimamente adottato, il T.a.r., infatti, accerta, ex ante, che non vi sono i presupposti per l'esercizio del potere di iscrizione da parte dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la quale, quindi, è il soggetto maggiormente inciso da tale decisione”. CONTENZIOSO NAZIONALE 161 menti consequenziali, “potrebbero essere coinvolti, sia pure sotto il profilo dell’illegittimità derivata (di tali comportamenti), dall’eventuale annullamento dell’atto presupposto” (26). Peraltro, non sembrano esserci dubbi circa la qualificazione di controinteressata all’AVCP, se per controinteressato va inteso colui che dal provvedimento impugnato ha tratto un vantaggio e che quindi ha interesse a partecipare al giudizio al fine di conservarlo (27). Nel caso dell’Autorità di vigilanza, inoltre, sussiste tanto l’elemento sostanziale, quanto l’elemento formale richiesti dalla giurisprudenza per la qualità di controinteressato: elemento sostanziale dato dalla titolarità di un interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato, ed elemento formale, consistente nell’indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, ovvero nell’agevole individuazione aliunde (28). Infatti, va rilevato, come già chiarito sopra, che l’interesse dell’AVCP alla conservazione del provvedimento di segnalazione sorge in quanto da quest’ultimo dipende la possibilità di esercizio del proprio potere di vigilanza, nonché la stessa corretta tenuta del Casellario Informatico. Nessun dubbio, infine, sulla presenza del requisito formale dato che il provvedimento di segnalazione è espressamente inviato all’Autorità che quindi risulta nominativamente indicata nello stesso. In secondo luogo, va evidenziata la portata generale del principio appena affermato dal Consiglio di Stato, il quale andrà applicato in tutti i casi in cui si discuta giudizialmente della legittimità di atti amministrativi presupposti. In altri termini tutte le volte in cui un provvedimento amministrativo adottato da un qualsiasi soggetto pubblico influisce sulla sfera d’interessi di altre Amministrazioni, quest’ultime sono legittimate ad intraprendere le più opportune iniziative giurisdizionali. È evidente come in simili casi assuma rilievo centrale la circostanza che l’Amministrazione, diversa da quella che ha adottato il provvedimento contestato, abbia rispetto ad esso un interesse “personale e concreto”. Infatti, il Supremo Consesso ha chiarito come i soggetti pubblici non possono difendere la legittimità di qualsiasi atto amministrativo semplicemente sulla base della loro qualità di Pubblica Amministrazione, come se fossero titolari di un astratto interesse generale alla legalità dell’agire pubblico, bensì possono agire alla tutela di quegli interessi pubblici particolari e concreti che sono chiamati a perseguire, ed in vista dei quali l’ordinamento gli attribuisce il (26) Cfr. Tar Lazio, Roma, III, 10 luglio 2002, n. 6257; Cons. St., VI, 30 ottobre 2001, n. 5677, in cui è stato sottolineato come tale necessità non sia venuta meno con l’introduzione nel processo amministrativo del rimedio dell’opposizione di terzo, che ha, piuttosto, dimostrato la necessità di meccanismi preventivi di partecipazione che evitino conflitti risolvibili solamente con l’opposizione di terzo. (27) GAROFOLI, FERRARI, “Manuale di diritto amministrativo”, Nel diritto Editore, 2010, 1851. (28) Vedi tra le altre Cons. St., VI, 3 agosto 2010, n. 5145. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 potere amministrativo. Nel caso di specie, infatti, è stata affermata la legittimazione dell’AVCP poiché è stato riconosciuto come il provvedimento di segnalazione incida sul “… potere amministrativo specificamente attribuito all'Autorità di vigilanza per la cura di un interesse pubblico particolare e concreto: quello di assicurare, tramite l'aggiornamento del Casellario informatico, la conoscibilità delle notizie che possono incidere sulla corretta conduzione delle procedure di affidamento dei contrati pubblici ”. In altre parole, quindi, “… l'Amministrazione, quando ritiene che quegli interessi pubblici particolari siano ostacolati o compromessi, può senz'altro intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie alla loro difesa. Può ad esempio costituirsi in giudizio per difendere la legittimità di atti che essa stesso ha adottato (ed è questa l'ipotesi normale, in cui è in contestazione proprio il provvedimento emanato al fine di soddisfare l'interesse pubblico); ma può anche intraprendere iniziative giurisdizionali per difendere la legittimità di provvedimenti adottati da altri soggetti pubblici, nei casi in cui l'annullamento di tali provvedimenti possa avere l'effetto di impedire l'esercizio del potere di cui è titolare. In entrambi i casi, la legittimazione e l'interesse all'iniziativa giurisdizionale derivano dalla necessità di curare, anche nel processo, l'interesse pubblico particolare alla cui cura quella Pubblica Amministrazione è preposta”. Una simile statuizione risulta essere una presa atto della complessa struttura e natura del procedimento amministrativo; quest’ultimo non è più lo strumento con cui la singola Amministrazione provvede al raggiungimento e alla cura degli esclusivi e particolari interessi pubblici di cui risulta titolare. L’attività amministrativa è ormai molto più complessa del passato ed è spesso opera della sinergia di soggetti pubblici e privati; di tale complessità ne sono espressione i vari istituti della partecipazione, degli accordi di programma, delle intese. Sempre più spesso un pubblico interesse non può che essere soddisfatto attraverso il necessario coordinamento di diversi soggetti pubblici, le cui attività, da esplicarsi secondo il principio di leale collaborazione, risultano strumentali, collegate e funzionali al raggiungimento di quell’unico interesse. Ne deriva che ai fini dell’individuazione del soggetto/i legittimato/i alla tutela dei singoli provvedimenti amministrativi non può essere sufficiente il criterio di titolarità formale del potere di adozione degli stessi poiché, sempre più di frequente, quest’ultimi sono strumentali, funzionali al perseguimento di un interesse pubblico per il perseguimento del quale l’ordinamento ha disposto una pluralità di soggetti pubblici. Quindi, non va valutata soltanto la titolarità del potere di adozione del provvedimento, ma soprattutto quanto piuttosto la titolarità dell’interesse che lo stesso persegue. CONTENZIOSO NAZIONALE 163 6. Una differente soluzione interpretativa Si è appena visto come nella sentenza in esame si sia evitato il vulnus di tutela per l’AVCP, e conseguentemente per la stessa tenuta del Casellario Informatico, riconoscendo alla stessa la legittimazione ad impugnare (nonché la legittimazione ad intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali) i provvedimenti di segnalazione delle stazioni appaltanti. Riconoscimento reso possibile dalla ricostruzione del nesso di presupposizione tra il provvedimento di segnalazione e il successivo provvedimento di iscrizione. Centrale per la pronuncia in favore dell’AVCP è stato, quindi, il rilievo dell’invalidità derivata ad effetti caducanti con cui vengono travolti gli atti di iscrizione nel Casellario Informatico a seguito dell’annullamento degli atti di segnalazione da parte delle stazioni appaltanti. Il medesimo risultato poteva essere raggiunto percorrendo un’altra strada, nel senso di negare il carattere di atto presupposto ai provvedimenti di segnalazione. In questo senso si è orientata una pronuncia del T.a.r. Toscana in cui il giudice amministrativo locale ha dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo, quanto all’impugnazione del provvedimento di segnalazione, dopo aver disconosciuto l’autonoma lesività di quest’ultimo (29). Nella motivazione si legge che “… la segnalazione non ha di per sé valore lesivo, poiché il periodo di interdizione dalla partecipazione alle gare per l'affidamento di contratti pubblici inizia con l'iscrizione nel Casellario. E' quindi tale ultimo atto che comporta l'origine di una situazione lesiva per l'interessato. La segnalazione avvia il procedimento per l'iscrizione del fatto, ma l'Autorità dispone poi di un potere valutativo sulla sua rilevanza ai fini dell'iscrizione e la sussistenza del medesimo e deve pertanto esaminare eventuali elementi a discarico, che l'interessato ha diritto di presentare”. In tal modo, il provvedimento di segnalazione è stato qualificato come atto preparatorio e non presupposto in quanto sarebbe strettamente funzionale all’adozione dell’atto finale dell’iscrizione, l’unico effettivamente lesivo degli interessi privati. Del resto, utilizzando i risultati prodotti dall’elaborazione dottrinale circa la distinzione tra atti preparatori e atti presupposti, sorgono dei dubbi circa la qualifica di atto presupposto al provvedimento di segnalazione; quest’ultimo non sembra avere una propria ragione di esistere indipendente dal successivo atto di iscrizione, che anzi risulta a questo strettamente funzionale. Se per una ragione qualsiasi l’iscrizione nel Casellario non dovesse verificarsi la segnalazione non produrrebbe nessun effetto giuridico se non quello, esau- (29) Si tratta della sentenza del T.a.r. Toscana, Firenze, n. 1264 del 20 luglio 2011, quasi contemporanea a quella del Consiglio di Stato sopra commentata. Anche in questa controversia il ricorrente escluso da una gara di appalto aveva impugnato il provvedimento di esclusione, quello di segnalazione dell’accaduto all’AVCP, nonché il provvedimento di escussione della garanzia. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 rito, di aver avviato il procedimento dinnanzi all’Autorità di Vigilanza. Il procedimento dinnanzi all’AVCP, infatti, non può più essere qualificato come meramente consequenziale rispetto alla segnalazione delle stazioni appaltanti, come se l’ Autorità una volta ricevuta l’informazione della circostanza da iscrivere provvedesse sic et sempliciter all’annotazione della stessa nel Casellario. Come chiarito anche dallo stesso Consiglio di Stato l’AVCP “… procede alla puntuale e completa annotazione dei contenuti nel casellario informatico, “salvo il caso che consti l’inesistenza in punto di fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza della notizia comunicata dalla stazione appaltante” (30). L’Autorità di Vigilanza, quindi, dopo aver ricevuto un provvedimento di segnalazione, compie un’ autonoma valutazione in merito alla legittimazione e all’inconferenza di una eventuale iscrizione della circostanza segnalata. Inoltre, al fine di garantire un contraddittorio con gli operatori economici esclusi con le determinazioni n. 1/2008 e 1/2010 l’ Autorità di Vigilanza si è dotata di regole speciali in ordine alla partecipazione procedimentale degli interessati (31). Se dunque, come sembra, l’atto di segnalazione non configura un atto presupposto, bensì preparatorio, in quanto non immediatamente lesivo, allora, il privato che si ritenga leso dall’iscrizione nel Casellario Informatico avrà l’onere di impugnare il provvedimento dell’AVCP congiuntamente a quello di segnalazione delle stazioni appaltanti se non vorrà una statuizione del tipo “… tali considerazioni rendono pertanto priva di interesse la decisione del ricorso in ordine all'impugnazione della segnalazione all'Autorità, …” (32). Del resto, riconosciuta la qualità di atto meramente preparatorio al provvedimento di segnalazione un suo eventuale annullamento determinerebbe un’ invalidità solamente viziante del successivo atto di iscrizione per cui un’eventuale pronuncia d’annullamento del primo non farebbe conseguire alcuna utilità (30) Tra le prime vedi Cons. Stato, sez. VI, 4 agosto 2009, nn. 4906, 4905 e 4907, richiamate da Cons. Stato, sez. VI, 5 luglio 2010, n. 4243. (31) In particolare la determinazione n. 1/2010 nell’allegato ha chiarito che “… una volta acquisita la segnalazione, idoneamente integrata con gli allegati richiesti, l'Autorità dispone l'avvio del procedimento, dandone comunicazione ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e alla Stazione Appaltante. Nella comunicazione di avvio del procedimento saranno almeno indicati: • l'oggetto del procedimento; • il termine per l'invio di eventuali memorie e documentazione allegata, nonché per eventuali controdeduzioni; • l'ufficio presso cui è possibile avere accesso agli atti del procedimento; • il responsabile del procedimento; • il termine di conclusione del procedimento; • l'indicazione di un referente, con i relativi contatti, per eventuali richieste di chiarimenti o comunicazioni successive”. (32) Così sempre T.a.r. Toscana, Firenze, n. 1264 del 20 luglio 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 165 al ricorrente che abbia impugnato solo quest’ultimo: da qui l’inammissibilità del ricorso. Anche a seguito di questa interpretazione risultano tutelati gli interessi dell’AVCP, la quale nel giudizio così instaurato potrà difendere la legittimità dell’iscrizione nonché del provvedimento di segnalazione. E soprattutto, non potranno più verificarsi casi simili a quello avvenuto nella controversia oggetto della sentenza in esame perché eventualmente il giudice amministrativo provvederà ad annullare, per invalidità derivata, il provvedimento di iscrizione nel Casellario Informatico; nessun dubbio, a questo punto, circa la legittimazione ad impugnare la sentenza del giudice amministrativo territoriale. Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 13 giugno 2011 n. 3567 - Pres. f.f. De Nictolis, Est. Giovagnoli - Autorità vigilanza contratti pubblici servizi e forniture (avv. St. Caselli) c. Gruppo Simet srl (avv.ti Carozzo e Pafundi). (Omissis) FATTO e DIRITTO 1. Viene in decisione l’appello proposto dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, nella parte in cui ha annullato il provvedimento con cui Iride Servizi s.p.a. (stazione appaltante), dopo aver revocato l’aggiudicazione provvisoria della gara d’appalto per il servizio di manutenzione impianti di sollevamento del Comune di Torino, già disposta a favore di Simet, aveva inviato all’Autorità di vigilanza una segnalazione a carico di quest’ultima al fine della successiva iscrizione nel Casellario informatico. Oggetto del presente giudizio è dunque la decisione del T.a.r. limitatamente alla parte in cui ha annullato la segnalazione operata da Iride Servizi s.p.a. all’Autorità di vigilanza. Da tale segnalazione era seguita, nelle more del giudizio di primo grado, un’annotazione sul Casellario informatico degli operatori economici, successivamente cancellata dall’Autorità in esito alla sentenza del T.a.r. Piemonte, oggi appellata. 2. Si è costituita in giudizio la società Simet, eccependo, in via pregiudiziale, l’inammissibilità dell’appello, per difetto di legittimazione e difetto di interesse, e deducendone, comunque, l’infondatezza nel merito. 3. L’appello merita accoglimento. 4. Devono preliminarmente respingersi le eccezioni di inammissibilità dell’appello (per difetto di legittimazione e interesse) sollevate dalla società resistente. Il Collegio ritiene che l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sia legittimata a proporre appello avverso la sentenza del T.a.r. che abbia annullato la segnalazione della stazione appaltante circa i provvedimenti di esclusione di un’impresa da una gara pubblica. Tale segnalazione, invero, pur provenendo da una diversa Amministrazione (il soggetto che bandisce la gara) è, comunque, un atto strumentale e necessario per l’esercizio, da parte dell’Autorità di vigilanza, di una sua specifica competenza provvedimentale, quella, appunto, di procedere alla relativa iscrizione nel Casellario informatico. 4.1. Tra la segnalazione della stazione appaltante e la successiva iscrizione nel Casellario ad opera dell’Autorità vi è, certamente, un rapporto di presupposizione, con la conseguenza che 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 l’annullamento del provvedimento presupposto (l’atto di segnalazione) va ad incidere inevitabilmente sulla validità del provvedimento presupponente (l’iscrizione). Il nesso di presupposizione che avvince questi due provvedimenti radica in capo all’Autorità di vigilanza una posizione differenziata e giuridicamente rilevante, togliendo ogni dubbio in ordine all’esistenza di una sua legittimazione processuale che le consente di difendere in giudizio, anche mediante la proposizione di un autonomo appello, il provvedimento di segnalazione adottato dalla stazione appaltante. Dall’annullamento giurisdizionale del provvedimento di segnalazione deriva, infatti, un ostacolo giuridico all’esercizio del potere di iscrizione nel Casellario informatico. E l’Autorità, che di tale potere di iscrizione è titolare, ha senz’altro un interesse giuridicamente rilevante alla rimozione di quell’ostacolo, al fine di poter curare l’interesse pubblico, particolare e concreto, in vista del quale la legge le attribuisce il potere di iscrizione. 4.2. Né si può obiettare che in questo modo il processo amministrativo diventi uno strumento a tutela di un astratto interesse alla legittimità dell’azione amministrativa. Nel caso di specie, infatti, l’Autorità di vigilanza non agisce a tutela di un astratto interesse pubblico. Al contrario, essa si fa portatrice di un interesse che certamente è pubblico, ma che, a livello processuale, si traduce in un interesse “personale” e “concreto”. Si tratta, infatti, dell’interesse al corretto esercizio del potere amministrativo specificamente attribuito all’Autorità di vigilanza per la cura di un interesse pubblico particolare e concreto: quello di assicurare, tramite l’aggiornamento del Casellario informatico, la conoscibilità delle notizie che possono incidere corretta conduzione delle procedure di affidamento dei contrati pubblici. 4.3. Sotto questo profilo, è evidente la differenza che esiste tra la legittimazione e l’interesse del privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare del potere. Mentre il primo, eccettuate le ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio solo a tutela di interessi “privati”, la Pubblica Amministrazione agisce, anche in tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi pubblici, che non sono però astratti interessi alla legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a perseguire, ed in vista dei quali l’ordinamento le attribuisce il potere amministrativo. Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli interessi pubblici particolari siano ostacolati o compromessi, può senz’altro intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie alla loro difesa. Può ad esempio costituirsi in giudizio per difendere la legittimità di atti che essa stessa ha adottato (ed è questa l’ipotesi normale, in cui è in contestazione proprio il provvedimento emanato al fine di soddisfare l’interesse pubblico); ma può anche intraprendere iniziative giurisdizionali per difendere la legittimità di provvedimenti adottati da altri soggetti pubblici, nei casi in cui l’annullamento di tali provvedimenti possa avere l’effetto di impedire l’esercizio del potere di cui è titolare. In entrambi i casi, la legittimazione e l’interesse all’iniziativa giurisdizionale derivano dalla necessità di curare, anche nel processo, l’interesse pubblico particolare alla cui cura quella Pubblica Amministrazione è preposta. 4.4. Nel caso di specie è evidente che l’annullamento giurisdizionale della segnalazione della stazione appaltante incide sul potere dell’Autorità appellante, impedendone ab origine l’esercizio. Annullando la segnalazione di un provvedimento di esclusione legittimamente adottato, il T.a.r., infatti, accerta, ex ante, che non vi sono i presupposti per l’esercizio del potere di iscrizione da parte dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la quale, quindi, è il soggetto maggiormente inciso da tale decisione. CONTENZIOSO NAZIONALE 167 4.5. L’appello, in definitiva, deve ritenersi ammissibile. 5. Nel merito l’appello è fondato. Nel caso di specie, la stazione appaltante (Iride s.p.a.) ha escluso dalla gara la Gruppo Simet s.r.l. per la mancata dichiarazione – da parte dell’impresa concorrente – di una sentenza definitiva di condanna riguardante il legale rappresentante dell’impresa. 5.1. Il T.a.r. ha annullato la segnalazione richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “l’irrogazione della triplice sanzione (esclusione dalla gara, escussione della cauzione provvisoria, segnalazione all’Autorità di vigilanza) si riferisce alle sole irregolarità accertate, con riferimento ai requisiti di ordine speciale di cui all’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006, e non anche a quelle relative ai requisiti di ordine generale ex art. 38, essendo queste ultime sanzionabili solo con l’esclusione dalla gara”. 5.2. Tale indirizzo giurisprudenziale non merita, tuttavia, condivisione. Come più volte riconosciuto da questo Consiglio di Stato, la segnalazione all'Autorità va fatta non solo nel caso di riscontrato difetto dei requisiti di ordine speciale in sede di controllo a campione, ma anche in caso di riscontrato difetto dei requisiti di ordine generale, trattandosi di esclusione idonea a segnalare una circostanza di estrema rilevanza per la corretta conduzione delle procedure di affidamento dei lavori pubblici (Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2004 n. 5792; Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2007 n. 554; Cons. St., sez. VI, 4 agosto2009, n. 4905). 5.3. Non rileva, peraltro, che con riferimento alla condanna non dichiarata sia stato successivamente ottenuto, da parte del legale rappresentante di Simet (signor ...), il provvedimento di riabilitazione, con ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Torino 7 luglio 2010, n. 885. L’ordinanza di riabilitazione è, infatti, successiva sia all’adozione del provvedimento di esclusione, sia alla contestata segnalazione, e non può pertanto essere presa in considerazione per negare la legittimità dell’operato della stazione appaltante. E’ al contrario incontestabile che nel caso di specie la società odierna resistente abbia omesso di dichiarare, pur in presenza di una lex specialis che richiedeva ai partecipanti di menzionare tutte le condanne riportate (ivi comprese quelle assistite dalla non menzione nel certificato del casellario giudiziario), una condanna penale a carico del legale rappresentante, condanna, peraltro, di non trascurabile gravità (trattandosi di condanna per omicidio colposo, aggravato dalla violazione di norme volte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro). Il successivo provvedimento di riabilitazione non incide, quindi, né sulla legittimità dell’esclusione (ormai peraltro coperta dal giudicato), né sulla legittimità della successiva segnalazione all’Autorità di vigilanza. 6. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va, dunque, accolto e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, deve respingersi il ricorso di primo grado, nella parte in cui ha chiesto l’annullamento dell’atto di segnalazione all’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici del provvedimento di esclusione della società Gruppo Simet s.n.c. La complessità e la parziale novità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2011. P A R E R I D E L C O M I TAT O C O N S U LT I V O Rapporti tributari tra Stato e Regioni. Cessioni di beni da parte di un ente regione all’appaltatore come parte del corrispettivo di pagamento: imponibilità della cessione* (...) Nella fattispecie che occupa, la Regione Molise ha stipulato un contratto di appalto con l'impresa ..., avente ad oggetto l'esecuzione di lavori urgenti di manutenzione idraulica del fiume Trigno. Ai sensi dell'art. 2 del contratto in parola, parte del corrispettivo, per euro 347.490,00, è stato compensato mediante cessione di materiale litoide. La restante parte, per euro 9.935,00, è stata compensata mediante pagamento. Oggetto della consultazione è se, nel caso di specie, la cessione del materiale litoide debba essere assoggettata a Iva. La soluzione da darsi alla fattispecie concreta che occupa è la seguente. Premesso l'ovvio rilievo che è fuori discussione la natura pubblica dell'ente Regione Molise, è appena da rammentare che la normativa sull'IVA distingue tra enti pubblici che abbiano per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali od agricole (art. 4, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972) ed enti pubblici che non abbiano tale oggetto esclusivo o principale (art. 4, quarto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972). Come parimenti ben noto, nel primo caso, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi si considerano effettuate in ogni caso nell'esercizio di imprese (con conseguente ascrizione dell'ente tra i soggetti passivi dell'IVA); nel secondo caso, si considerano effettuate nell'esercizio di impresa (con conseguente ascrizione dell'ente tra i soggetti passivi dell'iva limitatamente a tale aspetto funzionale) solo le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte (occasionalmente) nell'esercizio di attività commerciali o agricole. A sua volta, l'art. 4 quarto comma, considera imponibili a fini IVA "le (*) Parere del 16 maggio 2011 prot. 163648, AL 48321/10, avv. DIEGO GIORDANO. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di attività commerciali o agricole" nonché "le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ai soci, associati e partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari ... ad esclusione di quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, ecc.". Logica conseguenza di tale assetto è che l'assoggettabilità ad Iva della cessione del materiale, da parte della Regione, deve risultare da un'attività, ancorché occasionale, ma "organizzata in forma di impresa", posta in essere dall'Ente. Giova adesso rammentare che la giurisprudenza della Suprema Corte, in relazione all'art. 4 del DPR 633 del 1972, ha definito l'esercizio di impresa come esercizio abituale, ancorché non esclusivo di attività commerciali o agricole, nel generale contesto dei principi dettati dagli artt. 2135 e 2195 c.c., attività dunque continuative e stabili, e pertanto non ravvisabili rispetto ad atti isolati di produzione o commercio (Cass. 1987/84; 12007/93; 2021/96; 3406/96; 10430/2001; da ultimo, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13999 del 22 settembre 2003, secondo la quale "In tema di IVA, ai sensi dell'art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sono imponibili solo le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di attività commerciali o agricole, e, nell'ambito delle attività commerciali, rientrano solo quelle, ancorché occasionali, che siano svolte in forma di impresa, i cui requisiti, la professionalità e l'abitualità, esigono il carattere continuativo e stabile dell'attività imprenditoriale, ai sensi degli artt. 2135 e 2195 cod. civ., non ravvisabili in riferimento ad atti isolati di produzione e commercio, quali vengano ritenuti secondo l'incensurabile accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito; in applicazione di tale principio, la Corte ha mandato immune da censure l'accertamento compiuto dalle Commissioni tributarie che avevano ritenuto occasionale e non assoggettabile ad IVA, e dunque non resa nell'esercizio di una attività imprenditoriale, la cessione di materiali di cava da parte di un Comune ad una impresa, che procedeva alla realizzazione di una vasca di depurazione commissionata dallo stesso Comune"). La sentenza da ultimo citata (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13999 del 22 settembre 2003) apre la via alla necessità dell'accertamento in concreto dell'attività espletata dalla Regione nel caso che occupa (giova qui osservare che, in ordine alla necessità di un’indagine concreta, peraltro rimessa, in caso di giudizio, alla insindacabile valutazione del giudice di merito, la giurisprudenza della Suprema Corte è assolutamente costante). Almeno per quanto è in atti, non risulta che la cessione del materiale litoide sia oggetto di attività continuativa da parte della Regione Molise, venendo in rilievo piuttosto, nella specie, il mero pagamento di un corrispettivo all'appaltatore nell'ambito di un isolato contratto di appalto. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 171 Dunque, sembra potersi sostenere che, nella fattispecie concreta che occupa, si sia in presenza di una attività isolata e che la cessione non sia quindi soggetta a Iva. Viceversa, deve osservarsi che è soggetto a Iva l'intero compenso (357.425,00 euro) spettante all'appaltatore (previsto, cioè, dall'articolo 2 del contratto). Vero è infatti che, come detto, la cessione del materiale costituisce un vero e proprio pagamento del corrispettivo. Nella figura contrattuale in esame, invero, il materiale in questione viene in rilievo solo come modalità di quantificazione di parte del corrispettivo da corrispondersi dalla committente all'appaltatore a fronte delle prestazioni rese da quest'ultimo, il cui importo totale è, tra l'altro, espresso in euro, così come è espresso in euro il valore del materiale litoide stesso. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. Riduzione dell’importo - a seguito di pronuncia giurisdizionale - di sanzioni pecuniarie irrogate dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato: modus procedendi nella restituzione* Con la richiesta di parere che si riscontra codesta Amministrazione richiama la disposizione di cui all’art. 9 del DL 207/08 conv. in L. 14/09, secondo cui “Il termine per il pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dai decreti legislativi 2 agosto 2007, n. 145, e 2 agosto 2007, n. 146, irrogate nell'anno 2008 dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, è prorogato di trenta giorni. Gli importi da pagare per le suddette sanzioni, anche irrogate negli anni successivi, sono versati fino all'importo di 50.000 euro per ciascuna sanzione, sul conto di tesoreria intestato all'Autorità, da destinare a spese di carattere non continuativo e non obbligatorio; la parte di sanzione eccedente il predetto importo è versata al bilancio dello Stato per le destinazioni previste dalla legislazione vigente. L'importo di 50.000 euro può essere ridotto o incrementato ogni sei mesi con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, avente natura non regolamentare, in relazione a specifiche esigenze dell'Autorità”. La situazione specifica prospettata è quella in cui, a seguito di impugnazione in sede giurisdizionale del provvedimento dell’Autorità con cui è stata irrogata la sanzione, il TAR, in accoglimento totale o parziale delle censure mosse dal ricorrente, ridetermina in senso riduttivo l’importo a carico del sog- (*) Parere del 16 maggio 2011 prot. 163604, AL 15475/11, avv. BARBARA TIDORE. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 getto sanzionato. Rappresenta al riguardo codesta Amministrazione che in tali casi, secondo una consolidata prassi dell’Autorità, la restituzione degli importi avviene tenendo conto del limite quantitativo previsto dal citato art. 9 per quanto attiene all’incameramento. Più precisamente, qualora l’importo (ridotto) risultante dalla sentenza ecceda la somma di euro 50.000, la quota parte da restituire viene posta a carico del bilancio dello Stato, mentre l’Autorità restituisce la quota di propria competenza solo se la somma finale sia inferiore a euro 50.000 e fino a concorrenza di tale ammontare. Viene pertanto richiesta una valutazione della correttezza di tale modus procedendi, sul presupposto che la fase della restituzione non trova disciplina in puntuali disposizioni di legge. In proposito si osserva che, per una ricostruzione possibilmente completa della disciplina rilevante, la disposizione menzionata nella nota in riferimento non sembra potersi leggere disgiuntamente da quella contenuta nell’art. 148 della L. 388/00 (“Utilizzo delle somme derivanti da sanzioni amministrative irrogate “dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato”), a mente della quale “1. Le entrate derivanti dalle sanzioni amministrative irrogate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato sono destinate ad iniziative a vantaggio dei consumatori. 2. Le entrate di cui al comma 1 sono riassegnate con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica ad un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato per essere destinate alle iniziative di cui al medesimo comma 1, individuate di volta in volta con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, sentite le competenti Commissioni parlamentari”. Si ha,dunque, un sistema in cui, all’interno della categoria generale delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità nell’esercizio delle sue competenze istituzionali, per le sole sanzioni previste dalla normativa in tema di tutela dei consumatori (ovvero comminate in applicazione del Dlgs. 206/205 e dei DL modificativi nn. 145 e 146 del 2007), il Legislatore ha inteso riservare all’Autorità una quota dell’ammontare complessivamente dovuto dal soggetto sanzionato. Per le rimanenti sanzioni, afferenti l’ambito delle condotte anticoncorrenziali, resta ferma la destinazione al bilancio dello Stato. Ai fini del parere richiesto appare decisivo notare che la delimitazione normativa è stata operata mediante una cifra ben precisa, ciò che rende estremamente difficile individuare, per una ipotetica, differente modalità di restituzione, delle soluzioni alternative a quella sinora praticata. Va inoltre rilevato che l’applicazione rigorosa del limite quantitativo, quale emergente dall’orientamento descritto nella nota che si riscontra, può PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 173 ritenersi logicamente consequenziale alla previsione di cui all’art. 9 cit., consentendo di salvaguardarne la ratio di garantire una ripartizione degli introiti derivanti dalle sanzioni in base a criteri oggettivi e agevolmente verificabili. Per quanto precede, non si ravvisano valide ragioni giuridiche per porre in discussione l’attuale modalità di restituzione delle sanzioni in conseguenza di pronunce giurisdizionali. Il presente parere è stato esaminato dal Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità. Prescrizione dell’obbligazione doganale sorta in presenza di reato ai sensi dell’art. 84 del T.U.L.D. e dell’articolo 221 del Reg. CEE n. 2913/1992* Con la nota emarginata codesta Agenzia chiede chiarimenti, articolati in diversi punti, sul tema della prescrizione dell’azione dello Stato per la riscossione dei diritti doganali. 1. In particolare l’Amministrazione istante, con il primo quesito, sollecita il parere della scrivente Avvocatura Generale in ordine alla conformità con il diritto dell’Unione della norma nazionale in forza della quale, qualora il mancato pagamento dei diritti doganali abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili. Infatti, dalla lettura della disposizione interna vigente in materia, contenuta nell’art. 84, comma 1 del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (in seguito TULD) - come modificato a norma dell’art. 29, comma 1° della L. 29 dicembre 1990, n. 428 (legge comunitaria per il 1990) - si evince che l’azione dello Stato per la riscossione dei diritti doganali si prescrive nel termine di tre anni dalla data in cui i diritti sono divenuti esigibili. Mentre il successivo comma 3, in via di eccezione rispetto alla regola generale testé menzionata, prevede che: “Qualora il mancato pagamento, totale o parziale, dei diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili”. 1.1 La normativa interna testé menzionata è in perfetta sintonia con quella comunitaria, in particolare con l’art. 221 del Reg. CEE 2913 del 92, come modificato dal regolamento CE del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700 (in seguito CDC), il quale stabilisce al paragrafo 3, in ordine alla notifica al debitore dell’importo recato dall’obbligazione doganale da riscuotere, che “la comunicazione al debitore non può più essere effettuata tre anni dopo la data in cui è sorta l'obbligazione doganale. Detto termine è (*) Parere del 19 maggio 2011 prot. 168798, AL 42463/10, avv. GIUSEPPE ALBENZIO. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sospeso a partire dal momento in cui è presentato un ricorso a norma dell'articolo 243 e per la durata del relativo procedimento”. Il successivo paragrafo 4 prevede però che “qualora l'obbligazione doganale sorga a seguito di un atto che era nel momento in cui è stato commesso perseguibile penalmente, la comunicazione al debitore può essere effettuata, alle condizioni previste dalle disposizioni vigenti, dopo la scadenza del termine (triennale, n.d.r.) di cui al paragrafo 3”, ove è appena il caso di specificare che con l’espressione “disposizioni vigenti”, ai sensi dell’art. 4, n. 23 del C.D.C., devono intendersi “le disposizioni comunitarie o le disposizioni nazionali”. Con tale norma (art. 221, par. 4 CDC) il legislatore comunitario ha voluto introdurre una causa sospensiva e/o interruttiva della prescrizione del diritto alla riscossione dei tributi doganali idonea a differire, in presenza di un procedimento penale, l’inizio della decorrenza del termine di prescrizione, in applicazione del consolidato principio generale actio nondum nata non prescribitur (ribadito dall’art. 2935 codice civile italiano), a cui è stata data operatività nel settore doganale con le norme in esame. Con l’art. 84 T.U.L.D. il Legislatore nazionale ha dunque introdotto una identica causa di interruzione della prescrizione del diritto alla riscossione dei tributi doganali, altresì idonea a differire, in presenza di un atto avente rilevanza penale, l’inizio della decorrenza di un nuovo termine prescrizionale; tale differimento è evidentemente subordinato alla identificazione del presupposto fattuale dell’obbligazione doganale con una fattispecie astratta di reato. L’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 221 del C.D.C. e 84, terzo comma, del T.U.L.D. prescinde dal seguito giudiziale avuto dalla denuncia del fatto-reato, sia ai fini dell’individuazione degli imputati e della formulazione delle imputazioni sia ai fini dell’accertamento delle loro responsabilità penali (vedasi sentenza della Corte di Giustizia C-273/90 del 7 novembre 1991 Meico-Fell). La deroga temporale disposta dalle norme in esame risponde a chiare esigenze di giustizia e parità di trattamento, atteso che altrimenti gli Uffici Doganali verrebbero posti in una situazione di disparità rispetto agli altri creditori ed agli operatori del settore (che non risponderebbero delle loro azioni contrarie alle leggi e, anzi, conserverebbero i vantaggi conseguiti indebitamente) e di impossibilità di perseguire i propri fini istituzionali. Nell’ambito del procedimento di natura amministrativa le autorità doganali sono altresì competenti a constatare nell’interesse dell’Unione e dello Stato membro l’esistenza di un fatto-reato, soprattutto in vicende ove il presupposto dell’imposta non viene percepito normalmente dall’Amministrazione finanziaria al momento dell’importazione, dato che il comportamento del soggetto obbligato è diretto ad occultarlo, così che l’amministrazione non è in grado di attivarsi per la liquidazione e la riscossione del credito tributario. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 175 1.2 Parimenti è importante rilevare che, nella dinamica del diritto vivente, sull’interpretazione del menzionato plesso normativo possono distinguersi gli orientamenti giurisprudenziali originati rispettivamente dalle pronunzie rese della Corte di Giustizia e dalla Corte di Cassazione che da ultimo trovano composizione, in un rapporto da genus a species, nella recente sentenza della Corte di giustizia C-75/09 del 17 giugno 2010. Infatti, muovendo dalla ricognizione letterale-sistematica delle menzionate disposizioni, il Giudice Europeo, pur osservando che l’art. 221, n. 4, del codice doganale non prevede di per sé alcun termine di interruzione o di sospensione della prescrizione applicabile (a differenza di quanto disposto dal par. n. 3 del medesimo articolo e soprattutto dall’art. 84, comma 3 TULD), rileva di seguito con autorevole e vincolante interpretazione che “limitandosi al riferimento alle «condizioni previste dalle disposizioni vigenti», l’art. 221, n. 4, del codice doganale opera un rinvio al diritto nazionale per il regime della prescrizione dell’obbligazione doganale, qualora tale obbligazione sorga a seguito di un atto che era, nel momento in cui è stato commesso, perseguibile penalmente” (Corte di Giustizia sentenza C-75/09 del 17 giugno 2010, punti 33 e 34). “Di conseguenza, non prevedendo il diritto dell’Unione regole comuni in materia, spetta ad ogni Stato membro determinare il regime della prescrizione delle obbligazioni doganali che è stato possibile accertare a causa di un fatto passibile di reato (v., per analogia, sentenze 16 ottobre 2003, causa C-91/02, Hannl-Hofstetter, Racc. pag. I-12077, punti 18-20, e Molenbergnatie, cit., punto 53)” (Corte di Giustizia sentenza C-75/09 del 17 giugno 2010, punto 35). A lume delle considerazioni che precedono, conclude la Corte con chiarissimo dispositivo che “L’art. 221, nn. 3 e 4, del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale in base alla quale, laddove il mancato pagamento dei diritti tragga origine da un reato, il termine di prescrizione dell’obbligazione doganale inizia a decorrere dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili” (Corte di Giustizia sentenza C-75/09 del 17 giugno 2010, dispositivo). 1.3 Spetta, pertanto, al Legislatore Nazionale conformarsi alle fonti sopraordinate di derivazione comunitaria e darne attuazione nello Stato membro secondo i principi di effettività ed equivalenza in coerenza ai canoni ermeneutici delineati dalla Corte di Giustizia nel suo ruolo di interprete del diritto dell’Unione. E’, invece, compito della Corte di Cassazione in funzione nomofilattica statuire in ordine al significato e all’uniforme applicazione delle fonti del diritto di origine interna, in armonia con i principi comunitari. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Nella prospettazione ermeneutica sostenuta dalla Suprema Corte la notitia criminis (da intendersi quale primo atto esterno prefigurante il rapporto genetico tra fatto reato e presupposto d’imposta), che di per sé determina e giustifica il differimento del termine, deve intervenire nel corso dell’originario termine triennale di prescrizione dell’azione di recupero dei diritti evasi e non dopo la sua scadenza, poiché, diversamente argomentando, il termine di revisione dei dazi sarebbe privo di riferimento temporale e dilatabile all’infinito con grave pregiudizio del principio generale indefettibile della certezza del diritto (vedasi Cass. 19193/06, motivazione). 1.4 In conclusione, la disciplina contenuta del CDC, facendo espresso rinvio al diritto nazionale per ogni questione che attiene alla prescrizione delle obbligazioni doganali che sorgono da un atto perseguibile penalmente - indipendentemente dall’apertura del procedimento penale e dal suo esito, essendo all’uopo sufficiente, a giudizio dell’Autorità competente alla riscossione, la astratta configurabilità come reato del fatto o dell’atto dal quale trae origine l’obbligazione - non è ostativa alla disciplina interna recata dal TULD e, ai sensi del combinato disposto dell’art. 221, par. 4 CDC e dell’art. 84, comma 3, TULD il termine di prescrizione non può decorrere fino alla chiusura del procedimento penale aperto in seguito alla notizia di reato, sempreché quest’ultima intervenga nell’originario termine prescrizionale di tre anni. Occorre, pertanto, risolvere la prima questione sottoposta a questa Avvocatura rilevando che la lettura data dalla Suprema Corte non si pone in contrasto ne’ con la norma di cui all’art. 221, commi 3 e 4, CDC ne’ con l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia e formatasi in relazione alle medesime disposizioni. In tal senso correttamente argomenta l’Agenzia istante. Per completezza di trattazione si aggiunge che il legislatore comunitario, percorrendo la stessa ratio individuata dal giudice nazionale, al fine di uniformare il comportamento di tutte le Amministrazioni doganali comunitarie in tale contesto, nel nuovo codice doganale comunitario di cui al Reg. CE n. 450/2008 – che avrà applicazione dal 24 giugno 2013 – ha stabilito all’articolo 68, comma 2, che, quando l’obbligazione doganale sorge in seguito ad un atto che nel momento in cui è stato commesso era perseguibile penalmente, il termine triennale di cui al paragrafo 1, viene portato a dieci anni, senza la disciplina dell’interruzione del vecchio codice. 2. La seconda questione di diritto che viene sottoposta al giudizio della Scrivente concerne, invece, l’operatività della sospensione del decorso del termine di prescrizione, previsto dai cennati art. 84, comma 3, TULD e art. 221, comma 4, CDC. Segnatamente, nel caso in cui il mancato pagamento dei diritti doganali abbia avuto causa da un atto perseguibile penalmente, si chiede a questa Av- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 177 vocatura, se il presupposto di fatto a partire dal quale il termine di prescrizione del diritto a riscuotere i tributi doganali comincia a decorrere possa coincidere con la emissione di un decreto di archiviazione ex art. 409 c.p.p.. Difatti, come già argomentato, “le disposizioni vigenti”, richiamate espressamente dalla citata disciplina comunitaria, sul punto espressamente dispongono che “Qualora il mancato pagamento, totale o parziale, dei diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili”. 2.1 Ai sensi dell’art. 648 cpp., comma 1° “sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione”, ove per “irrevocabilità” si intende che il provvedimento pronunziato dal giudice è divenuto immodificabile per effetto dell’esperimento di tutti i mezzi di impugnazione azionabili contro di esso, ovvero del decorso infruttuoso dei termini per la proposizione degli stessi. Analogo effetto consegue, a mente del successivo comma del medesimo articolo, alla inammissibilità del gravame ma, in tal caso, la irrevocabilità si determina dalla data in cui è divenuta irrevocabile l’ordinanza dichiarativa di tale esito. Il concetto di irrevocabilità indica, quindi, l’esaurimento della situazione giuridica processuale e si traduce nella individuazione obbligatoria della legge in relazione alla “res in Judicium deducta”. Pertanto, per dare soluzione al quesito proposto occorre soffermarsi, ancora, sulla lettera e sulla ratio delle disposizioni normative (cioè quelle nazionali, siccome richiamate da quelle comunitarie) regolanti la materia ed i loro risvolti applicativi. Come già detto con gli art. 84 T.U.L.D. e 221 CDC i Legislatori nazionale e comunitario hanno inteso introdurre una causa con valenza sospensiva e interruttiva della prescrizione del diritto alla riscossione dei tributi doganali, altresì idonea a differire, in presenza di un atto avente rilevanza penale, l’inizio della decorrenza di un nuovo termine prescrizionale. Tale differimento è espressamente subordinato dal dettato normativo alla identificazione del presupposto fattuale dell’obbligazione doganale con una fattispecie astratta di reato. Quindi l’applicazione dell’art. 84, terzo comma del T.U.L.D. (similmente a quanto previsto per l’applicazione delle disposizioni di cui agli art. 221 Reg. 2913/1992) prescinde dalla individuazione delle varie fasi del procedimento di accertamento e riscossione e soprattutto dal seguito giudiziale avuto dalla denuncia del fatto-reato e dall’esito del procedimento penale derivante dall’accertamento del fatto-reato impeditivo dell’esatta riscossione. Ciò trova conferma nell’interpretazione dell’art. 221, par. 4 CDC, resa dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea con la fondamentale sentenza C-273-90 del 7 novembre 1991 (causa “Meico-Fell”) la quale, sul punto, 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 ha statuito che “l’espressione atto passibile di un’azione giudiziaria repressiva riguarda esclusivamente gli atti che nell’ordinamento giuridico dello Stato membro, le cui competenti autorità procedono al recupero, sono qualificati infrazioni ai sensi del diritto penale nazionale”. 2.2 Del resto, la ratio legis è proprio quella di consentire all’Amministrazione di accertare i diritti doganali e di richiederne il pagamento ai soggetti passivi in un tempo complessivamente ragionevole e prefissato, suscettibile di sospensione o interruzione in relazione a determinate circostanze che impediscono l’attività accertativa e di recupero, come disposto dal comma terzo dell’art. 84 e dall’art. 221, par. 3: limitare l’operatività delle cause di sospensione/ interruzione ai casi in cui il processo penale si concluda con una sentenza, comporta la violazione dello scopo sotteso a quelle stesse norme. Quanto appena argomentato risulta integralmente recepito da coerenti pronunzie della Suprema Corte di Cassazione che, in sede di interpretazione dell’art. 84 TULD, stabilisce: “Ricorre l’ipotesi dell’«atto passibile di un’azione giudiziaria » ogni qual volta l’atto, obiettivamente considerato, integri una fattispecie prevista come reato dal diritto penale nazionale … senza che si debba accertare se per lo stesso sia iniziata o possa essere iniziata azione penale, essendo condizione necessaria, ma anche sufficiente, la qualificabilità dell’atto stesso come reato” (sentenza 19 novembre 1997, e analogamente sentenze n. 11499; 20 agosto 1997, n. 7751; 9 gennaio 1998, n. 124 e 14 gennaio 1998, n. 260); Ancora, sulla scorta dei principi appena enunciati: “Il corso del termine di prescrizione di cui all’art. 84 d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43 (originariamente quinquennale, poi triennale, ai sensi dell’art. 29 della l. 29 dicembre 1990, n. 428), nel caso l’obbligazione doganale origini da un fatto o un atto perseguibile penalmente, ai sensi dell’art. 3 reg. Cee del Consiglio n. 1697 del 24 luglio 1979, dell’art. 221, comma 3, reg. Cee del Consiglio n. 2913 del 12 ottobre 1992 (come modificato dal reg. CEE del Consiglio n. 2700 del 18 settembre 2000), e dell’art. 84, comma 3, d.p.r. 43/73, è impedito dalla mera configurazione dell’ipotesi delittuosa nel rapporto-denunzia della dogana all’autorità giudiziaria, ancorché definita con l’archiviazione” (Cass. 19195/06; Cass. 24336/09). 2.3 In conclusione, anche in riferimento all’art. 84, terzo comma, del T.U.L.D. deve trovare applicazione il principio, ormai indiscusso, secondo cui qualora la formulazione letterale di una norma non corrisponda in pieno al modo in cui la norma stessa si inserisce nel sistema, fra le interpretazioni possibili, deve essere data preferenza - secondo i canoni di ermeneutica giuridica - a quella che non sia in contrasto con norme e principi di livello costituzionale. A nulla vale che il testo dell’art. 84, terzo comma, T.U.L.D. non faccia esplicito riferimento anche al provvedimento di archiviazione. Alla luce di un’interpretazione sistematica e sicuramente più razionale PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 179 da dare alla norma, non vi possono essere dubbi nel sostenere che la deroga temporale di cui allo stesso art. 84, terzo comma, trovi applicazione anche in riferimento all’archiviazione del processo penale, atteso che altrimenti, come già detto, gli Uffici Doganali verrebbero costretti ad una vera e propria impossibilità operativa. 2.4 Resta, infine, da esaminare la collegata questione concernente la definizione della natura giuridica del differimento del termine per la riscossione dei diritti doganali sorti in presenza di un atto avente rilevanza penale. Rileva, infatti, l’Amministrazione istante che la Suprema Corte in alcune pronunzie, in particolare nella recente sentenza n. 11181/10 (nella quale si richiama peraltro l’analoga sentenza n. 19193/06), seppure in un obiter dictum, avrebbe ricondotto detto effetto all’istituto della proroga del termine prescrizionale. Orbene, nonostante l’analisi del dato letterale non deponga per siffatta ricostruzione (dispone, infatti, l’art. 84, comma 3° che: “il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili”) e la regola generale di cui all’art. 2935 c.c. sopra richiamata confermi la correttezza della detta disposizione, il contrario orientamento della Cassazione non consente di suggerire una ricostruzione ermeneutica diversa dall’istituto della interruzione della prescrizione di cui agli art. 2943-2945 c.c. Pertanto, in base all’orientamento giurisprudenziale della Cassazione, come già sopra detto, il termine triennale di prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui i fatti si sono verificati e, se interrotto dall’inoltro della notitia criminis prima del decorso del triennio, ricomincia a decorrere dalla definizione di quella notitia secondo la disciplina dell’art. 84 TULD e 221 CDC. 3. La terza questione sottoposta al parere della scrivente Avvocatura concerne l’estensibilità della disciplina della prescrizione dell’azione di riscossione dei diritti doganali, di cui all’art. 84, 3° comma TULD, al recupero delle sanzioni amministrative tributarie comminate ai trasgressori in conseguenza di fatti costituenti tanto illecito penale quanto illecito amministrativo. Sul tema è intervenuta di recente pronunzia della Suprema Corte, sez. V, n. 10823/10, richiamata dall’Amministrazione istante, che stabilisce che il citato articolo “in quanto norma speciale per l’imposizione delle operazioni transfrontaliere, troverebbe applicazione a tutte le fattispecie debitorie ad essa collegate”, venute ad esistenza per effetto della stessa operazione. 3.1 Tuttavia, a fronte della menzionata posizione, occorre tenere anche conto di altre pronunce della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui “ai fini dell’illecito amministrativo rileva solo che il fatto descritto dall’art… citato sia stato commesso, quale che sia la qualificazione giuridica ad esso attribuita” (Cass. Sez. II, n. 1081 del 18 gennaio 2007 e sez. I n. 3124 del 16 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 febbraio 2005), mentre non assume alcun rilievo la circostanza che la stessa condotta possa eventualmente integrare in via alternativa e/o concorrente un illecito penale. Ancora più significativa per quel che rileva in questa sede - come già argomentato da questa Avvocatura (cfr. parere Cs.11517/08, istante S.A.I.S.A.) – è la sentenza della Suprema Corte che, seppure chiamata a decidere della corretta applicazione dell’art. 2947 c.c. (prescrizione del diritto al risarcimento del danno, a norma della quale se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga questa si applica anche all’azione civile) ha espresso il principio di diritto secondo cui quando “lo stesso fatto illecito sia preso in considerazione sia da una disposizione che contempla una sanzione amministrativa, sia da una disposizione penale trova luogo… in particolare il principio di specialità, in base al quale deve farsi applicazione della norma speciale in base alla quale l’illecito amministrativo resta assoggettato al termine prescrizionale suo proprio, ossia a quello quinquennale (decorrente dal giorno in cui è stata commessa la violazione), e non a quello stabilito nell’art. 2947 c.c., dettato in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno allorché il fatto costituisce reato” ( Cass., sez. I, n. 23979 del 24 dicembre 2004). Si osserva, inoltre, che la stessa giurisprudenza di legittimità, applicando analogicamente gli artt. 2943 e 2945 c.c. in tema di interruzione della prescrizione, ovvero motivando in ragione della effettiva possibilità di esercizio del diritto ai sensi della regola generale di cui all’art. 2935 c.c., ha sempre limitato l’effetto interruttivo della prescrizione dell’illecito punito con sanzione amministrativa a seguito dell’avvio, e durante la pendenza, di un processo penale alle sole ipotesi di successiva depenalizzazione di fatti già sanzionati penalmente (vedasi Cass. sez. I, n. 18168 del 16.8.2006; sez. I, n. 19529 del 19 dicembre 2003) ed a quelle di connessione con un reato previste dall’art. 24, u.c., l. n. 689/81. Per vero in tali casi, in cui il giudice penale ha anche la cognizione dell’infrazione amministrativa, la Suprema Corte ha statuito che, qualora il procedimento penale si sia definito per estinzione del reato, da tale momento inizia a decorrere un nuovo termine prescrizionale per l’esercizio del diritto a riscuotere la somma stabilita a titolo di sanzione amministrativa con Cass. sez. I, n. 14830 del 27 giugno 2006; sez. IV 5 aprile 2000 (cfr. parere Cs 11517/08, istante S.A.I.S.A.). Si condividono, pertanto, le perplessità manifestate da codesta Agenzia in ordine all’estensibilità del principio sancito da Cass. 10823/10 alle sanzioni regolate dal d.lgs. 472/97 e si ritiene di poter affermare che qualora si configuri in capo all’Amministrazione istante la necessità di recuperare le somme dovute dal contribuente a diverso titolo, sarà opportuno fare riferimento, ai fini della maturazione della prescrizione della corrispondente azione di riscossione, all’operatività dei diversi termini prescritti nelle differenti norme speciali che PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 181 regolano le singole fattispecie in riferimento alle quali sono sorte le obbligazioni per il cui adempimento si agisce, finché l’orientamento giurisprudenziale di cui alla citata sentenza 10823/10 non si consolidi. Sulla base dell’affermata autonomia ontologica delle diverse ipotesi di recupero originate dalla medesima condotta illecita e dei suoi riflessi in ordine alla riscossione dei contributi evasi, la collegata questione della eventuale decorrenza dalla conclusione del giudizio penale di un nuovo termine prescrizionale di durata pari all’originario termine - in considerazione della circostanza che la pendenza di una vertenza di natura penale non può essere considerata ai fini del recupero dell’azione amministrativa nemmeno quale causa interruttiva del termine - si ritiene assorbita. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo di questa Avvocatura che si è espresso in conformità nella riunione del 18 maggio 2010. Accordi di indennizzo stipulati ai sensi dell'art. 4 del DL 351/01 a seguito del venir meno del conferimento di beni ai Fondi immobiliari* Con la nota che si riscontra codesta Amministrazione ha chiesto il parere della Scrivente in merito alle richieste di indennizzo avanzate dalla Investire Immobiliare spa in qualità di SGR del Fondo denominato Fondo Immobili Pubblici e da BNL/BNL Paribas in qualità di SGR del Fondo denominato “Patrimonio Uno”. Rappresenta codesta Amministrazione che le richieste di indennizzo si fondano sulla circostanza che alcuni beni conferiti o trasferiti ai suddetti fondi risultano in tutto o in parte di proprietà di altri soggetti pubblici, diversi da quelli previsti dall’art. 4 (1) del DL. 351/01 convertito in legge dall'articolo 1 della Legge 410/01. Con le predette società codesta Amministrazione ha stipulato 2 distinti accordi di indennizzo (Allegati 8 e 9 alla richiesta di parere) con i quali vengono disciplinati gli obblighi assunti dal Ministero dell'economia e delle Finanze nei confronti dei Fondi Immobiliari a garanzia dell'operazione di conferimento o di trasferimento di immobili pubblici ai suddetti fondi prevista (*) Parere del 9 giugno 2011 prot. 193078, AL 44601/10, avv. ANTONIO GRUMETTO. (1) 4. Conferimento di beni immobili a fondi comuni di investimento immobiliare. 1. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato a promuovere la costituzione di uno o più fondi comuni di investimento immobiliare, conferendo o trasferendo beni immobili a uso diverso da quello residenziale dello Stato, dell'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato e degli enti pubblici non territoriali, individuati con uno o più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale. I decreti disciplinano altresì le procedure per l'individuazione o l'eventuale costituzione della società di gestione, per il suo funzionamento e per il collocamento delle quote del fondo e i criteri di attribuzione dei proventi derivanti dalla vendita delle quote. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dal predetto Decreto-Legge. Nella richiesta di parere non si contesta che le ragioni poste a base delle richieste di indennizzo rientrino in uno degli eventi indennizzabili previsti dai citati accordi. Pertanto la Scrivente intende prescindere da questo particolare aspetto nella formulazione del presente parere. Codesta Amministrazione chiede, viceversa, di sapere: 1) da quale momento produca effetti l'annullamento del trasferimento del bene immobile; 2) se l'importo complessivo da liquidare ai fondi debba essere pari al valore di apporto, comprensivo delle spese sostenute e degli interessi sul debito contratto detratti i canone di locazione corrisposti ovvero semplicemente al valore di apporto comprensivo delle spese. Osserva la Scrivente quanto segue. Quanto al primo quesito, dal punto b) della premessa dell’Accordo di indennizzo con FIP si desume che il trasferimento o l'apporto del compendio immobiliare al Fondo è avvenuto dalla data di efficacia del Decreto Operazione (v. all. 8); mentre dal punto b) dell’Accordo di indennizzo con “Patrimonio Uno” si desume che tale trasferimento è avvenuto con effetto dalla data di efficacia indicata nel Decreto di Apporto, nel Decreto di Trasferimento o nell'Atto di trasferimento (v. all. 9). Pertanto l'annullamento del trasferimento o dell'apporto al Fondo del bene immobile, risultato di proprietà di terzi, non potrà che avere effetto dalla medesima data di efficacia di tale trasferimento o di tale apporto per come specificamente individuata per ciascuna singola operazione di costituzione del fondo e di trasferimento del compendio immobiliare; vale a dire dalla data di efficacia delle Decreto Operazione, per quanto riguarda l'Accordo con FIP e dalla data indicata nel Decreto di Apporto, nel Decreto di Trasferimento o nell'Atto di trasferimento, per quanto riguarda l'Accordo con “Patrimonio Uno”. Quanto al 2º quesito, ritiene la Scrivente che l'obbligo di garanzia gravante su codesta Amministrazione comprenda tutti pregiudizi economici sopportati dal soggetto indennizzato a seguito dell'evento indennizzabile, sempre che tali eventi siano conseguenza immediata e diretta. Tale conclusione è, in primo luogo, confermata dalla formulazione del testo dell'articolo 3 dell'Accordo di indennizzo stipulato con FIP, nonché dall'analoga formulazione dell'articolo 2 dell'Accordo di indennizzo stipulato con “Patrimonio Uno”. Entrambe tali clausole prevedono infatti l'obbligo per codesta Amministrazione di "risarcire, manlevare e tenere indenne ciascuna Parte Indennizzata (...) rispetto a qualsivoglia danno, perdita, spesa, costo, onere, obbligazioni o minusvalenza dalla medesima patita e derivante da o connessa a” eventi indennizzabili. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 183 La soluzione proposta riceve, in secondo luogo, conferma anche da quanto previsto, in altra parte di ciascun Accordo, a proposito della cessione di immobili a titolo di indennizzo. Disciplinando la possibilità per codesta Amministrazione di indennizzare l'altra parte anche mediante la cessione o la sostituzione di immobili non ancora ceduti al Fondo, entrambi gli accordi di indennizzo prevedono (rispettivamente all'articolo 6 lett. J dell’Accordo con FIP – nella versione aggiornata con l’Accordo di modifica del 2005 - e all'allegato 3, art. 5 lett. F dell’Accordo con “Patrimonio Uno”) che nel caso in cui la sostituzione ovvero la cessione in pagamento ristorando per intero le passività, determinino comunque l'inadempienza del fondo agli obblighi nei confronti dei finanziatori, il Ministero sarà in ogni caso tenuto a corrispondere per cassa la parte di passività che, a richiesta del fondo come certificato dalla banca agente del finanziamento, sia necessaria ad assicurare l'adempimento di cui sopra. In tale ipotesi, costituente una forma di risarcimento in forma specifica del danno derivante dall'evento indennizzabile, l'indennizzo viene esteso fino a comprendere tutte le conseguenze immediate e dirette derivanti dal verificarsi di tale evento e non è limitato soltanto al valore del bene immobile apportato o trasferito al Fondo. Dalla analogia con la predetta ipotesi, interpretata in relazione all'ampia formulazione dell'obbligazione di garanzia assunta da codesto Ministero e di cui sopra si è fatto cenno, deriva, a parere della Scrivente, che quando l'indennizzo venga corrisposto non mediante cessione o sostituzione del bene immobile ma mediante restituzione del valore di apporto o di trasferimento dei beni, la garanzia comprende tutti i danni derivanti dall'inefficacia del decreto di apporto o di trasferimento, ivi comprese le spese sostenute e gli interessi sul debito contratto, sempre che tali spese e tali interessi sul debito contratto siano state sostenute e pagati in conseguenza immediata e diretta del trasferimento del bene immobile dichiarato inefficace a seguito dell'intervenuto annullamento. (...) Sulla questione è stato sentito il Comitato consultivo dell’Avvocatura Generale dello Stato, il quale si è espresso in conformità. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Rimborso spese legali richiesto da dipendente assolto in sede penale in pendenza di giudizio risarcitorio ai fini civili ad istanza della costituita parte civile* Con sentenza del 26 febbraio 2004, il Tribunale di (...) ha ritenuto [il dott. ...] colpevole, quale Direttore della Casa di Reclusione di (...), del delitto di cui agli artt. 41 e 590, commi 1 e 2 c.p. commesso, con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio del detenuto lavorante [il sig. ...], e lo ha condannato, alla pena di € 200,00 di multa ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio. Su appello proposto dall’imputato, la Corte di Appello di (...), in riforma della decisione di primo grado, ha assolto il dott. (...) da ogni addebito perché il fatto non costituisce reato ed ha revocato, di conseguenza, le statuizioni civili. La pronunzia assolutoria della Corte di Appello di (...) è divenuta irrevocabile ai soli fini penali per mancata impugnativa del P.M., ma è stata annullata ai diversi fini civili dalla Corte Suprema di Cassazione. In particolare, a seguito del ricorso per Cassazione proposto dal sig. (...), costituito parte civile, i giudici di legittimità hanno ritenuto responsabile il dott. (...), seppure ai soli fini civilistici del risarcimento danni non essendo possibile la riforma della statuizione ai fini penali per mancata impugnativa. Il dott. (...), sulla base della sentenza di assoluzione della Corte di Appello di (...), ha chiesto il rimborso delle spese legali ai sensi dell’art. 18 D.L. 67/97. Codesta Avvocatura ha fornito parere negativo sul presupposto dell’avvenuto accertamento della responsabilità ad opera della Corte Suprema di Cassazione, anche se solo ai fini civilistici del risarcimento del danno. Considerato che il dipendente ha presentato osservazioni al parere reso, con la nota che si riscontra codesta Avvocatura ha investito questo Generale Ufficio. Ciò posto, si osserva quanto segue. E’ noto che l'art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67 (convertito con L. 23 maggio 1997, n. 135), in ordine al rimborso delle spese legali da parte della Pubblica Amministrazione stabilisce che “le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall' Avvocatura dello Stato ...”. (*) Parere del 10 giugno 2011 prot. 194802, AL 1142/11, avv. FEDERICA VARRONE. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 185 La suindicata disposizione subordina, dunque, il rimborso alla ricorrenza di puntuali condizioni, normativamente previste, quali: a) l'esistenza di una connessione dei fatti e degli atti oggetto del giudizio con l'espletamento del servizio e l'assolvimento degli obblighi istituzionali; b) che il giudizio di responsabilità si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità del dipendente; c) una valutazione di congruità da effettuarsi da parte dell' Avvocatura dello Stato. Sulla base del suindicato quadro normativo si condivide senz’altro l’avviso di codesta Avvocatura circa l’insussistenza del diritto al rimborso evidenziandosi quanto segue. Nel caso di specie, da ritenersi del tutto peculiare, la condotta del dipendente è stata oggetto di vaglio giurisdizionale nell’ambito del medesimo procedimento sotto il profilo civile e penale. Più specificatamente, la costituzione di parte civile del detenuto ha determinato che la condotta del dott. (...) è stata esaminata nel processo penale ai fini sia penali che civili. La statuizione di condanna della Suprema Corte, seppure ai soli fini civili per mancata impugnativa della Procura, comporta, pertanto, l’inconfigurabilità dei presupposti per il diritto al rimborso delle spese del processo penale in quanto, nell’ambito del medesimo procedimento, è stata definitivamente acclarata la responsabilità del dipendente con riferimento proprio a quella specifica condotta. Il presente parere è stato esaminato dal Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità. Contributi alle imprese editoriali* • Art. 3, comma 3 lett. c), della L. 7 agosto 1990 n. 250 – Duplicità di testate che presentano la medesima iscrizione nel registro della stampa. Si riscontra la nota indicata a margine con la quale codesto Dipartimento ha domandato alla Scrivente un parere circa l’ammissione ai contribuiti di cui all’art. 3 comma 3 della L. n. 250/1990 richiesti per l’anno 2009 dalla Cooperativa (...) per la testata “E.W.P.”. In particolare, espone codesto Dipartimento che “negli anni 1988 e 1989 (cioè nei due anni presi a riferimento dalla citata disposizione per la maturazione dei requisiti per accedere ai contributi) nonché per gli anni successivi l’impresa ha editato la testata “A.B.”, registrata al tribunale di (...) al n. (...) del 1985, mentre per l’anno 2009 ha editato la testata E.W.P., che presenta la medesima registrazione presso il Tribunale”, rilevando che “il raffronto delle (*) Pareri del 6 giugno 2011 prot. 188220 e del 16 giugno 2011 prot. 201667, AL 13501/11 e AL 13500/11, avv. FABRIZIO FEDELI. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 copie delle pubblicazioni trasmesse dall’impresa, prima e dopo il cambio della denominazione della testata, ha reso evidente che, di fatto, l’impresa ha editato due periodici completamente diversi nella forma e nei contenuti, diversità che si riflette quindi - ragionevolmente - anche sul tipo di pubblico al quale i due periodici sono rivolti ”. La Commissione tecnica consultiva ha ritenuto, quindi, opportuno chiedere a questa Avvocatura un parere in ordine alla legittimità della corresponsione dei contributi richiesti, per l’anno 2009, dalla citata impresa editrice, allo scopo di approfondire “se, ai fini della corretta applicazione della fattispecie di legge, possa essere considerato dirimente il dato formale costituito dall’identità della registrazione delle due pubblicazioni presso il Tribunale, ovvero se il radicale mutamento apportato dall’impresa alla forma, alla veste grafica ed ai contenuti della pubblicazione, contestualmente al mutamento del nome della testata, costituisca una soluzione di continuità giuridicamente rilevante nell’identità della pubblicazione, tale quindi da incidere sul possesso dei requisiti richiesti dall’art. 3, comma 3, della legge 7 agosto 1990, n. 250 per l’erogazione del contributo ivi disciplinato”. Ciò premesso, la Scrivente osserva che i contributi di cui all’art. 3 comma 3 della L. n. 250/1990, sono concessi alle imprese editrici di periodici “indipendentemente dal numero delle testate”, a differenza di quelli di cui al comma 2 del medesimo articolo che sono concessi “limitatamente ad una sola testata”. Pertanto, non sembra che la lett. c) del comma 3 richieda, quale requisito per la concessione dei contributi, l’identità (formale, data dal numero di iscrizione nel registro della stampa, o “sostanziale”, desunta dalle caratteristiche e dai contenuti) della testata nei due anni precedenti l’entrata in vigore della L. n. 250/1990 e nell’anno della richiesta di contributo, in quanto le provvidenze previste dal comma 3 sono concesse in funzione dell’impresa editrice e non della singola testata, ferma restando la necessità del numero di pubblicazioni annuali richiesto dall’art. 3 comma 3 lett. c). Alla stregua delle precedenti considerazioni non si ravvisano motivi ostativi alla concessione del contributo richiesto per l’anno 2009 dalla Cooperativa (...). Sulla questione oggetto del presente parere è stato sentito l’avviso del Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. • Art. 3, comma 5, della L. 7 agosto 1990 n. 250 – Divieto di distribuzione degli utili e ristorni. Si riscontra la nota indicata a margine con la quale codesto Dipartimento ha domandato alla Scrivente se “il divieto di distribuzione degli utili, previsto espressamente dalla normativa sull’editoria, comporti – per spiegare compiutamente la sua efficacia – anche il divieto di distribuzione dei ristorni” e PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 187 se “pertanto entrambi i divieti debbano essere inseriti nello statuto della società, ovvero – il che è equivalente – … debba essere rimossa dallo statuto la previsione dei ristorni e la sua disciplina”. In linea ulteriore codesto Dipartimento ha chiesto di conoscere se, “in assenza della previsione statutaria in ordine al divieto di attribuzione dei ristorni, (e purché sia presente, nello statuto, il divieto di distribuzione degli utili) possa considerarsi giuridicamente rilevante la mancata distribuzione di fatto dei ristorni medesimi, certificata con dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà dal rappresentante legale dell’impresa editrice”. In proposito, la Scrivente osserva che, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 8 settembre 1999, n. 9513), i cosiddetti "ristorni" vadano tenuti distinti dagli utili in senso proprio, in quanto, mentre gli utili costituiscono remunerazione del capitale e sono perciò distribuiti in proporzione al capitale conferito da ciascun socio, i "ristorni" costituiscono uno degli strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa o maggiore retribuzione) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa, traducendosi in un rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o servizi acquistati dalla cooperativa (nel caso delle cooperative di consumo), ovvero in integrazione della retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (nelle cooperative di produzione e lavoro), con la conseguenza che, stante tale diversità, alle somme da distribuire eventualmente ai soci a titolo di ristorno non sono, di regola, applicabili le limitazioni poste dalla legge alla distribuzione degli utili. Ad avviso della Scrivente, tuttavia, la cooperativa editoriale soddisfa i requisiti richiesti dalla legge per la concessione del contributo, in presenza di una clausola statutaria che consenta la distribuzione dei ristorni, solo a condizione che, attraverso i ristorni, non avvenga la restituzione del contributo stesso, in tutto o in parte (requisito verificabile in base al bilancio certificato dalla società di revisione che le imprese editoriali sono tenute a presentare, art. 3 comma 2 lett. g] L. n. 250/1990), sorgendo altrimenti, a carico della società, l’obbligo di restituzione previsto dall’art. 3 comma 6 della L. n. 250/1990. In conclusione i ristorni – i quali, tecnicamente, non coincidono con gli utili – non impediscono, di per sé, il contribuito statale in esame, ma occorre che alla loro formazione non abbiano concorso in alcun modo quei contributi, circostanza che può essere certificata formalmente dalla società di revisione, perché i medesimi non possono mai essere attribuiti ai soci. Sulla questione oggetto del presente parere è stato sentito l’avviso del Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Onere delle spese legali a carico dell’Amministrazione nel caso di procedimento conclusosi con piena esclusione di responsabilità del dipendente* Con la nota che si riscontra n. 151644 del 19 maggio 2010 codesto Comando Generale rappresenta che alcuni militari della Guardia di Finanza sono stati convenuti - unitamente all’Amministrazione - avanti al Tribunale Civile di Lecce in relazione ad un’attività di servizio tesa a contrastare il fenomeno del contrabbando. In particolare i medesimi erano accusati dai parenti (madre e sorella) di aver cagionato la morte di un giovane - attinto da alcuni colpi di arma da fuoco, giovane - che non si era fermato all’ALT dei militari e che si sospettava trasportasse appunto merce di contrabbando. Il giudizio di primo grado (cfr. sent. Trib. Lecce n. 474/2000) si concludeva con la reiezione della domanda attrice e con la condanna di quest’ultima parte al rimborso delle spese di giudizio a favore dei militari che si erano costituiti a mezzo di un loro difensore, per un importo di allora lire 4.500.000 ciascuno. La sentenza di secondo grado (cfr. C.te Appello Lecce n.150/2002) confermava la decisione di primo grado e liquidava a favore dei militari le spese di difesa in complessivi euro 4.168,59. Il giudizio si concludeva in sede di legittimità (cfr sent. n. 15374/06 III sez. Civ. Cassazione) in linea con le precedenti decisioni dei giudici di merito reiettive della domanda, e con la liquidazione a carico dei ricorrenti in favore dei militari per un importo complessivo di euro 3.600,00. I singoli militari interessati hanno così chiesto il rimborso delle spese legali ciascuno per l’importo di euro 6.434,74. L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, con nota n. 40399 del 2 luglio 2009, ha ritenuto di non poter dare corso all’esame del quantum non rientrando la fattispecie nel novero dell’art. 18 D.L. 67/1997. Rilevava l’Avvocatura che i militari potevano esercitare la loro pretesa creditoria nei confronti delle controparti soccombenti, che del resto erano state condannate in tutti i gradi di giudizio alla rifusione delle spese; altrimenti verificandosi un’ipotesi di indebito arricchimento in capo ai militari che verrebbero a percepire due volte la stessa somma dallo Stato e dalle controparti. Al riguardo paventate difficoltà in ordine al recupero delle spese stesse non potevano avere alcun rilievo; poiché la previsione beneficiante dell’art. 18, cit. non prevedeva un’ipotesi di surrogazione legale da parte dell’Amministrazione ex art. 1203 c.c.. Codesto Comando, che ai sensi dell’art. 10 bis L.241/1990 aveva partecipato agli interessati il contenuto del sopra citato parere, rappresenta di aver (*) Parere del 16 giugno 2011 prot. 201622, AL 22904/10, avv. MAURIZIO GRECO. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 189 ricevuto le loro osservazioni da cui si evince l’impossibilità di ogni azione esecutiva nei confronti delle parti attrici – debitrici – in quanto soggetti “impossidenti” di tanto che erano state ammesse al gratuito patrocinio (cfr. pag. 2 rigo 4 sent. cit. n.474 Trib. Lecce). Ancora, era impossibile svolgere ogni procedura esecutiva in ragione appunto dell’accertata impossidenza. L’Amministrazione, che ha trasmesso all’Avvocatura Distrettuale di Lecce le note dei militari senza ottenerne risposta, chiede alla Scrivente di conoscere se possa esser dato favorevole corso alle istanze dei militari medesimi; ovvero se debbano comunque essere preventivamente esperite azioni esecutive e solo in caso di infruttuosità delle medesime - così essendo escluso ogni indebito arricchimento dei militari - dar luogo al rimborso. In questo caso chiede di conoscere se le spese per l’esperimento di dette procedure possano poi essere oggetto di rimborso. Rileva la Scrivente, sulla base degli elementi rappresentati, che le osservazioni dei militari possano trovare favorevole considerazione. Nella fattispecie si tratta sicuramente di un giudizio aperto a loro carico che li vedeva convenuti, del resto unitamente all’Amministrazione, per fatti strettamente connessi al servizio. Ciò è tanto vero che, appunto anche l’Amministrazione medesima è stata convenuta nell’ambito dei sopra citati giudizi. A questo proposito si osserva come non possa aver influenza alcuna il fatto che i militari non si siano avvalsi della facoltà prevista dall’art. 44 R.D. 1611/33; - nominando un avvocato di loro fiducia stante il principio di cui all’art. 24 Cost.ne avente rango assolutamente primario. Ancora il mero dato della condanna delle parti attrici (poi appellanti e ricorrenti in Cassazione) alla rifusione delle spese a favore dei militari, deve essere valutata in considerazione della documentata impossibilità oggettiva del recupero delle spese liquidate, non potendo detto dato essere di ostacolo al rimborso. Il tenore sotteso all’art. 18 cit. è finalizzato, e comunque consiste, nel tenere indenne il dipendente nei cui confronti sia aperto un procedimento conclusosi con piena esclusione di responsabilità sollevandolo così da ogni onere economico connesso all’attività difensiva. L’assoluta incapienza dei soggetti condannati, con l’impossibilità così dei medesimi a rifondere le spese ai militari, in sostanza - non può esporre i dipendenti stessi a sopportare in siffatta situazione l’onere economico di difesa, apparendo ragionevole, proprio per la ratio sottesa alla normativa beneficiante, che detto onere sia comunque ristorato, ricorrendone le condizioni, dall’Amministrazione in nome e per conto della quale i medesimi hanno comunque agito in connessione con i fini Istituzionali. La Scrivente ritiene pertanto che codesta Amministrazione, che nel prov- 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 vedimento farà espressa menzione dell’impossibilità oggettiva del recupero, e della dichiarazione al riguardo rilasciata dai militari medesimi e dei connessi oggettivi documentati accertamenti circa l’incapienza delle parti debitrici, possa procedere a liquidare le somme richieste non dovendosi pronunciare la Scrivente sulla congruità delle stesse in quanto esse sono state direttamente riconosciute e liquidate dagli Organi Giurisdizionali deputati, fermo restando che lo Stato si gioverà di quel credito nei confronti del soccombente. Sul parere si è espresso in conformità il Comitato Consultivo. Beni confiscati alla criminalità organizzata. Problematiche inerenti a società e/o beni societari confiscati* L’Agenzia del Demanio ha formulato alla Scrivente un’articolata richiesta di parere in ordine a svariate questioni concernenti gli effetti giuridici di provvedimenti di confisca ex lege 575/1965, coinvolgenti talora quote di società di cui i prevenuti sono soci, talora singoli beni del relativo patrimonio sociale. In particolare, è stato chiesto di sapere: a) quale sia la ricaduta di confische di quote societarie sulla proprietà di beni facenti parte del patrimonio sociale; b) le attività praticabili in caso di confisca di beni intestati ad una società; c) l’estensione della responsabilità dello Stato, che confischi quote di società di persone ovvero l’interezza delle quote di una società di capitali, per debiti sociali; d) la sorte dei debiti che le società confiscate dallo Stato hanno iscritto in bilancio tra le poste passive, eventualmente anche nei confronti dei soci prevenuti; e) la sorte dei diritti reali di garanzia insistenti su beni confiscati, e segnatamente delle ipoteche; f) l’efficacia, nei confronti dello Stato, di una clausola sociale – contenuta nello statuto o nell’atto costitutivo – che disponga diritti di prelazione degli altri soci in caso di vendita di partecipazioni azionarie; g) le possibili modalità di liquidazione di società inattive in conseguenza di provvedimenti di confisca; h) la sorte dei debiti tributari delle società integralmente confiscate dallo Stato; i) la sussistenza o meno del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato relativamente alle società confiscate. In relazione alle tematiche sopra rassegnate, si svolgono le seguenti con- (*) Parere del 22 giugno 2011 prot. 208177/96/88, AL 48555/06, avv. GIANCARLO CASELLI. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 191 siderazioni, che si estendono – per sopravvenuta competenza – all’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. *** 1. Con riguardo alla tematica sub a) (ricaduta di confische di quote societarie sulla proprietà di beni facenti parte del patrimonio sociale), occorre svolgere alcune considerazioni preliminari a riguardo della netta distinzione concettuale, nel diritto civile, tra capitale sociale e patrimonio sociale: mentre il “capitale” di una società costituisce l’insieme dei conferimenti di beni e servizi effettuati (per l’appunto in conto capitale) dai soci per la costituzione ed il mantenimento della società (arg. ex articolo 2247 cod. civ.), il “patrimonio” sociale configura invece l’insieme dei beni e diritti appartenenti - a vario titolo - alla società, in quanto soggetto distinto ed autonomo dai soci che ne fanno parte. Giova a tal riguardo richiamare il tradizionale, e tutt’ora attuale, insegnamento giurisprudenziale secondo cui “i concetti giuridici di capitale sociale e di patrimonio sociale, pur presentando qualche elemento di correlazione, particolarmente accentuato nel momento della costituzione della società, sono diversi ed inconfondibili. Il capitale sociale traduce in cifra precisa (suscettibile di norma di variazione nella sua entità giuridica e contabile solo a seguito di modifica nelle forme legali dell’atto che lo abbia determinato) l’ammontare complessivo degli apporti dei soci all’atto della sua costituzione. Il patrimonio sociale invece è formato dal complesso dei diritti ed obblighi, dai rapporti giuridici attivi e passivi che, nel corso della gestione, vengano man mano ad accentrarsi nella società ed è pertanto soggetto alle fluttuazioni e trasformazioni determinate dalle esigenze e dagli effetti della realtà economica, e – visto in un particolare momento – identifica il complesso dei beni dei quali, nel momento medesimo, la società è titolare” (Cass. Civ., I, 25 marzo 1965, n. 488). Da tanto consegue il diverso trattamento contabile dei due concetti, per cui “il fatto che il capitale sociale, non diversamente dalle riserve e da tutte le altre poste che concorrono a formare il patrimonio netto della società, debba essere iscritto al passivo del bilancio (art. 2424 c.c.) non vale a farlo considerare alla stregua di una posta debitoria, il cui annullamento o la cui riduzione comporti un vantaggio patrimoniale della società, giacché quelle poste non costituiscono passività, ma identificano l’eccedenza delle attività rispetto alle vere e proprie passività - rappresentando, quindi, il «valore netto» del patrimonio di cui la società può disporre - e la loro iscrizione nella colonna del passivo risponde unicamente alla finalità contabile di far coincidere il totale del passivo con quello dell’attivo” (Cass. Civ., I, 8 novembre 2005, n. 21641). 1.1. Sulla base di quanto sopra, è dunque agevole inferire che la confisca di quote di un capitale sociale non avrà effetti giuridici immediati sui singoli beni che compongono il patrimonio della società medesima: è stato infatti da tempo chiarito che “la cessione delle azioni o delle quote di una società di ca- 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 pitali non può configurarsi quale trasferimento a titolo oneroso dei beni che ne costituiscono il patrimonio” (Cass. Civ., I, 23 luglio 1998, n. 7209), ancorché limitatamente al riconoscimento del diritto di prelazione riconosciuto per la vendita di immobili urbani. Dipoi, con riferimento a vertenza relativa all’alienazione di quote di società di persone, Cass. Civ., III, 14 luglio 2004, n. 13075, ha più di recente affermato che “la cessione della quota sociale non attribuisce al socio subentrato la proprietà di una porzione dei beni della società, ma gli attribuisce una quota del relativo patrimonio, comprensivo delle passività, dei crediti, dei rischi, della esposizione per le obbligazioni già contratte, nonché dei poteri di indirizzo e gestione dei programmi societari con le relative aspettative (…)”. Mette poi conto rammentare quanto affermato, in termini generali, da Cass. Civ., I, 28 febbraio 1998, n. 2252, ossia che “con la stipula del contratto di società si determina, anche nelle società di persone, un effetto di scambio tra patrimonio dei soci e patrimonio sociale, con il trasferimento, per un verso, della titolarità dei beni - anche immobili - conferiti, dal patrimonio dei conferenti a quello della società, «soggetto di diritto» diverso e terzo rispetto ai soci; e con il parallelo ingresso, nel patrimonio del socio, dei diritti (mobiliari) riferibili alla titolarità della quota sociale ”. 1.2. In relazione a quanto sopra, appare dunque assolutamente corretta l’affermazione (pure a suo tempo fatta propria dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Brescia con il parere prot. n. 7753 del 7 giugno 2002) per cui la confisca di azioni o di quote societarie non comporta automaticamente l’acquisizione allo Stato del patrimonio aziendale, e dei singoli beni che di esso facciano parte. Correlativamente, appaiono discutibili i provvedimenti di confisca di quote sociali appartenenti a prevenuti e che, a causa di un’errata valutazione del giudice penale o di un’errata interpretazione in sede di esecuzione, finiscano col colpire beni immobili di effettiva proprietà della società (in quanto facenti parte a tutti gli effetti del patrimonio sociale), con relativa trascrizione nei registri immobiliari degli effetti della confisca stessa: proprio in ragione della evidenziata separazione tra capitale e patrimonio sociale, i beni patrimoniali della società non sono infatti di proprietà del soggetto prevenuto, e pertanto la confisca di (sole) quote societarie appartenenti ad un prevenuto non si estende automaticamente ai beni societari (1). (1) In tal senso (con riguardo alla misura di prevenzione del sequestro, ma con argomentazioni estendibili anche alla confisca) si è espressa anche Cass. Civ., III, 27 aprile 2007, n. 10095, allorché – nel dirimere un contrasto tra l’amministratore giudiziale di quote societarie sequestrate e la curatela fallimentare della società di capitali di cui le anzidette quote erano parte – ha precisato che “il sequestro di prevenzione aveva avuto per oggetto non il complesso dei beni costituiti in azienda, ma soltanto le quote di una società di capitali poi dichiarata fallita”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 193 A tale ultima ipotesi sembra riconducibile il concreto caso affrontato dal Tribunale di Palermo e portato all’attenzione della Scrivente: pur non disponendosi del provvedimento a quo, alla descritta conclusione sembra infatti portare la premessa del decreto n. 90/02 del Giudice dell’Esecuzione Penale palermitano, il quale ha dato atto che la confisca ha attinto, “oltre che beni personali” riconducibili al soggetto prevenuto, anche “tutte le quote della società e dei beni delle società”, ed inoltre che “la confisca dei beni delle società, e la conseguente acquisizione all’Erario, è stata disposta come conseguenza della confisca dell’intero capitale sociale, che comporta il trasferimento all’Erario delle quote rappresentative del patrimonio della società, nel quale patrimonio rientrano i beni medesimi”. In tale ipotesi, risulta essere stata opportunamente formulata la richiesta al Giudice della Prevenzione Penale di fornire una sorta di interpretazione “autentica” del provvedimento di confisca, onde impedire la fuoriuscita del bene dal patrimonio sociale, specie quando ne possa derivare un danno – in termini di perdita o riduzione del patrimonio della società – all’Erario che abbia acquisito tramite confisca quote della società stessa. Al contempo, tuttavia, occorre evidenziare che non paiono altrettanto condivisibili le considerazioni svolte dal Tribunale Penale di Palermo, il quale giunge al (giusto) risultato di mantenere al patrimonio della società il bene già oggetto di confisca, attraverso l’erronea affermazione secondo cui il vincolo che colpisce il bene della società determina il trasferimento all’Erario delle quote sociali rappresentative del bene stesso: tale argomentare denota invero una indebita sovrapposizione dei concetti (distinti ed autonomi, per quanto sopra detto) di capitale sociale da un lato e di patrimonio sociale dall’altro. 1.3. Ontologicamente distinta da quella dianzi descritta, appare poi la fattispecie della confisca (soltanto) di singoli beni societari, indipendentemente dalla confisca di quote di partecipazione di privati alla società (questione sub lett. b), percorribile allorché detti beni (si tratta ovviamente di beni per lo più immobili) siano fittiziamente intestati alla società, ma in realtà nella effettiva ed esclusiva disponibilità del prevenuto: ciò che legittima invero l’applicazione dell’articolo 2-ter della Legge n. 575/1965. In questo caso, ed in termini del tutto speculari rispetto alla conclusione rassegnata al precedente punto 1.2, risulta senz’altro da condividere il parere n. 19379 reso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo in data 22 settembre 1995, che ha sottolineato come l’Erario, non avendo acquisito alcuna partecipazione azionaria nella società per effetto della confisca dei suddetti beni, non ha titolo a promuovere la procedura di liquidazione della società medesima. Gli aspetti problematici che tale fattispecie impinge riguardano (così come rappresentato dall’Agenzia del Demanio) la sorte di detti beni successivamente alla confisca. 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 In effetti, nel presupposto che l’immobile attinto dalla confisca sia da considerarsi solo in apparenza appartenente alla società che ne sia formale intestataria, laddove il reale proprietario deve invece essere considerato il socio prevenuto, appare inevitabile l’applicazione dell’articolo 2-undecies, comma 2, lett. a) e b), della Legge n. 575/1965, e quindi il mantenimento del bene al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile, o acquisizione al patrimonio del comune interessato per finalità istituzionali o sociali. D’altra parte, atteso che in casi del genere il bene fittiziamente intestato alla società non viene di fatto utilizzato dalla stessa, esso non dovrebbe essere considerato come bene aziendale, dotato cioè di attitudine all’esercizio dell’impresa: risulta quindi inipotizzabile imprimere allo stesso ogni destinazione diversa dal mantenimento “al patrimonio dello Stato per salvo che si debba procedere alla vendita degli stessi finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso ”, ovvero dal trasferimento “al patrimonio del comune dove l’immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione” previsti dal citato articolo 2-undecies, comma 2, lettere a) e b), della Legge n. 575/1965. Appare al contempo fuorviante ipotizzare uno stralcio dal bilancio sociale di tale bene, con conseguente perdita di esercizio e diminuzione del patrimonio netto della società, del quale in realtà il bene non ha mai fatto parte. D’altronde, è stato pertinentemente segnalato che in casi del genere le società formalmente proprietarie dei beni in questione sono per lo più società “di comodo”, realizzate proprio al fine di consentire una intestazione fittizia di beni e senza reale vocazione imprenditoriale, sicché non sembra che la loro liquidazione o il loro fallimento presenti particolari controindicazioni (2). *** 2. Tanto premesso in termini del tutto generali, occorre dipoi affrontare ricostruttivamente la questione degli effetti giuridici di un provvedimento di confisca (ex lege n. 575/1965, appunto) di azioni societarie, o più in genere di quote di un capitale sociale, con specifico riguardo alla responsabilità civile dello Stato confiscante per i debiti sociali: la soluzione da darsi a tale quesito (2) Cfr. la recente Cass. Pen., VI, 23 aprile 2009, n. 17229, la quale, con riguardo alla ipotesi di un istituto bancario “infiltrato” da un soggetto prevenuto siccome reputato appartenere ad una consorteria mafiosa, ha qualificato “l’impresa in questione come mafiosa, in quanto pur essendo funzionale all’esercizio di un’attività imprenditoriale di per sé lecita quanto all’oggetto, ha rivelato una natura illecita perché caratterizzata da matrice criminale in ordine ai modi di gestione e, inoltre, perché si è dimostrata la sua strumentalità alla consumazione di condotte delittuose, tra cui in particolare il riciclaggio di denaro. E’, quindi, con riferimento all’impresa c.d. mafiosa che si giustifica la confisca dei dividendi e del prezzo di vendita delle quote azionarie, in quanto si ritiene che l’impresa abbia avuto la possibilità di espandersi e di produrre reddito proprio grazie all’uso distorto che è stato fatto dei beni aziendali, uso distorto che è attestato pure dalle accertate falsificazioni di bilancio e che ha consentito di piegare la politica imprenditoriale della banca agli interessi mafiosi”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195 consentirà successivamente di fornire risposta compiuta a svariati dei problemi applicativi sollevati. Mette tuttavia conto sin d’ora precisare che la descritta questione preliminare è di notevolissima difficoltà dogmatica, in quanto essa non risulta affrontata ex professo dalla normativa di settore, neppure a seguito delle innovazioni recentissimamente apportate dalla Legge n. 94/2009, dalla Legge n. 191/2009 (Legge Finanziaria per il 2010), nonché dal D.L. n. 4/2010 (convertito, con modificazioni, con Legge n. 50/2010); e più in genere sconta la difficoltà di coordinare l’anzidetta normativa - connotata da ispirazione squisitamente repressiva, ed evidentemente volta alla tutela dell’ordine pubblico, con conseguente caratterizzazione dello Stato come ente tutelare di quel bene giuridico, e titolare di conseguenti penetranti poteri - con principi e regole derivanti dal diritto commerciale in genere, e dal diritto societario in particolare: ambito in cui, invece, l’ente pubblico dovrebbe tendenzialmente partecipare, salvo eccezioni, “ad armi pari” con i privati. Sicché, di nuovo in termini tutt’affatto generali, la vicenda a base della questione in esame potrebbe essere riguardata alternativamente con piglio strettamente civilistico, ovvero privilegiando un taglio di natura pubblicistica. *** 3. Nel primo caso (impostazione civilistica), occorrerebbe partire dalla premessa per cui la confisca di azioni societarie, o più in genere di quote del capitale sociale, comporti il trasferimento della loro proprietà in capo allo Stato, e consequenzialmente l’acquisizione dello status di socio in capo allo Stato, di regola in completa sostituzione dell’ex socio “prevenuto”, con integrale applicazione delle relative norme. In altri termini, secondo questa impostazione, lo Stato – una volta acquisita la proprietà di quote sociali a seguito della definitività del provvedimento di confisca – diventerebbe un socio della società, alla pari degli altri soci “privati”, ove ve ne siano, assumendo gli ordinari poteri, diritti e doveri del socio, senza che la qualità pubblica rivestita, salvo espressa deroga ad opera di legge speciale, possa attribuirgli peculiari poteri o facoltà: tanto si desumerebbe dall’articolo 2449 cod. civ. (articolo 2458 prima della riforma del 2003-2004), il quale esprime - in negativo - il principio di ordine generale dell’applicabilità anche agli enti pubblici azionisti delle norme di diritto comune stabilite dal codice in materia di società per azioni. Ciò comporterebbe una serie di conseguenze piuttosto significative in ordine alle problematiche sottoposte, con riguardo - segnatamente - alla responsabilità civile nei confronti dei creditori sociali, allorché le regole ordinarie prevedano la responsabilità “illimitata” dei soci. 3.1. E’ ad esempio il caso in cui lo Stato, a seguito di confisca di quote societarie, entri a far parte della compagine di una società di persone, per la quale vige il principio della responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sociali, anche precedenti al suo ingresso nella società: cfr. articolo 2269 cod. civ., secondo cui “chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio”. La tematica trae origine dalla concreta fattispecie di confisca delle quote del socio accomandatario in una s.a.s. dipoi fallita; ponendosi per l’effetto il problema se si applichi, nei riguardi dello Stato, il regime della responsabilità illimitata del socio accomandatario di cui all’articolo 2313 cod. civ., nonché le ulteriori conseguenze derivanti dall’intervenuto fallimento della società. Occorre preliminarmente escludere, ai sensi dell’articolo 1 della L.F., l’assoggettabilità del socio erariale al fallimento, anche ove ciò debba conseguire dal fallimento della società ex articolo 147 L.F.. Ma, ove si ritenga di accedere alla cennata visione “civilistica” pura e semplice del fenomeno, si renderebbe inevitabilmente applicabile il disposto dell’articolo 2313 cod. civ. anche al socio accomandatario Stato, e la sua conseguente responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (anche anteriori alla confisca, in base al ripetuto articolo 2269 cod. civ.), con tutte le caratteristiche sue proprie di responsabilità personale e diretta, mitigata dall’obbligo del creditore di escutere preventivamente il patrimonio sociale (articoli 2304 e 2318 cod. civ.). Analogamente a dirsi in relazione alle obbligazioni sorte nel periodo in cui - a seguito di confisca di un compendio societario, anche di capitali - il socio unico Stato abbia detenuto tutte le quote sociali, con conseguente possibilità che l’Erario sia chiamato a rispondere (illimitatamente) con il proprio (autonomo) patrimonio delle obbligazioni sociali in quel periodo sorte (3). 3.2. I descritti effetti di responsabilità (eventualmente illimitata) dello Stato – socio si replicherebbero, nella prospettata impostazione, anche in relazione ai debiti iscritti nei bilanci delle società confiscate a titolo di versamenti (3) Anche se, con specifico riguardo alla ipotesi sottoposta all’attenzione della Scrivente, la responsabilità illimitata del socio unico nelle società di capitali si configura solo in presenza di alcune condizioni: dispongono infatti i rinnovati articoli 2462 (per le ss.r.l.) e 2325 (per le ss.p.a.) cod. civ. che, in caso di insolvenza della società, l’unico socio risponde illimitatamente (e quindi anche col suo patrimonio) quando i conferimenti non sono stati interamente liberati, oppure fin quando non sia stata effettuata nel registro delle imprese la prescritta pubblicità dell’unicità del socio. Il socio unico quindi - a differenza del previgente regime, il quale delineava la responsabilità illimitata del socio unico in qualsiasi caso - risponde oltre i limiti del patrimonio sociale solo al ricorrere di rigorosi presupposti e limiti. Per quel che qui più interessa, occorre evidenziare che la responsabilità in parola: - configura un’ipotesi di responsabilità solidale della società e dell’unico socio nei confronti dei creditori sociali; - non si estende oltre le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui l’intera partecipazione è appartenuta ad una sola persona: quindi, con specifico riguardo alla peculiare fattispecie all’esame, non si estende ai debiti che la società divenuta unipersonale abbia contratto anteriormente alla confisca; - ricorre “in caso di insolvenza della società”, prospettandosi così una sorta di necessario beneficium excussionis in favore dell’unico socio, con onere quindi, per i creditori, di preventiva escussione della società debitrice. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 in conto finanziamento dei soci prevenuti ed attinti dalla confisca delle quote societarie: tali debiti costituiscono invero - sotto il profilo contabile - poste passive del bilancio societario (da iscrivere presumibilmente sub voce D-3) del passivo ex articolo 2424 cod. civ.), e - sotto il profilo civilistico - dei crediti personali vantati dagli ex soci nei confronti della società “confiscata” (4). Ciò che renderebbe dunque non infondati i timori, espressi dall’Agenzia del Demanio nella richiesta di consultazione, di dover onorare tali debiti con danaro pubblico, per di più nei confronti di soggetti di ritenuta appartenenza mafiosa. *** 4. E’ dunque alla luce delle considerazioni fin qui svolte che la tematica qui all’esame – si ripete: gli effetti di un provvedimento di confisca ex lege n. 575/1965 coinvolgente quote societarie (relative a società di persone e/o di capitali) sulla responsabilità civile dello Stato confiscante riguardo preesistenti debiti societari – può invece essere riguardata sotto un diverso taglio (impostazione pubblicistica), in modo da valorizzare la specifica funzione (di tutela dell’ordine pubblico e di prevenzione e contrasto di fenomeni criminali ad altissimo impatto sociale) dello strumento all’esame. Entro tale ottica, occorre in effetti rimarcare la specificità della natura e della funzione della confisca prevista e disciplinata dalla Legge n. 575/1965 (segnatamente dall’articolo 2-ter), la quale – al di là dell’incardinamento sistemico tra le misure di “prevenzione” patrimoniale – appare piuttosto volta a sottrarre in modo definitivo ai patrimoni in vario modo ascrivibili alla mafia (concetto quest’ultimo da intendersi in senso ampio: cfr. la rinnovata formulazione “estensiva” dell’articolo 1 della Legge n. 575/1965) beni di consistente valore, acquisiti con i metodi illeciti delle indicate consorterie criminali, o comunque strumentali alla commissione di ulteriori reati e più in genere al loro prosperare. Si tratta dunque di uno strumento volto a contrastare i fenomeni criminali mafiosi non già sotto il versante strettamente penalistico (e quindi in un’ottica di repressione temporalmente successiva alla commissione di reati), bensì maggiormente sotto il profilo economico, e quindi idoneo a contrastare l’accumulo di consistenti patrimoni mafiosi, sovente necessari per lo svolgimento e l’implementamento delle “reti” criminose, attraverso il loro coattivo depauperamento. In altre parole, le confische di che trattasi servono ad impoverire econo- (4) Detti crediti, con riguardo alla posizione patrimoniale del prevenuto, costituiscono beni distinti rispetto alla partecipazione societaria, autonomamente sequestrabili e confiscabili (cfr. primo comma dell’articolo 2-quater, e comma 1, lett. c), dell’articolo 2-undecies della Legge n. 575/1965): non potrebbe dedursene la automatica estensione a seguito della confisca della partecipazione medesima, ove non espressamente indicati nel provvedimento di confisca, né, conseguentemente, l’automatica caducazione o cancellazione a seguito della confisca stessa. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 micamente e finanziariamente le mafie (che risultano, nei tempi più recenti, aver assunto connotati quasi “industriali” nella gestione ed organizzazioni di traffici criminosi in svariati settori di importante rilievo economico: il contrabbando, la droga, gli appalti, la gestione dei rifiuti, ecc.), e quindi a combatterle attraverso meccanismi indirizzati a tranciare alla radice le loro fonti di sostentamento. Ciò che emerge con chiarezza dall’oggetto della confisca di prevenzione, che può riguardare (cfr. articolo 2-ter, terzo comma, della Legge n. 575/1965) “beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito (…), o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”. In ultima analisi, scopo finale di tale strumento risulta essere la sottrazione in via definitiva, ai circuiti criminali di che trattasi, di cospicui compendi economici dotati di valore economico effettivo, e con attitudine al finanziamento del fenomeno mafioso. 4.1. Le superiori precisazioni in ordine alla effettiva funzione della confisca ex lege n. 575/1965, quasi più di politica anticriminale che non penalistica in senso stretto, giustificano il vivace dibattito – dottrinale e giurisprudenziale – sulla sua natura giuridica. In effetti, per un verso si è tradizionalmente inteso ravvisare nello strumento qui in analisi uno strumento a (mera) funzione preventiva, valorizzando il suo inserimento sistematico e processuale tra le misure di prevenzione antimafia (5), anche esaltando lo scopo di neutralizzazione della pericolosità insita nel permanere della ricchezza nelle mani di chi può utilizzarla per perpetuare l’attività delinquenziale (6). Ma al contempo, altri commentatori vi hanno ravvisato una funzione di “controllo reale di ambiti economici non legittimati” (7), fino addirittura a configurarla in termini più propriamente punitivi e sanzionatori (8). Ma soprattutto la giurisprudenza ha dato voce ad una articolata rimeditazione sulla funzione e sulla natura giuridica della confisca di che trattasi. In effetti, la Corte Costituzionale ha da tempo precisato (sentenza 8 ottobre 1996, n. 335) che “la confisca, pur inserendosi in un procedimento di prevenzione, presenta caratteri che vanno al di là di quelli propri del sequestro, «misura» definita da questa Corte (sent. n. 465 del 1993) «di ordine caute- (5) Per un quadro ricostruttivo degli orientamenti dottrinali tradizionali, cfr. GUERRINI – MAZZA, Le misure di prevenzione. Profili sostanziali e processuali, Padova, 1996, 163 ss.. (6) FIANDACA, Misure di prevenzione, in Dig. Penale, Torino, 1994, 123. (7) FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997, 69 ss.. (8) GALLO, Misure di prevenzione, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 15; MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniali tra dogmatica e politica criminale, Padova, 2001, 144 ss., 386 ss.. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 lare», inerente alla pericolosità di un soggetto e destinata a venir meno cessando, con la pericolosità, le ragioni della cautela (si veda l’art. 2-ter, quarto comma, della legge n. 575 del 1965) [e] comporta conseguenze ablatorie definitive (art. 2-nonies della legge n. 575 del 1965) e si distacca perciò dalla contingente premessa che giustifica tanto il sequestro quanto tutte le altre misure di carattere preventivo, valide «allo stato», cioè subordinatamente al permanere - oltre che degli altri presupposti - della pericolosità del soggetto ”; dipoi concludendo nel suggestivo senso per cui “la ratio della confisca comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al «circuito economico» di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo”. Ed ancora, Cass. Pen., sez. unite, 17 luglio 1996, n. 18, ha ricostruttivamente rimarcato come l’istituto presenti un “effettivo contenuto normativo (...) di carattere sicuramente «ablatorio»”, ricollegato – tra l’altro – alla “«ratio» posta a base delle specifiche disposizioni in materia, dirette, come si ritiene in modo pressoché concorde, ad eliminare dal circuito economico beni provenienti da attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate alla ritenuta appartenenza del soggetto ad un’associazione di tipo mafioso”. Sicché, pur escludendo per un verso “il carattere sanzionatorio di natura penale e, parimenti, quello di un provvedimento di «prevenzione»” della confisca ex lege n. 575/1965, essa “non può essere ricondotta che nell’ambito di quel «tertium genus» costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile (quanto al contenuto ed agli effetti) alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240 cpv. c.p.: applicata, per scelta non sindacabile del legislatore, nell’ambito dell'autonomo procedimento di prevenzione previsto e disciplinato dalla legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni”. Indirizzo, questo or ora descritto, dipoi confermato dalla Suprema Corte con svariati pronunciamenti: cfr. Cass. Pen., V, 29 aprile 2010, n. 16580: id., I, 28 agosto 2007, n. 33479; id., sez. unite, 8 gennaio 2007, n. 57; id., I, 22 luglio 2005, n. 27433; id., II, 31 gennaio 2005, n. 19914; id., V, 14 gennaio 2005 n. 6160 (9). (9) In effetti, non sono mancati argomentati pronunciamenti in senso radicalmente difforme: Cass. Pen., I, 9 marzo 2005, n. 13413, ha all’opposto affermato che “la normativa dettata per la misura di prevenzione patrimoniale ex art. 2-ter della l. n. 575 del 1965 si differenzia nettamente dalla confisca prevista dall’art. 240 c.p. e da altre disposizioni speciali”, rimarcando come, con “riguardo alla confisca come misura di sicurezza, la legge processuale penale modella una procedura esecutiva, che, salvo tassative eccezioni, si conclude, anche per gli immobili, con la vendita delle cose confiscate (artt. 86 disp. att. c.p.p., 13 reg. esec. c.p.p. e 152 D.P.R. 30.5.2002, n. 115)”, mentre “totalmente difforme risulta la speciale normativa della l. n. 575 del 1965 (…) in materia di confisca quale misura di prevenzione patrimoniale”, in base alla quale – quantomeno nella versione all’epoca vigente – “emerge univocamente che gli immobili confiscati a norma della legislazione antimafia sono inalienabili, con l’unica eccezione della vendita finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso, e acquisiscono, per effetto della confisca, una impronta rigidamente pubblicistica, che tipicizza la condizione giuridica e la destinazione dei beni, non potendo essere distolti da quella normativamente stabilita («finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile» ovvero «finalità istituzionali o sociali» in caso di trasferimento 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Sempre di recente, Cass. Pen., sez. unite, 2 luglio 2008, n. 26654, nello svolgere un’analisi “trasversale” di svariate tipologie di confisca presenti nell’ordinamento a partire da quella prevista ex D. Lgs. n. 231/2001, ha ravvisato (anche) nella confisca ex lege 575/1965 “una natura ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo”, precisando al contempo – ma in termini generali – che “con il termine «confisca», in sostanza, al di là del mero aspetto nominalistico, si identificano misure ablative di natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso termine viene utilizzato. D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, sin dagli anni sessanta (cfr. sentenze 25/5/1961 n. 29 e 4/6/1964 n. 46), avvertiva che «la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica » e che «il suo contenuto ... è sempre la ... privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa», con l'effetto che viene in rilievo «non una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge»”, così introducendo il concetto di “polimorfismo” della confisca (al riguardo, cfr. anche Cass. Pen., II, 6 giugno 2008, n. 22903). 4.2. In relazione al descritto e polimorfo atteggiarsi delle peculiarità funzionali della confisca, è dunque pacifico che, seppur non espressamente menzionate nel corpo della Legge n. 575/1965, le partecipazioni societarie sono state considerate assoggettabili alla indicata misura (10). In effetti, la menzionata Legge ha tradizionalmente fatto riferimento alle “aziende”, ai “beni aziendali” o ai “beni costituiti in azienda” (cfr. ad esempio le versioni antecedenti alle modifiche introdotte a partire dal 2009 dell’articolo degli immobili nel patrimonio dei comuni)”, con il necessario riconoscimento “che a seguito dell’insorgenza del vincolo di destinazione a finalità pubbliche, il regime giuridico dei beni confiscati a norma della l. n. 575 del 1965 è assimilabile a quello dei beni demaniali o a quello dei beni compresi nel patrimonio indisponibile”. Ma è qui il caso di rimarcare come tale impostazione (ribadita anche da successivi arresti: cfr. Cass. Pen., I, 6 febbraio 2007, n. 8015; id., 13 novembre 2008, n. 43715; id., 14 gennaio 2009, n. 2501) non sia oggi più attuale, atteso che le interpolazioni normative del 2009 e del 2010 alla Legge n. 575/1965, hanno introdotto la possibilità di pervenire alla vendita dei beni immobili di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per finalità di pubblico interesse: cfr. commi 2-bis, 2-ter e 2- quater dell’articolo 2-undecies della stessa Legge n. 575/1965. (10) In effetti, mentre è da sempre stata pacifica la confiscabilità di azioni o quote di società di capitali, più controversa è dapprima apparsa la medesima questione con riguardo alle società di persone, nelle quali – in effetti – le quote sociali costituiscono il titolo della partecipazione diretta dei soci all’esercizio dell’impresa collettiva, strettamente connotata dall’intuitus personae che deve necessariamente intercorrere tra i soci: cfr. GIALANELLA, Genesi dell’amministrazione giudiziaria dei beni: oggetto di esecuzione del sequestro, in “Le misure di prevenzione patrimoniali. Teoria e prassi applicativa (Atti del Convegno di Bari, 14-16 febbraio 1997)”, 207; MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniali tra dogmatica e politica criminale, cit., 313 ss.. Ma oggi la prassi giurisprudenziale sembra aver superato la prospettata limitazione. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 2-sexies, comma 3, dell’articolo 2-decies, comma 1, e dell’articolo 2-undecies, comma 3), mentre solo di recente sono stati introdotti espliciti riferimenti alla confisca di “società” (cfr. articolo 2-sexies, commi 14 e 15, come modificato con il menzionato D.L. n. 4/2010). Ma è d’altra parte altrettanto pacifico che la stessa Legge n. 575/1965 ha considerato le compagini societarie come uno degli strumenti dei quali gli associati alle consorterie mafiose possono avvalersi onde gestire in maniera occulta i propri patrimoni illeciti: ed infatti l’articolo 2-bis, comma 3, prevede espressamente che le indagini strumentali all’applicazione di misure di prevenzione coinvolgano anche “persone fisiche o giuridiche, società, consorzi od associazioni, del cui patrimonio i soggetti (…) risultano poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente”; e l’articolo 10, comma 3, estende i divieti di acquisizione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti pubblici, disposti nei riguardi di prevenuti persone fisiche, anche “nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi”. Ecco dunque che, essendo la confisca ex lege n. 575/1965 per sua natura indirizzata alla definitiva ablazione di beni e risorse economico-finanziarie dai circuiti mafiosi, nei termini più sopra precisati, sarebbe contraddittorio prevedere che essa produca i segnalati effetti giuridici di stampo propriamente civilistico, mercé i quali i prevenuti spossessati (rectius: espropriati) potrebbero comunque legittimamente neutralizzarne gli effetti economici di più spiccata deterrenza. In termini ancor più generali, non pare davvero ammissibile che la confisca di quote societarie possa comportare, in capo all’Erario confiscante, obblighi e responsabilità civili, magari ad estensione illimitata come per le eventualità più sopra richiamate, che lo espongano - in buona sostanza - al ripianamento dei debiti delle società confiscate nei confronti di terzi (cfr. l’ipotesi di cui al precedente punto 3.1), ovvero addirittura a dover corrispondere agli stessi prevenuti confiscati, che risultino creditori delle società confiscate nell’eventualità descritta al precedente punto 3.2, il valore dei conferimenti in precedenza effettuati alle società medesime. In questi casi si configurerebbe, con ogni evidenza, un considerevole svuotamento dell’efficacia del meccanismo ablatorio qui all’esame, e comporterebbe tra l’altro la necessità di una valutazione di “convenienza” economica di ciascuna confisca da parte degli organi statali a ciò deputati (legata ad un non agevole accertamento di insussistenza di poste debitorie in capo alle società collegate ai prevenuti, e di cui lo Stato potrebbe doversi far carico), che pare davvero estranea alla evidenziata funzione repressiva dello strumento. Entro tale ottica, si ritiene dunque di dover escludere – con specifico riguardo alla confisca di quote di società commerciali di persone – la concreta 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 operatività del cennato articolo 2269 cod. civ. (11). E’ stato invero segnalato dalla più autorevole dottrina che la ratio di tale previsione risiede nella circostanza che il socio, facendo ingresso in una compagine sociale già esistente, approva l’operato della precedente gestione, accettando lo stato di rischio in cui si trova l’impresa (12). Ed anche la giurisprudenza di legittimità che si è occupata, anche solo incidentalmente di siffatta previsione, ha rimarcato come “nelle società personali non [sia] configurabile un acquisto di quote sociali che sia sufficiente, di per sé, a far insorgere la responsabilità dell’acquirente per le obbligazioni sociali (…), occorrendo invece che si realizzi l’effettivo inserimento nell’organismo sociale mediante il patto di cui sopra si è detto, che comporta l’assunzione della qualità di socio, con i connessi diritti ed obblighi verso la società, gli altri soci e i terzi” (Cass. Civ., I, 28 marzo 1990, n. 2539). Sicché, in effetti, non sembra proprio che ricorra, nel caso di confisca di quote di società commerciali di persone, il presupposto connotante l’operatività dell’articolo 2269 cod. civ. (13), ossia la volontaria assunzione del ruolo di socio da parte dello Stato confiscante, con l’assunzione di tutti i connessi rischi imprenditoriali, atteso che l’adozione del provvedimento di confisca non presuppone davvero l’intenzione o la volontà dello Stato di entrare a far parte di una compagine commerciale, ed è comunque per sua natura insuscettibile – come dianzi rilevato – di valutazioni di convenienza commerciale, ulteriori rispetto all’assorbente esigenza repressiva che le è propria. 4.3. Sotto diverso e concorrente riguardo, appare pertinente anche valutare la natura dell’acquisizione in proprietà allo Stato di beni confiscati, e segnatamente se tale acquisto sia da considerare a titolo originario ovvero derivativo. Con il parere di Comitato Consultivo prot. n. 127581 in data 15 novembre 2003, si era già dato conto della non univocità delle soluzioni date a tale questione dalla giurisprudenza di legittimità, sia civile che penale: contrasto che, in effetti, permane tutt’oggi, ma di cui merita dare aggiornato conto. 4.3.1. In sede civile, la diversità di vedute appare riconducibile a quanto a suo tempo affermato dapprima da Cass. Civ., I, 3 luglio 1997, n. 5988 in materia di crediti confiscati ex lege n. 575/1965 (che ha affermato trattarsi “di acquisto a titolo derivativo, inquadrabile nello schema di una cessione del credito per factum principis”, tale “proprio in quanto esso non prescinde dal rapporto già esistente fra quel bene e il precedente titolare, ma anzi un tale (11) Il quale, si rammenta, prevede che “chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio”. (12) FERRARA - CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, 300. (13) La previsione dell’articolo 2269 cod. civ., si applica sia alle ss.a.s., sia alle ss.n.c. in virtù del richiamo operato dall’articolo 2293 cod. civ.: cfr. Cass. Civ., III, 20 aprile 2010, n. 9326. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 rapporto presuppone ed è volto a far venir meno, per ragioni di prevenzione e/o di politica criminale, con l'attuare il trasferimento del diritto dal privato (condannato o indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose) allo Stato”), e dipoi da Cass. Civ., I, 5 marzo 1999, n. 1868, la quale (per vero in relazione a confisca prefettizia) ha invece fatto riferimento ad un “titolo originario di acquisto, a favore della P.A., del bene che entra così a far parte del patrimonio dello Stato”. Più di recente, Cass. Civ., I, 7 febbraio 2007, n. 2718, questa volta con specifico riferimento a confisca ex lege n. 575/1965, ha precisato che, “in tema di revocatoria fallimentare, è opponibile alla massa dei creditori l’acquisizione al patrimonio dello Stato a titolo originario, per effetto della sopravvenuta confisca del bene disposta in un procedimento di prevenzione antimafia, ove il sequestro di prevenzione, che necessariamente precede la confisca, sia stato trascritto in data anteriore alla dichiarazione di fallimento”, e ciò in quanto “gli effetti della confisca retroagiscono al momento del sequestro, secondo la ratio dell’art. 2906 cod. civ., che estende al creditore sequestrante la tutela riservata al creditore pignorante”. A sostegno della tesi derivativa dell’acquisto, viene poi tradizionalmente richiamata ulteriore giurisprudenza civile di legittimità, formatasi a partire da Cass. Civ., 12 novembre 1999, n. 12535: ma si badi che né tale arresto, né i successivi che ad essa fanno tralaticio riferimento, hanno affrontato ex professo la quaestio juris di che qui trattasi, limitandosi ad affrontare la tematica dei rapporti tra confisca e diritti reali di garanzia preesistenti (su cui cfr., amplius, il successivo punto 5 del presente parere) (14). 4.3.2. Più ampio ed articolato il dibattito in sede di Cassazione Penale. In aggiunta al risalente diastema intercorso tra la tesi dell’acquisto derivativo, o comunque traslativo (Cass. Pen., sez. unite, 28 aprile – 8 giugno 1999, n. 9; Cass. Pen., IV, 26 novembre 1996, n. 2885; Cass. Pen., I, 21 gennaio 1992, non numerata (15)), e quella dell’acquisto a titolo originario (Cass. Pen., II, 4 dicembre 1998 – 16 gennaio 1999, n. 7211; Cass. Pen., I, 3 – 22 aprile 1998, n. 1947; Cass. Pen., sez. unite, 28 gennaio 1998, n. 2; Cass. Pen., VI, 3 aprile – 24 agosto 1995, n. 1265; Cass. Pen., 7 dicembre 1983 (16)), si registrano svariate sopravvenienze giurisprudenziali, per lo più specificamente (14) Alla menzionata giurisprudenza del 1999 fanno ad es. riferimento Cass. Civ., III, 29 ottobre 2003, n. 16227, nonché Cass. Civ., III, 16 gennaio 2007, n. 845. Solo Cass. Civ., III, 5 ottobre 2010, n. 20664, ha recentissimamente confermato la impugnata pronuncia di merito anche nella parte in cui aveva affermato la natura derivativa dell’acquisto statale per confisca ai sensi dell’articolo 2-ter della Legge n. 575/1965. (15) Ma si badi che solo l’arresto del 1992 si è occupato di confisca ex lege n. 575/1965, gli altri due riguardando confisca per usura ex articolo 644 cod. pen., ovvero di confisca obbligatoria ex articolo 240 cod. pen.. (16) Quest’ultima tuttavia con riguardo a confisca di cose di interesse storico, artistico o archeologico. 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 afferenti proprio la confisca di cui alla Legge n. 575/1965: - a sostegno della prima impostazione (acquisto a titolo derivativo), Cass. Pen., V, 19 novembre – 15 dicembre 2003, n. 47887, ha ritenuto che “in tema di misure di prevenzione, l’applicazione della confisca (…) determina la successione a titolo particolare dello Stato nella titolarità del bene” (analogamente, anche Cass. Pen., I, 9 marzo – 12 aprile 2005, n. 13413); - nella seconda direzione (dell’acquisto a titolo originario), si sono invece espresse Cass. Pen., sez. unite, 19 dicembre 2006 – 8 gennaio 2007, n. 57, che ha parlato di “irreversibile risultato ablatorio, conseguente alla definitività della confisca produttiva del trasferimento a titolo originario del bene sequestrato nel patrimonio dello Stato”, nonché Cass. Pen., V, 20 gennaio – 29 aprile 2010, n. 16580, secondo cui “la confisca disposta nei procedimenti di prevenzione, va ricondotta nell’ambito del tertium genus costituito da una sanzione amministrativa equiparabile, quanto a contenuto ed effetti, alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240, comma secondo, cod. pen., di modo che il loro trasferimento a titolo originario al patrimonio dello Stato è irreversibile”. 4.3.3. La questione non pare davvero di poco momento ai fini che qui occupano, atteso che la differenza tra le prospettate impostazioni dogmatiche della questione attiene proprio alla estensione del diritto proprietario che perviene allo Stato confiscante: sicché, ove si tratti di acquisto a titolo originario, siccome pervenuto senza alcuna dipendenza rispetto al diritto del precedente titolare (ossia del prevenuto), esso dovrà considerarsi libero da pesi e da diritti di terzi che non siano strettamente inerenti alla res (obbligazioni o oneri reali); laddove invece l’acquisto a titolo derivativo si collega inscindibilmente alla misura del diritto trasferito, con la medesima ampiezza e le medesime limitazioni (17). La evidenziata peculiare natura e funzione della confisca ex lege n. 575/1965, in uno con la straordinarietà dei suoi presupposti applicativi, indurrebbe in effetti ad ascriverla tra i meccanismi acquisitivi della proprietà del primo genere, in modo da garantire che l’acquisizione in capo allo Stato dei beni confiscati avvenga senza precostituiti limiti, e senza che l’Erario possa risultare indirettamente gravato di oneri incompatibili con la funzione lato sensu sanzionatoria del meccanismo di che vertesi. Ciò che risulterebbe anche congruente con la frequente assimilazione (vuoi strutturale, vuoi funzionale) di tale tipologia di confisca con quella, generale, di cui all’articolo 240 cod. pen., emergente in modo prepotente dalla giurisprudenza di legittimità penale dianzi richiamata (segnatamente da Cass. (17) Cfr. al riguardo GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, 235. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 Pen., sez. unite, 17 luglio 1996, n. 18, e successiva). *** 5. Ferme le suesposte considerazioni ricostruttive, non può tuttavia prescindersi dal considerare come siano stati affrontati, in sede di legittimità, i problemi di coordinamento con i diritti che terzi soggetti possano vantare, a vario titolo, sui compendi confiscati, segnatamente nei confronti delle società oggetto di (totale o parziale) ablazione. Come sopra ricordato, infatti, e con riguardo alla confisca di quote societarie, si pone inevitabilmente il problema di verificare l’estensione dei concorrenti diritti degli (eventuali) altri soci delle società di persone (di cui è stata disposta la confisca solo di quote parziali), nonché dei terzi che vantino diritti reali o creditori nei confronti della società confiscata, e delle reciproche interconnessioni. Problema che, riguardato in termini più generali, si declina anche in relazione alla confisca di beni diversi dalle quote societarie. 5.1. Una questione che è stata specificamente sottoposta all’attenzione della Scrivente concerne ad esempio la sorte dei diritti reali di garanzia (in specie le ipoteche) che i terzi vantino su beni immobili confiscati (tematica sub e) della premessa). La problematica, ben nota a questa Avvocatura per essere fonte di un cospicuo contenzioso tuttora in atto, è stata più volte affrontata anche in sede di Comitato Consultivo. Si segnala in proposito il parere reso dalla Scrivente in data 15 novembre 2003 con nota prot. n. 127581, il quale, sintetizzando per punti le risposte alle questioni sollevate, ha affermato: “a) che i diritti ipotecari dei terzi sui beni confiscati non vengono pregiudicati quando non emerga in sede penale la certezza di una situazione di non estraneità al reato del terzo o di mala fede o di colpevole affidamento nell’acquisto del credito ipotecario; b) che tali diritti non consentono comunque al terzo di agire in executivis sul bene confiscato, potendosi altrimenti compromettere la finalità perseguita dall’art. 2 undecies, comma 2, legge 575/1965, introdotto dalla legge 109/1996; c) che ove il bene confiscato venga venduto il creditore ipotecario (la cui estraneità al reato sia stata accertata) ha diritto di ottenere la soddisfazione del suo credito fino a concorrenza del ricavato e col rispetto dell’ordine delle prelazioni; d) che, ove invece al bene confiscato sia data una destinazione pubblica conforme alle previsioni dell’art. 2 undecies, comma 2, legge 575/1965, introdotto dalla legge 109/1996, il creditore ipotecario potrà ottenere dallo Stato (divenuto titolare del bene a seguito della confisca) soddisfazione in danaro del proprio credito entro i limiti di valore del bene confiscato quale emergente dalla stima fattane o in sede di acquisizione da parte dello Stato o, in caso di contestazione, con il ricorso a rimedi di tipo giurisdizionale volti a determi- 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 nare la misura del credito satisfattibile sul valore equivalente al bene confiscato”. 5.2. Giova precisare che il richiamato parere trovava all’epoca conforto nella nota sentenza Cass. Civ., I, 12 novembre 1999, n. 12535, secondo cui “il provvedimento di confisca, pronunciato ai sensi dell’art. 2 ter l. 31 maggio 1965 n. 575 e succ. mod. nei confronti dell’indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa, non può pregiudicare i diritti reali di garanzia, costituiti sui beni confiscati in epoca anteriore al procedimento di prevenzione a favore di terzi estranei ai fatti che hanno dato luogo a detto provvedimento; costoro, però, potranno far valere le loro pretese soltanto davanti al giudice dell’esecuzione penale nelle forme e secondo le modalità previste dagli art. 665 seg. c.p.p., norme che attribuiscono al giudice dell’esecuzione competenza a decidere in ordine alla confisca e, pertanto, sui diritti che i terzi rimasti estranei al procedimento penale possono vantare sul bene confiscato”; precipuamente, la richiamata pronuncia di legittimità aveva motivato affermando che “l’esigenza di non vanificare l’intervento sanzionatorio dello Stato induce a dubitare e quindi ad escludere che l’accertamento della legittimità del diritto di sequela vantato dal terzo creditore privilegiato possa consistere nel mero controllo della data di iscrizione della formalità ipotecaria e nell'astratta verifica dell'esistenza di un credito, peraltro agevolmente documentabile nell'ipotesi di illecito accordo. L’accertamento del diritto del terzo impone un’indagine più estesa ed approfondita che, per intuibili ragioni, può essere svolta solo dal giudice penale, con garanzia del contraddittorio, in sede di procedimento di esecuzione”. Tuttavia, in epoca successiva al ridetto parere, Cass. Civ., III, 29 ottobre 2003, n. 16227 avrebbe rivisto il proprio precedente orientamento, stabilendo che, in base alla tassatività delle cause di estinzione dell’ipoteca dettate dall’articolo 2878 cod. civ., i diritti reali di garanzia costituiti anteriormente all’insorgere del procedimento di prevenzione sono comunque destinati a prevalere sulla confisca, indipendentemente – quindi – dall’accertamento in sede di incidente di esecuzione penale della buona o mala fede del titolare del diritto stesso. Tale pronunciamento appare tuttavia in netto contrasto con la finalità dell’intera normativa in tema di confische, più sopra richiamata in termini ricostruttivi, e che - come visto - persegue il primario obiettivo di sottrarre i beni confiscati (e massimamente gli immobili) dal circuito mafioso. Consta d’altronde che essa sia stata ripetutamente sconfessata dalla successiva giurisprudenza della Cassazione Penale, la quale ha avuto modo di ribadire la necessità per i creditori ipotecari, onde far prevalere il proprio antecedente diritto reale di garanzia sulla successiva misura di prevenzione, di dimostrare - in sede di incidente di esecuzione penale - l’assenza di collegamento del proprio diritto con l’attività illecita del prevenuto, e comunque un atteggia- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 mento di “buona fede” circa la provenienza lato sensu illecita dei beni de quibus: ciò nella evidente ottica di evitare che, attraverso “creditori” compiacenti, i soggetti coinvolti nei circuiti mafiosi possano precostituirsi mezzi giuridici attraverso cui “blindare” i propri possedimenti immobiliari: ciò, tra l’altro, in correlazione con quanto espressamente previsto all’articolo 2-ter, quinto comma, della Legge n. 575/1965 (18). A tal riguardo, Cass. Pen., I, 5 dicembre 2007, n. 45572, ha ritenuto che “il terzo titolare di diritto reale di garanzia su bene confiscato può far accertare, mediante incidente di esecuzione dinanzi al competente giudice penale (o della prevenzione, se si tratta di confisca ex art. 2-ter della L. n. 575 del 1965), l’esistenza delle condizioni di permanente validità del diritto, costituite dall’anteriorità della trascrizione del relativo titolo rispetto al provvedimento ablatorio e da una situazione soggettiva di buona fede, intesa come affidamento incolpevole, con onere della prova a carico dell’interessato”; in termini analoghi, cfr. anche Cass. Pen., I, 26 febbraio 2007, n. 8015. A propria volta, Cass. Pen., I, 22 maggio 2007, n. 19761, ha affermato quanto segue: “Spetta al giudice dell’esecuzione l’accertamento degli esatti confini del provvedimento di confisca dei beni immobili effettuato ai sensi dell’art. 2 ter l. n. 575 del 31 maggio 1965, ed in particolare la determinazione dell’eventuale esistenza di iura in re aliena, non pregiudicati dalla devoluzione dei beni allo stato, mentre spetta al terzo l’onere della prova sia in relazione alla titolarità di tali diritti sia in relazione alla mancanza di qualsiasi collegamento del proprio diritto con l’attività illecita del proposto; in particolare, il terzo dovrà dimostrare il proprio affidamento incolpevole, ingenerato da una situazione di apparenza che renda scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza, non essendo sufficiente la mera anteriorità della trascrizione nei registri immobiliari; una volta provata la posizione di terzietà e l’opponibilità del diritto di garanzia o di credito, il terzo, pur deprivato della facoltà di procedere ad esecuzione forzata per soddisfarsi sul ricavato, può farlo valere soltanto davanti al giudice civile con i residui mezzi di tutela offerti dalla legge”. In termini del tutto analoghi, si erano espresse anche (18) “Se risulta che i beni sequestrati appartengono a terzi, questi sono chiamati dal tribunale, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento e possono, anche con l'assistenza di un difensore, nel termine stabilito dal tribunale, svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca. Per i beni immobili sequestrati in quota indivisa, o gravati da diritti reali di godimento o di garanzia, i titolari dei diritti stessi possono intervenire nel procedimento con le medesime modalità al fine dell'accertamento di tali diritti, nonché della loro buona fede e dell'inconsapevole affidamento nella loro acquisizione. Con la decisione di confisca, il tribunale può, con il consenso dell'amministrazione interessata, determinare la somma spettante per la liberazione degli immobili dai gravami ai soggetti per i quali siano state accertate le predette condizioni. Si applicano le disposizioni per gli indennizzi relativi alle espropriazioni per pubblica utilità. Le disposizioni di cui al terzo e quarto periodo trovano applicazione nei limiti delle risorse disponibili per tale finalità a legislazione vigente”. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Cass. Pen., I, 12 aprile 2005, n. 13413, nonché Cass. Pen., I, 31 marzo 2005, n. 12317, la quale ha pure precisato che “poiché il regime giuridico dei beni confiscati a norma della l. n. 575/1965 è assimilabile a quello dei beni demaniali o a quello dei beni compresi nel patrimonio indisponibile, deve escludersi che i beni confiscati ad indiziati di mafia possano essere oggetto di espropriazione forzata immobiliare, che ne modifichi la destinazione, ancorché tale procedura sia stata promossa da un terzo in buona fede titolare di credito assistito da garanzia ipotecaria iscritta prima della trascrizione della confisca; con la conseguenza che, una volta accertata mediante incidente di esecuzione penale la posizione di terzietà e l’opponibilità dell’ipoteca, il creditore garantito, pur privato della facoltà di procedere direttamente ad esecuzione forzata per soddisfarsi sul ricavato, può far valere il proprio credito soltanto innanzi al giudice civile, con i residui mezzi di tutela offerti dalla legge”. Per parte sua, Cass. Pen., V, 19 novembre - 15 dicembre 2003, n. 47887, aveva già chiosato che “l’applicazione della confisca (…) non comporta l’estinzione dei diritti reali di garanzia costituiti sul bene confiscato a favore dei terzi, i quali possono far valere in sede esecutiva i propri diritti reali o di garanzia, qualora si tratti di terzi in buona fede che abbiano trascritto il proprio titolo anteriormente al sequestro a fini di prevenzione, eseguito ai sensi dell’art. 2 l. n. 575 del 1965”. Di recente, poi, Cass. Pen., I, 22 aprile 2008, n. 16743, ha financo esteso gli indicati presupposti di tutela (anteriorità dell’iscrizione del titolo o dell’acquisto del diritto rispetto al provvedimento ablatorio di prevenzione, e la buona fede /affidamento incolpevole in capo al terzo) anche alla fattispecie relativa al soggetto che si sia reso cessionario di un credito ipotecario sull’immobile confiscato. Appare il caso di evidenziare che analoga impostazione, valorizzativa del profilo della buona fede del terzo pretesamente leso da un provvedimento di confisca, da dimostrare avanti il giudice penale mediante incidente di esecuzione, è stata di recente utilizzata dalla giurisprudenza penale della Suprema Corte anche in relazione all’ipotesi del venditore di un’azienda ceduta al proposto mediante una vendita a rate con patto di riservato dominio (Cass. Pen., I, 27 febbraio 2008, n. 8775), con la precisazione che l’accertamento nella sede penale della buona fede può escludere l’estinzione del diritto (in questo caso di credito) del terzo, con la possibilità di far valere davanti al giudice civile le proprie pretese nei confronti dello Stato, subentrato al proposto, per il mancato pagamento integrale del prezzo. 5.3. Da ultimo, non si possono non svolgere ulteriori considerazioni in ordine a quanto di recente affermato da Cass. Civ., III, 16 gennaio 2007, n. 845, sovente richiamata a sostegno della tesi della prevalenza dei diritti di garanzia su beni confiscati (e quindi in termini pretesamente adesivi rispetto PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 alla sentenza n. 16227/2003 della medesima Terza Sezione Civile), atteso che la massima ufficiale recita come segue: “Il provvedimento di confisca pronunciato ai sensi dell’art. 2 ter l. n. 575 del 1965 nei confronti di un indiziato di appartenenza a consorteria mafiosa, camorristica o similare, non può pregiudicare i diritti reali di garanzia costituiti sui beni oggetto del provvedimento ablativo, in epoca anteriore all’instaurazione del procedimento di prevenzione, in favore di terzi estranei ai fatti che abbiano dato luogo al procedimento medesimo, senza che possa farsi distinzione in punto di competenza del giudice adito, tra giudice penale e giudice civile; e ciò perche tale diritto reale limitato si estingue per le sole cause indicate dall’art. 2878 c.c.; la medesima tutela davanti al giudice civile, a maggiore ragione, va riconosciuta all’aggiudicatario - acquirente di un bene in sede di procedura esecutiva forzata immobiliare, la cui posizione, altrimenti sarebbe, senza fondato motivo, irrimediabilmente compromessa”. Occorre al riguardo precisare che la vicenda processuale definita con la cennata sentenza di legittimità del 2007 traeva origine da un ordinario giudizio di cognizione promosso dall’Amministrazione Finanziaria nei confronti degli acquirenti aggiudicatari (all’esito di procedura esecutiva immobiliare) di un bene confiscato, e volto a vedere affermata la proprietà dello Stato sul bene stesso. Il Tribunale aveva in prima battuta accolto la domanda e dichiarato la prevalenza della proprietà dello Stato sui beni confiscati. La Corte d’Appello, poi, adita dagli aggiudicatari soccombenti, aveva rigettato l’impugnazione, osservando in primo luogo che doveva essere esclusa la loro buona fede, tenuto conto che il sequestro e la successiva confisca erano stati trascritti ben prima della vendita all’asta, sicché detti vincoli gravanti sul bene dovevano ritenersi conosciuti; ribadendo il principio “secondo cui il provvedimento di confisca pronunciato ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter e successive modifiche non pregiudica i diritti reali di garanzia costituiti sui beni confiscati in epoca anteriore al procedimento di prevenzione a favore di terzi estranei ai fatti che hanno dato luogo a detto provvedimento”, con la precisazione, tuttavia, che “il creditore procedente deve trasferire il suo diritto nella esecuzione penale e che il passaggio della proprietà allo Stato è salvaguardato anche in caso di precedenti diritti reali di garanzia anteriormente trascritti”, e che quindi la competenza a decidere spettasse al giudice penale nelle necessarie forme dell’incidente di esecuzione. La Corte di Cassazione ha bensì accolto parte del successivo ricorso di legittimità dei privati, ma ciò ha fatto con talune significative precisazioni, che colorano in termini del tutto diversi il pronunciamento in questione. In effetti, dopo aver espressamente rimarcato che “i provvedimenti di sequestro e di confisca - quali misure repressive e sanzionatorie di carattere patrimoniale - sono finalizzati ad impedire che gli indiziati di appartenenza ad asso- 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 ciazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni criminali di procurarsi, mediante prestiti bancari e con il sistema di precostituirsi una schiera di creditori di comodo muniti di titoli con data certa, denaro di provenienza lecita, sottraendo poi alla confisca i beni vincolati a garanzia di terzi creditori”, la Suprema Corte ha bensì osservato che detta “esigenza – con i relativi provvedimenti - non può, tuttavia, pregiudicare i diritti dei terzi estranei ai fatti che hanno dato luogo ai procedimenti di sequestro e confisca”: ma tale petizione di principio - peraltro resa con riferimento alla posizione non dei creditori procedenti (in una esecuzione su di un bene confiscato) ma dei terzi aggiudicatari - è tuttavia precisata, nel suo reale significato, dal successivo richiamo alla “giurisprudenza penale della Corte di Cassazione” che “si è occupata del problema rilevando che i terzi titolari di diritti reali di garanzia su beni immobili sottoposti a confisca ai sensi della Legge Antimafia 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, ove non siano potuti intervenire nel procedimento di prevenzione, possono far accertare, in sede di esecuzione, l’esistenza delle condizioni di permanente validità di detti diritti, costituite essenzialmente dall'anteriorità della trascrizione dei relativi titoli rispetto al provvedimento di sequestro cui ha fatto seguito la confisca e da una situazione soggettiva di buona fede, intesa come affidamento incolpevole, da desumersi sulla base di elementi di cui spetta agli interessati fornire la dimostrazione, fermo restando che, una volta effettuato il suddetto accertamento, rimane comunque esclusa la possibilità che i beni confiscati possano essere oggetto di espropriazione forzata immobiliare, atteso il loro avvenuto assoggettamento, in conseguenza della confisca, ad un regime assimilabile a quello dei beni facenti parte del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato, per cui il credito garantito di cui i terzi di buona fede sono portatori potrà essere fatto valere soltanto dinanzi al giudice civile con i residui mezzi di tutela offerti dalla legge”. Il principio sopra riportato circa il fatto che la confisca non pregiudicherebbe “i diritti dei terzi estranei ai fatti che hanno dato luogo ai procedimenti di sequestro e confisca”, deve dunque intendersi nel senso che i terzi possono effettivamente dirsi “estranei” solo se dimostrino la propria buona fede. La Corte di Cassazione dunque, a ben vedere, si è limitata ad affermare che la tutela “accordata al creditore ipotecario a maggiore ragione deve essere riconosciuta all’aggiudicatario - acquirente di un bene in sede di procedura esecutiva immobiliare, la cui posizione, altrimenti, sarebbe, senza fondato motivo, irrimediabilmente compromessa”: tale tutela opera tuttavia nei riferiti termini, e quindi nella necessaria sussistenza della buona fede del terzo, da accertarsi nei modi e nelle forme evidenziati dalla giurisprudenza penale, del resto espressamente richiamata. 5.4. Alla luce di quanto sopra, non possono che confermarsi (in relazione allo specifico argomento relativo ai diritti reali di garanzia preesistenti alla PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 confisca di beni immobili) le conclusioni rese nel menzionato parere prot. n. 127581 del 15 novembre 2003 di questa Avvocatura Generale. *** 6. D’altronde, l’analisi della giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell’argomento ora esposto consente di valorizzare un criterio generale di giudizio che può presiedere alla soluzione delle questioni problematiche afferenti il trattamento dei diritti dei terzi a fronte di confische di quote societarie, totali o parziali che esse siano. In effetti, i problemi più sopra evidenziati in casi del genere, ossia la estensione dei diritti e degli obblighi dei soci “superstiti” delle società di persone di cui sia stata disposta la confisca solo di alcune quote, nonché dei terzi che vantino diritti creditori nei confronti della società confiscata, può essere apprezzata, anche nei riguardi dello Stato confiscante, utilizzando il canone della ”buona fede”; sicché le conclusioni cui si è pervenuti nell’ambito del precedente punto 4 del presente parere possono trovare un correttivo proprio in quel principio. In altri termini, e per tornare alla questione relativa ai crediti vantati nei confronti di società anche solo in parte confiscate ex lege n. 575/1965, la questione della tutela dei diritti creditori di terzi su quote societarie confiscate può essere soddisfacentemente risolta, ammettendo la tutela solo dei terzi che dimostrino di versare in “buona fede”, nei termini dianzi evidenziati. Tale limitata tutela, i cui presupposti andrebbero verificati in sede di incidente probatorio nell’ambito del procedimento di prevenzione, consentirebbe per un verso di escludere in radice la permanenza dei crediti vantati dallo stesso prevenuto, e di escludere altresì quelli di soggetti che, in varia guisa e misura, siano a quello riconducibili, anche solo per mera consapevolezza del suo peculiare status di possibile intraneus ad associazioni criminose. 6.1. Con specifico riguardo all’ipotesi in cui sia stata disposta la confisca in capo allo Stato di quote sociali minoritarie, qualora l’atto costitutivo o lo statuto societario attribuisca a ciascun altro socio un diritto di prelazione in caso di cessione delle quote per atto tra vivi, il dubbio avanzato è se lo Stato confiscante possa ritenersi svincolato da siffatte previsioni statutarie e se, conseguentemente, possa procedersi alla vendita a terzi della quota stessa (cfr. questione sub lett. f) della premessa: confisca di quote sociali minoritarie e clausole statutarie di prelazione in caso di vendita di partecipazioni sociali). Al riguardo, occorre preliminarmente precisare che l’ipotesi prospettata non rientra nello spettro previsionale dell’articolo 2-undecies, comma 3, della Legge n. 575/1965 (che disciplina la destinazione da imprimere ai “beni” aziendali), bensì in quello del comma 1, lettera b), dello stesso articolo 2-undecies, dovendosi le quote societarie considerarsi alla stregua di beni mobili (cfr. Cass. Civ. II, 30 gennaio 1997, n. 934, secondo cui “le quote sociali, 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 anche nelle società di persone, costituiscono beni nel senso dell’art. 810 c.c. in quanto suscettibili di formare oggetto di diritti e vanno ascritte residualmente alla categoria dei beni mobili a norma del successivo art. 812 comma ultimo, atteso che alla quota fanno capo (insieme con i relativi doveri) tutti i diritti nei quali si compendia lo status di socio, non riducibili a mere posizioni creditorie”). Ciò comporta che la vendita delle quote confiscate, anche in favore di altro socio della compagine, titolare del richiamato diritto di prelazione, non viola di per sé le prescrizioni della Legge n. 575/1965, prevedendo tale legge che i beni mobili – nella normalità dei casi – siano venduti e le somme ricavate versate all’Erario. Fermo quanto sopra, occorre dipoi segnalare che, con riferimento alle clausole contenute negli atti costitutivi o negli statuti societari che fissano diritti di prelazione dei soci in caso di vendita di quote societarie, la giurisprudenza ha da tempo chiarito (cfr. Cass. Civ., I, 19 agosto 1996, n. 7614; id., 29 agosto 1998, n. 8645) che siffatte clausole - in ragione del loro inserimento nei documenti fondativi della compagine societaria - assumono valore generale ed efficacia “reale”, sicché i suoi effetti sarebbero in genere opponibili anche al terzo acquirente, appunto perché si tratta di una regola del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non sottostare chiunque entri a far parte di quel gruppo. Non può tuttavia escludersi che, con specifico riguardo alla ipotesi qui all’esame di confisca ex lege n. 575/1965, la previsione statutaria di diritti di prelazione delle quote sociali possa rispondere a precisi interessi del socio prevenuto, magari indirizzati a garantire il mantenimento della compagine societaria nell’ambito di una cerchia di soggetti (familiari o non) in vario modo contigui all’ambiente delinquenziale proprio del prevenuto medesimo. Sembra alla Scrivente che tale circostanza possa, per un verso, comportare una naturale difficoltà a rinvenire soggetti, autenticamente “terzi” rispetto al prevenuto ed alla sua cerchia di conoscenze, che siano disponibili all’acquisto di quote societarie minoritarie un tempo a quegli appartenute. Tuttavia, ove ciò sia in concreto possibile, la giurisprudenza richiamata al precedente punto 5 del presente parere potrebbe legittimare l’effettuazione della relativa vendita anche senza il rispetto del diritto di prelazione: come dianzi segnalato, essa assoggetta il mantenimento di diritti preesistenti alla confisca al requisito della buona fede del titolare, intesa come affidamento incolpevole, circa l’intendimento lato sensu illecito dell’operazione. Si è pure rimarcato che tale principio appare suscettibile di essere esteso, oltre che ai diritti immobiliari di garanzia, anche ad altri diritti soggettivi di credito (cfr. la richiamata Cass. Pen., I, 27 febbraio 2008, n. 8775), sicché appare legittimo declinarlo anche con riferimento al preesistente diritto di prelazione di quote societarie di pertinenza del socio. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 In adesione alla impostazione più sopra prospettata, diventerà dunque onere del socio eventualmente pretermesso dalla vendita a terzi della quota minoritaria, in sede di contestazione giudiziale di quella vendita, dimostrare la sua effettiva buona fede rispetto alla partecipazione societaria del prevenuto, e più in genere alla attività illecita di quest’ultimo. *** 7. Altra questione problematica sottoposta all’attenzione della Scrivente riguarda le modalità di liquidazione di società che, a seguito di provvedimenti di confisca ex lege n. 575/1965, diventino sostanzialmente inattive (questione sub lett. g) della premessa). Appare al riguardo potersi dichiarare che la confisca non può, di regola e di per sé, impedire la dichiarazione di fallimento di un’impresa, sicché, sussistendo lo stato di insolvenza, anche una società che sia stata (totalmente o parzialmente) confiscata deve necessariamente ritenersi soggetta a fallimento. Il principio della fallibilità di società commerciali di cui lo Stato sia socio, risulta costantemente affermato dalla giurisprudenza: basti al riguardo richiamare il principio fissato da Cass. Civ., I, 10 gennaio 1979, n. 158, secondo cui “una società per azioni, concessionaria dello stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato - e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale, sottoposto al regime privatistico ordinario e cosi suscettibile di essere sottoposto ad amministrazione controllata (art. 187 legge fallimentare) - per il fatto che ad essa partecipino enti pubblici come soci azionisti (…)”. Sicché - ferma restando la suesposta conclusione dei limiti di responsabilità civile dello Stato per i debiti di società confiscate - il percorso che conduca l’Amministrazione Statale alla dismissione di società inattive o in difficoltà finanziarie potrà alternativamente consistere nell’attivazione di una procedura fallimentare, ovvero ponendo le società in liquidazione volontaria. 7.1. Nell’ambito di questa seconda soluzione, è stato ipotizzato il ricorso alla gestione fuori bilancio prevista dalla Legge n. 1041/1971. Anche a prescindere dalla circostanza che l’utilizzazione di siffatto strumento dovrebbe essere – per chiara previsione della stessa Legge n. 1041/1971 – espressamente autorizzata da legge speciale, tale possibilità appare comunque non praticabile o comunque inopportuna, comportando (come del resto evidenziato anche dall’Agenzia del Demanio) il trasferimento in capo allo Stato di tutti i rapporti economici pendenti. Ciò comporterebbe che l’Erario, magari in termini eccezionali rispetto all’esposto principio di limitazione di responsabilità, potrebbe essere chiamato a ripianare con danaro pubblico i debiti delle società confiscate alla criminalità organizzata: e risultando queste, nella maggior parte dei casi, fittizie e pertanto senza alcun valore economico e commerciale, è evidente come la gestione fuori bilancio 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 comporti un elevato rischio di cospicue perdite economiche per l’Amministrazione Statale. Per tali considerazioni il vantaggio ipotizzato, che sembrerebbe comunque ridursi alla maggiore velocità delle operazioni di chiusura della società tramite le ridette “gestioni fuori bilancio”, appare alquanto recessivo in un’ottica di comparazione con il rischio ora cennato. Naturalmente, anche tale valutazione ha valenza generale, e non esclude la possibilità – in ben identificati casi da ponderare caso per caso in relazione alle specifiche circostanze di fatto – che il ricorso alla gestione fuori bilancio si presenti invece conveniente per gli interessi erariali. *** 8. Quanto alla sorte dei debiti tributari delle società integralmente confiscate dallo Stato (questione sub lett. h) della premessa), giova prendere le mosse dai ripetuti pareri resi a vari livelli dall’Agenzia delle Entrate, ed in specie il parere prot. n. 123885 del 2 luglio 2002 espresso dalla Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, secondo cui le società di capitali confiscate “conservano fino alla loro estinzione un’autonoma soggettività tributaria, in modo che, per i rapporti tributari che ad esse fanno capo, non si può dire realizzata la confusione”: principio che, in linea generale, appare senz’altro da condividere, sia in virtù della permanente alterità giuridica tra le società e l’unico socio di cui esse possano eventualmente essere costituite (cc.dd. società unipersonali), sia perché di confusione ex articolo 1253 cod. civ. potrebbe correttamente parlarsi allorché l’ente che venga in vario modo “assorbito” dallo Stato scompaia quale pregresso soggetto giuridico (come, ad es., nel caso degli enti pubblici soppressi le cui passività siano ex lege assunte da appositi uffici statali di liquidazione: cfr. per un caso la recente Cass. Civ., V, 12 marzo 2008, n. 6550). Giova tuttavia evidenziare che, per il caso di confische ex lege n. 575/1965, viene oggi prevista un’espressa eccezione da parte del comma 15 del rinnovato (a seguito del già menzionato D.L. n. 4/2010) articolo 2-sexies, il quale dispone come segue: “Nelle ipotesi di confisca dei beni, aziende o società sequestrati, i crediti erariali si estinguono per confusione ai sensi dell'articolo 1253 del codice civile”. Tale previsione, che sembra attagliare astrattamente a qualsiasi tipo di credito erariale, quale che ne sia la natura e l’origine, certamente trova applicazione anche con riguardo ai crediti tributari di spettanza dell’Amministrazione Statale. *** 9. Da ultimo, quanto al tema della rappresentanza processuale delle società confiscate ed alla possibilità del ricorso al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (questione sub lett. i) della premessa), bisogna preliminarmente richiamare quanto già affermato dalla Scrivente con parere n. 110067 del 12 PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215 agosto 2004, avallato dal Comitato Consultivo. In quel pronunciamento, si era sostenuto (in sintesi) quanto segue: 9.1. il subingresso dello Stato nella effettiva titolarità dei beni confiscati si verifica solo con l’acquisita esecutività ed inoppugnabilità del provvedimento di confisca: prima di tale momento, pertanto, e segnatamente nel lasso temporale intercedente tra l’adozione del provvedimento di sequestro preventivo e l’intervenuta definitività del provvedimento di confisca, non vi sono i presupposti necessari acché l’amministratore dei beni (solo) sequestrati sia ammesso ad avvalersi del regime di patrocinio legale organico ed esclusivo (articolo 1 del R.D. n. 1611/1933) assicurato dall’Avvocatura dello Stato alle Amministrazioni statali; 9.2. all’opposto, una volta che il provvedimento che dispone la confisca sia divenuto definitivo, l’Avvocatura dello Stato sarà tenuta ad accordare a detti amministratori l’assistenza legale necessaria, essendo venuto ad esistenza il criterio di collegamento giustificativo del suo intervento (cioè a dire il definitivo passaggio della proprietà dei beni in favore dello Stato). Le descritte conclusioni vanno oggi aggiornate alla luce di quanto disposto dalla novella legislativa rappresentata dal D.L. n. 4/2010 (convertito, con modificazioni, con Legge n. 50/2010), il quale – come ben noto – ha istituito l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, dotandola tra l’altro della competenza a provvedere alla “amministrazione e destinazione dei beni confiscati in esito del procedimento di prevenzione di cui alla citata legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni” (articolo 1, comma 3, lett. d). Segnatamente, l’articolo 2-sexies, comma 7, della Legge n. 575/1965 prevede oggi che “dopo il decreto di confisca di primo grado, l’amministrazione dei beni è conferita all’Agenzia, la quale può avvalersi di uno o più coadiutori”, con incarico che “può essere conferito all’amministratore giudiziario designato dal tribunale”: la novella normativa ha dunque espressamente previsto che con il decreto di confisca l’amministrazione dei beni sia automaticamente assegnata all’Agenzia Nazionale (e non più ad un amministratore), e che essa possa avvalersi come “coadiutore” dell’amministratore previamente nominato per la fase del sequestro. Al contempo è previsto che l’Agenzia Nazionale, ai sensi dell’articolo 8 del D.L. n. 4/2010, goda della rappresentanza processuale dell’Avvocatura dello Stato secondo il regime dell’articolo 1 del R.D. n. 1611/1933: essa pertanto si avvarrà di tale rappresentanza, con tutte le conseguenze ad essa connesse, qualora diretta amministratrice di beni sequestrati, e comunque in quanto ex lege deputata all’amministrazione dei beni confiscati ai sensi della Legge n. 575/1965. *** 10. In estrema sintesi, si possono dunque rassegnare nei seguenti termini 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 le risposte ai quesiti sottoposti: a) la confisca ex lege n. 575/1965 di azioni o di quote societarie non comporta automaticamente l’acquisizione allo Stato del patrimonio aziendale, e/o dei singoli beni che di esso facciano parte, che non sono infatti di proprietà del soggetto prevenuto; b) è specularmente ammissibile la confisca ex lege n. 575/1965 di beni societari a prescindere dalla confisca delle relative quote, allorché sia comprovato che detti beni sono solo fittiziamente intestati alla società, ma in realtà nella effettiva ed esclusiva disponibilità del prevenuto; c) quanto alla responsabilità dello Stato confiscante nei confronti di creditori di società commerciali, occorre distinguere: c.1.) nel caso di società di persone, non è da ritenersi operante il meccanismo di cui all’articolo 2269 cod. civ., a mente del quale “chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all’acquisto della qualità di socio”, per difetto di ratio legis nella fattispecie: lo Stato confiscante potrà essere chiamato a rispondere dei crediti antecedenti la confisca solo in favore dei creditori che dimostrino di versare in “buona fede” e “legittimo affidamento”, in sede di incidente di esecuzione penale; c.2.) nel caso di società di capitali di cui lo Stato confiscante risulti unico socio, la relativa responsabilità illimitata, in base agli articoli 2325 e 2462 cod. civ., non si estende oltre le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui l’intera partecipazione è appartenuta allo Stato medesimo; d) in continuità con la conclusione di cui alla precedente lett. c.1), lo Stato confiscante potrà essere chiamato a rispondere dei debiti sociali iscritti in bilancio tra le poste passive nei limiti della comprovata “buona fede” del relativo titolare, e non saranno riconoscibili quelli vantati dal prevenuto espropriato, ancorché iscritti in bilancio; e) per quanto riguarda i diritti ipotecari preesistenti alla confisca di beni immobili, anche alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, si conferma quanto già ritenuto con parere in data 15 novembre 2003 con nota prot. n. 127581 del Comitato Consultivo di questa Avvocatura Generale, ossia che essi non vengono pregiudicati quando non emerga in sede penale la certezza di una situazione di non estraneità al reato del terzo o di mala fede o di colpevole affidamento nell’acquisto del credito ipotecario; f) in caso di confisca di quote sociali ed in presenza di clausole statutarie di prelazione per la vendita di partecipazioni sociali, la vendita di dette quote societarie a terzi potrebbe essere contestata dai soci pretermessi qualora essi dimostrino di versare in “buona fede” e “legittimo affidamento”, in sede di incidente di esecuzione penale; g) ove le società oggetto di confisca di quote diventino inattive o in diffi- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217 coltà finanziarie, esse potranno essere legittimamente assoggettate a procedura fallimentare ovvero a liquidazione volontaria, secondo le valutazioni del caso; h) in virtù dell’articolo 2-sexies, comma 15, della Legge n. 575/1965 (per come rinnovato dal D.L. n. 4/2010), i crediti tributari riferibili alle quote societarie confiscate dallo Stato si estinguono per confusione; i) ai sensi dell’articolo 8 del D.L. n. 4/2010, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, si avvale della rappresentanza processuale dell’Avvocatura dello Stato secondo il regime dell’articolo 1 del R.D. n. 1611/1933, qualora essa sia diretta amministratrice di beni sequestrati, e comunque in quanto ex lege deputata all’amministrazione dei beni confiscati ai sensi della Legge n. 575/1965. *** Le suesposte questioni sono state esaminate dal Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 14 giugno 2011. Disciplina delle spese processuali: rimborso spese generali previsto dall’art. 14 del D.M. 8 aprile 2004 n. 127* Le Avvocature Distrettuali dello Stato in indirizzo chiedono di conoscere l’orientamento di questa Avvocatura Generale in merito alla disciplina delle spese processuali con particolare riguardo al rimborso delle spese generali previsto dall’art. 14 del D.M. 8 aprile 2004, n. 127. Quest’ultima disposizione prevede che: “All'avvocato e al praticante autorizzato al patrocinio è dovuto un rimborso forfetario delle spese generali in ragione del 12,5% sull'importo degli onorari e dei diritti ripetibile dal soccombente”. Si chiede in particolare di chiarire se a fronte di sentenza di condanna alle spese che nulla disponga in merito a tali spese generali, l’Amministrazione soccombente sia tenuta a corrispondere l’importo del 12.5% quale maggior somma rispetto al quantum liquidato del giudice. Si chiede altresì se tale sentenza possa costituire valido titolo esecutivo per la riscossione di tale maggior somma. Il quesito presenta profili di particolare complessità anche in ragione del susseguirsi di diversi, e talvolta contrastanti, orientamenti giurisprudenziali sul punto, come ben evidenziato da codeste stesse Avvocature. Per questo motivo risulta congeniale al miglior inquadramento della fattispecie distinguere due diversi profili. Un primo profilo attiene al rapporto (*) Parere del 21 settembre 2011 prott. 291637/53, AL 30485/2011, Avv. GESUALDO D’ELIA. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tra chiesto e pronunciato e all’applicazione del principio della domanda; un secondo profilo riguarda invece più propriamente le modalità di liquidazione e riscossione in via esecutiva delle spese generali. Occorre pertanto prendere le mosse proprio dall’applicazione del principio della domanda con riferimento alla richiesta di rimborso delle spese generali di cui all’art. 14 del D.M. n. 127/2004 (norma che riproduce quasi fedelmente quella contenuta nell’art. 15 della tariffa di cui al D.M. 5 ottobre 1994, n. 585). Sul punto si rileva un consolidato orientamento giurisprudenziale fondato sul “principio della spettanza automatica, senza bisogno di apposita richiesta, del rimborso forfetario delle spese generali” (così ex plurimis Cass. n. 24081/2010 alla cui elencazione dei precedenti giurisprudenziali si rinvia). Di modo che, come ben precisato nella medesima sentenza della Corte di Cassazione, “la pronuncia sui diritti, sugli onorari e sugli esborsi di causa non presuppone affatto, affinché il giudice possa (ed anzi, debba) adottarla, una domanda di parte (la quale, pure se proposta, è irrilevante ai fini del valore della causa: arg. ex artt. 10 e 31 cod. proc. civ.), ma ha il suo titolo esclusivamente nel contenuto della decisione sul merito della controversia, in applicazione del principio della soccombenza (Cass., Sez. 1, 27 agosto 2003, n. 12542; Corte Cost., sentenza n. 232 del 2004); così, allo stesso modo, la liquidazione in via automatica del rimborso forfetario - voce di credito che spetta in base alla tariffa professionale degli avvocati e la cui misura è ex lege determinata, in misura percentuale, sull'importo degli onorari e dei diritti ripetibile dal soccombente - trova fondamento nel principio posto dall'art. 91 cod. proc. civ.”. In sintesi, per giurisprudenza consolidata, il giudice, all’esito del processo, è tenuto a decidere ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c. in merito alle spese di lite e, anche qualora manchi una specifica domanda di parte sul punto, liquida col dispositivo anche le spese generali ex art. 14 del D.M. n. 127/2004. Chiarito dunque che l’obbligo del giudice di pronunciarsi in merito alle spese di lite può essere ritenuto estensibile anche al rimborso forfettario per spese generali (anche in assenza di una specifica domanda sul punto), dovrebbe derivare da ciò, come logico corollario, che solo la sentenza costituisce titolo giuridico (ed esecutivo) idoneo all’imputazione del pagamento dell’importo del 12,5% in capo alla parte soccombente nel processo. Ciò in quanto la quantificazione delle spese di lite, nonché l’imputazione a quelle previste dall’art. 91 c.p.c. ovvero a quelle forfettarie ex art. 14 della Tariffa è affidata alla sentenza, con la quale il giudice è tenuto a provvedere in merito alla specifica delle spese del giudizio, comprese quelle generali ex art. 14 citato, con decisione discrezionale ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Tutto ciò considerato sembrerebbe naturale concludere che la parte soccombente è tenuta alla corresponsione del solo importo liquidato in sentenza PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 219 senza possibilità di aggiungere ex post, in sede di esecuzione, una ulteriore percentuale per le spese generali di cui, invece, il giudice tiene (melius deve tenere) conto in sede di liquidazione delle spese. Questa impostazione trova conferma in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione. In Cass. n. 4209/2010 la Corte accoglie il ricorso promosso avverso una sentenza di secondo grado che aveva limitato la condanna alle spese alla liquidazione di soli diritti e onorari, senza contemplare quindi le spese generali ex art. 14 del D.M. n. 127/2004. Infatti la Corte, premesso che “il rimborso c.d. forfetario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è determinata per legge, che spetta automaticamente al professionista, anche in assenza di allegazione specifica e di domanda, dovendosi, quest'ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali”, accoglie il ricorso senza rinvio e integra la sentenza impugnata dell’importo spettante per le spese generali; con ciò dimostrando di ritenere che, affinché possa sorgere la pretesa al pagamento delle spese generali, non è indispensabile una espressa domanda, ma che, al contrario, è necessario un esplicito dictum della sentenza. Affermazione coerente con quella contenuta in altra recente decisione della S.C., secondo cui “La mancata statuizione sulle spese del giudizio ritualmente richieste integra una vera e propria omissione di carattere concettuale e sostanziale e costituisce un vizio di omessa pronuncia della sentenza da farsi valere con i mezzi di impugnazione” (Cass. II, 14 febbraio 2011 n. 3632); laddove l’espressione “spese ritualmente richieste” deve ritenersi riferibile sia a quelle propriamente giudiziali sia a quelle forfettarie. Occorre segnalare, però, che, con la recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. II n. 8512/2011), questo principio sembra trovare parziale smentita. La sentenza citata, infatti, conferma che il “rimborso spetta alla parte in favore della quale siano state liquidate le spese di giudizio in via automatica ed anche in assenza di una sua espressa menzione in sentenza, che, se effettuata, riveste comunque efficacia soltanto dichiarativa”, ed afferma anche che “l’omessa menzione di esso (ndr. il rimborso) da parte della sentenza non si traduce, pertanto, in vizio di violazione di legge o in una omessa pronuncia, dal momento che la parte può conseguirne comunque il rimborso delle "spese generali" in sede di esecuzione della decisione”. Deve quindi prendersi atto del fatto che la S.C. ha ritenuto di superare le incertezze emerse nei precedenti orientamenti, giungendo, in un certo senso, ad equiparare (quanto meno nel trattamento) il rimborso di cui all’art. 14 ad altri importi (IVA, C.A.P.) che non fanno parte dei compensi spettanti per lo svolgimento dell’attività forense ma bensì trovano la loro fonte in un rapporto che, sebbene connesso, è caratterizzato da una diversa natura (rispettivamente fiscale e previdenziale) ed intercorre tra soggetti diversi. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Così inquadrata la questione dal punto di vista teorico, e preso atto che il più recente orientamento della Corte di Cassazione sembra propendere per la debenza delle spese forfettarie anche in assenza di esplicita pronuncia, vanno svolte alcune considerazioni di carattere pratico. La segnalata oscillazione giurisprudenziale (espressione di interpretazioni opposte, ma entrambe sostenute da argomentazioni non irragionevoli) rende possibile che, di fronte al rifiuto dell’Amministrazione di pagare il rimborso forfettario ed in seguito ad iniziative impugnatorie od esecutive delle controparti, i giudici assumano l’orientamento sfavorevole, con la conseguente condanna dell’Amministrazione al pagamento di detto rimborso e con l’aggravio delle spese giudiziali. Ciò a prescindere dalla necessità per l’Amministrazione di promuovere un numero potenzialmente assai elevato di giudizi di opposizione per somme il più delle volte esigue se non addirittura trascurabili. Pertanto, se nella generalità dei casi la resistenza su questo punto appare di fatto sconsigliabile, in quanto esporrebbe l’Amministrazione al rischio di dover pagare somme anche maggiori, si può ipotizzare di sollevare la questione nel caso di una condanna alle spese di entità particolarmente elevata, tanto che anche l’ammontare del rimborso, calcolato in percentuale, sia in cifra assoluta molto rilevante. In questa ipotesi si potrebbe promuovere un giudizio che giunga – auspicabilmente – a una definitiva presa di posizione delle Sezioni Unite. Le considerazioni che precedono inducono, pertanto, a ritenere che, nei casi in cui le sentenze di condanna al pagamento di spese giudiziali nulla dicono in merito alle spese forfettarie, ma le controparti ne avanzino la pretesa, sia più opportuno accedere alla richiesta, con la riserva di sollevare il problema in ipotesi di ammontare particolarmente elevato. Il presente parere è stato esaminato nella seduta del 15 settembre 2011 dal Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, che si è espresso in conformità. L E G I S L A Z I O N E E D AT T U A L I TA’ Riflessioni sul part time nel settore pubblico a seguito delle disposizioni del c.d. Collegato lavoro Francesco Spada* Il presente contributo intende svolgere alcune considerazioni sull’istituto del part time nel settore pubblico, recentemente inciso dalle disposizioni contenute nel c.d. Collegato lavoro, esaminando i primi critici orientamenti giurisprudenziali affermatisi in materia. Prima di entrare nel merito della questione appare, però, opportuno ricostruire il quadro normativo in materia di part time nel settore pubblico, distinguendo tre diverse fasi: l’originaria formulazione della disciplina prevista dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662; le modifiche apportate dal decreto legge 25 giugno 2008, n. 112; le ulteriori innovazioni introdotte dal c.d. Collegato lavoro (legge 4 novembre 2010, n. 183). L’articolo 1 comma 58 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (1), nella prima versione in vigore, così disponeva: “La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l'eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L'amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l'attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica at- (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. (1) Sul tema, in generale, D’ANTONA, Part time e secondo lavoro dei dipendenti pubblici (commento alla legge n. 662/1996), in Opere: Scritti sul pubblico impiego e sulla pubblica amministrazione, Milano, 2000. 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione stessa, può con provvedimento motivato differire la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo non superiore a sei mesi. La trasformazione non può essere comunque concessa qualora l'attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un'amministrazione pubblica. Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all'amministrazione nella quale presta servizio, l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa. Fatte salve le esclusioni di cui al comma 57, per il restante personale che esercita competenze istituzionali in materia di giustizia, di difesa e di sicurezza dello Stato, di ordine e di sicurezza pubblica, con esclusione del personale di polizia municipale e provinciale, le modalità di costituzione dei rapporti di lavoro a tempo parziale ed i contingenti massimi del personale che può accedervi sono stabiliti con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica e con il Ministro del tesoro”. L’originaria formulazione della disposizione contemplava un diritto (2) alla trasformazione del contratto di lavoro a tempo pieno in part time, esercitabile sulla base di una mera istanza del lavoratore, a fronte della quale le esigenze dell’amministrazione risultavano completamente cedevoli. D’altra parte, l’articolo 6 comma 4 del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, attribuiva al lavoratore in part time un diritto opposto a quello esaminato, ossia il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione del rapporto, anche in soprannumero rispetto alla dotazione organica (3). L’unico limite all’automatica trasformazione del full time in part time desumibile dal citato articolo 1 comma 58 della legge n. 662/1996 era costituito dalla sussistenza di un conflitto di interessi tra l’attività di lavoro autonomo o subordinato che il dipendente intendeva svolgere e la specifica attività di servizio effettivamente svolta (4). (2) In questo senso, Consiglio di Stato, 7 novembre 2000, n. 8732 e TAR Lazio, 26 ottobre 1998, n. 1711, per i quali “Dal tenore dell'art. 1 commi 57 e 58 della legge n. 662/1996, concernenti la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part time, può desumersi non già la potestà dell'amministrazione di concessione o diniego in via discrezionale della detta trasformazione, bensì la facoltà in via generale del dipendente di richiedere la trasformazione stessa”. (3) Sul punto, la circolare n. 6/1997 del Dipartimento della funzione pubblica prevedeva che “il rientro è un vero e proprio diritto, esercitabile anche quando il posto in organico non è immediatamente disponibile”. (4) Sul punto, la circolare n. 6/1997 del Dipartimento della funzione pubblica prevedeva che “il passaggio al tempo parziale può essere richiesto per svolgere una seconda attività, subordinata o autonoma. In questo caso, la prestazione oraria non deve essere superiore alla metà di quella a tempo pieno. Occorre inoltre accertare se le attività esercitabili interferiscono con quella ordinaria e se concretizzano occasioni di conflitto di interessi. Queste ultime devono essere valutate non solo all’atto della richiesta della trasformazione del rapporto, ma anche in seguito”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 223 L’articolo 22 comma 20 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 prevedeva un limite ulteriore, di tipo quantitativo, stabilendo che il contingente di personale da destinare al part time non potesse superare il 25% della dotazione organica per ciascuna qualifica funzionale. Successivamente, il decreto legge n. 79/1997 e la relativa legge di conversione hanno aggiunto il comma 58-ter al citato articolo 1 della legge n. 662/1996, prevedendo che il limite percentuale della dotazione organica complessiva di personale a tempo pieno di ciascuna qualifica funzionale prevista dall'articolo 22 comma 20 della legge n. 724/1994 potesse essere arrotondato per eccesso, al fine di arrivare comunque all’unità. Fermi restando gli esaminati limiti, l’articolo 1 comma 58 della legge n. 662/1996 prevedeva inoltre un potere di differimento della trasformazione del rapporto, esercitabile dall’amministrazione in presenza di grave pregiudizio alla funzionalità del servizio, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, per un periodo di tempo non superiore a sei mesi. Dal quadro descritto emerge chiaramente che, nella prima fase di applicazione della disciplina, la trasformazione del contratto di lavoro full time in part time avveniva automaticamente e le esigenze dell’amministrazione non ricevevano alcuna tutela, prevalendo in ogni caso l’attenzione legislativa per le volontà del dipendente (5). Un problema diverso riguardava il regime orario del part time in ipotesi di mancanza di un accordo delle parti in materia: fermo restando il diritto alla trasformazione del full time in part time, si trattava di stabilire se dovesse avere prevalenza la volontà del dipendente in merito alla collocazione dell’orario del part time ovvero quella dell’amministrazione. Al riguardo, la circolare n. 8/1997 del Dipartimento della funzione pubblica è intervenuta sul tema e, sulla base del presupposto della “necessità di contemperare il diritto alla trasformazione del rapporto con la funzionalità del servizio”, ha ritenuto che la soluzione più congrua fosse quella della “individuazione consensuale dell’articolazione della prestazione lavorativa, secondo criteri che contemperino l’effettivo esercizio del diritto con la salvaguardia delle esigenze funzionali dell’amministrazione”. Successivamente, il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 e la relativa legge di conversione hanno, tra l’altro, radicalmente modificato l’articolo 1 comma 58 della legge n. 662/1996, che oggi così dispone: (5) Il part time nel pubblico impiego è comunemente utilizzato come forma flessibile di lavoro, per ragioni personali e familiari di conciliazione fra tempo di lavoro e tempo di vita, quindi per esigenze di vita temporanee piuttosto che per scelte professionali stabili. E’ innegabile che il part time rappresenta, in particolare per le lavoratrici, un efficace strumento di conciliazione lavoro-famiglia che è difficile da attuare nel nostro Paese. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 “La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può essere concessa dall'amministrazione entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l'eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L'amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l'attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione stessa. La trasformazione non può essere comunque concessa qualora l'attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un'amministrazione pubblica. Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all'amministrazione nella quale presta servizio, l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa. Fatte salve le esclusioni di cui al comma 57, per il restante personale che esercita competenze istituzionali in materia di giustizia, di difesa e di sicurezza dello Stato, di ordine e di sicurezza pubblica, con esclusione del personale di polizia municipale e provinciale, le modalità di costituzione dei rapporti di lavoro a tempo parziale ed i contingenti massimi del personale che può accedervi sono stabiliti con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione e con il Ministro dell'economia e delle finanze”. Di conseguenza, per effetto delle innovazioni apportate nel 2008 (6), la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale non è più automatica, ma subordinata alla valutazione discrezionale dell’amministrazione ed il dipendente non è più titolare di un diritto, ma di un mero interesse alla trasformazione (7): il legislatore ha, quindi, avvicinato la disciplina del lavoro pubblico a quella del lavoro privato, attribuendo al datore di lavoro pubblico una discrezionalità assai simile a quella del datore di lavoro privato in relazione alle proprie esigenze organizzative. In altre parole, con l’entrata in vigore del decreto legge n. 112/2008, la trasformazione del rapporto richiede il consenso dell’amministrazione, con la conseguenza che l’accordo tra le parti riguarda non soltanto l’articolazione dell’orario ridotto (come avveniva in passato sulla base delle indicazioni contenute nella circolare n. 8/1997 del Dipartimento della funzione pubblica), ma soprattutto l’an ed il quantum della riduzione (8). (6) In generale, sulla evoluzione della disciplina del part time nel settore pubblico nel corso di più di un ventennio, compreso tra il decreto legge n. 726/1984 che lo ha introdotto per la prima volta ed il decreto legge n. 112/2008, BROLLO, Il tramonto del diritto al part time nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Il lavoro nella P.A., 2008, 499 e ss. (7) Al dipendente, infatti, non è più attribuito un diritto soggettivo pieno alla trasformazione del rapporto, ma soltanto una legittima aspettativa, condizionata ad una valutazione datoriale discrezionale. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 225 Inoltre, è stata soppressa la facoltà di differire per un periodo non superiore a sei mesi la trasformazione del rapporto di lavoro nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione ed è stata contestualmente introdotta la previsione del rigetto dell’istanza del dipendente nell’ipotesi in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio (non più necessariamente grave) alla funzionalità dell'amministrazione. Il legislatore ha previsto, quindi, il necessario contemperamento tra le scelte del singolo lavoratore e le esigenze dell’amministrazione, con la conseguenza che quest’ultima può negare, con atto concretamente motivato in relazione ai parametri indicati dalla disposizione, la trasformazione nell’ipotesi di pregiudizio alle proprie esigenze organizzative, ferma restando la già esistente titolarità dello stesso potere nell’ipotesi di sussistenza di conflitto di interessi. Infine, il legislatore del 2008 ha modificato anche il comma 59 del medesimo articolo 1 della legge n. 662/1996 relativo alla destinazione dei risparmi derivanti dalle trasformazioni, prevedendo che “una quota pari al 70 per cento dei predetti risparmi è destinata, secondo le modalità ed i criteri stabiliti dalla contrattazione integrativa, ad incentivare la mobilità del personale esclusivamente per le amministrazioni che dimostrino di aver provveduto ad attivare piani di mobilità e di riallocazione mediante trasferimento di personale da una sede all'altra dell'amministrazione stessa”. Rispetto al quadro normativo fin qui descritto, da ultimo l’articolo 16 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (9) ha introdotto un’innovazione di carattere transitorio e ha previsto che: “In sede di prima applicazione delle disposizioni introdotte dall’articolo 73 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, possono sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati (8) Sul punto, la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica osserva che “la valutazione dell’istanza del dipendente si basa su tre elementi: la capienza dei posti fissati dalla contrattazione collettiva in riferimento alle posizioni della dotazione organica; l’oggetto dell’attività che il dipendente intende svolgere a seguito della trasformazione del rapporto; l’impatto organizzativo della trasformazione”. (9) Sul punto, la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica osserva che “sia l’intervento normativo del 2008 che quello del 2010 sono motivati da stringenti vincoli finanziari, che difficilmente consentono di soddisfare il fabbisogno professionale attraverso le ordinarie procedure di reclutamento e che, pertanto, impongono una valutazione sul miglior utilizzo delle risorse interne all’amministrazione”. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 prima della data di entrata in vigore del citato decreto legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008”. Tale disposizione conferisce al datore di lavoro pubblico un potere di riesame (10), circoscritto temporalmente, sui provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale adottati prima del 25 giugno 2008, data di entrata in vigore del decreto legge n. 112. In altre parole, il c.d. Collegato lavoro ha attribuito alla dirigenza pubblica il potere di rivalutare, con atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico privatizzato (11), i part time derivanti da atti di trasformazione adottati prima del 25 giugno 2008, ossia sotto la vigenza della disposizione che riconosceva in capo al dipendente un diritto alla trasformazione del full time, in ogni caso prevalente rispetto alle esigenze organizzative dell’amministrazione. La ratio della disposizione è, evidentemente, quella di adeguare i part time trasformati automaticamente per effetto dell’originaria previsione della legge n. 662/1996 ed ancora esistenti al nuovo assetto di interessi delineato dal legislatore attraverso l’attribuzione alla dirigenza pubblica del potere di riesame dell’atto di trasformazione del full time e di sua conseguente eventuale revoca e/o modifica. Il c.d. Collegato lavoro, inoltre, ha individuato espressamente due limiti di esercizio del potere di riesame, che deve essere realizzato “entro centottanta giorni” dalla entrata in vigore della legge e che deve avvenire “nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede” (12). E’ evidente che la norma non attribuisce un potere di riesame generalizzato, riguardante cioè tutti i part time derivanti da trasformazione automatica, ma consente di intervenire su singoli atti attraverso una nuova valutazione ed un nuovo atto di gestione del rapporto di lavoro di natura privatistica. All’esito del riesame dei singoli provvedimenti di concessione, nel silenzio della norma, l’amministrazione può determinare la revoca del part time ed il conseguente ritorno del dipendente al rapporto di lavoro a tempo pieno, ovvero la permanenza nel regime di part time, eventualmente modificandone (10) Sul punto, la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica definisce “eccezionale” la scelta normativa di “prevedere un potere di revisione unilaterale del rapporto di lavoro da parte delle amministrazioni, in deroga alle regola generale di determinazione consensuale delle condizioni contrattuali”. (11) Sul punto, per la circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica “la gravosità del potere accordato dalla legge richiede certamente una particolare attenzione nel momento del suo esercizio. In base alla norma, il mutamento delle condizioni del rapporto di lavoro avviene a seguito dell’adozione e della comunicazione di un atto unilaterale da parte dell’amministrazione, non essendo necessario il consenso del dipendente ai fini del perfezionamento di un nuovo contratto”. (12) Sul punto, la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica prevede che “ciò comporta un contraddittorio con l’interessato (…). L’amministrazione, prima di operare la trasformazione del rapporto, deve tener conto non solo della situazione in origine alla base della trasformazione, ma anche della situazione che nel frattempo si è consolidata in capo al lavoratore”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 227 la quantificazione o la distribuzione temporale (13). In applicazione della disciplina appena esaminata, il Ministero della Giustizia ha adottato, in data 24 novembre 2010, una circolare che, sul presupposto che i principi di correttezza e buona fede impongono di considerare che l’atto di revoca del part time incide su posizioni sostanziali acquisite e su eventuali ulteriori impegni assunti dal lavoratore in part time, stabilisce che l’atto di revoca deve essere puntualmente motivato dal dirigente responsabile con riferimento sia al profilo professionale dei lavoratori interessati sia alla specifica posizione rivestita da ciascun dipendente in servizio a tempo parziale (14). I primi contrasti giurisprudenziali sull’applicazione dell’articolo 16 del c.d. Collegato lavoro hanno riguardato proprio alcuni dipendenti di uffici periferici del Ministero della Giustizia ai quali, in applicazione della citata circolare ministeriale del 24 novembre 2010, è stato ricostituito il rapporto di lavoro a tempo pieno con determine direttoriali. In particolare, meritano di essere esaminati e confrontati tra loro due diversi casi: nel primo, si tratta di due ordinanze di segno opposto pronunciate dal Tribunale di Firenze; nel secondo, invece, di un’ordinanza del Tribunale di Trento con cui, per la prima volta, il Giudice del lavoro si è pronunciato a favore di un dipendente pubblico che si è visto revocare il part time in applicazione del c.d. Collegato lavoro. Nel primo caso, il Giudice del lavoro, ha dapprima accolto la domanda della ricorrente con ordinanza del 31 gennaio 2011, ordinando al Ministero della Giustizia di sospendere gli effetti dell’atto di ricostituzione del rapporto di lavoro a tempo pieno, sulla base del presupposto che “la motivazione utilizzata non sembra consentire una valutazione del pregiudizio specifico che l’ufficio verrebbe a subire in conseguenza della prosecuzione da parte della ricorrente del rapporto in part time. Ciò in quanto la circolare richiamata richiede una motivazione dettagliata, cioè contestualizzata alle esigenze proprie del datore di lavoro in relazione alla posizione del lavoratore all’interno dell’ufficio, non potendosi supplire con l’utilizzazione di formule generiche, che non diano effettiva contezza della reale situazione dell’ufficio interessato”. Il Giudice adotta un’impostazione tipicamente formalistica ed afferma che “il tipo di motivazione utilizzata (“gravi difficoltà organizzative ai servizi di cancelleria che impongono una più completa prestazione lavorativa”) , (13) Sul punto, per la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica “la valutazione dell’amministrazione potrebbe riguardare non solo l’opportunità di mantenere il rapporto a tempo parziale, ma anche le modalità della collocazione temporale della prestazione, che potrebbe risultare più conveniente modificare per non pregiudicare il funzionamento dell’amministrazione”. (14) Sul punto, in generale, la recente circolare n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica osserva che “si raccomanda, anche per limitare il rischio di pronunce giudiziali sfavorevoli all’amministrazione, di adottare una motivazione puntuale, evitando l’uso di clausole generali o formule generiche che non sono utili allo scopo”. 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 identica anche per il personale di altri uffici, non è sufficiente a dare atto dell’istruttoria compiuta con riferimento al caso di specie, tale da potersi dire soddisfatti i criteri di correttezza e buona fede richiesti dalla norma di legge”. Per il Giudice, quindi, il Ministero della Giustizia avrebbe violato i criteri di correttezza e buona fede, in quanto la generica motivazione dell’atto di revoca del part time risulterebbe lesiva della circolare del 24 novembre 2010. Avverso tale ordinanza il Ministero della Giustizia ha proposto reclamo, che è stato accolto dal Tribunale di Firenze - sezione lavoro con ordinanza del 7 marzo 2011 “per insussistenza sia del fumus boni iuris che del periculum in mora”. In particolare, il Tribunale osserva che “l’art. 16 della legge n. 183/2010 ha testualmente previsto per le amministrazioni non un particolare obbligo di motivazione formale degli eventuali provvedimenti di revoca dei part time già concessi, ma l’obbligo di osservare, nell’esercizio del potere loro conferito, i principi di correttezza e buona fede. Pertanto, in assenza di un obbligo di motivazione espressa di fonte legislativa, la genericità e/o l’incompletezza della motivazione del provvedimento di revoca dell’orario part time non rendono di per sé la condotta datoriale contraria ai principi di correttezza e buona fede, essendo a ciò necessario che, in esito all’accertamento giudiziale, risulti che nel caso concreto effettivamente non sussistevano ragioni di interesse pubblico idonee a giustificare l’adozione del provvedimento di cui si tratta”. Il Tribunale, ribaltando l’impostazione formalistica del precedente giudizio, afferma infine che “è il difetto di motivazione in senso sostanziale (inesistenza in concreto dei motivi cui la norma subordina la revoca) e non formale (omessa o insufficiente motivazione del provvedimento) a concretare l’inosservanza dei principi di correttezza e buona fede, in ragione della conseguente illogicità, vessatorietà, arbitrarietà della revoca”. Sotto un profilo diverso, merita di essere segnalata la recente articolata ordinanza del 4 maggio 2011 del Tribunale di Trento che, in un caso simile a quello ora esaminato e in accoglimento del ricorso presentato da una dipendente del Ministero della Giustizia avverso il provvedimento di trasformazione del part time in rapporto a tempo pieno ex art. 16 del c.d. Collegato lavoro, lo ha annullato, confermando il decreto inaudita altera parte del 30 marzo 2011. Il Tribunale di Trento non ritiene il comportamento del Ministero della Giustizia contrario ai principi di correttezza e buona fede, in quanto “sia la motivazione richiamata per relationem nel provvedimento ministeriale, come pure quella ulteriormente esposta dal Ministero nel corso del presente procedimento appaiono congrue, puntuali e sufficientemente specifiche, poichè viene data adeguata ragione delle esigenze di servizio che hanno indotto la pubblica amministrazione alla trasformazione del rapporto di lavoro, alla luce delle mansioni svolte e della qualifica ricoperta dalla ricorrente”. Piuttosto il Tribunale si interroga sulla “conformità alla normativa euro- LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 229 pea dell’articolo 16 della legge n. 183/2010, nella parte in cui esso attribuisce alla pubblica amministrazione il potere di trasformare il rapporto di lavoro part time in rapporto di lavoro a tempo pieno, alla sola condizione del rispetto dei principi di correttezza e buona fede, a prescindere dal consenso del lavoratore e quindi anche contro la sua volontà”. Al quesito così formulato il Tribunale risponde nel senso che l’articolo 16 del c.d. Collegato lavoro si pone in insanabile contrasto con la direttiva 15 dicembre 1997, n. 97/81/CE: si tratta, infatti, di “un caso di efficacia diretta di una direttiva, in quanto la direttiva 15 dicembre 1997, n. 97/81/CE impone un obbligo di non fare, prevedendo obblighi sufficientemente precisi ed incondizionati e può essere qualificata come self executing (…). Si tratta di efficacia verticale della direttiva e, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiono incondizionanti e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, tanto se questo non ha trasposto tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, quanto se esso l’ha trasposta in modo adeguato”. In particolare, per il Tribunale di Trento, l’art. 16 citato “discrimina il lavoratore part time, che, a differenza del lavoratore a tempo pieno, rimane soggetto al potere del datore di lavoro pubblico di modificare unilateralmente la durata della prestazione di lavoro” e viola quella parte della direttiva che “impone la presenza del consenso del lavoratore in caso di trasformazione del rapporto”, con la conseguenza che esso deve essere disapplicato in quanto contrastante con l’ordinamento comunitario. In conclusione, quella da ultimo esaminata rappresenta senza dubbio una decisione interessante che, disapplicando la disciplina interna contenuta nel c.d. Collegato lavoro e dando applicazione immediata alla direttiva n. 97/81/CE, rappresenta una dura condanna per il legislatore italiano e si pone come apripista per i numerosi casi di lavoratori pubblici (15) cui è stato revocato, senza il consenso del diretto interessato, il regime di part time in base ad una disposizione di assai dubbia compatibilità con l’ordinamento comunitario. (15) I dipendenti pubblici titolari di part time sono circa 170.000, secondo i dati ISTAT riferiti al quarto trimestre 2010. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Le infrastrutture di comunicazione a banda larga e la disciplina degli aiuti di Stato: gli equilibri delicati della crescita Alessandra Iorio* SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. L’ infrastruttura a banda larga: architrave della crescita europea - 3. I principi guida dell’investimento pubblico: il criterio dell’investitore privato e l’esigenza di colmare il divario digitale: 3.1. L’intervento pubblico nelle aree aperte alla concorrenza; 3.2. L’intervento pubblico come rimedio al divario digitale - 4. Un caso concreto di innovazione e trasformazione nella Provincia autonoma di Trento - 5. Il finanziamento pubblico delle reti informatiche a banda larga e la disciplina degli aiuti di Stato: alcune considerazioni. 1. Introduzione Le infrastrutture a banda larga costituiscono progetti centrali per la crescita delle economie europee, in cui l’innovazione tecnologica necessariamente richiede di essere supportata da infrastrutture in grado di veicolare un servizio di telecomunicazione omogeneo e qualitativamente elevato su tutto il territorio nazionale. In relazione a tali infrastrutture si identificano situazioni di insufficienza dell’investimento privato, in considerazione dei bisogni della collettività e del ruolo di impulso – se non vero e proprio fondamento – della crescita economica basata sulla società dell’informazione (1). In Italia, in base a recenti rilevazioni, la penetrazione della connessione a banda larga è inferiore alla media europea, così come le famiglie che hanno concreto accesso ai servizi di connessione (2). Allo stesso tempo, anche la domanda di servizi internet-based (come evidenzia la frequenza di utilizzo giornaliero e settimanale di internet, servizi di e-banking, TV e radio via internet) da parte della popolazione mostra una bassa propensione. Ciò rappresenta indubbiamente un fattore di resistenza verso forme di investimento privato, riducendo l’interesse economico verso lo sviluppo e l’istallazione di (*) Già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. Il presente lavoro della dott.ssa Iorio rappresenta un estratto dello studio “Public-Private Partnership: il caso delle reti di comunicazione di nuova generazione”, presentato nell’ambito del corso di dottorato di ricerca in “Diritto ed Economia” presso la LUISS Guido Carli. (1) Invero, come sarà illustrato infra, i potenziali benefici della diffusione delle reti a banda larga, nonché i potenziali effetti negativi dell’esclusione di alcune fasce della popolazione dall’accesso a tale infrastruttura, assumono rilevanza nel senso di suggerire una loro qualifica come bene pubblico (sul punto, cfr. PICOT, WERNICK, The Role of Government in Broadband Access, in Telecommunications Policy, 2007, 31, pag. 660-674). (2) Si tratta del 19%, a fronte del 22.9% (media europea). Per quanto riguarda le famiglie, appena il 47% avrebbe accesso ad una connessione a banda larga (contro il 60% europeo). Vedi, EUROPEAN COMMISION, Europe's Digital Competitiveness Report, 2009, vol. 2, COM(2009) 390, disponibile alla pagina http://ec.europa.eu/information_society/eeurope/i2010/docs/annual_report/2009/sec_2009_1104.pdf LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 231 nuove reti (3). Il presente articolo si propone di svolgere alcune riflessioni sul tema della realizzazione delle infrastrutture di comunicazione a banda larga per la fornitura di servizi di accesso internet alla popolazione europea e sulle applicabili regole derivanti dalla disciplina europea degli aiuti di Stato. Nel seguito, dopo alcune brevi considerazioni sull’orientamento europeo e nazionale di sostegno e stimolo alla progressiva innovazione nella fornitura di servizi di connettività a banda larga a cittadini e imprese (par. 2), si descriveranno i principi normativi rilevanti, propri delle regole europee in tema di aiuti di Stato, come sviluppati nell’ambito della prassi decisionale della Commissione europea (par. 3). Quindi, dopo aver brevemente dato atto del progetto della Provincia di Trento di dotarsi di un’infrastruttura di comunicazione di nuova generazione (par. 4), si svolgeranno alcune considerazioni finali sugli sviluppi applicativi del quadro normativo europeo (par. 5). 2. L’ infrastruttura a banda larga: architrave della crescita europea Come noto, il termine banda larga definisce un insieme di tecnologie che consentono di offrire all’utente collegamenti di velocità notevolmente superiore rispetto quelli concessi dalla normale rete telefonica, che per definizione fornisce servizi a “banda stretta” (4). Accanto a tale espressione è oggi diffusa quella di Next Generation Network (“NGN ”) che individua strutture e funzionalità di rete di tipo innovativo (5). In particolare, la rete (3) Recenti stime fornite da Telecom Italia mostrano che gli investimenti richiesti per portare il rimanente 65% della popolazione on-line si aggirerebbe intorno ai 6,5 miliardi di euro. Inoltre, il costo relativo all’introduzione della fibra ottica (che come si vedrà rappresenta l’architettura portante delle reti di nuova generazione, vedi infra, par. 3.2) per raggiungere almeno l’80% della popolazione sarebbe pari a 15 miliardi di euro (vedi AgCom, “Indagine conoscitiva sull'assetto e le prospettive delle nuove reti del sistema delle comunicazioni elettroniche”, settembre 2008, Roma, disponibile alla pagina http://www.comunicazioni.it/binary/min_comunicazioni/comunicati_stampa/Audizione_del_10_settembre. pdf.) (4) Secondo un approccio non tecnico, ma prestazionale, la banda larga può essere definita come “l’insieme di reti e servizi che consentono l’interattività a velocità confortevole per l’utente”. Pur non esistendo una definizione formale, la banda larga fa riferimento all’insieme delle piattaforme composto da fibra ottica, xDSL, wireless - Wi-Fi, HiperLan, Wi-Max, ecc. -, satellite, fino all’UMTS ed al HSDPA, recentemente richiamati dall’AGCOM come tecnologie a banda larga. Cfr. “Linee Guida per i Piani Territoriali per la Banda Larga”, approvate dalla Commissione Permanente per l’Innovazione Tecnologica negli Enti Locali e nelle Regioni e dalla Conferenza Unificata il 20 settembre 2007. L’OCSE, invece, all’interno dei suoi studi e delle sue analisi, utilizza la definizione del CSTB Statunitense (Computer Science and Telecommunication Board), secondo cui “Un accesso locale può essere definito a banda larga se la performance del collegamento non è un fattore limitante all’utilizzo delle applicazioni tecnologiche correnti da parte degli utenti finali”. (5) In accordo con l’ITU-T, una Next Generation Network è così definita: “A Next Generation Network (NGN) is a packet-based network able to provide Telecommunication Services and able to make use of multiple broadband, QoS-enabled transport technologies and in which service-related functions are independent from underlying transport-related technologies. It enables unfettered access for users to networks and to competing service providers and/or services of their choice. It supports gene- 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 NGN si caratterizza per l’utilizzo universale del protocollo IP, qualunque sia il tipo di informazione da trasmettere (6). L’utilizzo di tale protocollo costituisce la premessa per cui la rete fissa, mobile e broadcast tenderanno ad un processo di integrazione progressivo, fino alla completa convergenza (7). Dal punto di vista delle imprese operanti nel settore, i sistemi di nuova generazione favoriscono gli operatori che potranno offrire su un’unica infrastruttura una pluralità di servizi distinti con predefiniti livelli di qualità. Inoltre, l’utilizzo delle nuove reti determina inevitabilmente una riduzione dei relativi costi di gestione, nonché un miglioramento dei processi di innovazione di prodotto e una riduzione dei rischi legati all’incertezza della domanda. La convergenza, poi, di molteplici servizi su un’unica piattaforma può incentivare la formulazione di offerte commerciali congiunte (triple play, comprensive di servizi di telefonia, Internet veloce e IP-TV, e quadruple play, che ai precedenti servizi aggiungono la telefonia mobile), per le quali si registra una crescente manifestazione di interesse da parte degli utenti (8). L’introduzione della connettività a banda larga stimola il descritto scenario evolutivo e sostiene il progresso della società dell’informazione. In tale prospettiva, l’accesso veloce a internet è la precondizione perché possa manifestarsi il “ruolo cruciale che la rete svolgerà nella ripresa economica, in quanto piattaforma di sostegno all’innovazione in tutti i settori economici, ralized mobility which will allow consistent and ubiquitous provision of services to users” (cfr. le raccomandazioni Y.2001 “General overview of NGN” - 12/2004 e Y.2011 “General principles and general reference model for Next Generation Networks” - 10/2004). (6) Nello specifico, nell’acronimo NGN tendono a concentrarsi diversi aspetti di carattere tecnologico e architetturale ed in particolare: a) convergenza fisso-mobile e trasparenza della rete per qualunque tipo di servizio (voce, video, dati ecc.); b) impiego universale dell’architettura di trasporto con commutazione a “pacchetti” – e tecniche di QoS (Quality of Service) per la priorità delle informazioni in tempo reale – ed uso generalizzato del protocollo IP per tutti i tipi di informazioni trasmesse; c) indipendenza del livello di servizio dallo strato fisico della rete; d) intelligenza di rete opportunamente distribuita con particolare attenzione alla sicurezza; e) notevole valore aggiunto dei servizi offerti dalla stessa rete (con un’estensiva virtualizzazione in rete di risorse informatiche quali backup, sicurezza, identificazione, ecc.); f) adozione di bande sempre più larghe per la richiesta di servizi video (anche HDTV) e per altri servizi innovativi. (7) Le reti broadcast sono dotate di un unico “canale” di comunicazione che è condiviso da tutti gli elaboratori. Brevi messaggi (spesso chiamati pacchetti) inviati da un elaboratore sono ricevuti da tutti gli altri elaboratori. Un indirizzo all'interno del pacchetto specifica il destinatario. Quando un elaboratore riceve un pacchetto, esamina l'indirizzo di destinazione; se questo coincide col proprio indirizzo il pacchetto viene elaborato, altrimenti viene ignorato. Le reti broadcast, in genere, consentono anche di inviare un pacchetto a tutti gli altri elaboratori, usando un opportuno indirizzo (broadcasting). In tal caso tutti prendono in considerazione il pacchetto. (8) L’evolversi di questo nuovo fenomeno pone necessariamente significative pressioni sulle modalità di accesso alla rete, che si ritiene debbano essere supportate da un’adeguata capacità di banda. Infatti, attualmente, si adopera un’infrastruttura differente per ogni tipo di servizio offerto; al contrario con le NGN un’unica rete di trasporto è idonea a coinvolgere tutte le tipologie di servizio. Il servizio diventerà, così, indipendente dalla rete senza più differenze tra reti fisse e mobili e senza soluzione di continuità infrastrutturale. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 233 esattamente come avvenne a suo tempo con l’energia elettrica e i trasporti”( 9). Sul piano strettamente economico, il fenomeno di “digitalizzazione” favorisce l’ampliamento dei mercati nelle loro dimensioni e la velocizzazione dei loro meccanismi di funzionamento. Per i singoli utenti la disponibilità di servizi a banda larga è un presupposto fondamentale per moltiplicare lo scambio e la circolazione delle informazioni, per favorire i processi di apprendimento e di relazione, per accrescere, dunque, la predisposizione di tecnologie, di servizi innovativi e il livello di informatizzazione personale (10). Con particolare riferimento alle regioni a basso tasso di crescita, la Commissione europea considera favorevolmente l’investimento in infrastrutture di banda larga, come motore del loro sviluppo economico. A fronte dell’assenza di un’offerta di tali servizi da parte del mercato, è peraltro auspicabile l’intervento statale nella realizzazione dell’infrastruttura, mediante l’erogazione di misure di sussidio alla realizzazione di un’“infrastruttura a banda larga universale (...) aperta a tutti gli altri fornitori, [che] ponga rimedio a un fallimento del mercato e garantisca la connessione a tutti gli utenti della regione interessata ” (11). Certo, i progetti di realizzazione di infrastrutture NGN sono impegnativi e di lungo periodo: le più recenti rilevazioni dello stadio di sviluppo europeo delle reti di nuova generazione prevedono un investimento di circa 300 miliardi di euro su un arco temporale di almeno 15 anni (12). Tale processo si (9) Cfr. Comunicazione della Commissione europea, La banda larga in Europa: investire nella crescita indotta dalla tecnologia digitale, COME(2010)472, Bruxelles, 20 settembre 2010. Al riguardo, e con particolare riferimento al settore delle comunicazioni, l’AgCom ha sottolineato come lo stesso “è abbastanza maturo e, in una fase di recessione, i livelli occupazionali non possono che scendere. Lo sviluppo della banda larga può, dunque, contribuire a creare nuovi posti di lavoro” (“Il Sole 24 Ore” del 10 marzo 2010, Banda larga al via in giugno). (10) Anche in relazione alla pubblica amministrazione, i cambiamenti prodotti dai fenomeni di digitalizzazione e di connettività a rete hanno modificato in modo irreversibile i processi interni e l’organizzazione della sua struttura. Tanto a livello centrale, quanto periferico, la banda larga può consentire una migliore realizzazione nella gestione dei compiti propri della pubblica amministrazione, tramite l’utilizzo e la diffusione di nuovi sistemi informativi finalizzati a rendere più efficiente e semplice il rapporto e l’interazione dei cittadini con le strutture pubbliche di riferimento. Inoltre, attraverso l’uso di infrastrutture avanzate di comunicazione, sarà possibile innestare procedure telematiche garantite da sicurezza e tracciabilità idonee a valorizzare ancor di più l’opportunità di informatizzare e standardizzare le relazioni tra le amministrazioni. (11) Cfr. la Comunicazione della Commissione, Orientamenti comunitari relativi all’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato in relazione allo sviluppo rapido di reti a banda larga, in GUUE C235/7 del 30 settembre 2009, par. 22. Cfr. anche la decisione della Commissione europea n. 381/2004 del 16 novembre 2004 (France-Projet de resau de Telecommunication haut debit des Pyrenees) e n. 382/2004 del 3 maggio 2005, (France-Mise en place d’une infrstructure haut-debit sur le territoire de la région Limousin). (12) Si veda l’analisi condotta dalla società Mc Kinsey, richiamata dalla Commissione europea nel MEMO/08/572, “Broadband: Commission consults on regulatory strategy to promote high-speed Next Generation Access networks in Europe”. 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 articolerà in primo luogo, mediante l’introduzione di una rete di trasporto a lunga distanza (core Network), e, successivamente, di una rete di accesso a livello locale (access Networks). Quest’ultimo rappresenta l’aspetto maggiormente critico, comportando la realizzazione di infrastrutture per la posa dei cavi che, capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale, richiedono investimenti elevati e tempi di realizzazione lunghi. È in tale scenario che sorge, quindi, la necessità di effettuare investimenti mirati, nonché ragionati, che sappiano sfruttare le capacità realizzative e le risorse degli operatori pubblici e privati. Al contempo, appare altresì necessario che gli interventi dello Stato a sostegno non producano effetti negativi sul livello degli investimenti privati, scoraggiandoli e portando ad un’allocazione non efficiente delle risorse (13). Proprio il raggiungimento di tale equilibrio richiede una delicata interazione tra le normative regolamentari e i principi di diritto della concorrenza applicabili alle forme di finanziamento pubblico degli investimenti in reti a banda larga. 3. I principi guida dell’investimento pubblico: il criterio dell’investitore privato e l’esigenza di colmare il divario digitale 3.1. L’intervento pubblico nelle aree aperte alla concorrenza Sulla base dell’impulso comunitario (14) - e nell’attesa di una definizione compiuta delle regole in materia di sviluppo e accesso delle reti NGN in Italia (15) -, si è assistito nella seconda metà del 2010 ad alcune iniziative di ispirazione governativa che hanno condotto i principali operatori di telecomunica- (13) Ci si riferisce alla possibilità che l’intervento pubblico, lungi dal costituire un fattore di stimolo alla realizzazione di reti di nuova generazione, possa tradursi in un ostacolo al loro sviluppo, nella misura in cui l’intervento statale eserciti un effetto distorsivo sugli incentivi privati a investire nella rete NGN. (14) A livello europeo, il quadro di riferimento contenente i principi regolamentari è in via di progressiva definizione. La Commissione ha infatti adottato una serie di misure finalizzate a favorire l'introduzione e l'adozione della banda larga veloce e ultraveloce che hanno trovato un momento di auspicabile sintesi nella pubblicazione della raccomandazione del 20 settembre 2010, riguardante l'accesso regolato alle reti di NGA (Raccomandazione della Commissione del 20 settembre 2010 relativa all’accesso regolamentato alle reti di accesso di nuova generazione (NGA) (2010/572/UE), in GUUE n. L 251 del 25 settembre 2010 pag. 35). (15) A livello nazionale, il processo di definizione delle regole che sono deputate ad accompagnare la transizione verso la rete NGN è tuttora in corso. Al riguardo assumono rilevanza le linee guida del “Comitato NGN Italia” (organo consultivo del Consiglio dell’AgCom previsto dalla citata legge n. 69 del 2009 e istituito con la delibera AgCom n. 731/09/CONS) e lo schema di delibera recante la “[c]onsultazione pubblica in materia di regolamentazione dei servizi di accesso alle reti di nuova generazione”, attualmente all’esame della Commissione europea (il documento per la consultazione è stato pubblicato in data 19 gennaio 2011, con Delibera 1/11/CONS. A seguito della consultazione del mercato, l’Autorità ha pubblicato uno schema di regolamento, inviato alla Commissione europea e sottoposto ad una nuova consultazione con delibera n. 301/11/CONS “Integrazione della consultazione pubblica in materia di regolamentazione dei servizi di accesso alle reti di nuova generazione” del 23 maggio 2011). LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 235 zioni italiani a siglare un memorandum of understanding (“MOU”) relativo alla costituzione di una società mista denominata “Italia digitale”, a partecipazione pubblico-privata, per la realizzazione di una infrastruttura NGN (16). Inoltre, a livello più propriamente locale, appaiono sviluppi meritevoli di approfondimento quelli che hanno interessato la provincia autonoma di Trento, in cui, iniziative fondate sulla cooperazione tra pubblico e privato hanno consentito la progettazione e attuazione di investimenti in una rete NGN (vedi, infra, par. 4). In tale prospettiva, la via maestra da percorrere appare quella di un approccio di sistema che si poggi su un complesso di relazioni tra i vari attori locali (enti, imprese di comunicazione e cittadini) al fine di introdurre prodotti ad alto valore aggiunto nel mercato locale, valorizzando le competenze delle persone e crei nuove abilità nel governo e nell’uso delle tecnologie ICT. In seguito ad un periodo caratterizzato dall’elaborazione di incentivi di stimolo alla domanda di servizi di connessione a banda larga da parte dell’utente (17) e, specialmente, in seguito al prevalente indirizzo affermatosi in sede comunitaria, nonché in altri paesi europei (18), gradualmente si sono imposte politiche di sostegno all’offerta di servizi e infrastrutture NGN, che mirano ad una crescita del livello complessivo di infrastrutturazione del Paese. Si afferma, in particolare, la consapevolezza che la complessità delle implicazioni sottese allo sviluppo della banda larga ed ultra larga richieda un inevitabile piano di azione unitario da adottare a livello nazionale attraverso l’impiego delle capacità e delle potenzialità proprie degli investitori privati unitamente agli investimenti pubblici. Non a caso, la Commissione europea, che più volte ha sottolineato la necessità della banda larga per lo sviluppo delle economie nazionali e locali degli Stati membri, a partire dal 2003, ha esaltato l’importanza degli investimenti pubblici e degli accordi con soggetti privati, selezionati mediante procedure competitive, aperte e trasparenti (19). (16) Ci si riferisce all’accordo siglato tra il Ministero dello sviluppo economico ed i principali operatori di telecomunicazioni che istituisce una forma di cooperazione pubblico-privata per la realizzazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo delle reti NGN. L’accordo è stato annunciato al pubblico in data 10 novembre 2010 (cfr. “Ngn, gli operatori si uniscono. Una società per la nuova rete”, La Repubblica, 10 novembre 2010). Il testo firmato dalle parti è disponibile alla pagina internet: www.governo. it/GovernoInforma/Dossier/banda_ultralarga/MOU_20101110.pdf (17) Ci si riferisce, in particolare, alle politiche di sviluppo della banda larga secondo la tecnologia x-DSL avvenuti nel periodo 2003-2005 e consistenti nell’utilizzo di contributi statali e altre forme di incentivazione indiretta. Cfr. al riguardo NICITA, op. cit., pag. 23. (18) Si veda, ad esempio, quanto avvenuto in Scozia con il progetto “Broadband for Scotland”, in Inghilterra, con i progetti “Digital Challenge” e “Corridor Manchester” e in Galles, con “Digital Region”. In tali esperienze, la creazione di una infrastruttura a banda larga si fonda su un accordo tra l’ente locale di riferimento e un operatore privato. Per una loro descrizione dettagliata, cfr. NICITA, op. cit., pag. 64-65. (19) Per un elenco delle decisioni in tema di misure statali di sostegno a progetti di costruzione di reti a banda larga, vedi NICOLAIDES, KLEIS, The case of Public Funding of Infrastructure and broad- 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 In particolare, la Commissione ritiene che i modelli di PPP costituiscano “strumenti effettivi per realizzare progetti di infrastrutture, fornire servizi pubblici e innovare più liberamente nel contesto degli sforzi di risanamento imposti dalla recente crisi finanziaria e economica” (20). Con particolare riferimento ai progetti di realizzazione di infrastrutture a banda larga, la Commissione mostra di valorizzare l’elemento tipico delle PPP costituito dalla scelta del socio privato mediante una procedura di gara, aperta, trasparente e non discriminatoria (21) . Negli orientamenti pubblicati in tema di applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato in relazione allo sviluppo rapido delle reti a larga banda (gli “Orientamenti”), la Commissione muove dal riconoscimento dell’importanza strategica della banda larga, senza trascurare l’esigenza di garantire che gli aiuti di Stato non vadano a sostituire l’iniziativa privata (22). Al riguardo, gli Orientamenti procedono ad indirizzare le iniziative di PPP secondo specifici principi attuativi. In particolare, “sebbene la Commissione veda con estremo favore l'intervento pubblico a sostegno dello sviluppo della banda larga nelle aree rurali e scarsamente servite, la sua posizione è invece più critica per quanto riguarda misure di aiuto a beneficio di zone in cui è già presente un’infrastruttura a banda larga ed in cui vigono condizioni band networks, in ESTAL 4/207, pag. 632 e ss.; v. anche le decisioni riportate alla pagina web della Commissione europea specificamente dedicata: http://ec.europa.eu/competition/sectors/telecommunications/ broadband_decisions.pdf. Nella maggior parte dei casi, le misure oggetto d’esame sono state ritenute istitutive di aiuti compatibili con il mercato comune ai sensi e per gli effetti dell’art. 107(3)(c) TFUE (aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche senza alterare le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse), ovvero coperti dalla deroga stabilita dall’art. 106(2) TFUE (nel caso di aiuti conferiti, subordinatamente al rispetto di certe condizioni, ad imprese incaricate della gestione di un servizio d’interesse economico generale): v. Comunicazione della Commissione 30 settembre 2009 sugli orientamenti comunitari relativi all’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato in relazione allo sviluppo rapido delle reti a larga banda, (GUUE C 235/9), secondo cui, “come dimostra la prassi decisionale della Commissione in materia di aiuti di Stato nel settore della banda larga, l’intervento pubblico a sostegno di progetti di banda larga implica spesso la presenza di aiuti di Stato ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 1, del trattato CE” (divenuto art. 107(1) TFUE). In due casi, tuttavia, la Commissione è giunta a diverse conclusioni: nel caso Appingedam (dec. 16 dicembre 2005, Aiuto di Stato N 59/2005 – Paesi Bassi), la misura è stata vietata in quanto qualificata come aiuto di Stato incompatibile, mentre nel citato caso Citynet Amsterdam è stato escluso che l’intervento oggetto d’esame comportasse elementi di aiuto. (20) Cfr. la Comunicazione della Commissione europea, “Mobilising private and public investment for recovery and long-term structural change: developing Public Private Partnerships” COM(2009)615, Bruxelles 19 novembre 2009, para. 1. (21) In particolare, la procedura di gara “è un metodo per minimizzare il vantaggio potenzialmente insito negli aiuti di Stato e per ridurre, al tempo stesso, la natura selettiva della misura dal momento che la scelta del beneficiario non è predeterminata” (Comunicazione della Commissione, Orientamenti comunitari relativi all’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato in relazione allo sviluppo rapido di reti a banda larga, in GUUE C235/7 del 30 settembre 2009, par. 51) (22) Cfr. la Comunicazione della Commissione, Orientamenti comunitari relativi all’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato in relazione allo sviluppo rapido di reti a banda larga, in GUUE C235/7 del 30 settembre 2009, par. 22. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 237 di concorrenza” (23). Quindi, muovendo dalla premessa per cui, nella larga maggioranza dei casi, le misure statali in tali aree comportano aiuti di Stato, la Commissione procede ad illustrare i casi in cui ciò non avviene, riportandosi essenzialmente alla prassi decisionale sviluppatasi nell’applicazione del criterio dell’investitore privato in economia di mercato (cd. “market economy investor principle”; “MEIP”) e dell’art. 106(2) TFUE (24). Secondo tale impostazione, il criterio guida per escludere la presenza di aiuti di stato nell’ipotesi di costituzione di una società mista con una partecipazione statale è valutare se “i capitali [siano] messi a disposizione di un’impresa, direttamente o indirettamente, da parte dello Stato, in circostanze che corrispondono alle normali condizioni del mercato” (25). Tale posizione assume invero significato in relazione alla previsione di instaurare forme di PPP per la realizzazione di progetti infrastrutturali in zone caratterizzate da un divario digitale e che presentano un’assenza di prospettive di ritorno economico (26). La Commissione mostra di ritenere soddisfatto il criterio dell’investitore privato - e di ammettere, quindi, la possibilità per un’impresa a composizione mista (con uno o più partner privati) di avvalersi della partecipazione statale - qualora siano presenti determinate condizioni. Queste ultime devono essere tali da indicare, in maniera precisa e univoca, che l’apporto di capitale pubblico in un’impresa abbia luogo in circostanze che sarebbero accettabili per un operatore razionale e avveduto in economia di mercato. Ciò comporta, peraltro, che le motivazioni dello Stato o dell’ente pubblico che effettua l’investimento devono essere essenzialmente commerciali ed estranee a qualsiasi obiettivo di politica industriale, economica o sociale (27). (23) Orientamenti, cit. par. 9. (24) La Commissione afferma, con riferimento al MEIP e alla decisione Citynet, che “la conformità di un investimento pubblico con le condizioni di mercato va dimostrata in modo accurato ed esaustivo, in virtù di una partecipazione significativa di investitori privati oppure dell’esistenza di un solido piano d’attività che mostri un utile adeguato sul capitale investito. Quando investitori privati partecipano a un progetto, la conditio sine qua non è che questi si assumeranno il rischio commerciale connesso all’investimento alle stesse condizioni e negli stessi termini dell’investitore pubblico” (Orientamenti, par. 19). La decisione Citynet (n. C 53/2006 del 11 dicembre 2007) riguardava la decisione del comune di Amsterdam di investire nello strato passivo della rete insieme a due investitori privati e a cinque società di edilizia popolare. L’infrastruttura passiva era di proprietà di un soggetto giuridico separato preposto alla gestione, il quale era controllato per un terzo dal comune di Amsterdam, per un terzo da due investitori privati («ING Real Estate» e «Reggefiber») e per la rimanente quota azionaria dalle società di edilizia popolare. (25) Orientamenti, par. 18. (26) In una delle prime decisioni di incompatibilità, la Commissione mostra di non ritenere applicabile il criterio dell’investitore di mercato nel caso in cui l’intervento statale si giustifica in ragione delle scarse o ridotte prospettive di remunerazione dell’investimento. Cfr. la decisione del 19 luglio 2006, nel caso C 35/2005, “Broadband development in Appingedam”. (27) Ne discende che la struttura e le prospettive future della società nella quale si effettua l’investimento devono esser tali da far prevedere entro un lasso di tempo ragionevole una redditività che 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Ripercorrendo la prassi decisionale in materia di MEIP, va escluso che l’intervento delle autorità pubbliche nel capitale di un’impresa, sotto qualsiasi forma, abbia natura di aiuto di Stato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 107 TFUE, se risulta che, in circostanze analoghe, un investitore privato di dimensioni paragonabili a quelle degli enti che gestiscono il settore pubblico avrebbe effettuato conferimenti di capitali di simile entità, tenuto conto in particolare delle informazioni disponibili e degli sviluppi prevedibili alla data dei detti conferimenti. In altre parole, per stabilire se lo Stato abbia adottato o no il comportamento di un investitore avveduto in un’economia di mercato, occorre porsi nel contesto dell’epoca in cui sono state adottate le misure di sostegno finanziario, al fine di valutare la razionalità economica del comportamento dello Stato, e astenersi da qualsiasi valutazione fondata su una situazione successiva (28). Secondo la giurisprudenza, si è invece in presenza di un aiuto di Stato qualora l’intervento in questione – anche se, in ipotesi, “destinato ad investimenti produttivi” (29) – prescinda da qualsiasi prospettiva di redditività, anche a lungo termine, e pertanto un ipotetico investitore privato non lo avrebbe avviato (30). La Corte ha anche chiarito che il comportamento dell’ipotetico investitore privato, al quale dev’essere raffrontato l’intervento dell’investitore pubblico, non è necessariamente quello del comune investitore che colloca capitali in funzione della loro capacità di produrre reddito a termine più o meno breve, potendo esso corrispondere anche a quello di una holding privata o di un gruppo imprenditoriale privato che persegue una politica strutturale, globale o settoriale, guidata da prospettive di redditività a più lungo termine (31). potrà essere considerata normale se paragonata ad un’analoga impresa interamente privata. L’ipotetico investitore privato operante nelle normali condizioni di una economia di mercato fornirà di norma capitale di rischio se il valore attuale netto dei flussi di cassa attesi dall’investimento progettato (“Si tratta dei flussi di cassa futuri scontati in base al costo marginale dei prestiti o al costo del capitale per l’impresa”: Orientamenti aviazione, nota 28), che spetteranno all’investitore in forma di dividendi e/o di incrementi di capitale, debitamente corretti per tener conto del rischio, è “superiore al costo del nuovo apporto”. (28) Sentenza della Corte 16 maggio 2002, Francia/Commissione (“Stardust Marine”), causa C- 482/99, Racc. pag. I-4397, punti 68, 70 e 71. La Corte ha concluso che la Commissione aveva fatto un’erronea applicazione del MEIP in quanto la decisione controversa, annullata, non recava alcuna indicazione relativa al carattere avveduto o meno delle misure di finanziamento in esame nel contesto dell’epoca, sulla base degli elementi disponibili in ciascuno degli anni rilevanti, che tenesse conto, in particolare, della situazione finanziaria della Stardust, della sua posizione sul mercato in quanto società in fase di avvio, nonché delle prospettive di evoluzione di tale mercato. (29) Sent. 3 ottobre 1991, Italia/Commissione (“Aluminia e Comsal”), causa C-261/89, Racc. pag. I-4437, punto 9. (30) Come nel caso di un conferimento di capitale pubblico a favore di imprese fortemente indebitate (in misura ben superiore al fatturato) e che avevano subito perdite continue e rilevanti durante il periodo immediatamente precedente [sent. Italia/Commissione (“Aluminia e Comsal”), cit., punti 10- 14]); ovvero nel caso di un conferimento di capitale pubblico destinato soltanto, in assenza di una piano di ristrutturazione dell’impresa beneficiaria in perdita, ad azzerare i suoi debiti per assicurarne la sopravvivenza [sent. 21 marzo 1991, Italia/Commissione (“Alfa Romeo”), causa C-305/89, Racc. pag. I- 1603, punto 22]. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 239 Per quanto riguarda più specificamente l’ipotesi della costituzione di una nuova impresa con la partecipazione di uno o più partner privati, la Commissione esclude la sussistenza di un aiuto qualora constati che risultano soddisfatte le condizioni seguenti: i) l’investimento degli operatori privati ha un rilevanza economica effettiva; ii) l’investimento è effettuato da tutte le parti contemporaneamente; iii) le condizioni dell’investimento sono identiche per tutti gli azionisti; iv) non sussistono altri rapporti tra lo Stato, gli investitori privati e il beneficiario al di fuori dell’investimento in questione, tali da far dubitare che la semplice parità delle condizioni di investimento sia sufficiente ad assicurare il rispetto del MEIP, e v) il piano aziendale della società di nuova costituzione appare solido e tale da rendere credibile un rapporto vantaggioso tra i rischi inerenti all’investimento e il prevedibile ritorno dello stesso (32). Soffermandosi ulteriormente su tali requisiti, merita rilevare che il riferimento alla rilevanza economica effettiva della partecipazione privata all'investimento complessivo e all’analogia delle condizioni alle quali l’investimento privato e quello pubblico devono essere effettuati - sub i) e iii) -, dev’essere valutata in termini sia assoluti sia relativi. Ne consegue che l’investimento privato deve rappresentare una porzione significativa dell’investimento totale e, allo stesso tempo, costituire un apporto rilevante in relazione alla potenza finanziaria del singolo investitore. La condizione risulta indubbiamente soddisfatta nel caso in cui l’investimento sia sostenuto equamente dalle parti pubblica e privata (50-50%), ma un simile rapporto non costituisce un requisito indispensabile per escludere che il MEIP sia rispettato. La Commissione si è infatti più volte pronunciata nel senso della conformità al MEIP di acquisizioni da parte di privati di partecipazioni al capitale minoritarie (33), nella misura in cui gli altri criteri risultavano soddisfatti. Nell’ambito della costituzione di una società a partecipazione pubblicoprivata, attiva nello sviluppo delle infrastrutture necessarie alla realizzazione di nuove reti di accesso, si può quindi prevedere che il conferimento da parte del partner tecnologico delle proprie infrastrutture di accesso (cavidotti e fibra) (31) Sent. 14 settembre 1994, Spagna/Commissione, causa C-42/93, Racc. pag. I-1475, punti 12-14. (32) Ex multis, decisione C 53/06 (ex N 262/05) “Paesi Bassi (Citynet Amsterdam)”, par. 89; nonché le decisioni EC/2006/621, “on the State aid implemented by France for France Télécom” (GU L 257, 20 settembre 2006, pp. 11-67) e la Comunicazione della Commissione 93/C 307/03 sull’applicazione degli articoli 92 e 93 del Trattato CEE alle imprese pubbliche nel settore industriale (GU C 307, 13 novembre 1993, p. 3, par. 2). Sul punto, vedi anche NORBERT GAÁL, LAMBROS PAPADIAS and ALEXANDER RIEDL, Citynet Amsterdam: an application of the Market Economy Investor Principle in the electronic communications sector, in Competition Policy Newsletter, 2008/1. (33) Cfr. le decisioni della Commissione del 17 agosto 2000, N 233/2000 “Italia (Terme di Castrocaro S.p.A.)”, in cui la partecipazione privata all’investimento era pari al 36%; e del 13 marzo 2000, N 132/99 “Italia (Parco Navi S.p.A.)”, in cui l’intervento in questione prevedeva l’acquisto da parte del privato di una partecipazione di minoranza del 42%. V. anche “Citynet Amsterdam”, cit., in cui l’apporto degli investitori privati era pari al 33%, mentre il resto dell’investimento proveniva direttamente o indirettamente da risorse pubbliche. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 o del loro diritto di utilizzo possa essere qualificato, nel quadro dell’investimento complessivo, un apporto di significativa rilevanza economica sia in termini assoluti che in termini relativi, pur non dovendosi necessariamente giungere ad un valore pari al 50% del valore totale. Inoltre, le quote di partecipazione nella società veicolo dovranno riflettere le percentuali del contributo delle parti nell’investimento; analoga ripartizione dovrà essere rispettata anche nelle previsioni relative alla divisione degli utili o all’attribuzione dei diritti di voto e altri diritti sociali. Con riferimento alla condizione sub ii) relativa alla simultaneità degli investimenti pubblico e privato, essa può dirsi soddisfatta anche in presenza di pre-investimenti a carico della sola parte pubblica, purché siano di entità limitata e sia prevista una ripartizione successiva di tali oneri tra tutti gli investitori coinvolti. Nella specie, il rispetto del MEIP non sarebbe dunque escluso nel caso in cui, ad esempio, in via preliminare, l’ente pubblico proceda ad effettuare studi di fattibilità in vista della costituzione della società e della costruzione della rete, a fronte di un successivo rimborso della parte privata (proporzionale alla propria quota nell’investimento) delle spese di pianificazione eventualmente sostenute. Da ultimo, la Commissione mostra di attribuire grande rilevanza, nella valutazione del rispetto del MEIP nei casi di costituzione di una nuova società mista, alla solidità del suo business plan (sub v) supra). A tal fine, il documento di pianificazione dovrà essere predisposto in maniera accurata, giustificando fondatamente le credibili probabilità di un ritorno dell’investimento nel lungo termine per l’ente investitore, sì da giustificare l’investimento anche per un ipotetico operatore di mercato che agisca sulla base di mere considerazioni commerciali (34). A tale proposito, l’eventuale previsione dell’uscita dell’ente pubblico dall’azionariato della società mista, a una data predeterminata ex ante, costituirebbe oggetto di scrutinio rigoroso. Tempi e modalità di tale uscita dovrebbero comunque essere tali da consentire all’investitore pubblico un adeguato profitto a fronte dell’ingente investimento realizzato, fermo restando che anche la vendita della partecipazione della PAT dovrà aver luogo a condizioni di mercato (35). (34) E’ pertanto verosimile che, in caso di notifica, la Commissione procederebbe ad analizzare in dettaglio gli indicatori finanziari, il tasso di penetrazione, i prezzi praticabili per lo sfruttamento dell’infrastruttura, i costi dell’investimento nonché il valore residuo della rete (cfr. la decisione “Citynet Amsterdami”, sup. cit.). (35) Cfr., ad esempio, la decisione 14 ottobre 2004, N 342/2004 “Italia (Sviluppo Italia S.p.A./Valle del Leo S.p.A.)”, concernente la sottoscrizione di un prestito obbligazionario convertibile e l’acquisizione di una partecipazione di minoranza (20%, con un investimento di € 1.500.000) da parte di Sviluppo Italia nella società Valle del Leo; per l’intervento di Sviluppo Italia era prevista una durata limitata (2005-2010), con la previsione di un meccanismo di garanzia (mandato a vendere o pegno) per assicurare il riacquisto della partecipazione detenuta da Sviluppo Italia da parte degli azionisti privati di maggioranza (“La par- LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 241 3.2. L’intervento pubblico come rimedio al divario digitale La Commissione ha, poi, avuto modo di precisare come, a determinate condizioni, gli aiuti di Stato possano rappresentare strumenti efficaci per realizzare obiettivi di interesse economico generale. In particolare, con il sostegno statale è possibile adottare misure correttive finalizzate a correggere i fallimenti del mercato, a migliorare il funzionamento dei mercati, nonché a rafforzare la competitività. In particolare, un intervento pubblico finalizzato allo sviluppo e al rafforzamento della banda larga ed ultra larga potrebbe favorire la riduzione del “divario digitale” tra le diverse aree, andando a incidere sulla situazione di sottosviluppo presente in talune zone marginali di un territorio. Ciò, peraltro, si inserisce nel contesto delle politiche comunitarie relative ai fondi strutturali. Ai fini del perseguimento di una comune politica di digitalizzazione delle aree territoriali arretrate, è previsto lo stanziamento di specifici fondi europei e nazionali (36). Tra questi, degno di rilievo è lo stanziamento di fondi nazionali mediante il Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS), previsto dalla legge n. 433 del 21 dicembre 2001, finalizzati alla realizzazione di interventi nelle aree sottoutilizzate (37). Tali disponibilità dovranno essere veicolate attraverso una politica regionale nazionale che assicuri da un lato, l’equa ripartizione dei fondi in maniera proporzionale alle necessità delle varie aree, dall’altro, un adeguato impulso all’attuazione degli interventi strutturali mediante l’inserimento degli stessi in programmazione e la compartecipazione con fondi privati. A tal fine un ruolo particolarmente incisivo dovrebbe essere ricoperto tecipazione sarà temporanea. È previsto un sistema di way-out che consiste nell’esercizio di una put option da parte di Sviluppo Italia e nella concessione di una call option ai soci di maggioranza, assoggettate alle condizioni descritte di seguito. [La put option] è esercitabile da parte di Sviluppo Italia dal 1° gennaio 2010 al 31 dicembre dello stesso anno, mediante il riacquisto della partecipazione da parte dei soci di maggioranza, ad un valore parametrato al patrimonio netto certificato alla fine del quinto anno di permanenza di Sviluppo Italia nel capitale di Valle del Leo. Il valore di riacquisto sarà compreso tra un floor, pari al valore di esborso maggiorato di interessi calcolati all’Euribor 6 mesi + 2%, ed un cap, pari al valore di esborso maggiorato di interessi calcolati all’Euribor 6 mesi + 5,5% (attualmente il 7,7% circa). Le autorità italiane hanno garantito che il floor non sarà mai inferiore al tasso di riferimento UE (attualmente il 4,43% per il 2004). Questi tassi risultano coerenti con il tasso di rendimento interno (IRR) previsto, corrispondente a circa il 5,3% annuo. [La call option] è esercitabile da parte dei soci di maggioranza dal 1° gennaio 2009 al 31 dicembre dello stesso anno, ad un prezzo pari al valore di esborso di Sviluppo Italia maggiorato dell’Euribor 6 mesi + 5,5 punti percentuali”). (36) Cfr. l’art. 1, par. 2, del Regolamento CE 473/2009/CE, che definisce le modalità di impiego dei fondi sul sostegno allo sviluppo rurale, nell’ambito del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (“FEASR”). Vedi, al riguardo, anche la Commissione europea, Agenda digitale: le ricadute pratiche delle misure adottate dalla Commissione per diffondere la banda larga veloce e ultraveloce in Europa, comunicato stampa, MEMO/10/426, Bruxelles, 20 settembre 2010. (37) Attuato con delibera CIPE n. 121/2001 del 21 dicembre 2001, con cui vengono definiti i piani di investimenti ripartiti in base agli operatori coinvolti, successivamente rimodulati con delibera CIPE n. 17/2003, del 9 maggio 2003. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dagli accordi di programma quadro come strumenti attuativi delle Intese istituzionali di programma. Nell’ambito del proprio accordo di programma, le Regioni potranno indicare gli interventi da attuare e le risorse finanziarie occorrenti con la specifica previsione delle risorse reperite da fondi privati mediante gli strumenti di partenariato pubblico-privato. Sarà, poi, compito degli enti locali territoriali bandire gli avvisi e le gare per la ricerca di partner privati. Al riguardo, è opportuno evidenziare che per evitare un’eccessiva parcellizzazione delle reti locali sarebbe consigliabile creare degli ambiti territoriali di riferimento per consociare – mediante protocolli d’intesa – più enti facenti parte del medesimo ambito territoriale. La Commissione, peraltro, ha provveduto alla valutazione circa la compatibilità dei progetti pubblici con i principi normativi, prestando maggiormente attenzione all’area territoriale su cui insistono i progetti medesimi. In particolare, la Commissione ha distinto tra vari tipi di aree potenzialmente interessate in funzione del livello di connessione a banda larga già disponibile, individuando aree in cui operano almeno due fornitori di servizi di rete a banda larga, ossia le c.d. aree nere, dove l’intervento statale non appare necessario; aree in cui mancano del tutto le infrastrutture a banda larga e non si prevede verranno sviluppate nel medio termine, dette anche aree bianche, dove l’intervento pubblico rappresenta uno strumento in grado di promuovere la coesione economica e sociale territoriale e di correggere i fallimenti del mercato (38); ed, infine, le aree grigie caratterizzate dalla presenza di un unico operatore di rete a banda larga, per le quali la Commissione precisa che è necessaria una approfondita analisi volta ad accertare se l’aiuto sia necessario a causa di un fallimento del mercato o di altre circostanze particolari prevedendo, quindi, un’attenta valutazione della compatibilità (39). (38) Si tratta di aree momentaneamente sprovviste di reti NGA nelle quali è improbabile che nel futuro prossimo (successivi 3 anni) operatori privati provvederanno a crearle. In queste aree i servizi a banda larga possono essere: i) assenti, ii) erogati da un solo fornitore, iii) erogati da una pluralità di fornitori. In queste aree per essere legittimo un aiuto deve rispettare le seguenti due condizioni: (a) i servizi a banda larga esistenti non siano in grado di soddisfare pienamente la domanda di utenti residenziali e commerciali dell’area; (b) tale obiettivo non possa essere raggiunto tramite regolazione ex-ante (Orientamenti, par. 43). (39) Cfr. gli Orientamenti, parr. 41-46, che riprendono una modulazione dell’intervento pubblico basata su cluster geografici già invalsa nella prassi della Commissione (cfr. PAPADIAS, RIEDL e WESTERHOF, Public funding for broadband networks, in Competition Policy Newsletter, 3/2006, pag. 13). Nella specie, gli investimenti in banda larga si inseriscono nello spirito della strategia di Lisbona sulla promozione della crescita europea: “L’importanza strategica della banda larga consiste nella sua capacità di accelerare il contributo di queste tecnologie alla crescita e all’innovazione in tutti i comparti economici nonché alla coesione sociale e regionale.[…] Il piano di ripresa intende, in particolare, dare impulso agli investimenti europei in determinati settori strategici, tra cui quello della banda larga, in modo da sostenere l’economia nel breve termine e creare, nel lungo termine, le infrastrutture essenziali per una crescita economica sostenibile”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 243 La suddivisione del territorio in aree caratterizzate da un diverso grado di copertura infrastrutturale e da diversa accessibilità all’offerta di servizi a banda larga e larghissima, necessariamente, però, richiede l’attuazione di una specifica analisi di compatibilità di eventuali forme di cooperazione pubblicoprivato al fine di consentire anche un’adeguata pianificazione degli investimenti. Infatti, le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato riconoscono la possibilità di forme di collaborazione tra operatori pubblici e privati proprio al fine di contribuire allo sviluppo economico delle aree interessate ed alla coesione sociale, senza, però, alterare le regole tipiche di un mercato competitivo. Tuttavia, tale eventualità è circondata da cautele procedurali e dalla necessità di un’analisi sostanziale approfondita, al fine di fugare il rischio, presente in special modo nelle cd. aree grigie, di spiazzamento e distorsione della concorrenza. In particolar modo, la Commissione mostra di prestare particolare attenzione ai seguenti elementi: - la mappatura dettagliata della copertura delle reti esistenti; - l’aggiudicazione mediante una gara di appalto a procedura aperta, in presenza della quale i partecipanti ricevono un trattamento equo e non discriminatorio; - l’adozione di un adeguato criterio di selezione delle offerte, quale quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in modo da limitare in sede di competizione per il mercato il livello del sussidio verso il basso; - l’orientamento del progetto secondo il principio di neutralità tecnologica, senza penalizzare alcuna delle possibili infrastrutture attraverso le quali i servizi a banda larga possono essere offerti e lasciando la relativa scelta alle imprese partecipanti (40); - imporre restrizioni all’utilizzo dell’infrastruttura, sub specie di (i) obblighi di concedere accesso alla infrastruttura sovvenzionata ai terzi richiedenti, a condizioni eque e non discriminatorie (41) e (ii) controllo dei prezzi all’ingrosso praticati dal gestore dell’infrastruttura nei confronti degli operatori terzi richiedenti l’accesso (42); (40) Naturalmente, qualora esigenze oggettive, connesse alla concreta natura del servizio richiedono l’adozione di una particolare tecnologia, quest’ultima assumerà il ruolo di tecnologia necessaria per conseguire gli obiettivi del progetto (vedi, ad esempio, il caso N222/2006, Italia – Piano di azione per il superamento del digital divide in Sardegna, par. 45). Allo stesso modo, qualora siano presenti infrastrutture esistenti, può essere opportuno prevedere che le offerte si basino su queste ultime, al fine di evitare una duplicazione delle stesse. (41) Si tratta di un “elemento essenziale”, per la valutazione della compatibilità del progetto: il carattere aperto della rete evita effetti di foreclosure, stimolando una concorrenza basata sui servizi offerti al consumatore finale. La Commissione mostra di ritenere adeguato un regime di accesso di durata pari ad almeno sette anni (cfr. Orientamenti, par. 51, lett. f). (42) Ciò dovrebbe avvenire in base ad un meccanismo di parametrazione rispetto ai prezzi medi 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 - previsione di meccanismi di rimborso in corso di esecuzione, per eliminare la presenza di eventuali sovra compensazioni, che possono costituire illegittimi aiuti di Stato. Così inquadrate, le iniziative di PPP possono apportare concreti benefici in termini di rischio, di costi, nonché di stabilità del progetto a lungo tempo, minimizzando l’impatto anti-concorrenziale collegato alla presenza dell’investitore pubblico. In tal modo, sembra che il ricorso a forme di cooperazione tra pubblico e privato consentirebbe di predisporre infrastrutture di rete nei casi in cui i costi particolarmente ingenti non potrebbero essere sostenuti dal solo operatore privato. Si potrebbe addirittura considerare indispensabile, poi, l’intervento pubblico alla presenza di un fallimento del mercato, in quanto necessario sia nella promozione che nello stimolo dei progetti, sia nel coordinamento degli stessi, considerato che in tali ipotesi è inevitabile la sussistenza di uno scarso interesse dei privati ad intervenire. Inoltre, la distribuzione delle competenze tra i partner pubblico-privato, consentirebbe al soggetto pubblico di realizzare un’opera e di offrire un servizio pubblico o di pubblica utilità attraverso lo sfruttamento delle capacità di gestione e delle efficienze proprie del settore privato, nonché attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica. 4. Un caso concreto di innovazione e trasformazione nella Provincia autonoma di Trento La Commissione Europea nella Comunicazione “Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, intende promuovere la conoscenza e l'innovazione come strumenti per lo sviluppo dell’intera collettività ed, a tal fine, si è posta come obiettivo prioritario la diffusione delle nuove tecnologie finalizzate ad una più ampia diffusione dell'informazione e della comunicazione nei vari paesi europei. In linea con l’orientamento comunitario è il progetto predisposto ed in parte attuato dalla Provincia autonoma di Trento, che s’inserisce nel più ampio e complesso “Programma di sviluppo provinciale per la XIV legislatura” e diretto a stimolare lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi ITC (43). L’intento della provincia di Trento è quello di realizzare una rete di comunicazione elettronica attraverso la diffusione della banda larga ed ultralarga praticati in altre aree comparabili o su quelli praticati dalla autorità di regolazione. Si tratta di una importante garanzia diretta a limitare fenomeni di comportamenti anticoncorrenziali basati sui prezzi, quali predatorietà e compressione dei margini. (43) Il Programma, disponibile alla pagina internet della Provincia (http://www.giunta.provincia.tn.it/binary/ pat_giunta_09/XIV_legislatura/PSP_per_la_XIV_legislatura.1269607442.pdf), si propone di “promuovere uno sviluppo locale duraturo e sostenibile” elaborando “in un quadro organico e coerente, strategie e azioni innovative di natura strutturale”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 245 da porre a servizio delle amministrazioni provinciali, delle amministrazione pubbliche locali, dell'azienda sanitaria, dell'università degli studi, degli istituti di ricerca locali, nonché delle imprese e del cittadino. Il dipartimento ICT della Provincia autonoma di Trento ha ribadito che “l’obiettivo è quello di trasformare il Trentino nel territorio dell’innovazione e permettere a tutti i cittadini ed alle imprese di trarne i benefici” (44). Il progetto, che prevede l’attuazione di tre fasi, si caratterizza per il coinvolgimento dell’intervento privato, in particolare, di Telecom Italia che ha utilizzato il Trentino come area di sperimentazione della diffusione della fibra ottica a vantaggio dei singoli utenti, facendosi carico dell’investimento. Inoltre, tale intervento si è ritenuto possibile perché in questa provincia esiste già un anello in fibra di circa 50 kilometri, che raggiunge 40 utenze pubbliche ed alcune imprese di notevole dimensioni (45). Le fasi in cui si articolerà prevedono, in primo luogo, un intervento rapido per ridurre il digital divide di prima generazione, consentendo alla gran parte della popolazione un collegamento ad internet con velocità fino a 2 Mbps in modalità wireless su frequenza non licenziate (46) . Quindi, entro il 2012, il programma prevede l’ obiettivo di fornire al 100% della popolazione un accesso alla rete in grado di sostenere un collegamento con velocità almeno di 20 Mbps. Infine, si dispone il passaggio ad una rete di accesso di nuova generazione, mediante la predisposizione di collegamenti in fibra ottica fino a casa dell’utente, dandosi come ulteriore obiettivo quello di rendere disponibile al 100% della popolazione e delle imprese del proprio territorio una rete a banda ultra-larga in fibra ottica entro il 2018 in esecuzione di quanto già previsto dagli artt. 19 e 19.1 della L.P. 15 dicembre 2004 n. 10. L’ambizioso progetto, che necessita inevitabilmente un piano di investimento pluriennale, ha indotto la Provincia ad operare uno studio di pre-fattibilità al fine di individuare le opere di infrastruttura da realizzare ed i casi in cui sia possibile il riutilizzo delle infrastrutture preesistenti ed utilizzate per altri sotto-servizi (illuminazione pubblica, reti elettriche ...). Sulla base di detto studio, è emerso che la provincia di Trento si compone di aree a profittabilità medio-bassa e di aree sicuramente a bassa profittabilità (a fallimento di mercato) per cui, considerato l’interesse all’avvio del processo di digitalizzazione e l’interesse a ridurre i costi ed i tempi di sviluppo della (44) Fonte: “Trento punta su Internet in tutte le case”, Corriere delle Comunicazioni, 5 novembre 2010. (45) Tale anello sarà oggetto di ulteriore sviluppo. Nel 2011 si prevede, infatti, il completamento di una dorsale di circa 770 kilometri. Fonte: “Trento punta su Internet in tutte le case”, Corriere delle Comunicazioni, 5 novembre 2010. (46) Fonte: “Trento guarda avanti: la banda ultra.larga arriverà in tutte le case”, Finanza e Mercati, 5 novembre 2010. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 rete NGA, l’unica soluzione effettivamente adottabile è riconducibile a forme di co-investimento, soprattutto, per le aree c.d. a media profittabilità. Pertanto, la Provincia ha promosso la costituzione di una società a capitale misto pubblico-privato; nello specifico, la “NewCo” assumerà la forma di “S.r.l. uni personale” e, successivamente, sarà aperta alla partecipazione di altri operatori. Nelle aree identificate come a bassa profittabilità, ovvero quelle soggette a divario digitale, nelle quali manca un reale interesse all’investimento da parte dell’operatore privato, la Provincia ha costituito la società Trentino Network, già impegnata nella realizzazione delle infrastrutture di rete. La “NewCo” sarà a partecipazione maggioritaria della Provincia o comunque sottoposta ad influenza dominante della Provincia, almeno nella fase di infrastrutturazione, al fine di garantire il rispetto della prerogativa dell’intervento pubblico nel raggiungimento degli obiettivi prefissati (sia in termine di copertura del territorio sia delle tempistiche di realizzazione) e di massimizzare la capacità di raccolta sul mercato delle risorse tecnico-economiche necessarie alla realizzazione del progetto. Atteso che la costituzione della “Newco” tra Telecom Italia e Provincia autonoma di Trento consentirebbe a Telecom di partecipare a un investimento che essa non avrebbe effettuato da sola e di essere coinvolta nella creazione della prima rete a larghissima banda in Italia, la misura è stata notificata alla Commissione, la quale ha autorizzato l’intervento, ritenendolo compatibile con le norme in materia di aiuti di Stato (47). Di interesse è, inoltre, il parere espresso dall’AgCom nell’ambito del suddetto procedimento di autorizzazione dell’intervento. Come previsto dagli Orientamenti, infatti, una delle condizioni di realizzabilità di investimenti infrastrutturali mediante il finanziamento pubblico è rappresentata dalla definizione delle regole che disciplinino l’accesso alla rete in via di realizzazione, “chiedendo alle autorità nazionali di regolamentazione di approvare o stabilire le condizioni di accesso in forza della normativa comunitaria applicabile”. Ciò, in particolare, consentirà agli Stati membri di “garantire l’applicazione di condizioni di accesso uniformi o almeno molto simili su tutti i mercati della banda larga individuati dalla competente autorità nazionale di regolamentazione” (48). L’AgCom, nel proprio parere, ha così proceduto a definire le condizioni di accesso alla rete dell’operatore beneficiario. Si tratta, allo stato, di una re- (47) Cfr. la decisione della Commissione del 16 novembre 2010, N305/2010 “Riduzione del divario digitale in Trentino”. (48) Cfr. gli Orientamenti, cit., par. 79. Ciò è richiesto, si ricorda, per gli interventi che riguardino le aree cd. grigie, in cui esiste, sebbene in misura ridotta, un livello di investimento privato nella fornitura di accessi a banda larga (vedi supra par. 3). LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 247 golamentazione limitata al caso di specie e, condizionata alla definizione del quadro generale di disciplina dell’accesso alle reti NGN. In particolare, l’infrastruttura realizzata – conformemente a quanto previsto dagli Orientamenti e dalla Raccomandazione NGN – dovrà essere accessibile anche agli operatori non aggiudicatari, mediante il diritto di utilizzo delle condotte e delle altre infrastrutture civili, al fine di accedere ai segmenti attivi e passivi della rete. A ciò si aggiunga, in linea con la Delibera AgCom n. 731/09/CONS, la previsione necessaria di forme di accesso bitstream alla rete (49). 5. Il finanziamento pubblico delle reti informatiche a banda larga e la disciplina degli aiuti di Stato: alcune considerazioni Come osservato, la tematica della realizzazione delle infrastrutture NGN, si pone sullo sfondo della disciplina della concorrenza e, in particolare, di quella relativa alle regole applicabili agli aiuti di Stato, presentando, inoltre, profili di sovrapposizione con la disciplina relativa all’esecuzione e agli appalti di opere pubbliche (50). Al riguardo, occorre precisare come, in linea di principio, il finanziamento pubblico di “infrastrutture generali” non costituisce una misura di sovvenzione statale, proibita ai sensi degli art. 107(1) TFUE. Si tratta, infatti, di una misura che non conferisce un vantaggio specifico e diretto ad un particolare operatore (51); ciò vale, nello specifico, nel caso in cui si tratti di una infra- (49) Cfr. Allegato B alla delibera n. 1/11/CONS dell’11 gennaio 2011, par. 2.5. (50) Si tratta della legislazione adottata a livello comunitario (e recepita a livello nazionale nel Codice dei Contratti Pubblici) per disciplinare l’acquisto di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni e che si fonda sulle regole relative alla libera circolazione dei servizi e alla libertà di stabilimento. Nello specifico, i testi chiave sono rappresentati dalla direttive CE 2004/18 e 2004/17. Cfr., al riguardo, GAROFOLI, SANDULLI, Il nuovo diritto degli appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria 62/05, Milano 2005. (51) Ci sono numerose sentenze delle Corti europee che hanno fatto luce sul significato di vantaggio economico nell’ambito dell’art. 107(1) TFUE. Gli interventi dello stato attraverso sussidi o misure equivalenti creano un vantaggio economico quando le imprese ricevono benefici gratuiti che non riceverebbero altrimenti in base alle normali condizioni di mercato (cfr. le sentenze SFEI, C-39//94 e Linde, T-98/00). I benefici cruciali in questo contesto sono quelli che procurano sgravi fiscali dai costi che normalmente dovrebbero derivare dalle imprese stesse. Questi costi sono “inerenti” alle loro attività economiche (sentenza GEMO, C-126/01) ed escludono le sovvenzioni ma includono le spese scaturite dalla conformità con le leggi, disposizioni ed obbligazioni contrattuali (v. la decisione della Commissione N2004/125 sullo sviluppo dei finanziamenti a Berlino). Lo sgravo di costi “anormali” causato dallo stato stesso non è una sovvenzione statale. Come spiegato dal CFI nel caso Combus (T-157/01), “l’Articolo 87(1) proibisce meramente i vantaggi economici per alcune imprese ed il concetto di sovvenzione riguarda solo le misure che alleggeriscono il peso normalmente ipotizzato sul budget di un’impresa e che sono considerate come vantaggi economici che l’impresa ricevente non avrebbe ottenuto a condizioni di mercato normali”. Lo Stato, in particolare, può ridurre il normale costo delle imprese non solo con sussidi immediati o sovvenzioni che compensano in tutto o in parte questi costi, ma anche non ricevendo interamente ciò che le imprese gli devono. Lo Stato potrebbe anche conferire un vantaggio economico non solo riducendo il normale costo delle imprese, ma permettendo anche loro di coprire quei costi con un ricavo che supera la tariffa o la percentuale che sarebbe stata possibile alle condizioni 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 struttura “aperta a tutti i potenziali utilizzatori su base di parità e non discriminazione” (52). Situazione differente è quella del finanziamento pubblico di “infrastrutture specifiche per l’utente”, giacché normalmente conferiscono un vantaggio economico e competitivo ad alcune imprese e sono considerate una forma di aiuto di Stato (53). Comunque, nella pratica, non è così facile distinguere tra infrastrutture generali e infrastrutture specifiche per l’utente, specialmente quando la prima è “inserita” nella seconda (54). Inoltre, le infrastrutture sono sempre più costruite nella forma di società pubblico-private e mediante accordi attraverso cui lo Stato mantiene la proprietà dell’infrastruttura assegnando la gestione alle imprese. È pertanto rilevante individuare entro quali limiti, tali modalità di finanziamento sono soggette alle regole sugli aiuti di Stato. L’approccio della Commissione, quale si è affermato progressivamente nell’analisi di progetti statali di sovvenzione alla realizzazione di infrastrutture a banda larga, mostra che l’istituzione comunitaria non considera le reti di comunicazioni in questione quali infrastrutture di utilizzo generale e procede ad un’attenta e approfondita valutazione della misura (55). In tal senso, la Commissione ritiene che le reti di comunicazione a banda larga rappresentano un’infrastruttura user-specific che il mercato è capace di offrire e che mirano di mercato (vedi il caso C-64-98 che riguarda i contrati tra lo Stato italiano e l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato che forniva una remunerazione superiore alle normali tariffe del mercato). Il reddito non è solo accresciuto artificialmente quando i sussidi pubblici aumentano la domanda del prodotto di una particolare impresa (vedi la Decisione della Commissione 2005/351 “Spain - Intermed Aerea”). In altre parole, ci sono due possibilità con cui lo Stato permette alle imprese di evitare la disciplina imposta dal mercato. Lo Stato, infatti, o riduce i loro costi o ne aumenta i ricavi, andando oltre a ciò che sarebbe possibile alle condizioni del libero mercato. Nel secondo caso, lo Stato può assegnare un vantaggio economico quando vende beni o servizi a prezzi maggiori del loro valore reale, quale dato dal mercato, o ad un volume che non riflette i suoi reali bisogni, cosicchè aumenta artificialmente la domanda di un prodotto (sentenza “BAI v Commissione”, T-14/96; e “P&Q v Commissione”, T-116-01). (52) Cfr. la decisione della Commissione europea N478/2004 del 7 giugno 2006, Ireland – State guarantee for capital borrowings. Sul tema, vedi anche ANESTIS, MAVROGHENIS, PSARAKI, Public funding of broadband services, in The European Antitrust Review, 2007, pag. 44 e ss.; KOENIG, KIEFER, Public funding of infrastructure projects, in ESTAL 4/2005, pag. 416 e ss.; PAPADIAS, RIEDL, cit.; TRIAS e KOENIG, A new sound approach to EC State Aid Control of Airport Infrastructure Funding, in ESTAL 3/2009, pag. 300 e ss. (53) Cfr. le decisioni della Commissione 2005/170 “Propylene Pipeline from Rotterdam to the Ruhr” e N2007/385 “Ethilene Pipeline in Bavaria”. (54) Il riferimento è a quelle situazioni in cui l’infrastruttura è utilizzata tanto per finalità pubbliche, quanto private. È, ad esempio, il caso di alcuni servizi all’interno delle aree aeroportuali (in particolare quelli relativi alla sicurezza del trafico aereo, controlli di polizia e dogana). Il principio guida, in tali situazioni, è quello per cui il finanziamento di infrastrutture che perseguono una missione pubblica, non partecipando ad una attività economica, non costituisce un aiuto di Stato. Cfr., al riguardo, la sentenze nei casi “Enirisorse” (C 237/04) e “Areoports de Paris” (T-128/98). (55) Si vedano ad esempio le decisioni N201/2006 “Broadband in underserved territory in greece” del 4 luglio 2006; N284/2005 “Regional broadband programme: Metropolitan Area Networks (MAN)” del 8 marzo 2006 e C 35/2005 “Broadband development in Appingedam” del 19 luglio 2006. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 249 a favorire un particolare tipo di operatori economici (56). Nel concreto apprezzamento del carattere di aiuto della misura, uno dei principali criteri che la Commissione impiega nell’analisi di una misura di aiuto che si sostanzia nella partecipazione pubblica ad un progetto di investimento realizzato tramite un modello di PPP è rappresentata, come visto supra, dal principio dell’investitore privato (“MEIP ”). In base a tale principio, lo Stato si comporta come un investitore privato – e pertanto non assegna all’impresa alcun vantaggio illegittimo – nel caso in cui persegua col proprio investimento unicamente uno scopo di profitto, ignorando altre considerazioni di carattere politico-sociale. Ciò comporta, infatti, che l’impresa che riceve il finanziamento non ottiene alcuna risorsa che non avrebbe potuto reperire altrimenti sul mercato. Tale impostazione consente di valorizzare non tanto l’intervento pubblico di per sé, ma nello specifico se, per il tramite dell’intervento, l’impresa ha ottenuto un risparmio di costi che non avrebbe potuto ottenere a normali condizioni di mercato (57). (56) Nel caso MAN, cit. sup., ribattendo l’argomento dell’Irlanda che si fondava sulla natura generale della infrastruttura, la Commissione osserva che “this would be the case of an infrastructure which is needed to provide a service that is considered as falling within the responsibility of the State towards the general public and is limited to meeting the requirements of that service. Moreover it should be a facility that is unlikely to be provided by the market because not economically viable and the way it is operated should not selectively favour any specific undertaking” (il caso si riferiva a una misura finalizzata a sostenere una infrastruttura carrier-neutral su larga scala (fibre ottiche circolari) per permettere la fornitura di tubazioni, fibre scure, collocation space e servizi di comunicazione elettronica ad alta velocità ai gestori in Irlanda dove una tale infrastruttura libera, neutrale e a larga scala non era disponibile. La misura intendeva facilitare la fornitura dei servizi a banda larga al dettaglio e la concorrenza e, quindi, contribuire ad una serie di obiettivi politici e strategici per l’Irlanda, sostenendo il suo sviluppo economico, sociale e rurale). Nello stesso senso, v. la decisione N213/2003 “United Kingdom – Project ATLAS” del 20 luglio 2004. (57) La Commissione ha definito nella sua Comunicazione agli Stati membri del 17 settembre 1984, concernente la partecipazione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese (la “Comunicazione”; GUCE 9/1984), gli orientamenti generali in materia, secondo i quali non possono essere considerati aiuti di Stato i capitali messi a disposizione di un’impresa, direttamente o indirettamente, da parte dello Stato in circostanze che corrispondono alle normali condizioni di un’economia di mercato. Come la Commissione ha avuto modo di chiarire, essa non è tenuta, per poter accettare alla stregua di una normale operazione commerciale un programma d’investimento finanziato dai pubblici poteri, a provare che esso sarà redditizio al di là di ogni ragionevole dubbio. La Commissione non può sostituirsi al giudizio ex ante dell’investitore, ma deve stabilire con ragionevole certezza che il programma finanziato dallo Stato sarebbe accettabile per un investitore che opera in un’economia di mercato (Applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato CE e dell’articolo 61 dell’accordo SEE agli aiuti di Stato nel settore dell’aviazione (GU 1994, C 350; gli “Orientamenti aviazione”), par. 26. La parte IV degli Orientamenti aviazione, intitolata “IV. Comportamento dello Stato nella sua duplice veste di imprenditore e di erogatore di aiuti di Stato all’impresa di sua proprietà”, è di carattere generale ed applicabile, mutatis mutandis, anche a settori produttivi diversi da quello del trasporto aereo. Peraltro, come è stato chiarito nel caso Alitalia, la valutazione da parte della Commissione della questione se un investimento soddisfi oppure no il criterio dell’investitore privato che opera in un’economia di mercato implica una valutazione economica complessa, analogamente a quanto avviene quando essa esamina la compatibilità di una misura di aiuto con il mercato comune. Poiché in tali casi la Commissione gode di un ampio potere discrezionale, il sindacato giurisdizionale delle sue decisioni, pur essendo in linea di principio completo per 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 In altre parole, il meccanismo del confronto competitivo assicura che, pur essendo destinataria di un intervento pubblico, l’impresa in questione non riceve un vantaggio rispetto alle altre dirette concorrenti. A queste condizioni si assicura che prevale l’azienda più efficiente perché ha i costi minori o addebita i costi minori (58). Il fattore decisivo, dunque, non è se un’azienda ottiene un ricavo maggiore grazie alle misure statali, ma se lo stesso ricavo o gli stessi costi sarebbero ottenibili a condizioni di mercato. Fino a quando c’è concorrenza tra aziende per lo stesso progetto, allora la risposta deve essere affermativa. Tale principio appare essere trasponibile al caso dei contratti pubblici assegnati ad operatori privati a seguito di una procedura concorsuale aperta. La prassi decisionale mostra di considerare l’espletamento di una procedura di gara aperta e non discriminatoria come elemento determinante al fine di ridurre (se non eliminare) il carattere di vantaggio della misura statale. Ciò sul presupposto per cui l’impresa aggiudicataria non otterrebbe, comunque, un beneficio che non è disponibile alle normali condizioni di mercato (59). In tal senso, i giudici comunitari hanno affermato che “la necessità, per uno Stato membro, di dimostrare che un tale acquisto rappresenta una normale operazione commerciale si impone ancor più quando la scelta della controparte contrattuale non è stata preceduta da una gara d'appalto aperta che sia stata sufficientemente pubblicizzata, dato che l'esistenza di una simile gara d'appalto vale normalmente ad escludere che tale Stato membro intenda concedere un vantaggio all’impresa con cui stipula un contratto” (60). quanto riguarda la questione se un provvedimento rientri nel campo di applicazione dell’art. 107(1) TFUE, si limita a verificare il rispetto delle regole riguardanti la procedura e la motivazione, l’esattezza materiale dei fatti accolti per compiere la scelta contestata, l’assenza di errori manifesti nella valutazione di tali fatti e l’assenza di sviamento di potere. In particolare, non spetta alla Corte sostituire la sua valutazione economica a quella della Commissione (cfr. la sentenza 12 dicembre 2000, Alitalia/Commissione, causa T-296/97, Racc. pag. II-3871, punto 105). (58) In tal senso, cfr. NICOLAIDES, KLEIS, op. cit., pag. 621. (59) Cfr., sul punto, la decisione della Commissione N649/2001, “Freight Facilities Grant (UK)”, in cui si rileva che “if such an infrastructure manager is chosen by an open and non-discriminatory procedure, the State support granted to it for construction and maintenance of transport infrastructure represents the market price to achieve the desired result, financing is also not considered to all under Article 87(1) EC Treaty”. Nello stesso senso, decisione N390/2000, “Belgium – Spoorlijn Lanaken – Maastricht” e N264/2002, “United Kingdom – London Undergorund Public Private Partnership”. (60) Sentenza della Corte Generale del 5 agosto 2003, P&O European Ferries c. Commissione, case T-116/01, Racc. 2003, pag. 2957, punti 117-118 dove, esaminando se un vantaggio è stato conferito all’impresa, la Corte nota come la stessa non è stata scelta sulla base di una gara “non è stata preceduta da una gara d'appalto aperta che sia stata sufficientemente pubblicizzata”. Ciò in quanto, “la necessità, per uno Stato membro, di dimostrare che l'acquisto di beni o servizi da esso effettuato rappresenta una normale operazione commerciale si impone ancor più quando, come nel caso di specie, la scelta dell'operatore non è stata preceduta da una gara d'appalto aperta che sia stata sufficientemente pubblicizzata. Infatti, secondo la prassi consolidata della Commissione, l’esistenza di una simile gara d'appalto prima di un acquisto da parte di uno Stato membro vale normalmente ad escludere che tale Stato membro LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 251 Peraltro, tale impostazione sembra ricevere alcune precisazioni applicative in tema di procedure di gara per l’aggiudicazione di progetti di realizzazione di infrastrutture di banda larga. Infatti, con specifico riferimento alla realizzazione di progetti a banda larga, la Commissione sembra sostenere che esista un “vantaggio residuale” (61), rappresentato dalla possibilità che, nonostante la procedura di gara per la scelta del partner privato, persista un carattere di aiuto del progetto nella misura in cui questa si traduce in un vantaggio per gli operatori, utilizzatori finali dell’infrastruttura (62). Nella specie, la Commissione mostra di valorizzare l’aspetto della possibilità di ingresso nel mercato che viene concessa all’aggiudicatario, a differenza degli altri partecipanti, posizione che di per sé procura un vantaggio competitivo non replicabile dai propri concorrenti. Tale vantaggio si concretizzerebbe nella possibilità di utilizzare l’infrastruttura pubblica e di operare nel mercato dell’accesso all’ingrosso secondo condizioni non altrimenti disponibili sul mercato (63). Tale approccio appare, da un lato, concentrarsi sull’esplicito vantaggio di first mover che l’aggiudicatario mostra di ottenere a seguito della gara, con speciale riguardo alla possibile costituzione o rafforzamento di una posizione di notevole indipendenza e forza sul mercato dell’accesso all’ingrosso all’infrastruttura. Dall’altro, non pregiudica tuttavia un’analisi complessiva delle misura, che tenga conto anche degli obblighi regolamentari che potrebbero accompagnarsi al bando di gara e che possono essere idonei a fugare quel vanintenda concedere un vantaggio a un'impresa determinata [v., segnatamente, la comunicazione della Commissione sulla disciplina comunitaria per gli aiuti di stato alla ricerca e sviluppo (GU 1996, C 45, pag. 5), punto 2.5 e, in tal senso, gli orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato ai trasporti marittimi (GU 1997, C 205, pag. 5), capitolo 9] ”. (61) Cfr. NICOLAIDES, KLEIS, op. cit., pag. 631, secondo cui tale impostazione confonde tuttavia due aspetti tra loro, ossia l’impatto dell’intervento statale e l’eventuale vantaggio selettivo dell’investimento in questione. (62) Ciò è stato manifestato, ad esempio, nel caso “ATLAS”, cit. sup. in cui la Commissione, dopo aver rilevato che lo svolgimento della gara avrebbe “would rule out any unnecessary advantage to the Asset Manager [l’impresa privata cui sarebbe spettato il compito di gestire l’infrastruttura]”, individua tuttavia la presenza di un “economic advantage for the telecom operators and the service providers, which can, at least partially, translate into an economic advantage for the enterprises in the business parks that are the ultimate customers of the broadband services”. Nello stesso senso, la decisione nel caso “MAN”, cit. sup., riscontra che l’aggiudicatario del progetto di investimento avrebbe nondimeno ottenuto un vantaggio consistente nella possibilità di “establish its business based on the government funded MAN infrastructure and enter the market for wholesale services on conditions not otherwise available on the market”. (63) In tale direzione si muove l’analisi della Commissione anche con riferimento ad altri progetti di reti di banda larga notificati. Cfr., inter alia, le decisioni N 131/2005 del 22 febbraio 2006 “United Kingdom – Fibre speed broadband project Wales”; N 583/2004 del 6 aprile 2005 “Spain – Banda ancha en zonas rurales y aisladas“; N 267/2005 del 5 ottobre 2005 “United Kingdom – Rural Broadband Access Project”; N 307/2004 del 16 novembre 2004 “United Kingdom – Broadband in Scotland remote and rural areas”; N 263/2005 del 20 ottobre 2005 “Austria – Breitband Kärnten”. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 taggio marginale che deriva all’operatore aggiudicatario. In altre parole, la Commissione sembra voler affermare una specialità delle misure inerenti lo sviluppo delle infrastrutture a banda larga, coinvolgendo questioni delicate a carattere politico-economico da non rendere possibile un’applicazione delle norme generali. Sul solco di tale impostazione – che come visto riconduce le misure statali nell’ambito degli aiuti di Stato per poter procedere alla successiva analisi di compatibilità ai sensi dell’art. 107(3) TFUE – si pongono i criteri dettati dagli Orientamenti, supra illustrati (64), che confermano la volontà di disegnare una precisa cornice di valutazione degli investimenti pubblici nella banda larga. Come si è visto, nel quadro di analisi disposto dalla Commissione, lo svolgimento di una procedura di gara di tipo aperto e non discriminatorio si interseca con le tematiche regolatorie, dovendosi prevedere, già in sede di gara, le opportune norme di funzionamento dell’infrastruttura e divengono elementi indispensabili che qualsiasi progetto di investimento in tale settore deve tenere in considerazione (65). Concludendo, le riflessioni sopra svolte pongono in evidenza come la realizzazione di infrastrutture NGN rappresenti invero una tematica regolatoria estremamente complessa e in corso di progressiva definizione. La tematica si contraddistingue per la necessità di un approccio di indagine integrato, che coinvolga non solo aspetti regolamentari e tecnici, ma, specialmente, considerazioni di tipo sociale e politico. Su questo sfondo, le interazioni tra i soggetti istituzionali e privati si svolgono secondo modelli fluidi, i quali, se da un lato si conformano alle prescrizioni in materia di concorrenza, dall’altro non sono interamente assorbite in queste ultime. Rileva, al riguardo, la peculiarità propria delle problematiche legate allo sviluppo di infrastrutture di banda larga, sintesi del livello sovranazionale degli interessi coinvolti e, al contempo, del ruolo primario e indispensabile che gli enti locali sono chiamati a svolgere, secondo i principi di sussidiarietà, di efficienza e di neutralità dell’intervento pubblico. (64) Vedi supra par. 3. (65) Cfr., da ultimo, il progetto svedese di realizzazione del piano di sviluppo NGN, il quale pur qualificandosi come aiuto (“The notified aid measure allows a selected number of undertakings to be relieved, by means of State resources, of a part of their costs regarding the financing of the deployment of a broadband network in Sweden which they would normally have to bear themselves. Moreover, the third party providers of broadband services and business end users located in the coverage area might also benefit indirectly from the measure at stake. Consequently, the support from the state strengthens the position of a selected number of beneficiaries in relation to their competitors in the Community and therefore has the potential of distorting competition”) ottiene una positiva valutazione, eseguita in base alle indicazione degli Orientamenti (Decisione della Commissione N. 30/2010 “State aid to broadband within the framework of the rural development program”). C O N T R I B U T I D I D O T T R I N A Dopo la sentenza sul legittimo impedimento: la ricerca di un punto di equilibrio di Glauco Nori* 1 - Con la sentenza della Corte costituzionale n. 23/2011, che ha dichiarato parzialmente illegittima la legge n. 51/2010, si può considerare conclusa la vicenda in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato, iniziata con la legge n. 140/2003 (art. 1, comma 2), dichiarata illegittima con la sentenza n. 24/2004. In quest’ultima la Corte non aveva preso in esame se, per la natura della materia, fosse necessaria una legge costituzionale, questione tra quelle dichiarate assorbite. E’ ormai un principio, applicato anche dalla Corte costituzionale, che il giudice non è tenuto a seguire l’ordine logico delle questioni o quello proposto dalle parti. Esigenze di economia processuale possono indurre ad affrontare per prima la questione di soluzione più rapida, che esaurisce il giudizio. Il silenzio della sentenza su di una questione assorbita non poteva significare che la Corte avesse escluso implicitamente la necessità di una legge costituzionale in quanto questione logicamente preliminare. La Corte era chiamata a giudicare su una legge ordinaria. Una volta accertato che violava l’art. 3 Cost., diventava inutile ogni indagine ulteriore. Se avesse affrontato la questione ed avesse ritenuto necessaria la legge (*) Avvocato dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa Rassegna. Articolo già pubblicato su Forum di Quaderni Costituzionali - Giurisprudenza - Corte Costituzionale anno 2011: http://www.forumcostituzionale.it/site/content/view/177/46/ In tema V. anche Rass., 2011, Vol. I, 89 ss., MICHELE DIPACE “Sull’istituto processuale del legittimo impedimento. Brevi note”. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 costituzionale, si sarebbe dovuta porre anche un’altra domanda: se la violazione o, meglio, la deroga dell’art. 3, in quanto principio fondamentale della Costituzione, fosse consentita ad una legge costituzionale, che, secondo quanto la Corte ha rilevato più di una volta, non può essere in contrasto con principi di quella natura. L’esame avrebbe potuto avere solo la funzione di un avvertimento al legislatore, sia costituzionale che ordinario. Al silenzio, pertanto, non si poteva dare significato positivo. Raggruppate le sospensioni già previste per il processo penale dalla legislazione ordinaria, la Corte ha rilevato che non costituivano un numero chiuso e che il legislatore avrebbe potuto stabilirne altre per esigenze extraprocessuali, salvo ad identificarne i presupposti e le finalità. Il bene tutelato dalla legge contestata, secondo la Corte, andava visto “nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche”. Questa conclusione comportava qualche difficoltà di coordinamento con la premessa che “la situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato”. Gli interessi apprezzabili erano due: il sereno esercizio delle funzioni ed il diritto di difesa, la cui tutela contemporanea la legge intendeva assicurare. Né era scontato che la prevalenza fosse della funzione di governo una volta che del diritto di difesa la tutela era attuata spostando nel tempo le condizioni che ne richiedevano l’esercizio. Piuttosto che stabilire la prevalenza tra di essi, che non risultava indispensabile per come le questioni erano state proposte, sarebbe stato forse utile verificare se, essendo entrambi gli interessi costituzionalmente garantiti, ci fosse un mezzo diverso per tutelarli adeguatamente nello stesso tempo. Premesso che la normativa censurata creava un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, la Corte è passata ad esaminare se “il rilievo che l’ordinamento attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversità può venire in considerazione” comportasse la violazione dell’art. 3 Cost. La violazione dell’art. 3 è stata vista nel trattamento differenziato “sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione” dei Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale “rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti”. Dalla sentenza non si poteva dedurre che l’art. 3 non sarebbe stato violato se lo stesso trattamento fosse esteso ai membri delle Camere ed i componenti del Consiglio dei ministri (i giudici della Corte costituzionale possono essere trascurati per quanto osservato dalla Corte in proposito). Sempre per economia processuale la Corte avrebbe potuto limitarsi al- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 255 l’esame della posizione dei membri delle Camere e del Consiglio dei ministri perché da sola sufficiente a considerare violato l’art. 3 Cost. Le questioni ulteriori, in quanto assorbite, non si potevano ritenere risolte. 2 - Con la legge n. 124/2008, secondo certe fonti, si sarebbe tornati a disciplinare la materia attenendosi ai principi desumibili dalla sentenza appena esaminata. Le questioni di legittimità costituzionale, che sono insorte, forse anche per questo sono state più complesse e più elaborata è stata la motivazione della sentenza n. 263/2009. La motivazione suscita qualche perplessità su di un punto, che, peraltro, non ha inciso sulla decisione. E’ stato dichiarato violato anche l’art. 138 Cost., che, come noto, disciplina il procedimento legislativo costituzionale. Può, pertanto, essere violato se nella formazione di una legge costituzionale non se ne rispetta il procedimento, ma non se si è adottata una legge ordinaria, invece che costituzionale. L’art. 138 non dice quando è necessaria la legge costituzionale, ma come vada fatta se si ritiene necessaria. Se la legge costituzionale sia necessaria o non, si ricava solo dalla materia interessata in quanto disciplinata da una norma o da un principio costituzionale sostantivo. Anche la Corte sembrerebbe d’accordo quando ha classificato “di carattere generico e formale” la contestazione sollevata, rilevando che il Tribunale remittente aveva prospettato “una questione specifica e di carattere sostanziale”. Stando alle conclusioni tratte dalla Corte in ogni caso in cui una norma di legge fosse dichiarata costituzionalmente illegittima sarebbe violato anche l’art. 138 Cost., che verrebbe ad essere una norma quasi a violazione necessaria. La questione, come la stessa Corte ha rilevato, è di ordine formale, ma le formalità in materia costituzionale non sembrano trascurabili anche se, nel singolo caso, non hanno condizionato la sentenza. 3 - Una premessa va fatta per evitare gli equivoci, che potrebbero essere provocati da alcuni incisi della motivazione della sentenza. La distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali e tra reati commessi prima o dopo l’assunzione della carica, o addirittura prima della entrata in vigore della legge, non poteva avere rilievo. La legge ha preso in considerazione non la natura delle contestazioni, ma la pendenza di un procedimento che di per se stessa, qualunque sia l’imputazione, richiede che l’imputato si dedichi alla sua difesa. Agli interessati non si attribuiva un trattamento differenziato circa la re- 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sponsabilità penale, che non era alleggerita sotto alcun profilo, e circa il giudice, che rimaneva sempre quello competente secondo la normativa ordinaria. Poiché tra funzioni di governo ed esigenze di difesa poteva sorgere incompatibilità la legge predisponeva un mezzo processuale perché nessuno dei due restasse pregiudicato. Solo la durata del procedimento subiva un pregiudizio attraverso un allungamento, pregiudizio da mettere eventualmente a raffronto con la necessità di tutelare due interessi, entrambi garantiti dalla Costituzione, quando fossero entrati in conflillo perché il titolare di una delle cariche protette era contemporaneamente imputato. La stessa Corte in più di un’occasione ha ritenuto che sia compito del legislatore ordinario rendere effettiva la tutela giurisdizionale di un interesse, protetto costituzionalmente, quando sia esposta a rischi per fatti contingenti. L’argomento di partenza della motivazione è che il beneficio dato dalla legge va riportato tra le prerogative, che debbono avere copertura costituzionale. Secondo la Corte le prerogative “presentano la duplice caratteristica di essere dirette a garantire l’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di derogare al regime giurisdizionale comune. Si tratta, dunque, di istituti che configurano particolari status protettivi dei componenti degli organi; istituti che, sono, al tempo stesso, fisiologici al funzionamento dello Stato e derogatori rispetto al principio di uguaglianza tra i cittadini”. Possono essere sostanziali (insindacabilità, immunità sostanziali, inviolabilità) o immunità meramente processuali (quali fori speciali, condizioni di procedibilità o altro meccanismo processuale di favore), e possono riguardare sia gli atti propri delle funzioni che quelli estranei. Che potesse essere portata a rango di prerogativa la sola sospensione del procedimento che, senza nessun altro beneficio sostanziale o processuale, si sarebbe comunque svolto davanti al giudice competente e seguendo il procedimento secondo il codice di procedura penale, era stato posto in dubbio. La Corte ha risposto classificando come immunità ogni “altro meccanismo processuale di favore”, senza indicazioni circa la sua portata e circa l’entità della deroga all’ordine costituzionale. Qualche precisazione ulteriore sarebbe stata utile per evitare che potesse essere considerata prerogativa anche la disciplina differenziata dei luoghi in cui i titolari delle più alte cariche dello Stato possono essere ascoltati (art. 205 c.p.p.), che non è stata ritenuta tale dalla sentenza n. 24/2004, in quanto incidente su “un aspetto secondario dell’esercizio della giurisdizione”. La Corte ha sostenuto il suo giudizio anche con alcuni richiami normativi. L’art. 68 Cost. prevede prerogative sia sostanziali che processuali, ma con effetti sostanziali rilevanti. Ugualmente effetti solo sostanziali, nella forma dell’irresponsabilità, produce l’art. 90 in favore del Presidente della Repubblica e sostanziali sono anche quelli previsti nell’art. 96 per il Presidente del CONTRIBUTI DI DOTTRINA 257 Consiglio dei ministri e per i ministri. Benefici sostanziali si trovano esaminati nelle sentenze richiamate. Essi creerebbero quello che la Corte ha definito come status per i destinatari. E’ bene richiamare l’attenzione sul fatto che le deroghe sono riferite alla giurisdizione in generale, non riferite ad una categoria distinta di soggetti. Tutti questi benefici hanno un tratto comune. In misura diversa sottraggono l’interessato alla giurisdizione, escludendone la responsabilità penale o impedendo che il procedimento sia intrapreso. La legge n. 124/2008, lasciando impregiudicata la responsabilità penale, attraverso la sospensione produceva solo una maggiore durata del processo. La natura esclusivamente processuale della norma non è stata considerata rilevante. “Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai principi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius”. In questa descrizione del sistema, peraltro, non si trova la risposta al perché ogni “altro meccanismo processuale di favore” fosse prerogativa. L’esercizio delle funzioni di governo e la difesa in giudizio sono entrambi garantiti dalla Costituzione senza condizioni. Se l’Autorità di governo si fosse trovata sottoposta ad un procedimento penale, la legge intendeva rendere possibile la tutela di entrambi. Come già si è ricordato, evitare che un interesse, garantito costituzionalmente, corra il rischio di essere pregiudicato in situazioni contingenti è compito che può svolgere il legislatore ordinario. La questione sembra superata dalla Corte attraverso la premessa che l’obiettivo della norma era la tutela delle sole funzioni di governo, che, pertanto, ha ritenuto non più comparabili con l’altro interesse. Il legislatore avrebbe potuto fare una scelta diversa? Anche questa domanda era stata posta alla Corte. La sospensione del giudizio consente il pieno esercizio del diritto di difesa, ritardando la funzione giurisdizionale, con pregiudizio solo alla durata del processo. Non sarebbe stato, invece, possibile, senza danni ben maggiori, sospendere le funzioni di governo. La Corte l’ha ritenuta superata probabilmente per la stessa ragione, vale a dire perché l’interesse da tenere in considerazione era soltanto uno. La sentenza risulta innovativa, anche se parzialmente, perché ha portato tra le prerogative tradizionali, soggette a disciplina esclusivamente costituzionale, ogni “meccanismo processuale di favore”, consistente in “deroghe alle formalità ordinarie”, qualunque ne sia l’incidenza sul principio di uguaglianza. 4 - Una volta che la legge impugnata era stata ritenuta illegittima per ra- 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 gione di materia, la motivazione si sarebbe potuta arrestare. La Corte questa volta non ha voluto lasciare questioni assorbite ed ha esaminato anche quella, sollevata dai giudici remittenti, della violazione del principio di uguaglianza. La Corte ha ritenuto irragionevole la disciplina di favore predisposta dalla legge sotto profili diversi. Non sembra decisiva l’osservazione che la sospensione era applicabile ai processi instaurati “per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica”. La natura dei reati avrebbe potuto avere rilievo per le immunità di ordine sostanziale. Il diritto di difesa va, invece, garantito in ogni procedimento, qualunque sia il reato ed il tempo della sua commissione perché è la contemporaneità del processo che provocava il rischio, al quale la legge aveva voluto rimediare. Per individuarne la ratio la Corte ha richiamato, insieme alla sua sentenza precedente, la relazione al disegno di legge. Sennonché - la Corte lo ha rilevato più di una volta - la ratio di una legge va vista non necessariamente nell’obiettivo indicato dall’organo proponente, ma nella funzione che svolge e negli interessi tutelati. E’ questa, peraltro, una osservazione solo di principio perché non è su quella affermazione che si fonda la sentenza. L’art. 3 Cost., secondo la Corte, sarebbe stato violato una prima volta concedendo il beneficio solo ai Presidenti delle Camere e del Governo e non a tutti i componenti. Per il Governo, in particolare, la Corte ha rilevato che compete “alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.)”. Quest’ultimo richiamo non risulta chiaro perché il primo comma dell’art. 95 attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, ma prima ancora quello di dirigere la politica generale del Governo, della quale è dichiarato responsabile. La Corte non ha nemmeno preso in considerazioni le funzioni, attribuite dall’ordinamento dell’Unione europea, che oggi il Presidente del Consiglio è chiamato a svolgere a titolo individuale, in particolare in seno al Consiglio Europeo. La sentenza in proposito ha ribadito il principio tradizionale che il Presidente del Consiglio è primus inter pares. Questa prima argomentazione non significa che per la Corte, se lo stesso trattamento fosse stato esteso a tutti i componenti degli organi collegiali interessati, l’art. 3 non sarebbe stato ugualmente violato. La violazione dell’art. 3 era stata già riscontrata “in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, CONTRIBUTI DI DOTTRINA 259 come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora più generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.)”. Il Presidente del Consiglio, anche se primus inter pares, svolge, dunque, funzioni da ritenere “parimenti impegnative”, almeno a questo proposito, come quelle di tutti i titolari di altre cariche pubbliche o dei singoli cittadini. L’argomento, non a caso posto all’inizio della seconda parte della motivazione, ha forse avuto per la Corte la funzione di premessa di ordine generale, sulla quale inserire poi gli argomenti successivi, costituenti la vera motivazione della sentenza. 5 - Secondo la sentenza n. 23/2011 “è rilevante, ai fini delle verifica della legittimità costituzionale della disciplina censurata, stabilire se quest’ultima, a prescindere dal suo carattere temporaneo, rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare quello previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. violando il principio della uguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli art. 3 e 138 Cost. La disciplina oggetto di censura sarà dunque da ritenersi illegittima, ma se, e nella misura in cui, alteri i tratti essenziali del regime processuale comune”. Da mettere a raffronto non erano, dunque, la posizione del Presidente del Consiglio dei ministri ed i singoli ministri (la legge aveva esteso anche a questi gli stessi benefici) e nemmeno i soggetti investiti da funzioni pubbliche, ma ogni persona fisica (nella sentenza sono chiamati cittadini, ma è evidente che il termine è stato adottato per comodità espositiva perché alla cittadinanza non è dato alcun rilievo). La Corte ha ritenuto illegittimo il comma 3 della legge n. 51/2010 perché gli accertamenti che consentiva “non esauriscono lo spettro dei poteri di valutazione dell’impedimento, che sono esercitati dal giudice in base alla disciplina generale di cui all’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Secondo tale disciplina, infatti, spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udienza, valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto e attuale dello stesso... La mancanza di tale elemento, pertanto, attribuisce all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 un carattere derogatorio rispello al diritto comune. Per i motivi già chiariti, ciò si traduce in un vizio di costituzionalità di tale disposizione, che deve essere pertanto dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede siffatto potere di valutazione in concreto dell’impedimento”. La Corte, richiamando la norma generale dell’art. 420-ter, ha ritenuto che la posizione del Presidente del Consiglio andasse messa a raffronto con quella di ogni persona fisica e non soltanto con quella dei ministri o dei componenti del Parlamento, così estendendo la sfera dell’indagine sull’uguaglianza, resa 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 necessaria dalla nuova legge. Non vi si può vedere una incoerenza con la sentenza precedente che, valutando la sola disuguaglianza tra ministri e il Presidente del Consiglio, aveva visto la violazione dell’art. 3 già nella esclusione dei primi dal beneficio in contestazione. E’ stata lasciata, peraltro, irrisolta una questione, che suscitava anche la sentenza precedente. La Corte ha ribadito che era coinvolto il principio della divisione dei poteri, che “non è violato dalla previsione del potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento, ma, eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere al canone della collaborazione”. Questa enunciazione finale si raccorda con quella di poco precedente, secondo la quale “quando il giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del processo, l’impedimento consistente nell’esercizio delle funzioni governative, si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato”. Nella sentenza n. 262/2009 era stato già rilevato che la normativa in materia di prerogative è rivolta a realizzare “un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica dei diversi organi”. Nel rimettere l’attuazione di questo equilibrio, ai sensi dell’art. 420-ter, ad uno dei poteri interessati ed in particolare all’organo procedente, sarebbe stato utile chiarire come questa soluzione si accordasse con la divisione dei poteri. Giudicando del comma 4 dell’art. 1 della legge, si è ritenuta insufficiente l’attestazione generica della Presidenza del Consiglio dei ministri “dal momento che l’attestazione risulta affidata ad una struttura organizzativa di cui si avvale, in ragione della propria carica, lo stesso soggetto che deduce l’impedimento in questione”. Ci si sarebbe dovuto domandare, di conseguenza, se la fissazione del punto di equilibrio tra i due poteri potesse essere rimessa alla decisione di uno di essi, e proprio dell’organo procedente. Non era in contestazione se la giurisdizione fosse stata esercitata correttamente, questione per la quale sarebbe stata esauriente la motivazione già riportata, ma se alla funzione giurisdizionale potesse essere affidato il compito di individuare i suoi limiti nei confronti di un altro potere. In pratica, quanto era precluso alla legge ordinaria, veniva demandato ad una ordinanza del giudice procedente. Secondo la Corte, trattandosi di rapporti tra poteri, entrambi debbono attenersi al canone della leale collaborazione. Se una circostanza dedotta per il rinvio non fosse riconosciuta utile dal giudice penale, le eventuali contesta- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 261 zioni sulla violazione della leale collaborazione dovrebbero, pertanto, essere risolte della Corte costituzionale attraverso un ricorso per conflillo di attribuzioni. Ma sarebbe sempre su iniziativa del Governo e per impugnare un provvedimento giurisdizionale. Il mezzo sarebbe stato lo stesso se fosse stata impugnabile l’attestazione della Presidenza del Consiglio, questa volta su iniziativa dell’organo giurisdizionale. Nella sentenza non è spiegato perché sia stata scelta la prima delle soluzioni, con la quale si è data una posizione prevalente ad uno dei due poteri in conflitto. Se la scelta fosse stata motivata, la Corte probabilmente si sarebbe dovuta domandare se fosse costituzionalmente legittima l’applicazione dell’art. 420- ter, c.p.p. nel caso esaminato, legittimità che la sentenza ha dato per scontata, ma che poteva non risultare del tutto chiara. “... quando il giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del processo, l’impedimento consistente nell’esercizio di funzioni governative, si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato”. Mantenersi all’interno della funzione giurisdizionale significa, secondo la Corte, applicare le ordinarie regole del processo. Se la funzione giurisdizionale sia stata esercitata secondo le sue regole interne, presuppone che si sia accertato che si era mantenuta nell’area assegnata dalla Costituzione. Secondo i principi ogni giudice giudica, oltre che della sua competenza, anche della sua giurisdizione, ma nei confronti di altri giudici, quindi all’interno della stessa funzione. Non è scontato che possa giudicare anche dell’estensione del suo potere giurisdizionale quando il contrasto è con un altro potere di uguale rilievo costituzionale. Nella prospettiva della sentenza il ricorso per conflitto di attribuzione potrà essere proposto solo dopo una decisione dell’autorità giurisdizionale. Si sarebbe potuto arrivare allo stesso risultato salvaguardando la posizione di parità delle parti. Se alla Corte si dovesse rivolgere direttamente il giudice procedente, che escludesse la ricorrenza di un impedimento valido in quello prospettato dal Governo, entrambi i poteri manifesterebbero la loro visione diversa su di un piano di parità senza l’esercizio preventivo del proprio potere con effetti nei confronti dell’altro. Il conflitto, alle condizioni indicate dalla Corte, determina anche un allungamento dei tempi per la soluzione delle contestazioni, allungamento che la stessa Corte, con la sentenza n. 262/2009, ha tenuto presente nel giudicare della legittimità costituzionale della legge n. 124/2008. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Le problematiche connesse ai rapporti tra la transazione fiscale il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione Francesco Vignoli* Nel commentare l’introduzione nel nostro ordinamento della transazione fiscale, in dottrina, è stato rilevato che “il dato di fondo, certamente positivo, è costituito dalla netta collocazione della transazione fiscale nel sistema della legge fallimentare, il che consente di arginare l’invadente particolarismo tributario”( 1). In giurisprudenza, è stato enunciato che il nuovo istituto previsto dall’art. 182 ter L.F. non trova ostacoli di rango disciplinare superiore giacché “il principio d’intangibilità del debito fiscale… non ha rilievo costituzionale ed è sancito dalla legge ordinaria (art. 409 R.D. n. 827/24) solo per la fase impositiva ma non per quella della riscossione del credito” (2). A fronte di così nette prese di posizione, è indispensabile cercare di individuare il punto di (difficile) equilibrio fra le procedure concorsuali e il credito tributario, in particolare operando un bilanciamento fra i tempi delle prime e la cronologia del recupero del secondo, come disciplinata dalla normativa fiscale. Vi è motivo di ritenere che, contrariamente a quanto enunciato in premessa, non possa prescindersi dall’art. 53 Cost. La norma, come ancora recentemente interpretata dai giudici di legittimità, “dispone che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. L'obbligo di concorrere alle spese pubbliche è dettato dalla fondamentale esigenza di reperire i mezzi necessari per consentire allo Stato ed agli altri enti pubblici di poter assolvere i loro compiti istituzionali. Tale esigenza fondamentale richiede che detti enti possano fare affidamento in tempi brevi su una consistente entità di risorse finanziarie… la cui riscossione quindi deve essere certa” (3). Nella fattispecie, la Suprema Corte ha riconosciuto il privilegio ai crediti Irap “anche per il periodo antecedente alla intervenuta modifica dell’art. 2752 c.c., dovendosi ritenere la previsione di detto privilegio implicitamente inclusa in detta norma in base ad una consentita interpretazione estensiva della stessa”. (*) Avvocato dello Stato in Milano. Sintesi della relazione tenuta dall’Autore all’incontro seminariale per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della magistratura - Ufficio dei referenti per la formazione decentrata del distretto di Milano, tenutosi in Milano il 19 maggio 2011. (1) DEL FEDERICO, La nuova transazione fiscale secondo il Tribunale di Milano: dal particolarismo tributario alla collocazione endoconcorsuale, in Il Fallimento, 2008, 346. (2) App. Genova, 19 dicembre 2009 (R.G.V.G. n. 1032/09). (3) Cass. civ. sez. I, 1 marzo 2010, n. 4861. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 263 La sentenza sopra richiamata ribadisce il principio costituzionale della indisponibilità dell’obbligazione tributaria (4) ponendo l’interprete di fronte a uno sforzo esegetico teso a verificare la compatibilità costituzionale dell’inserimento nel corpus della disciplina fallimentare dell’art. 182 ter. La norma consente al debitore intenzionato a proporre una domanda di ammissione al concordato preventivo di integrare il piano concordatario, che sarà sottoposto all’approvazione dei creditori, con la formulazione di una proposta nei confronti dell’erario per il pagamento anche parziale dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali. Sono esclusi dalla falcidia i “tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”, e, con l’inserimento di una specificazione dettata da un contrasto esegetico circa la natura comunitaria, l’Iva, nonché, con l’interpolazione operata dal d.l. n. 78 del 2010, le “ritenute operate e non versate”. Per interpretare la nuova legge fallimentare in coerenza, principalmente, con i principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 97 ed altresì in sintonia con gli istituti tradizionali del diritto civile e tributario e, per quanto possibile, con l’art. 49 del R.D. n. 827 del 1924, “Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato” in forza del quale “nei contratti non si può convenire esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all'epoca della loro stipulazione”, giova innanzitutto soffermarsi sulla capacità negoziale della P.A. Occorre verificare se l’Amministrazione ha una capacità a stipulare contratti e, in caso affermativo, se la transazione fiscale costituisce una ipotesi normativa riconducibile al modello previsto dall’art. 1965 c.c. Con l’introduzione dell’art. 1, c. 1 bis della legge n. 241 del 1990 sono state definitivamente superate le teorie riconducibili al nec ultra vires affermandosi, in via generale, con un riferimento normativo di portata universale, la capacità di diritto privato della P.A., ossia la possibilità per la stessa di adottare lo strumento negoziale, ove non agisca autoritativamente. Tutto ciò fermo restando che la parte pubblica agisce in un quadro di speciale capacità negoziale che si caratterizza, come recentemente enunciato dal Consiglio di Stato (5), per la eterodeterminazione dei fini, predeterminati dalla fonte normativa, a differenza della autodeterminazione dei fini che contraddistingue la capacità negoziale dei privati. Ammessa, dunque, la possibilità di adottare lo strumento negoziale, l’indagine si sposta sulla natura della transazione fiscale. Più specificamente, ci si interroga se la predetta costituisca una sorta di corollario al modello previsto dal codice civile. La risposta è negativa. Si assiste a un utilizzo atecnico del termine tran- (4) Cass. civ. Sez. V, 25 gennaio 2008, n. 1605. (5) Cons. St., 9 dicembre 2010, n. 8685. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sazione. Difetta, fra i requisiti previsti dal modello codicistico, la res dubia, considerato che formano oggetto di transazione anche crediti tributari ormai definitivi. Si versa in una ipotesi di indisponibilità del diritto, come sopra specificato. Suscita controversia la presenza, nella transazione, della reciprocità delle concessioni. Vi è chi individua, a fronte di una falcidia del credito tributario, un vantaggio in termini di speditezza dell’azione amministrativa, in ossequio al modello, sempre più affermato fra gli interpreti, della cosiddetta amministrazione di risultato, in cui si privilegia il risultato finale costituito in un incasso modesto ma certo, a fronte di una aspettativa di credito destinata ad andare delusa. Si sostiene, di contro, che accettare una ipotesi siffatta significherebbe inquadrare la transazione fiscale in una sorta di negozio solutorio, come tale incompatibile con la ratio dell’istituto che è stato introdotto per rilanciare l’economia e l’attività dell’impresa. Sul punto, è stato sostenuto che la ragione ispiratrice della riforma del concordato e della introduzione della transazione fiscale non è costituita dall’esigenza di rendere più celeri i tempi della liquidazione della società giacché la novella consente un alleggerimento del carico fiscale per consentire la continuazione dell’attività di impresa. Come emerge nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 5 del 2006, l’obiettivo della riforma è quello di “ispirarsi ad una prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, secondo la ristretta concezione del legislatore del 1942, ma confluiscono interessi economici o sociali più ampi, che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale”. D’altra parte, diversamente opinando, non si comprenderebbe per quale ragione la transazione fiscale non sia stata prevista anche per la procedura fallimentare. La ragione della scelta è probabilmente da rinvenire nel fatto che il fallito versa in una crisi irreversibile. Pertanto, difettava la ragione di introdurre uno strumento di deflazione del debito fiscale per un soggetto destinato a scomparire dalla scena imprenditoriale. A dispetto dei desiderata del legislatore, il concordato preventivo ha assunto, nella maggior parte dei casi, una funzione solutoria, volta a soddisfare celermente i creditori evitando una defatigante procedura fallimentare. Si tratta di una soluzione conveniente per l’impresa privata che chiude, per i creditori che vengono (più o meno) soddisfatti sollecitamente, ma non necessariamente per l’erario e certamente non per la continuità aziendale. Proprio la continuità aziendale è stata uno dei fattori in grado di orientare le scelte di amministrazione attiva in sede di proposta di transazione fiscale. Dal 2006 (ma di fatto dal 2008, anno in cui sono prevenute le prime istanze) al maggio del 2011, in Lombardia, le proposte di transazione fiscale ammontano a n. 160: 112 nell’ambito di procedure di concordato preventivo; 48 per CONTRIBUTI DI DOTTRINA 265 accordi di ristrutturazione. Le proposte accolte sono state 15, di cui 5 in seno ad accordi di ristrutturazione; le proposte rigettate: 29, di cui 4 per accordi di ristrutturazione. Le restanti proposte sono state avanzate da soggetti successivamente dichiarati falliti (la maggior parte: n. 73) o sono in fase di decisione. A contrasto della declinazione solutoria dell’istituto, è stato invocato il decreto 4 agosto 2009 emesso dal Ministero del lavoro di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze. Ai sensi dell’art. 4 del predetto decreto “gli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie possono accedere alla proposta di accordo nel rispetto dei seguenti parametri valutativi: e) essenzialità dell’accordo ai fini della continuità dell’attività dell’impresa e di ogni possibile salvaguardia dei livelli occupazionali”. La norma, però, ha rango secondario e sembra non potere incidere sul tessuto normativo, di rango primario, della disciplina novellata del r.d. n. 267 del 1942. In altri termini, se la ratio ispiratrice del concordato preventivo è quella di consentire una ripresa della attività imprenditoriale in crisi, in assenza di disposizioni normative primarie inequivoche, non è agevole dimostrare de iure condito, se non richiamandosi a principi generali, l’illegittimità della prassi che si va consolidando e che individua nel concordato un strumento anticipato di risoluzione delle controversie, consentendo la distribuzione di ogni posta attiva ai creditori e la cessazione della attività dell’impresa. Se il concordato preventivo non è una procedura liquidatoria ma di risanamento, si profila un contrasto, se così può dirsi, fra la mens legislatoris e la disciplina di diritto positivo che porta a privilegiare, alla luce della giurisprudenza che va consolidandosi, una opzione pragmatica nella quale lo sforzo da perseguire per il creditore erariale dissenziente, nell’ottica di una “amministrazione di risultato”, è quello di valutare, in sede di disamina della proposta concordataria, il maggiore favore per le entrate dello Stato della procedura fallimentare rispetto al concordato. Si tratta di verificare con una valutazione prognostica, che tenga conto anche della maggiore speditezza della procedura concordataria, se la via fallimentare possa garantire maggiormente la collettività. Proprio per assicurare quanto sopra, nell’ambito della procedura concordataria la transazione fiscale sembra rimanere un momento ineludibile, salvo che il proponente non si impegni al pagamento integrale delle imposte. La transazione fiscale trova sicuramente più adeguata collocazione in sede di accordi di ristrutturazione, ove la stipulazione è rimessa alle volontà delle parti contraenti. Il modello negoziale mal si adatta a una procedura concorsuale quale è quella del concordato preventivo. Secondo un indirizzo che pare preferibile (6), la transazione è parte inte- (6) Cfr. Trib. Monza, 10 aprile 2010 (R.G. conc. n. 4/09). 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 grante e indefettibile della proposta di concordato. La transazione fiscale ha natura negoziale e, come tale, si perfeziona solo con l’accordo reciproco delle parti. Dunque, la sua conclusione è eventuale perché rimessa alla volontà dei contraenti. Il predetto istituto, però, costituisce altresì un momento subprocedimentale ineludibile della disciplina concordataria, di cui condivide gli effetti e le sorti nelle sue varie fasi fisiologiche (esecuzione) e patologiche (risoluzione ed annullamento). L’incipit dell’art 182 ter, nel riportare che “il debitore può proporre il pagamento parziale o dilazionato”, non indica una mera facoltà, ma la possibilità di ottenere una falcidia del debito, diversamente non ammessa, solo con lo strumento della transazione fiscale. D’altra parte lo stesso art. 160 L.F. è redatto analogamente alla disposizione sopra richiamata prevedendo che il debitore “può” proporre ai creditori un concordato preventivo. Non sembra risolutivo, dunque, l’argomento letterale. Di contro, appare decisiva la specifica previsione di una peculiare disciplina che, se resa facoltativa, comporterebbe la rinuncia a uno strumento indispensabile non solo per la indicazione, da parte del fisco, del credito erariale, ma altresì per un confronto fra la società proponente e l’erario. Si sostiene che la facoltatività del concordato si giustificherebbe per la sua disciplina diretta a chiedere, e ottenere, un quid pluris rispetto alla ammissione alla procedura concordataria. Il vantaggio della transazione fiscale consisterebbe nel consolidamento del debito fiscale, con sostanziale cristallizzazione della quantificazione del medesimo, e nella cessazione della materia del contendere. La tesi non persuade in quanto pare scontrarsi con la realtà quotidiana. Di solito la società in concordato preventivo cessa la propria attività. Il recupero di ogni ulteriore credito, non soddisfatto in sede concorsuale, risulta di fatto precluso perché a carico di un ente, che ormai è divenuto una scatola vuota, al quale poco interessa l’esito di un contenzioso tributario che non dispiegherà alcun effetto sostanziale nella sua sfera patrimoniale ormai incapiente. La transazione fiscale costituisce, dunque, una fase subprocedimentale volta a quantificare con certezza e stabilità il credito tributario, in funzione della consapevole votazione dell’erario rispetto ai termini della proposta concordataria. La determinazione dell’Amministrazione deve essere espressa in sede di adunanza dei creditori e quest’ultima deve ritenersi soggetta alle regole per la formazione della maggioranza in ordine all’approvazione o meno della proposta. La transazione fiscale ha così una natura dipendente rispetto al piano concordatario proposto dall’imprenditore con conseguente soggezione del voto espresso dall’Amministrazione alle regole dell’approvazione a maggioranza. Tale soluzione dà origine a qualche perplessità in ragione dell’invocato CONTRIBUTI DI DOTTRINA 267 principio costituzionale di indisponibilità del credito tributario, ma è ormai consolidata nella giurisprudenza di merito. Resta fermo che, pur subendo la falcidia sotto il profilo della riscossione, salvo per i casi espressamente previsti dall’art. 182 ter c.p.c., l’Amministrazione erariale non ha alcuna disponibilità sull’an e sul quantum dell’accertamento del credito erariale. La parte pubblica determina unilateralmente il credito (7). Il debitore proponente ha diritto di svolgere le proprie contestazioni sulla esistenza e quantificazione del debito erariale di fronte al giudice tributario. Per l’effetto, la contestazione sul debito tributario sfugge al sindacato del giudice fallimentare, che non può che registrare il credito dell’Amministrazione finanziaria e il suo ammontare. Non convince pertanto la pronuncia del Tribunale di Milano che, pur accogliendo le conclusioni della difesa erariale non omologando il concordato, e pur manifestando l’intento di mettere un punto fermo a fronte di una più volte operata quantificazione del credito fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, ritenne “di dover considerare - allo stato e in via prudenziale - esistenti crediti fiscali in una misura pari ad almeno la metà della quantificazione da ultimo comunicata dall’Agenzia”(8). Rimane il problema di fondo, a cui si accennava sin dall’origine del presente contributo, legato alla conciliazione dei tempi del recupero tributario che risultano ben più dilatati rispetto a quelli della disciplina della novellata legge fallimentare. Al riguardo, assume particolare rilevanza la natura del termine di trenta giorni ex art. 182 ter, c. II, L.F., previsto per la trasmissione della certificazione del debito. E’ stato sostenuto che, nell’ambito della sistematica del codice fallimentare come novellato, il termine debba essere inteso a pena di decadenza. Di contro si rileva che non vi è ragione di discostarsi da quanto disposto dall’art. 152 c.p.c. La norma, avente una portata generale, dispone che sono perentori solo i termini indicati espressamente come tali. E’ stato altresì osservato che l’indicazione, o la rideterminazione, del credito tributario intervenuta prima dell’adunanza dei creditori non lede il diritto al contraddittorio con le altre parti. Per converso, si è ritenuto che non sia precluso all’Amministrazione indicare il proprio credito anche in sede di opposizione all’omologazione. Premesso che la determinazione del credito tributario non è nella dispo- (7) “La discrezionalità vera e propria, ammesso e non concesso che ci sia, non riguarda mai, lo ribadiamo, la esistenza e l’ammontare del debito. Può toccare vari aspetti e momenti dell’agire amministrativo volto all’attuazione del prelievo ma in nessun caso e in nessun modo la esistenza e la misura del debito”, FALSITTA, Funzione vincolata di riscosisone dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. dir. trib., 2007,1070. (8) Trib. Milano, 30 dicembre 2009, n. 15628. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 nibilità delle parti, si rileva che l’art. 182 ter, c. II, L.F. si limita a prevedere una certificazione che è meramente parziale e che non preclude un suo riesame successivo. La norma infatti concerne, per l’Agenzia, i soli atti di accertamento già operati ancorché non definitivi, escludendo dunque tutte quelle altre attività di accertamento che sono disciplinate dalle leggi tributarie e che comportano un termine ben più lato in ragione della complessità delle procedure di verifica (cfr. l’art. 43 del d.p.r. n. 600 del 1973 in forza del quale “gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione”). Vi è motivo di ritenere che un corretto bilanciamento fra termini della procedura fallimentare e disciplina degli accertamenti tributari possa portare a prendere in considerazione, in sede di omologazione, il credito come indicato dal fisco anche oltre gli stretti termini dell’art. 182 ter. Giova altresì evidenziare come l’art. 180, IV c., L.F. consenta al Tribunale di verificare la convenienza del piano, ove contestata dal creditore dissenziente. Nel caso in esame, la quantificazione del credito, così come indicata successivamente dall’Amministrazione, può portare a ritenere che l’alternativa fallimentare al concordato sia più proficua per il fisco. Proprio tale valutazione induce a esaminare un altro aspetto che, con sempre maggiore frequenza, caratterizza la proposta concordataria e la rende maggiormente conveniente rispetto al fallimento. Si fa riferimento all’ingresso nel piano concordatario del contributo economico di terzi. Questi ultimi, tutt’altro che disinteressati alle sorti della società che chiede l’omologazione del concordato, possono rivestire una posizione non neutra nei confronti del creditore erariale. Si ponga il caso che i soci illimitatamente responsabili di una compagine inseriscano nel compendio oggetto di concordato i loro beni personali. Si consideri, per ipotesi, che i singoli soci siano personalmente esposti nei confronti del fisco, perfino in misura maggiore rispetto alla società di cui si chiede il concordato. I debiti personali dei soci illimitatamente responsabili non subiscono l’effetto estintivo connesso al concordato e l’Agenzia delle Entrate conserva il potere di agire per l’intero. Tale conclusione, però, è frustrata dal concordato perché se quest’ultimo si fonda sulla liquidazione integrale dei beni personali degli accomandatari, si verifica l’inevitabile, e inaccettabile, conseguenza che i soci illimitatamente responsabili si spogliano dei propri beni, li destinano all’attivo concorsuale e li distraggono dal creditore erariale. Insomma, i soci sono divenuti nullatenenti e ogni azione nei loro confronti sarebbe vana. Spetta, dunque, al giudice, nell’ambito delle, più ristrette rispetto al passato, prerogative riconosciute dalla novella, effettuare una valutazione di convenienza del concordato che, per l’Agenzia, può non essere sussistente perché dal concordato deriva un sostanziale, e sostanzioso, sacrificio economico della CONTRIBUTI DI DOTTRINA 269 parte pubblica che perde ogni garanzia per il pagamento dovuto dai soci per i loro debiti personali. Da quanto sopra, e per quanto siano possibili delle conclusioni nell’ambito di una materia così fortemente in divenire e in assenza di consolidati pronunciamenti, si può affermare che, seppure “una distruzione di risorse pubbliche, di natura fiscale” sembrerebbe essere consentita soltanto “per aiutare l’imprenditore a non scomparire”(9), si assiste, nella prassi giurisprudenziale, a un approccio pragmatico, particolarmente incline a favorire una soluzione concordata fra i creditori. Spetta al creditore erariale operare una valutazione in concreto tesa a verificare la convenienza del concordato rispetto al fallimento, in ossequio al principio di buona amministrazione. Nell’ambito di tale valutazione, si può accettare o subire la falcidia del credito in sede di riscossione, ma l’Amministrazione finanziaria non può rinunciare alle proprie ineludibili prerogative in tema di accertamento del credito erariale. Al riguardo, in carenza di un coordinamento fra disciplina tributaria e concorsuale, l’interprete dovrà sì tener conto della ragionevole durata del giudizio, ma nel rispetto del principio di effettività. Ossia in ossequio alla realizzazione del bene della vita, nella fattispecie il recupero dei crediti fiscali, cui è sottesa la richiesta di intervento del giudice, in particolare in sede di opposizione all’omologazione. In un contesto così delineato, si può ben affermare che le esigenze di speditezza della procedura e una rigorosa applicazione del principio del contraddittorio fra le parti non possano obliterare la peculiarità del credito tributario e la sua più difficile individuazione rispetto a un credito ordinario, con conseguente maggiore tolleranza sui tempi della procedura concorsuale, caratterizzata spesso dalla presenza di più fasi costituite da una liquidazione del contribuente e una riliquidazione dell’ufficio, attraverso il controllo formale della dichiarazione e il possibile intervento correttivo in termini sostanziali se quello che è stato dichiarato non è conforme alla realtà. (9) FALSITTA, op. ult. cit., 1069. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Profili di diritto comunitario dell’ambiente Rosa Rota* SOMMARIO: I. IL PROFILO STORICO: 1.1 Cenni sulle fasi di sviluppo. Evoluzione della tutela: dai poteri c.d. impliciti ai programmi di azione ambientale - 1.2 Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Amsterdam - 1.3 L’ambiente nella Carta di Nizza, nella Costituzione per l’Europa e nel Trattato di Lisbona. II. OBIETTIVI E PRINCIPI DEL DIRITTO AMBIENTALE EUROPEO: 2.1 Gli obiettivi della politica ambientale nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea - 2.2 I principi - 2.2.1 Principi procedurali di tutela ambientale: Sussidiarietà e Proporzionalità - 2.2.2 Principi sostanziali: Integrazione e sviluppo sostenibile, Precauzione, Prevenzione, Correzione dei danni alla fonte,“Chi inquina paga”. III. L’AMBIENTE NEL SISTEMA COMUNITARIO DELLE LIBERTÀ ECONOMICHE: 3.1 La tutela ambientale come deroga speciale alla libertà di concorrenza - 3.2 La giurisprudenza comunitaria sui limiti alle deroghe: principio di integrazione e principio di proporzionalità nel bilanciamento degli interessi - 3.3 Segue: Effetti del principio di integrazione nella giurisprudenza costituzionale italiana. Bilanciamento di interessi e competenza legislativa esclusiva dello Stato - 3.4 Il principio di effettività per la tutela ambientale. IV. I PRINCIPALI SETTORI E STRUMENTI DI INTERVENTO DELLA POLITICA COMUNITARIA: 4.1. Il settore ecologico. La disciplina contro l’inquinamento atmosferico, climatico, idrico, acustico, dei rifiuti - 4.2 Il settore paesaggistico-territoriale e delle aree protette - 4.3 Gli strumenti procedimentali: VIA, VAS AIA. - 4.4 La responsabilità per danno ambientale - 4.5 L’accesso all’informazione ambientale. I. IL PROFILO STORICO 1.1 Cenni sulle fasi di sviluppo. Evoluzione della tutela: dai poteri c.d. impliciti ai programmi di azione ambientale Nell’ordinamento comunitario la tutela dell’ambiente è oggetto di specifica disciplina e costituisce “materia” propria nell’ambito delle diverse materie del diritto europeo. La politica ambientale è infatti uno dei principali settori in cui si estrinseca l’azione dell’Unione Europea, ed il perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile nella determinazione e nella realizzazione di tutte le altre politiche ed azioni comunitarie rappresenta ormai un obiettivo imprescindibile per le Istituzioni europee (1). E’ questo l’esito di un lungo e graduale processo evolutivo. Nella versione originaria del Trattato istitutivo della CEE, infatti, non si faceva menzione dell’ambiente, essendo gli scopi costitutivi della Comunità inizialmente soltanto di natura economica. In quella versione di Trattato, la Comunità economica europea non era pertanto titolare (*) Professore aggregato di Diritto dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Il contributo è in corso di pubblicazione nel Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di EUGENIO PICOZZA e PAOLO DELL’ANNO, ed. Cedam. (1) Cfr. M. MONTINI, Unione Europea e ambiente, in S.NESPOR - A. L.DE CESARIS, Codice dell’ambiente, Giuffrè 2009. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 271 di competenze proprie in materia ambientale. E’ solo con la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorchè cominciarono ad emergere i problemi ambientali, che si pose la questione del fondamento sostanziale, del titolo formale e degli strumenti utilizzabili per l’azione politica e gli interventi normativi di protezione ambientale della Comunità. “Il fondamento sostanziale fu rinvenuto nell’art. 2 del Trattato che nella versione originaria stabiliva per la Comunità il compito di promuovere “uno sviluppo armonioso delle attività economiche ed un’espansione continua ed equilibrata”. Il titolo formale per l’esercizio di competenze in materia ambientale fu invece rinvenuto nelle disposizioni di cui agli artt. 100 e 235 della versione originaria del Trattato (successivamente artt. 95 e 308 del testo, attualmente artt. 114 e 352 del Trattato), relativi il primo al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri ed il secondo ai c.d. poteri impliciti della Comunità. In base a tali previsioni e sulla scorta di un’interpretazione evolutiva dell’art. 2 del Trattato, volta a scorgere in tale norma i primi segni del concetto di sviluppo sostenibile, furono adottati programmi e misure di protezione ambientale di armonizzazione delle normative nazionali aventi incidenza sul funzionamento del mercato comune” (2). L’intervento armonizzatore degli organi comunitari era dunque rivolto ad eliminare eventuali discriminazioni derivanti dal riscontro di difformità, tra i vari Stati membri, nella protezione di determinati valori ambientali. In dottrina lo sviluppo della politica ambientale (3) è stato analizzato attraverso diverse fasi temporali. Secondo la ricostruzione operata da Jans, la prima fase copre il periodo che va dall’entrata in vigore dell’originario Trattato istitutivo della CEE (1958) fino al 1972. In tale periodo, pur in assenza di una piena consapevolezza della questione ambientale e di una vera e propria politica ad essa dedicata, furono adottate alcune prime direttive, quali la direttiva n. 67/584 concernente la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze pericolose, la direttiva n. 70/157 sull’inquinamento acustico e la n. 70/220 relativa alle emissioni in- (2) Cfr. M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comun., 2009, p. 651 e ss. Cfr. anche AA.VV., La tutela dell’ambiente, a cura di R. FERRARA, vol. XIII del Trattato di diritto privato dell’Unione Europea, Giappichelli, 2006; G. COCCO - A. MARZANATI - R. PUPILELLA, Ambiente, il sistema organizzativo ed i principi fondamentali, in Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, diretto da M. P. CHITI e G.GRECO, Giuffrè, 2007; A. CROSETTI - R. FERRARA - F. FRACCHIA - N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, La Terza, 2008. (3) Per lo sviluppo delle diverse fasi cfr. J. H. JANS European Environmental Law, Groningen, 2000; L. KRAMER, Manuale di diritto comunitario per l’ambiente, Milano, 2002. Una ricostruzione delle fasi storiche è anche in G. CATALDI, voce Ambiente (tutela dell’) Diritto della Comunità europea, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2001. In generale sulla politica comunitaria: L. KRAMER , EC Environmental Law, London, Sweet& Maxwell, 2006; M. ONIDA (ed.), Europe and the Environment. Legal Iusses in Honoe of Ludowig Kramer, Groningen, 2004; E. LOUKA, Conflicting Integration - The environmental law of the european union, London, 2005. Per una attenta bibliografia si rinvia a M. MONTINI, cit. p. 48 e ss. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 quinanti provocate dagli autoveicoli. L’anno 1972 apre la seconda fase che giunge fino al 1987. Essa segna un momento di notevole rilevanza per la fondazione dei primi embrioni di una politica ambientale. E’ in questa seconda fase infatti che si possono scorgere i primi segnali di attenzione da parte delle Istituzioni comunitarie verso le tematiche ambientali (4). Sulla spinta dei risultati del primo grande vertice mondiale svoltosi a Stoccolma nel 1972, le Istituzioni comunitarie furono incaricate di redigere il primo documento programmatico per la protezione ambientale adottato nel 1973 (Primo Programma di azione in materia ambientale). Da quel momento diversi Programmi di azione in materia ambientale sono stati adottati anticipando e consolidando lo sviluppo via via crescente di una vera e propria politica nel settore ambientale. Essi, infatti, oltre a costituire momento di discussione ed approfondimento delle tematiche ambientali hanno anche fornito le basi per anticipare il contenuto dei singoli atti normativi successivamente approvati, nel Corso di vigenza del Programma stesso (5). I primi due programmi di azione ambientale (1973-1977 e 1977-1981) stabilirono la centralità dell’interesse ambientale in relazione a qualunque tipo di programma o decisione, anche di natura economica adottata dalla CEE; stabilirono il principio di prevenzione dell’inquinamento come criterio da preferire ad interventi successivi di recupero e ripristino nonché il principio dell’imputazione delle spese per la prevenzione e l’eliminazione dell’inquinamento a carico del responsabile (“chi inquina paga”). Si ascrivono a tale periodo le prime direttive comunitarie sulla protezione ambientale: la direttiva n. 75/442 sui rifiuti, la direttiva n. 75/716 sul tenore di zolfo nei combustibili, la direttiva n. 76/464 sulle sostanze pericolose nelle acque, la direttiva n. 78/319 sui rifiuti tossici e nocivi, la direttiva n. 79/409 sulla conservazione degli uccelli selvatici, la direttiva n. 80/778 sulle acque destinate al consumo umano e la direttiva n. 80/779 sulla qualità dell’aria. Il Terzo programma di azione (1982-1986) getta le basi per la costruzione di una vera e propria politica ambientale prevedendo, insieme alle tradizionali misure sul controllo e contenimento degli inquinanti, una politica di prevenzione dei danni all’ambiente. Ricadono in tale periodo la direttiva n. 82/501 sui rischi di incidenti rilevanti, la direttiva n. 84/360 sulle emissioni in atmosfera degli impianti industriali, la direttiva n. 85/210 sul tenore di piombo nella (4) Nel Vertice di Stoccolma del 1972 fu dichiarato che “la crescita economica non è fine a se stessa… ma dovrebbe tradursi in un miglioramento della vita e del benessere generale… In conformità con i tratti fondamentali della cultura europea, attenzione particolare dovrà essere data ai valori intangibili ed alla protezione dell’ambiente”. Cfr. L. KRAMER, Manuale di diritto comunitario per l’ambiente, 2002. (5) Cfr. A. CAPRIA, Unione Europea ed ambiente, in S.NESPOR - A. L.DE CESARIS (a cura di), Codice dell’ambiente, Giuffrè, 1999; A. GRATANI, Uno sguardo ai principali profili evolutivi della tutela ambientale comunitaria, in Quaderni delle RGA Speciale 20 anni, 2006, p. 51; N.DE SADELEER, Environmental principles from political slogans to legal rules, Cambridge, 2005. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 273 benzina, la direttiva n. 85/337 sulla valutazione di impatto ambientale. In questa seconda fase, in assenza di una specifica base giuridica per azioni a tutela dell’ambiente l’adozione della normativa sopra citata fu basata, come detto, essenzialmente sugli artt. 100 e 235 del Trattato. 1.2 Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Amsterdam Dal 1987 al 1993 si sviluppa la terza fase della politica ambientale. E’ l’Atto Unico europeo ad introdurre per la prima volta nel Trattato una espressa competenza della Comunità in materia ambientale introducendo il Titolo VII dedicato espressamente alla tutela ambientale (art. 130 R, 130 S, 130 T). Tale Titolo, successivamente modificato con il Trattato di Maastricht nel 1992, poi con il Trattato di Amsterdam nel 1997 ed infine con il Trattato di Lisbona nel 2007, costituisce ancora oggi il pilastro sostanziale della politica ambientale. Particolare attenzione in materia di ambiente è stata inoltre manifestata fin dal 1980 dalla stessa Corte di giustizia, la quale ha indicato la tutela dell’ambiente quale scopo essenziale della Comunità (v. sentt. CGCE 18 marzo 1980, in cause 91/1979 e 92/1979; 7 febbraio 1985, in causa 240/1983; 20 febbraio 1988, in causa 302/1986). Tuttavia non si trattava ancora di una vera e propria politica, bensì di una più limitata azione volta ad affermare i principi di salvaguardia, protezione e miglioramento dell’ambiente, nonché di protezione della salute umana e dell’uso razionale delle risorse naturali. Nel quarto Programma di azione (1987-1992) si prospetta poi l’esigenza di integrare la politica ambientale con le altre politiche comunitarie. Ma è con il Trattato di Maastricht (nel periodo dal 1992 al 1999) che l’ambiente diviene oggetto di una vera e propria politica comunitaria (v. Preambolo, artt. 2, 3, Titolo XVI). Da questo momento non solo muta la denominazione stessa della Comunità da Comunità economica europea in Comunità europea ma viene istituita l’Unione Europea intesa come una nuova organizzazione che si aggiunge alla CE, al fine di fornire uno strumento più flessibile per il miglioramento ed il consolidamento del processo di unificazione europea (6). La politica ambientale diventa così scopo ed obiettivo della Comunità Europea: promozione di uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente (art. 2). Con tale Trattato si introduce anche il principio di precauzione tra i principi guida della politica ambientale comunitaria, mentre il principio di sussidiarietà viene trasferito dagli articoli relativi alla tutela ambientale alle norme introduttive del Trattato, divenendo quindi un principio generale nell’ordinamento giuridico comunitario. In questo stesso periodo fu adottato anche il Quinto Programma di azione (1993-2000 “Verso la sostenibilità”) sostanzialmente improntato alla ricerca di modalità di intervento fina- (6) Cfr. M. MONTINI, cit. p. 51, cui si rinvia per l’ampia bibliografia. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 lizzate al contemperamento delle esigenze dello sviluppo economico con quelle legate alla tutela ambientale. Con tale programma emerge una diversa impostazione. Ora infatti l’approccio è di tipo orizzontale: si considerano infatti tutte le possibili cause di inquinamento e si cerca di favorire un intervento attivo di tutti i possibili attori. Da un lato si incentivano strumenti trasversali e non più solo settoriali di tutela, in considerazione di una visione unitaria delle problematiche ambientali, viste nella loro interrelazione, dall’altro si incentiva anche la partecipazione di imprese e cittadini attraverso l’adozione di strumenti che vadano al di là dello schema tradizionale e che mirino ad un cambiamento di comportamenti non solo imprenditoriali ma anche sociali (7). Nel 1998 la decisione n. 2179/98/CE prosegue tale opera di cambiamento del diritto comunitario dell’ambiente promuovendo l’integrazione delle tematiche ambientali nelle politiche comunitarie. E di ciò si terrà conto nel successivo Trattato di Amsterdam. La quinta fase inizia infatti con l’entrata in vigore di tale Trattato (1999) e prosegue fino ai nostri giorni. Pur non avendo, il Trattato di Amsterdam, apportato sostanziali modifiche, con esso si è consolidata la rilevanza comunitaria della politica ambientale. In particolare il principio di integrazione è stato elevato al rango di principio generale dell’ordinamento comunitario; principio che ha assunto poi importanza via via crescente come si evince anche dal Sesto programma di azione ambientale (Decisione n. 1600/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002) che definisce le Linee guida dell’azione della Comunità per i successivi dieci anni, ma anche dal più recente Trattato di Lisbona. Obiettivo finale rimane quello del perseguimento dello sviluppo sostenibile. In relazione a tale obiettivo “l’applicazione del principio di integrazione, considerato criterio guida, pone la politica ambientale in una necessaria più ampia prospettiva, consentendo l’elaborazione di una normativa genuinamente efficace e mirando al raggiungimento dello sviluppo sostenibile attraverso una strategia omnicomprensiva volta ad integrare le tematiche ed esigenze ambientali con quelle di natura sociale ed economica”(8). Con riguardo a tale programma la Commissione europea è chiamata ad elaborare strategie tematiche su sette settori: inquinamento dell’aria, prevenzione e riciclaggio dei rifiuti, protezione e conservazione dell’ecosistema marino, protezione e conservazione del suolo, uso sostenibile di pesticidi, uso sostenibile delle risorse naturali, ambiente urbano. L’elaborazione di tali tematiche è svolta in un’ottica di integrazione con gli obiettivi e tematiche individuate nella strategia di Lisbona ed in quella per lo sviluppo sostenibile, in una pro- (7) Cfr. N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, Cedam, 2008. (8) Così M. Montini, cit., p. 52. Cfr. anche R. GARABELLO, Le novità del Trattato di Amsterdam in materia di politica ambientale comunitaria, in Riv. Giur. Amb., 1999, p. 151; N. DHONDT, Integratione of Environmental Protection into other EC Policies Legal Theory and Practice, Groningen, 2003. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 275 spettiva volta a promuovere sia l’ecoinnovazione che la crescita economica e del mercato del lavoro. 1.3 L’ambiente nella Carta di Nizza, nella Costituzione per l’Europa e nel Trattato di Lisbona Nel 2000 i profili ambientali entrano a far parte della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale riconoscendo il valore della tutela ambientale, rimarca l’esigenza di un elevato livello di protezione e di un miglioramento della qualità dell’ambiente ma anche la necessaria integrazione della politica ambientale nelle altre politiche comunitarie, attraverso il principio dello sviluppo sostenibile considerato parametro di riferimento (art. 37: “Un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”). Tale previsione va letta in un’ottica d’insieme che tenga cioè conto della circostanza che, trattandosi di Carta dei diritti, gli interessi ambientali devono essere mediati con altri diritti ed interessi individuali, di carattere economico, quali la libertà di impresa (art. 16) ed il diritto di proprietà privata (art. 17), intesi non diversamente da quanto previsto ai livelli nazionali, quali posizioni di vantaggio non assolute o incondizionate (9). La Carta inizialmente non aveva valore vincolante, essendo solo un documento politico, ma essa è stata successivamente integrata sia nel Trattato costituzionale firmato a Roma il 29 ottobre del 2004 (10) sia nel Trattato di Lisbona del 2007 (11), di cui si dirà. Con riguardo al primo (il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), pur essendosi interrotto il processo costituzionale europeo (12), l’incorporazione in esso della Carta dei diritti fondamentali va registrato in generale come un elemento di significativa portata, anche se non si è mancato di sottolineare la delusione per il mancato atteso riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’ambiente in capo ai cittadini europei (13). (9) Cfr. N. LUGARESI, cit., p. 49. (10) Cfr. A. LUCARELLI, Commento art. 37, in R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti, Il Mulino, 2001; L. FERRARI BRAVO, Carta dei diritti fondamentali UE, Milano, 2001; A. MANZELLA, Dopo Nizza: La Carta dei diritti fondamentali e Costituzione dell’Unione europea, Giuffrè, 2002. (11) Cfr. M. ALBERTON - M. MONTINI, Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona per la tutela dell’ambiente, in Riv. giur. Amb., 2008, p. 505. (12) Sulle disposizioni costituzionali in tema di politica ambientale, cfr. P. BEYER, The Draft Constitution for Europe and the Environment, in ELR, 2004, p. 218 ss.; J. ZILLER, La place du droit materiel dans le project de constitution: Pourquoi une troisieme partie?, EUI Working Paper 2004/15. (13) In tema cfr. A. VITTORINO, La Charte des droits foundamentaux de l’Unione europèenne, in Rev du Droit et de l’Union eur., 2001; G. GAIA, L’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali nella Costituzione per l’Europa, in I diritti dell’uomo – Cronache e battaglie, 2004; S. RODOTÀ, La 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 E’ però solo con l’integrazione del Testo della Carta nel Trattato di Lisbona del 2007 che essa assurge al rango di diritto primario dell’Unione Europea. (Articolo 6 TUE) 1. L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Tale Trattato, entrato in vigore nel 2009, ha apportato modifiche volte al buon funzionamento di un’Europa ormai notevolmente allargata. Il Trattato che istituisce l’Unione Europea ed il Trattato che istituisce la Comunità Europea sono stati rispettivamente sostituiti dal Trattato sull’Unione Europea (TUE) e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In particolare ai sensi dell’art. 3, par. 3 TUE l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. La centralità delle tematiche ambientali si rileva anche in sede di azione esterna dell’Unione; infatti l’art. 21, par. 2, lett. f TFUE, dispone che l'Unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di “contribuire all'elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell'ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile”. Sebbene, quindi, il riferimento allo sviluppo sostenibile fosse già presente nelle fonti di diritto primario precedenti, si configura nel nuovo Trattato un rafforzamento di tale principio ed un’estensione della sua portata, non più limitata principalmente al mercato e alle attività economiche, ma omnicomprensiva, nel senso di uno sviluppo sostenibile economico, sociale ed ambientale e di linea guida nella definizione della politica sia interna che esterna dell’Unione (14). Il Trattato di Lisbona ridefinisce i settori in cui l’Unione ha competenza esclusiva o concorrente (artt. 4 e 5 TUE). Anche a seguito di questa revisione, l’ambiente rimane una delle politiche in cui l’Unione condivide il potere legislativo con gli Stati membri ed esercita la sua azione in conformità con i principi di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità. In materia di ambiente all’Unione è attribuita una competenza concorrente con quella degli Stati membri (art. 4, par. 2, lett. e TFUE) ed inoltre, a conferma della natura trasversale delle questioni inerenti all’ambiente rispetto Carta come atto politico e documento giuridico, in A. MANZELLA, P. MELOGRANI, E. PACIOTTI, S. RODOTÀ, Riscrivere i diritti in Europa, Il Mulino, 2001. Esprime delusione per il mancato riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’ambiente in capo ai cittadini europei, atteso con la Carta, M. RENNA, cit., p. 660. (14) In tali termini M. ALBERTON - M. MONTINI, cit., p. 507. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 277 alle altre aree di intervento comunitario, è posta all’art. 11 TFUE una clausola generale, in forza della quale “le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. Si è osservato che tale diversa formulazione della norma, la quale non reca più lo specifico riferimento alle politiche ed alle azioni di cui al vecchio art. 3 del Trattato CE, come ambito di applicazione del principio di integrazione della politica ambientale, potrebbe comportare un potenziale significativo allargamento dello scopo del principio stesso, non più vincolato verso specifiche e predeterminate politiche o azioni, ma anche, al contrario, diluirne la portata in assenza di uno specifico collegamento con un elenco ben identificato di politiche ed azioni (15). Le norme del Trattato dedicate specificatamente alla politica ambientale sono inserite nel titolo XX del Trattato FUE, che si compone degli artt. 191, 192 e 193, i quali sostituiscono rispettivamente gli artt. 174, 175 e 176 del TCE. Di questi si tratterà più diffusamente nel paragrafo successivo ma sin da ora può rilevarsi che la politica della Comunità contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: - salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, - protezione della salute umana, - utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, - promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici (art. 191, par. 1 TFUE). Più in generale, la politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga". In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell'ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell'Unione (art. 191, par. 2). Nel predisporre la politica in materia ambientale l'Unione tiene conto: - dei dati scientifici e tecnici disponibili, - delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni dell'Unione, - dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall'azione o dall'assenza di azione, (15) Ancora M. ALBERTON - M. MONTINI, cit., p. 514. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 - dello sviluppo socioeconomico dell'Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni (art. 191, par. 3 TFUE). Sotto il profilo internazionale, da un lato si prevede che, nell'ambito delle rispettive competenze, l'Unione e gli Stati membri collaborano con i paesi terzi e con le competenti organizzazioni internazionali e le modalità della cooperazione dell'Unione possono formare oggetto di accordi tra questa ed i terzi interessati; dall’altro si precisa che l’intervento dell’Unione sul piano internazionale non pregiudica la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali (art. 191, par. 4 TFUE). Quanto alla procedura legislativa, l’art. 192 (ex art. 175 TCE) prevede che il Parlamento europeo e il Consiglio deliberano secondo la procedura ordinaria previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (art. 192, par. 1). Tuttavia il Trattato indica alcune iniziative, in ordine alle quali il Consiglio deve deliberare all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. Tale procedura si applica per l’adozione di: a) disposizioni aventi principalmente natura fiscale; b) misure aventi incidenza: - sull'assetto territoriale, - sulla gestione quantitativa delle risorse idriche o aventi rapporto diretto o indiretto con la disponibilità delle stesse, - sulla destinazione dei suoli, ad eccezione della gestione dei residui; c) misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell'approvvigionamento energetico del medesimo (art. 192, par. 2 TFUE). Inoltre, il Parlamento europeo ed il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni, adottano programmi generali d'azione che fissano gli obiettivi prioritari da raggiungere, cui seguono le necessarie misure di attuazione (art. 192, par. 3 TFUE). Il carico economico per il finanziamento e l’esecuzione della politica in materia ambientale grava in prima battuta sugli Stati membri, fatte salve talune misure adottate dall’Unione (art. 192, par. 4); tuttavia il Trattato introduce un temperamento, poiché prevede che, fatto salvo il principio "chi inquina paga", qualora una misura (..) implichi costi ritenuti sproporzionati per le pubbliche autorità di uno Stato membro, tale misura prevede disposizioni appropriate in forma di deroghe temporanee e/o sostegno finanziario del Fondo di coesione (art. 192, par. 5 TFUE). Infine, l’art. 193 pone una clausola di salvaguardia, a chiusura del sistema, prevedendo che “i provvedimenti di protezione adottati in virtù dell'articolo 192 non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere prov- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 279 vedimenti per una protezione ancora maggiore. Tali provvedimenti devono essere compatibili con i trattati. Essi sono notificati alla Commissione” (16). II. OBIETTIVI E PRINCIPI DEL DIRITTO AMBIENTALE EUROPEO 2.1 Gli obiettivi della politica ambientale nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea Anche dopo le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, nella versione attualmente vigente restano confermati gli obiettivi di uno sviluppo economico coerenti con la salvaguardia delle risorse ambientali. L’art. 3 c. 3 (ex art. 2 del TUE) dell’attuale TUE, tra gli obiettivi generali che l’UE si prefigge, indica il riferimento ad uno “sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione ed al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”. Tale obiettivo, già contenuto negli articoli 2 del Trattato UE e CE e 6 del Trattato CE, viene qui ora ribadito in una prospettiva globale (art. 3 c. 5 TUE: “sviluppo sostenibile della Terra” e art. 21 c. 2 lett.f: “azione esterna dell’UE”), laddove si enuncia che l’Unione definisce e attua politiche comuni e azioni ed opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di “contribuire all’elaborazione di misure internazionali … volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile”. Appare così evidente che, pur essendo il riferimento allo sviluppo sostenibile già presente nelle fonti di diritto primario precedenti, nel nuovo Trattato esso ne esce rafforzato, con estensione della sua portata non più limitata al mercato ed alle attività economiche. Ne emerge, secondo quanto prima detto, una visione omnicomprensiva del principio che include anche gli aspetti sociali ed ambientali. L’articolo 191 del TFUE (ex articolo 174 del TCE) al comma 1 recita: 1. La politica dell'Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: - salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, - protezione della salute umana, - utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, - promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i (16) Con riguardo a tale normativa, per un analitico commento delle disposizioni relative alla competenza esterna in materia ambientale, nonché alla competenza normativa (ex artt. 174 par. 2 e 176) ed esecutiva cfr. O. PORCHIA, Tutela dell’ambiente e competenze dell’Unione Europea, in Riv. It. Dir. Pubb., Comun., 2006, specie p. 41 e ss. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. Il primo tra gli obiettivi indicati, nella sua formulazione, appare quanto mai vago ed ampio (17), potendo in esso rientrare sia misure generali per la salvaguardia ambientale sia misure specifiche di prevenzione da inquinamento. Il fine della protezione della salute umana dà conto invece della stretta correlazione tra le misure volte alla tutela della qualità dell’ambiente e quelle per la tutela della salute. Nel nostro ordinamento del resto, proprio la previsione costituzionale (art. 32) della tutela della salute unitamente alla tutela del paesaggio (art. 9) ha fornito le basi per la costruzione di una tutela ambientale. Il terzo obiettivo della politica comunitaria consiste nell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Al proposito occorre ricordare che anche il concetto di “risorse naturali”, al pari del concetto stesso di “ambiente”, non è stato definito né nel Trattato né nella legislazione comunitaria secondaria. Si è quindi fatto riferimento al diritto internazionale dell’ambiente, laddove (Principio 2 Dichiarazione di Stoccolma 1972) le risorse naturali includono “aria, acqua, terra, flora, fauna e gli esempi particolarmente rappresentativi di ecosistemi naturali ”. In dottrina, poi, le risorse naturali sono state definite come l’insieme di tutte le risorse che si trovano nell’ambiente: “flora, fauna, legno, minerali, acqua, olio, gas naturale e sostanze chimiche” (18). E si è correttamente evidenziato che una definizione più dettagliata dell’ampio e vago concetto di “utilizzazione delle risorse naturali” può ricavarsi dalle competenze che deriverebbero da questa disposizione del Trattato per le Istituzioni comunitarie (19). L’utilizzazione delle risorse naturali comprenderebbe quindi le attività di conservazione della natura, protezione del suolo, gestione dei rifiuti, pianificazione urbana, zone costiere, protezione della montagna, gestione delle acque, politica agricola, risparmio energetico e protezione civile”. La previsione dell’art. 192 del TFUE (ex art. 175 del TCE) sembra confermare tale assunto. Infatti, tra le misure che il Consiglio adotta (comma 2 del citato articolo) vi sono quelle aventi incidenza: “sull’assetto territoriale, sulla gestione quantitativa delle risorse idriche o aventi rapporto diretto o indiretto con la disponibilità delle stesse, sulla destinazione dei suoli, ad eccezione della gestione dei residui”, ma anche quelle aventi incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo”. Ove si consideri che dopo il Trattato di Lisbona l’attuale TFUE contiene un apposito Titolo dedicato alla politica energetica (Titolo XXI art. 194) e nel contempo attribuisce rilevanza fondamentale anche alla lotta al cambiamento (17) Cfr. L. KRAMER, cit., p. 72. (18) Cfr. J. JANS, cit., p. 28. (19) Per la dottrina in tema cfr. M. MONTINI, cit., p. 60. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 281 climatico, ancor più evidente appare come il riferimento all’obiettivo dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, conferisca alla Istituzioni comunitarie il potere di indirizzare la normativa ambientale verso fini di tutela delle risorse naturali, sviluppo sostenibile e risparmio energetico in un’ottica di integrazione tra le politiche ambientali e quelle energetiche, anche alla luce dei più recenti tentativi internazionali (Cancun 2010) volti all’attuazione del Protocollo di Kyoto (20). Il quarto obiettivo della politica ambientale comunitaria (“promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici ”) ha indotto ad interrogarsi circa la possibilità che tale riferimento risolvesse tutti i problemi relativi alla competenza esterna della Comunità europea nel settore della tutela internazionale dell’ambiente. Ed infatti nonostante l’adozione di numerosi strumenti di protezione ambientale al di fuori del territorio comunitario, permanevano questioni di natura “costituzionale” in merito all’ampiezza delle competenze esterne della Comunità. Ora, però, la specifica previsione della lotta ai cambiamenti climatici inserita espressamente, come detto, dopo il Trattato di Lisbona cristallizza l’importanza e la priorità accordata dall’Unione a tale aspetto, giustificandone azioni ed impegni. 2.2. I principi 2.2.1 I principi procedurali di tutela ambientale: sussidiarietà e proporzionalità I principi del diritto comunitario ambientale (21), consacrati nei Trattati ed ora anche nella Carta dei diritti fondamentali di Nizza, si possono distinguere in principi procedurali, atti ad indicare le regole di azione, il modus procedendi appunto, in materia ambientale, e in principi di carattere sostanziale, i quali forniscono il contenuto sostanziale dei principi introdotti espressamente per il settore ambientale (principi propriamente ambientali). Con riguardo al primo tipo va innanzitutto menzionato il principio di sussidiarietà (22), originatosi proprio nel settore ambientale e poi esteso a principio cardine della Comunità, ora Unione, e degli Stati membri. (20) Cfr. S. NESPOR, La conferenza di Cancun sul cambiamento climatico, in Greenlex.it, Editoriale, 2010. (21) Cfr. M. RENNA, cit. p. 667 e ss.; P. SANDS, Principles of International Environmental, Cambridge, 2003, p. 732; G. CORDINI, Ambiente (Tutela dell’) nel Diritto delle Comunità Europee, Aggiornamento voce Ambiente, in Dig. Disc. pubbl., Appendice VII, 1991, p. 665; B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, 2005; P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Giuffrè, 2004. (22) Cfr. W. P. J. WILS, Subsidiarity and EC Environmental Policy:taking People’s Concerns seriously, in Journal of Environmental law, 1994, p. 85; K. LENAERTS, The Principle of subsidiarity and the environment in the European U: keeping the balance of federalism, in Fordham international law journal, 1994, p. 846. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Tale principio è stato considerato un principio polivalente che, tuttavia, nell’ordinamento europeo vale essenzialmente quale principio inerente l’esercizio delle competenze normative comunitarie. Sotto tale profilo esso è stato adottato inizialmente per la materia ambientale, ma poi esteso a tutti i settori di competenza non esclusiva della Comunità, nei quali, ai sensi del vigente art. 5 del TUE (ex art. 5 del TCE) “l’Unione interviene soltanto se ed in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”. In ambito comunitario dunque il principio è concepito per operare sul piano normativo, in senso ascendente, ed è strettamente connesso al principio di effettività. E’ noto invece che nell’ordinamento italiano, laddove esso rileva sul piano dell’allocazione ed esercizio delle funzioni amministrative (sia in una dimensione verticale, nel rapporto tra i diversi livelli di governo territoriale, sia in una dimensione orizzontale, nel rapporto tra pubblici poteri e autonomia individuale e sociale dei cittadini) è stato concepito per operare soprattutto in senso discendente. Sia che si applichi all’esercizio di competenze normative, sia che riguardi il riparto di funzioni amministrative, resta un principio per sua natura elastico ed ambivalente (23). A ben guardare, prima ancora che essere considerato un principio procedurale, al pari del principio di attribuzione, esso si ascrive tra i principi generali del diritto comunitario. L’attuale art. 5 del TUE prevede infatti, come criteri (23) Sul principio di sussidiarietà nel nostro ordinamento cfr. G. STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integrazione europea: un’incognita e molte aspettative, in Rivista italiana di diritto pubblico comparato n. 1/1993; F. CASAVOLA, Dal federalismo alla sussidiarietà: le ragioni di un principio, Foro italiano n. 4/1996; J. LUTHER, Il principio di sussidiarietà: un “principio speranza” per l’ordinamento europeo?, in Foro Italiano n. 4/1996; A. RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello d’analisi, in Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto, a cura di A. RINELLA, LEOPOLDO COEN, ROBERTO SCARMIGLIA, Padova, Cedam, 1999; A. D’ATENA, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quaderni Costituzionali n. 1 2001; dello stesso A., La sussidiarietà tra valori e regole in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente n. 2/2004 e Modelli federali e sussidiarietà nel riparto di competenze tra Unione europea e Stati membri, in Diritto dell’Unione Europea n. 1/2005; L. AZZERA, Il sistema delle competenze, in Il Foro italiano n. 1 2005; F. CARINCI, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in ADL 2006 n. 6; O. CHESSA, La sussidiarietà (verticale) come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, in Diritto pubblico comparato ed europeo n. 4/2002; L. GIANNITI, I Parlamenti nazionali garanti del principio di sussidiarietà, in Quaderni Costituzionali n. 1, 2003; F. IPPOLITO, Sussidiarietà e armonizzazione: il caso British American Tabacco, in Il diritto dell’unione europea n. 3/2004; I.MASSA PINTO, Il principio di sussidiarietà nel Progetto di Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa, in Diritto pubblico comparato europeo n. 3/2003; C. PANZERA, Il doppio volto della sussidiarietà, n. 4/2003; F. PETRANGELI, Sussidiarietà e Parlamenti nazionali: i rischi di confusione istituzionale, in Quaderni Costituzionali n. 1/2003; C. PINELLI, Il disegno delle istituzioni politiche, in Il Foro italiano n. 1/2005; S. STAIANO, La sussidiarietà orizzontale: profili teorici in Federalismi.it del 9 marzo 2006. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 283 generali di riferimento per l’esercizio dell’azione legislativa da parte delle istituzioni comunitarie, il principio di attribuzione, il principio di sussidiarietà ed il principio di proporzionalità. “In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri” (art. 5 del TUE). Tale principio caratterizza l’ordinamento giuridico comunitario, il quale non è un ordinamento originario ma deriva dagli ordinamenti degli Stati membri che, mediante il Trattato, trasferiscono parte delle loro competenze alla Comunità. Ne consegue che le Istituzioni comunitarie possono agire solo nei limiti delle competenze che sono state loro conferite dal Trattato stesso (24). Tornando al principio di sussidiarietà, si è detto che esso costituisce principio generale di diritto comunitario ed è di estrema rilevanza per il diritto ambientale. Fu infatti inserito per la prima volta nel Trattato CE con le modifiche apportate dall’Atto Unico europeo del 1987 al testo dell’art.130 R (poi art. 174), ora art. 191), con esclusivo riferimento alla politica ambientale comunitaria. Nel 1993, con il Trattato di Maastricht, il riferimento al principio di sussidiarietà venne eliminato dall’art. 130 R e trasferito nel nuovo art. 3B del Trattato (poi art. 5), divenendo così principio generale; come tale esso guida l’azione normativa delle istituzioni comunitarie in tutti i settori in cui l’Unione è titolare di competenza concorrente con quelle degli Stati membri. In dottrina si è ritenuto che tale principio si atteggi come criterio da utilizzare per effettuare una corretta ripartizione delle competenze tra le Istituzioni comunitarie e quelle degli Stati membri tutte le volte in cui vi sia un dubbio sull’opportunità di disciplinare una certa materia a livello comunitario o a livello nazionale. Ammessa la natura giuridica del principio, assoggettabile al sindacato del giudice comunitario, la rarità dei casi in cui la Corte ha riconosciuto la violazione del principio ha dato luogo ad un acceso dibattito sull’effettività del controllo giurisdizionale ex post (25). Al fine di consentirne una corretta applicazione è stato allegato al Trattato di Amsterdam un Protocollo (26) contenente una serie di criteri atti a stabilire il livello più appropriato di intervento. Riguardo a tali criteri particolare rilievo è stato dato in (24) G. TESAURO, Diritto Comunitario, IV ed., Cedam, 2005; G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Laterza, 2005; M. MONTINI, cit., p. 68. (25) Anche se inserito nel Trattato, e perciò dotato di efficacia giuridica, soprattutto nei primi anni di applicazione del principio si è contestata la sua natura giuridica riconoscendo unicamente la natura politica. Sulla questione cfr. P. FOIS, Il diritto ambientale nell’ordinamento dell’Unione europea, in G. CORDINI, P. FOIS, S. MARCHISIO, Diritto ambientale. Profili internazionali europei e comparati, Giappichelli, 2005, p. 51. (26) Tale Protocollo è stato oggetto di profonde modifiche da parte del Trattato di Lisbona, in merito alle quali si rinvia a M. ALBERTON E M. MONTINI, Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona, cit. specie p. 508 e ss. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 dottrina (27) all’ipotesi in cui l’intervento comunitario si giustifica allorchè l’assenza di azione a tale livello, congiuntamente all’azione di alcuni Stati membri, potrebbe determinare in un certo settore un’alterazione delle condizioni di funzionamento del mercato unico, attraverso limitazioni alla libera circolazione delle merci o distorsioni della concorrenza. L’intervento comunitario è stato ritenuto preferibile in virtù del principio di sussidiarietà quando l’azione comunitaria sia in grado di produrre economia o benefici di scala rispetto ad azioni nazionali dei singoli Stati membri. Il riferimento alla possibilità di raggiungere “meglio” gli obiettivi dell’azione prevista è stato infatti interpretato nel senso di “più efficace”, “meno costoso”, più efficiente, ma a anche “più vicino al cittadino”, “più democratico”. Inoltre, muovendo da un’analisi della pronuncia della Corte di Giustizia (caso C-84/94 Regno Unito c. Consiglio e C-233/94 Germania c. Parlamento Europeo e Consiglio) si è anche sottolineata la scarsa propensione ad annullare un atto del Consiglio sulla base della mancata applicazione del principio di sussidiarietà (28). Il canone dell’adeguatezza o di efficacia, implicato nel principio di sussidiarietà, sarebbe testualmente rinvenibile nell’art. 5 del Trattato UE, laddove si fa riferimento alla possibilità di “realizzare gli obiettivi dell’azione prevista in misura sufficiente”. Unitamente a detto canone va considerato anche il principio di differenziazione, come corollario del canone di adeguatezza. Tale principio è affermato nell’attuale art. 191 par. 2 del Trattato, ove si dispone che “la politica comunitaria in materia di ambiente mira ad un elevato livello di tutela tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione”, ma anche al par. 3 del medesimo articolo, nella parte in cui si fa riferimento alla necessità di tener conto “delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni dell’Unione”. L’esercizio delle competenze, oltre che sul principio di sussidiarietà, è fondato sul principio di proporzionalità, anch’esso principio generale del diritto comunitario. In virtù di detto principio “il contenuto e la forma dell’azione dell’unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati”. Tale principio, ampiamente applicato dalla giurisprudenza comunitaria (29), non è specifico del diritto ambientale pur rivestendo in tale settore notevole rilevanza. L’art. 191 del trattato al par. 3 dispone infatti che (27) Ancora M. MONTINI, cit. p. 70 e H. SEVENSTER, The Environmental Guarantee after Amsterdam: Does the emperor have new clothes, in YEEL, 2000, p. 291. (28) Cfr. anche Corte di Giustizia, 9 ottobre 2001, causa C-377/98, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio. (29) Sull’applicazione del principio di proporzionalità in materia ambientale, cfr. ex multis, Corte di Giustizia CE, 20 settembre 1988, C-302/86, Corte di Giustizia CE, 13 aprile 1994, C-131/93, Corte di Giustizia CE, 3 dicembre 1998, C-67/97, Corte di Giustizia CE 13 dicembre 2001, C-324/99, Corte di Giustizia CE, 10 novembre 2005, C-432/03 e Corte di Giustizia CE, 20 settembre 2007, C-297/05. Una rassegna di giurisprudenza comunitaria e internazionale sul tema è in F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir. Amm., 2004, p. 513. In tema, inoltre, M. RENNA, cit., p. 682. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 285 nel predisporre la sua politica in materia ambientale l’Unione tiene conto pure dei “vantaggi ed oneri che possono derivare dall’azione o assenza di azione”. L’applicazione del principio implica che l’adozione di misure a tutela ambientale non siano eccessivamente o ingiustificatamente restrittive o discriminatorie delle libertà economiche, tali da alterare la concorrenza. La Corte di Giustizia comunitaria, sin dagli anni Ottanta, ha precisato i termini di operatività di detto principio, censurando ad esempio divieti o restrizioni all’importazione di determinati prodotti, introdotti dagli Stati membri per scopi di tutela ambientale. Anche in relazione al tema degli aiuti di Stato destinati a promuovere la tutela ambientale (30), la Corte ha precisato entro quali limiti, in applicazione del principio di proporzionalità, possono essere ammesse deroghe al generale divieto di aiuti: esse devono essere tali da comportare vantaggi per la protezione ambientale proporzionati agli effetti negativi che le stesse possono provocare sulla concorrenza. Nel già citato Protocollo del 1997 sono stati poi indicati i criteri per l’applicazione anche di tale principio, come quello di preferire l’adozione di misure che lasciano più spazio alle autorità nazionali per la loro azione amministrativa, o ancora di preferire strumenti non vincolanti, come raccomandazioni o codici di condotta. Qualora sia comunque necessario adottare un atto vincolante, la direttiva dovrebbe essere preferita al regolamento e le direttive quadro dovrebbero essere preferite rispetto a quelle dettagliate. Dal combinato disposto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, letti anche secondo i criteri del Protocollo di Amsterdam, si è rilevata una progressiva riduzione del margine di manovra per l’azione comunitaria in materia ambientale a vantaggio delle competenze degli Stati membri. Sarebbe questa una delle più recenti tendenze evolutive del diritto ambientale comunitario che, secondo taluni autori, potrebbe anche influenzare negativamente il futuro della politica ambientale comunitaria (31). Secondo altri, invece (32), la complessità ed il carattere tecnicoscientifico del diritto ambientale giustificherebbero (o meglio imporrebbero) la competenza ai livelli di governo superiore quali livelli più adeguati ad esercitare le relative funzioni sia normative che amministrative. Nel nostro ordinamento, con riguardo alla competenza legislativa, si ascrive a tale tendenza il più recente orientamento della Corte Costituzionale, come si dirà. (30) In tema di aiuti di Stato per la tutela ambientale, cfr. Corte di Giustizia CE, 13 marzo 2001, C-379/98 (PreussenElektra), Corte di Giustizia CE 24 luglio 2003, C-280/00 (Altmark), Corte di Giustizia CE 8 maggio 2008, C-49/05 (Ferriere Nord). (31) Cfr. M. MONTINI, cit., p. 71. (32) Cfr. M. RENNA, cit. p. 670 e p. 682. In tema cfr. anche M. MAZZAMUTO, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà economiche, in Riv. It. Dir. Pubbl., Comun., 2009, p. 1571 e ss. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 2.2.2 I principi sostanziali: Integrazione e sviluppo sostenibile, Precauzione, Prevenzione, correzione dei danni alla fonte, “Chi inquina paga” Tra i principi fondamentali posti nel Trattato vi è il principio di integrazione, che può considerarsi principio generale del diritto comunitario. L’art. 11 del TFUE (ex art. 6 del TCE) stabilisce: “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. Da tale disposizione, così come modificata soprattutto dopo il Trattato di Amsterdam e di Lisbona, appare subito evidente la stretta connessione con il principio dello sviluppo sostenibile (33) e nel contempo la natura trasversale della politica ambientale. La tutela ambientale diventa infatti parte integrante del processo di sviluppo in tutti i suoi aspetti. Scopo di tale previsione è dunque di assicurare che le esigenze ambientali costituiscano elemento imprescindibile nella definizione ed attuazione di tutte le altre politiche comunitarie. La modifica apportata a detto principio dopo il Trattato di Lisbona, relativamente al contesto di riferimento per la sua applicazione, reca in sé proprio tale significato. L’eliminazione dello specifico riferimento alle politiche ed alle azioni di cui al vecchio art. 3 del Trattato CE (oggi abrogato) sembra infatti sottendere un’estensione della sua portata con l’esclusione di vincoli verso specifiche e predeterminate politiche ed azioni. In tali principi (integrazione e sviluppo sostenibile) trovano fondamento tutte quelle disposizioni volte a tutelare direttamente o indirettamente l’ambiente all’interno di normative riguardanti tutti gli ambiti delle attività economiche e di uso o trasformazione del territorio (energia, agricoltura, telecomunicazioni, trasporti, etc.) Anche le discipline di carattere trasversale, quali quelle della procedura di VIA e della VAS, costituiscono attuazione di tali principi considerati congiuntamente, i quali si rinvengono anche nelle più recenti disposizioni sugli appalti c.d. verdi (direttiva 2004/18CE e 2004/17CE). Nel nostro ordinamento, lo stretto collegamento tra i due menzionati principi è stato ribadito, ai fini della loro stessa operatività, dal decreto legislativo n. 152/06, come modificato dal decreto legislativo n. 4/08 che ha introdotto l’art. 3 quater, laddove si è specificato, come canone per il bilanciamento degli (33) Cfr. F. FONDERICO, voce Ambiente in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. CASSESE, Giuffrè, 2006; P. DELL’ANNO, Principi del diritto, cit.; AA.VV. La forza normativa dei principi. Il contributo del diritto ambientale alla teoria generale, a cura di D. AMIRANTE, Cedam, 2006; F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile, Editoriale Scientifica, 2010. Per una riformulazione dell’ “idea di sostenibilità” dello sviluppo come “libertà sostenibile” (basata sull’approccio non delle utilità e risorse bensì delle “capacità che [ha] la persona di fare quelle cose a cui assegna un valore”) adeguata alla consapevolezza che l’individuo ha “non solo bisogni e interessi ma anche valori”, cfr. A. SEN, L’idea di giustizia, Mondadori, 2010, p. 257 e ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 287 interessi, l’obbligo della “prioritaria considerazione dell’ambiente e del patrimonio culturale” nella valutazione comparativa degli interessi. In tal modo, attribuendo valore precettivo al principio dello sviluppo sostenibile, esso diventa anche “regola” generale della materia ambientale, secondo una formulazione di antica tradizione nella scienza amministrativistica italiana che considerava i principi come regole (34). La formulazione del principio dello sviluppo sostenibile, recepito nei termini anzidetti nel nostro ordinamento, sembra invero consentirne un’interpretazione più estesa di quella fornita finora dalla dottrina ed anche dalla giurisprudenza comunitaria, con riguardo alla priorità degli aspetti ambientali in caso di conflitto con altri interessi/obiettivi dell’azione comunitaria. Secondo tale dottrina maggioritaria, il principio di cui al citato art. 11 del TFUE non comporterebbe una considerazione necessariamente prioritaria delle esigenze ambientali, dovendosi ritenere che la prevalenza dell’esigenza di tale protezione, nell’ottica comunitaria, debba essere valutata caso per caso, rispetto al perseguimento di altri interessi giudicati meritevoli di tutela dall’ordinamento comunitario, con riferimento ai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, primo tra tutti il principio di proporzionalità (35). Il riferimento alle “esigenze connesse alla tutela dell’ambiente” come oggetto del principio di integrazione è stato quindi interpretato nel senso di identificare tali esigenze nell’insieme degli obiettivi, dei principi e dei criteri per l’esercizio dell’azione in materia ambientale indicati nell’art. 191 del Trattato ma anche nei principi rilevanti per il diritto comunitario dell’ambiente ricavabili da altre disposizioni del Trattato e dalla giurisprudenza comunitaria. Tali esigenze tuttavia non hanno carattere vincolante, ma servono solo come linee guida per l’esercizio delle proprie competenze da parte delle istituzioni comunitarie (36). Nel nostro ordinamento, invece, con riguardo all’esercizio del potere amministrativo, la specifica previsione nel d.lgs. 152/06 dell’obbligo di “prioritaria considerazione” degli aspetti ambientali (“nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità”) induce a riflettere sulla possibilità di una diversa linea interpretativa, secondo la quale la considerazione prioritaria delle esigenze ambientali potrebbe im- (34) Il riferimento è a M. S. GIANNINI, Genesi e sostanza dei principi generali del diritto, in Scritti in onore di Alberto Predieri, II, Giuffrè, 1996, p. 901 e ss. In tema cfr. anche P. DELL’ANNO, Elementi di diritto dell’ambiente, Cedam, 2008, p. 3, il quale critica la normazione “per principi” e la confusione che il nuovo legislatore italiano opera tra principi e regole. In tema anche A. GRAGNANI, La codificazione del diritto ambientale: il modello tedesco e la prospettiva italiana, in Giust.it., 8/2008, in particolare cap. III, par. 8. e P. CERBO, Le novità nel codice dell’ambinte, in Urbanistica e Appalti, 5/08, p. 534. (35) Cfr. J. JANS, op. cit. ed anche M. MONTINI, op. cit., 72. (36) E’questo l’indirizzo ad oggi prevalente, per una ricostruzione del quale si rinvia agli autori citati alla nota precedente nonché a M. RENNA, op. cit., p. 674. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 plicare l’attribuzione di un peso maggiore alle medesime rispetto agli altri interessi oggetto di valutazione comparativa (37). Si è ben consapevoli che l’obiettivo “dell’elevato livello di tutela ambientale”, sul quale è basato lo sviluppo sostenibile dell’Europa (ex art. 3 del TUE), non è inteso nel senso di prioritario o prevalente. Esso, in quanto scopo, entra a comporre i criteri di bilanciamento dei diversi interessi, a monte, nelle valutazioni del legislatore, e, a valle, nelle valutazioni discrezionali della P.A. Del resto la stessa Corte di Giustizia, con riguardo al principio di integrazione non ha manifestato un orientamento sempre costante, avendo di volta in volta ritenuto di dover bilanciare detto principio con altri principi altrettanto rilevanti quali il principio di non discriminazione o il principio di proporzionalità (38). Tuttavia l’attuale previsione del principio di integrazione, esteso come detto a tutti i settori e ad ogni politica, rende meno peregrina la tesi che attribuisce al principio suddetto il valore di clausola generale autorizzativa di una interpretazione in chiave ambientale delle norme comunitarie, e dunque anche, a valle, dell’esercizio del potere discrezionale da parte dei soggetti tenuti ad attuarle (39). (37) Per un approfondimento di tale linea interpretativa, sia consentito rinviare a R. ROTA, Brevi note sui “nuovi” principi di tutela ambientale, in Astrid, 2009, in particolare con riguardo alle implicazioni di detta previsione sul principio di semplificazione dell’azione amministrativa per i procedimenti ambientali. Per l’orientamento che rileva un significato “sostanziale” nella “primarietà” dell’interesse ambientale connesso ai valori della Costituzione, cfr. G. MORBIDELLI, Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in Studi in onore di Alberto Predieri, Giuffrè, 1996, p. 1134. Su tale specifico profilo, si veda infra nel testo. (38) Sulla rilevanza di tali principi in ambito comunitario cfr. G. CHITI, Il principio di non discriminazione e il Trattato di Amsterdam, in Riv. it. dir. Pubb. Comun., 2000, p. 851 e D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità comunitario e il suo effetto di “spill over” negli ordinamenti nazionali, in Nuove aut, 2005, p. 541. Una ricostruzione giurisprudenziale comunitaria sull’applicazione del principio di integrazione è in M. C. CAVALLARO, Il principio di integrazione come strumento di tutela dell’ambiente, in Riv. Ital. Dir. Pubb. comun., 2007, specie p. 473 e ss. (39) Nel nostro ordinamento con la legge n. 15/05, di modifica della legge n. 241/90, tutti i principi dell’ordinamento comunitario, compresi dunque quelli relativi all’ambiente, sono stati riconosciuti espressamente come “principi generali dell’attività amministrativa”. Assume particolare significato, nell’ottica di prevalenza della tutela ambientale rispetto ad altri pur “primari” interessi (quale quello allo sviluppo di energia da fonti rinnovabili), una recentissima vicenda in tema di tutela del paesaggio, originata dalla contestata legittimità di provvedimenti della Regione Puglia di imporre limiti più restrittivi per la realizzazione di un parco eolico all’interno di un sito rientrante nelle aree della Rete Natura 2000, limiti che vietano del tutto l’eolico non finalizzato all’autoconsumo. Sulla questione pregiudiziale sottoposta dal TAR Puglia alla Corte di Giustizia CE cfr. le Conclusioni dell’Avvocato Generale Jan Mazak presentate il 14 aprile 2011 in Causa C- 2/10. Nella fattispecie si tratta di contemperare quanto previsto dalle tre direttive UE: quella che promuove l’energia rinnovabile, la direttiva “Uccelli” che tutela l’avifauna e la direttiva “Habitat” che tutela gli habitat naturali e la biodiversità. L’Avvocatura Generale della UE, ritenendo la normativa della Regione Puglia non contraria alle sopra citate direttive, ha proposto alla Corte di risolvere la questione pregiudiziale sottopostale dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, precisando che la citata normativa comunitaria non osta all’adozione, da parte di uno Stato membro, di provvedimenti nazionali più rigorosi che vietino l’installazione di impianti eolici non finalizzati all’autoconsumo all’interno di un sito Natura 2000, “a condizione che il divieto sia conforme alle politiche ambientali ed energetiche dell’Unione, che non sia contrario al principio della parità di tratta- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 289 Tra i principi ambientali specifici della materia, su cui è fondata la politica dell’Unione, l’art. 191 del Trattato indica, primo tra gli altri, il principio di precauzione (40). Inserito nel Trattato CE solo con il Trattato di Maastricht, esso rappresenta uno sviluppo del principio di prevenzione. Il suo significato non è rinvenibile nella norma del Trattato, che si limita ad enunciarlo, bensì nella Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 (principio 15), ove si specifica che “in caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per rinviare l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale” (41). Tale principio implica dunque l’adozione, in presenza di un dubbio scientificamente attendibile, ancorchè in assenza di conoscenze scientifiche certe circa la nocività per l’ambiente di una determinata attività, di misure di tutela ambientale. Si pone perciò un obbligo in capo alla comunità nel suo complesso (il legislatore ma anche le P.A. ed i soggetti privati) di porre in essere azioni cautelative a tutela dell’ambiente, pur in presenza soltanto di un rischio di danno che ad una valutazione scientifica obiettiva appaia significativo per lo stesso. Da un lato, quindi, la mancanza di prova scientifica certa non può essere usata come pretesto per non adottare o rinviare l’adozione di efficaci misure di protezione; dall’atro, l’individuazione del rischio deve avvenire sulla base di valutazioni scientifiche obiettive. Evidente appare il collegamento del principio precauzionale sia con il principio dell’elevato livello di protezione, sia con la previsione in base alla quale l’azione ambientale deve essere fondata sui dati scientifici e tecnici disponibili. Tale ultimo profilo conferma la scientificità del diritto dell’ambiente. Ma in ragione dei costi, spesso elevati, delle misure precauzionali occorre che la loro adozione sia preceduta da una rigorosa applicazione del principio di proporzionalità al fine di ponderare adeguatamente, dopo attenta analisi dei costi e benefici dell’azione, l’entità del rischio e danno temuto, da una parte, ed il grado di incisività di dette misure sulle libertà economiche antagoniste. Tra le norme comunitarie che possono additarsi come esempio di disciplina adottata sulla base di tale principio, si annoverano le due direttive sui microrganismi geneticamente modificati (OGM), rispettivamente la direttiva mento e che non vada oltre quanto necessario per realizzare lo scopo perseguito, circostanze, queste, che devono essere accertate dal giudice del rinvio ”. (40) Tra i contributi sul principio di precauzione cfr. G. MANFREDI, Note sull’attuazione del principio di precauzione nel diritto pubblico, in Dir. Pubbl., 2004, p. 1075 e ss: F. TRIMARCHI, Principio di precauzione e “qualità” dell’azione amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2005, p. 1673 e ss; F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Giuffrè, 2005; A. BARONE, Il diritto del rischio, Giuffrè, 2006. (41) Gli elementi costitutivi e i criteri applicativi per l’applicazione del principio di precauzione sono indicati nella Comunicazione della Commissione CE adottata il 2 febbraio 2000. 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 n. 98/81/CE, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 12 aprile 2001, n. 206 e la direttiva 2001/18/CE, recepita con il d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224. Ad esse si aggiunge la direttiva 2004/40/CE sull’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dai campi elettromagnetici. La rilevanza di tale principio, come principio generale del diritto comunitario, emerge anche dall’analisi della giurisprudenza comunitaria. In proposito si sottolinea che il Tribunale di Primo Grado, nei casi riuniti T74/00 e T76/00, Artegodan a.o. c. Commissione, relativi alla produzione di medicinali destinati al genere umano, ha ritenuto che tale principio, sebbene esplicitato nel Trattato in materia ambientale, abbia un ambito applicativo ben più vasto e debba essere applicato in modo da garantire un elevato livello di protezione nella tutela della salute pubblica, della sicurezza dei consumatori e dell’ambiente, anche in attuazione del principio di integrazione, dando precedenza alle esigenze ambientali rispetto a quelle economiche. Inoltre, nel caso C127/02, Vogels c. Staatssecretaris van Landbouw, la Corte di Giustizia ha ritenuto necessario rafforzare le sue posizioni con riferimento al principio di precauzione (relativamente all’art. 6 della direttiva 92/43 sulla conservazione degli habitats naturali), principio ritenuto “una delle fondamenta dell’alto livello di protezione perseguito dalla politica ambientale comunitaria”. Sul piano interno, va detto che anche tale principio costituisce un principio generale dell’attività amministrativa in materia ambientale, ai sensi dell’art. 1, c. 1 della legge n. 241/90. Tale legge, infatti, come modificata dalla legge n. 15/05, prevede che tutti i principi dell’ordinamento comunitario, compresi dunque quelli relativi all’ambiente, sono principi generali dell’attività amministrativa. La riconosciuta precettività del principio nei riguardi delle P.A. ha indotto la dottrina ad interrogarsi circa il possibile riconoscimento a questa di poteri impliciti, in violazione dei principi di legalità e tipicità dei poteri amministrativi. Si è però ritenuto di superare tali perplessità, muovendo dal rilievo che il principio di precauzione opera direttamente nei riguardi dell’attività amministrativa soltanto all’interno degli spazi di discrezionalità, anche tecnica, rimessi dal legislatore alla P.A. e sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (42). Altro principio basilare della tutela ambientale è il principio di prevenzione. Scopo primario di tale principio è quello di evitare il rischio stesso che si verifichino danni all’ambiente. Si riconducono perciò a tale principio tutte le norme in tema di pianificazione ambientale nonché quelle in cui sia previsto di autorizzare previamente la realizzazione di un’opera o lo svolgimento di attività potenzialmente nocive per l’ambiente. La ratio della procedura di VIA e di VAS, ma anche dell’AIA, com’è noto si basa essenzialmente su tale principio. (42) Cfr. M. RENNA, cit., p. 688. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 291 Esso presenta tratti comuni al principio di precauzione, in quanto entrambi condividono la natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno, ma dallo stesso differisce in quanto mentre il principio di prevenzione presuppone rischi conosciuti e scientificamente provati relativi a comportamenti o a prodotti per i quali esiste la piena certezza circa la loro pericolosità per l’ambiente, il principio di precauzione presuppone invece non la piena certezza scientifica ma solo un principio di prova scientifica di danni per l’ambiente. Nella sequenza logico-temporale scandita dall’art. 191 nell’indicazione dei principi, dopo il principio di precauzione e quello di prevenzione figura il principio di correzione innanzitutto alla fonte dei danni causati all’ambiente. Anche con riguardo a tale principio, il significato va desunto dal diritto comunitario derivato. In senso stretto esso implica che ove non sia stato possibile evitare i danni mediante il ricorso ai principi di precauzione e prevenzione, occorre intervenire ex post a correggerli, per ripristinare nella misura possibile lo status quo ante, e nel provvedere al ripristino si deve intervenire innanzitutto sulla fonte dei danni. La normativa in tema di bonifiche dei siti inquinati rappresenta un chiaro esempio di applicazione del principio, come pure quelle disposizioni che consentono, in caso di superamento di determinati valori limite di certe sostanze nell’aria, di vietare o limitare la circolazione degli autoveicoli. Attuazione di tale principio è anche la regola della prossimità o autosufficienza, che caratterizza la normativa sui rifiuti, in base alla quale i rifiuti devono essere gestiti nel luogo più vicino possibile a quello in cui gli stessi sono prodotti e dunque il più vicino possibile alla loro fonte (43) . Infine, il principio “chi inquina paga” costituisce l’affermazione sul piano giuridico di un principio economico secondo cui i costi dei danni causati all’ambiente gravano sui soggetti responsabili degli inquinamenti. Esso nasce nell’ordinamento comunitario con una valenza preventiva e solo successivamente assume una connotazione risarcitoria. Finalità del principio è quella di disincentivare le attività e tutti i comportamenti che incidono negativamente sull’ambiente e, viceversa, incentivare le scelte ambientalmente virtuose quali ad esempio quelle delle imprese che investono in tecnologie pulite. Campo di applicazione privilegiato per tale principio è dunque il settore dei c.d. strumenti economici o volontari di tutela dell’ambiente. Il rispetto di tale principio per le imprese è funzionale anche all’esigenza di garantire che nel mercato comune non sia falsata la concorrenza. Eventuali deroghe in peius agli standards ambientali, cui le imprese devono adeguarsi sostenendone i relativi costi, non devono infatti tradursi in illeciti aiuti di Stato. (43) Cfr. Corte di Giustizia 9 luglio 1992, C-2/90. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 D’altro canto, resta la necessità di verificare che le misure di incentivazione ambientale adottate sulla base di tale principio siano compatibili con il mercato comune ai sensi dell’art. 107 TFUE (ex art. 87 TCE). Costituiscono attuazione del principio, con valenza soprattutto sanzionatoria, le disposizioni relative al risarcimento del danno ambientale e alla bonifica dei siti contaminati. La valenza distributiva del principio è invece delle disposizioni sul riparto dei costi di prevenzione del danno ambientale e quelle sul riparto degli oneri relativi alla gestione dei rifiuti (44). Con riguardo agli strumenti economici (45), oltre alle disposizioni sulla tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, sulla tariffa del servizio idrico integrato e le c.d. ecotasse o gli incentivi e agevolazioni fiscali ambientali, vanno menzionate le norme concernenti la negoziazione dei permessi o diritti di inquinamento (c.d. certificati verdi e bianchi). III. L’AMBIENTE NEL SISTEMA COMUNITARIO DELLE LIBERTÀ ECONOMICHE 3.1 La tutela ambientale come deroga speciale alla libertà di concorrenza Non v’è dubbio che l’interesse ambientale costituisca una variabile di complessa valutazione per qualsivoglia ordinamento giuridico tenuto a fronteggiare, anche con la creazione di nuovi strumenti, quello che non a torto è stato definito un vero e proprio “sconvolgimento” (46) provocato da tale peculiare interesse. Sin dalla loro comparsa nel mondo del diritto, gli interessi ambientali hanno infatti imposto revisioni degli schemi consueti dell’azione amministrativa, attraverso la creazione di tecniche, metodi, strumenti di azione improntati a logiche diverse da quelle tradizionali (47). L’indubbia “intensità” della loro tutela e la loro “intrinseca dinamicità” (48) hanno indotto prospettazioni persino olistiche della questione ambientale, tali da attribuire rango primario e sovraordinato agli interessi in questione, po- (44) Per gli oneri connessi alla c.d. rottamazione degli autoveicoli ed elettrodomestici, cfr. la direttiva 2000/53/CE, modificata dalla direttiva 2008/33/CE, e la direttiva 2002/96/CE, modificata dalla direttiva 2003/108/CE. (45) Cfr. M. CLARICH, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato e N. LUGARESI, Ambiente, mercato, analisi economica, discrezionalità, in Associazione Italiana dei Professori di diritto amministrativo (AIPDA) Annuario 2006, Giuffrè 2007; M. CAFAGNO, op. cit., p. 433 e ss.; A. LOLLI, L’amministrazione attraverso strumenti economici: Nuove forme di coordinamento degli interessi pubblici e privati, Bononia University Press, 2008. (46) Cfr. M. MAZZAMUTO, cit., p.1573. Cfr. inoltre, D. AMIRANTE, Diritto ambientale italiano e comparato, Jovene, 2003. (47) F. SPANTIGATI, Le categorie necessarie per lo studio del diritto dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 1999, p. 236. (48) Cfr. G. MORBIDELLI, Profili giurisdizionali e giustiziali nella tutela amministrativa dell’ambiente, in S. GRASSI, M. CECCHJETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, II, Leo S. Oishki, 1999, p. 310. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 293 tendo attingere anche al nuovo più ampio concetto di sviluppo sostenibile. Ora, se nell’ambito degli ordinamenti interni prendersi cura di tali interessi, come compito pubblico, ha riproposto sul piano del metodo la nota dialettica gianniniana tra autorità e libertà, e dunque la massima espressione di esercizio di discrezionalità amministrativa, quando non addirittura politica, nell’ambito dell’ordinamento della Comunità Europea la presa in considerazione di tali “nuovi” interessi ha determinato uno “sconvolgimento” ancor maggiore per l’impatto sull’impianto generale del sistema comunitario improntato, com’è noto, al paradigma delle libertà economiche. La primazia di dette libertà è infatti apparsa in qualche misura in contraddizione con quella degli interessi ambientali, e ciò ancor prima della formale codificazione dei principi che presidiano oggi la tutela di questi ultimi. Già nel 1985, infatti, fu la stessa Corte a porre le basi per la normazione successiva, nel qualificare l’interesse ambientale come uno degli scopi essenziali della Comunità (Corte Giustizia sentenza 7 febbraio 1985, causa C 240/83), avente in quanto tale la possibilità di limitare le libertà di circolazione. Tale rango di essenzialità è stato poi confermato nella successiva costruzione dei principi e della normativa: l’elevato livello di protezione; il principio di integrazione; la possibilità per gli Stati membri di provvedere con misure di protezione anche maggiori, attestano l’attribuzione di un rango di sicura primarietà (anche) agli interessi ambientali. Di fronte a tale “aporia” di sistema, l’esigenza di mantenere ferma la primazia delle libertà economiche, nel contesto di un assetto concorrenziale dei mercati, ha prodotto un approccio tendenzialmente restrittivo delle limitazioni di tali libertà sia nell’an sia nella misura (49). In tali termini si spiega quel ruolo di filtro svolto dall’ordinamento comunitario, innanzitutto in ordine alla selezione dei fini/interessi atti a giustificare le limitazioni (tipicità comunitaria) ed anche in ordine alla stretta applicazione del principio di proporzionalità, alla cui stregua informare le deroghe alle libertà economiche. Se pure va dato atto che il catalogo dei fini pubblici comunitari si è progressivamente esteso ad opera della stessa giurisprudenza comunitaria (50), resta indubbia la connotazione segnatamente derogatoria, quindi di eccezione, delle restrizioni alle libertà economiche. Ed infatti la Corte nei casi che le vengono sottoposti decide verificando 1) se una certa misura sia restrittiva delle libertà economiche 2) se si fonda su un fine pubblico rientrante nel catalogo dei fini comunitari 3) se tale misura sia proporzionata. Secondo la Corte in- (49) In tali termini M. MAZZAMUTO, cit. p. 1574 e ss. (50) La direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, al Considerando 40, aggiorna i “motivi imperativi di interesse generale” tenendo conto proprio dei precedenti giurisprudenziali della Corte. Tra tali motivi si sottolinea la specificazione, accanto alla protezione dell’ambiente, soprattutto della “protezione dell’ambiente urbano, compreso l’assetto territoriale in ambito urbano e rurale…, gli obiettivi di politica culturale …, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico...”. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 fatti:” qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio di dette libertà è giustificabile solo se soddisfa quattro condizioni: deve applicarsi in modo non discriminatorio, soddisfare ragioni imperative di interesse pubblico, essere idoneo a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo” (Corte Giustizia sentenza 26 gennaio 2006 causa C 514/03). Tale schema resta ancora valido. Così ad esempio, facendo applicazione del principio di proporzionalità, viene ritenuta restrittiva della libertà di circolazione delle merci una misura statale in materia di controllo sullo stato fisico dei veicoli, a tutela della sicurezza stradale e dell’ambiente, di cui non risulta provata la proporzionalità, ciò perché l’esigenza di tutela dell’ambiente deve nondimeno essere idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il suo raggiungimento (Corte Giustizia sentenza 20 settembre 2007, causa C 297/05). Più di recente, la Corte con due fondamentali sentenze del 9 marzo 2010 (nella causa C 378/08 e nelle cause riunite C 379/08 e C 380/08), in tema di responsabilità ambientale nella bonifica dei siti, dopo aver precisato la stretta correlazione tra il principio di precauzione ed il principio di proporzionalità, ne ha chiarito la concreta operatività. Ed infatti, in tali pronunce la Corte, pur affermando che la direttiva n. 2004/35 non contrasta con una normativa nazionale che consenta all’autorità competente di subordinare l’esercizio del diritto degli operatori destinatari di misure di riparazione ambientale all’utilizzo dei loro terreni alla condizione che essi realizzino i lavori imposti da queste ultime, ciò persino quando detti terreni non siano interessati da tali misure perché sono già stati oggetto di precedenti misure di bonifica o non sono mai stati inquinati, ha tuttavia precisato che “una misura di questo tipo deve essere giustificata dallo scopo di impedire il peggioramento della situazione ambientale dove dette misure sono poste in esecuzione oppure, in applicazione del principio di precauzione, dallo scopo di prevenire il verificarsi o il ripetersi di altri danni ambientali nei detti terreni degli operatori, limitrofi all’intero litorale oggetto di dette misure di riparazione ”. Ma, nell’invocare il principio di precauzione la Corte ha ulteriormente precisato che occorre esaminare se misure di tal genere, consentite dalla normativa nazionale, non eccedano i limiti di ciò che è idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti (51). (51) Cfr. anche Corte di Giustizia CE sentenze 12 luglio 2001, causa C-189/01; 7 luglio 2009, causa C-558/07, nonché 9 marzo 2010, cause riunite C-379/08 e C-380/08; Corte Giustizia CE, Sez. IV, 8 luglio 2010, Sentenza C-343/09; Corte Giustizia CE 5 febbraio 2004, n. 24. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 295 La prospettiva giurisprudenziale comunitaria in altri termini esclude la sovraordinazione dell’interesse ambientale. Pur tuttavia tale interesse, allo stato attuale del diritto comunitario, sembra connotarsi di una valenza specifica che conferisce ad esso portata derogatoria maggiore. Già attraverso l’applicazione da parte della Corte del principio di integrazione si registrano, infatti, sensibili deroghe alla libera circolazione delle merci. Ma un ulteriore segno evidente della progressiva imposizione di vincoli ambientali si riscontra nell’evoluzione in materia di aiuti di Stato, strumento tipico di deroga alla concorrenza, nonché nell’adeguamento del settore degli appalti pubblici alle esigenze di protezione ambientale. 3.2 La giurisprudenza comunitaria sui limiti alle deroghe: principio di integrazione e principio di proporzionalità nel bilanciamento degli interessi L’orientamento giurisprudenziale comunitario appare quindi orientato ad individuare punti di equilibrio nella giustificazione delle deroghe al principio della libera circolazione delle merci. L’analisi della giurisprudenza già della fine degli anni ’80 evidenzia tale tensione: l’esigenza di bilanciare il principio di integrazione, pur in assenza di una sua esplicita formulazione, delle politiche comunitarie per una migliore tutela dell’ambiente, con altri principi rilevanti, quali il principio di non discriminazione o il principio di proporzionalità (52). Ad esempio, con sentenza del 9 luglio 92, C 2/90, la Corte afferma che le esigenze di tutela dell’ambiente giustificano l’adozione di misure restrittive alla libertà di circolazione, quali il divieto assoluto da parte di uno Stato membro di depositare nel proprio territorio rifiuti provenienti da un altro Stato membro. Ai sensi dell’art. 130 TCE, secondo la Corte, ciascuna regione comune o ente locale deve adottare le misure adeguate al fine di garantire l’accoglimento, il trattamento e lo smaltimento dei propri rifiuti; i quali devono essere smaltiti in quanto possibile nel luogo di produzione, al fine di limitare il loro trasporto. Cosicchè non può essere considerata discriminatoria una misura che vieti l’ingresso di rifiuti nocivi. Con altra pronuncia, del 13 luglio 1994, C 131/93, si stabilisce che il divieto di importazione dei gamberi d’acqua dolce imposto da uno Stato membro, al fine di preservare e garantire la specie indigena dal rischio della propagazione della peste dei gamberi, risulta una misura eccessiva e non proporzionata rispetto all’obiettivo che la misura tende a realizzare (tutela dell’ambiente e dell’ecosistema). Pertanto, conclude la Corte, nel bilanciamento tra il principio di integrazione ed il principio di proporzionalità prevale que- (52) Per una attenta ricostruzione giurisprudenziale, cfr. M.C. CAVALLARO, Il principio di integrazione, cit., p. 475; G. CHITI, Il principio di non discriminazione e il Trattato di Amsterdam, in Riv. It. Dir. Pubb. Comun. 2000, p. 851; D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità comunitario e il suo effetto di “spill over” negli ordinamenti nazionali, in Nuove Autonomie, 2005, p. 541. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 st’ultimo, in considerazione del fatto che la tutela della specie dei gamberi avrebbe potuto essere realizzata con altro tipo di intervento. Ed ancora in tema di proporzionalità, con sentenza del 15 novembre 2005, C 320/03, la Corte precisa che se uno Stato, allo scopo di proteggere la qualità dell’aria e dell’ambiente, vieta agli autocarri con peso superiore alle 7,5 tonnellate che trasportano determinate merci di circolare su un certo tratto di strada, esso ostacola la libera circolazione delle merci e viene meno agli obblighi del Trattato. Tale divieto, secondo la Corte, non può essere giustificato dall’esigenza di tutela dell’ambiente, se non viene dimostrato che lo stesso obiettivo non può essere realizzato con misure meno restrittive alla libertà di circolazione. Nella fattispecie in questione, il sacrificio imposto alla circolazione delle merci è stato ritenuto non proporzionato rispetto allo scopo che la misura si prefiggeva. Con sentenza del 17 settembre 2002, C 513/99, si opera invece una esplicita applicazione del principio di integrazione. Chiamata a pronunciarsi sulla possibilità che tra i criteri per l’aggiudicazione di un appalto per la gestione della rete di autobus nel comune di Helsinki, siano introdotti criteri di natura non prettamente economica, con l’assegnazione di punti suppletivi ad un’impresa che garantisce basse emissioni sonore e di ossido di azoto delle vetture utilizzate, la Corte ha ammesso che nel valutare un’offerta economicamente più vantaggiosa, l’amministrazione aggiudicatrice possa tener conto di criteri non economici, se questi consentono di realizzare effetti positivi in materia di protezione ambientale. Con successiva sentenza del 4 dicembre 2003, C 448/01, si è poi precisato che la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici non impedisce che un’amministrazione aggiudicatrice adotti, quale criterio per valutare un’offerta economicamente più vantaggiosa per assegnare un appalto di fornitura di energia elettrica, un criterio di aggiudicazione che imponga la fornitura di elettricità da fonti di energia rinnovabile. Spetta poi al giudice nazionale verificare che la previsione di tale criterio sia avvenuta nel rispetto del principio di parità di trattamento e di trasparenza nelle procedure di aggiudicazione degli appalti (53). In altri casi la Corte ha ammesso deroghe alla disciplina degli aiuti di Stato alle imprese, come nella sentenza 13 marzo 2001 C 379/98. Si è infatti ritenuta legittima una disciplina che prevede forme di sovvenzione indiretta a favore delle imprese che producono energia da fonti rinnovabili, in ragione dell’utilità di tali fonti per la protezione dell’ambiente. La Corte ha quindi ritenuto che non costituisca aiuto di Stato una normativa statale che da un lato obbliga le imprese private di fornitura di energia elettrica ad acquistare l’energia da fonti (53) In argomento, cfr. A. GRATANI, La tutela ambientale nel diritto comunitario degli appalti pubblici, in Riv. Giur. Amb., 2003, p. 857. Della stessa A. anche L’energia elettrica da fonti rinnovabili e il vaglio del criterio di “positività ambientale” negli appalti, in Riv. giur. amb. 2004, p. 251. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 297 rinnovabili, a prezzi minimi superiori al valore economico reale; dall’altro lato, ripartisce l’onere finanziario tra dette imprese di fornitura ed i gestori delle reti. Più articolata la pronuncia 24 luglio 2003, C 280/00, sempre in materia di aiuti di Stato, nella quale si precisa che l’aiuto può essere concesso per esigenze ambientali, a condizione che la misura dell’aiuto rappresenti la contropartita delle prestazioni effettuate dalle imprese beneficiarie per assolvere gli obblighi di servizio: ciò al fine di evitare che le stesse imprese possano trarre un vantaggio finanziario con alterazione della libera concorrenza. E’ da dire che con la disciplina introdotta nel 2008 gli aiuti di Stato all’ambiente hanno segnato una fase di intensificazione di tutela rispetto ai programmi precedenti (54), con l’obiettivo di realizzare l’esigenza dell’integrazione del valore ambientale nelle politiche di sviluppo. Tale disciplina è particolarmente significativa in quanto evidenzia una strategia dell’Unione nei rapporti con il mondo imprenditoriale sempre meno improntata all’imposizione di obblighi e sanzioni e sempre più rivolta verso forme di incentivazione e promozione di comportamenti ecosostenibili (55). In particolare, si assiste ad un ridimensionamento del principio “chi inquina paga”, la cui osservanza può risultare non soddisfacente per lo sviluppo di politiche europee sostenibili, sia sul versante ambientale che su quello produttivo. La Commissione ha infatti rilevato che l’applicazione del principio “chi inquina paga” non consente, in primo luogo, di determinare il costo esatto dell’inquinamento. L’inadeguatezza di strumenti prevalentemente sanzionatori per la valorizzazione degli interessi ambientali, nell’ambito dei processi produttivi, ha imposto, pertanto, l’introduzione di principi e strumenti diversi atti a garantire un livello di tutela dell’ambiente più elevato a fronte di incentivi positivi per le imprese. Espressione dell’approccio trasversale del diritto ambientale, che attua in pieno il principio di integrazione, è inoltre il settore dei c.d. “appalti verdi”, in riferimento al quale va segnalata la Comunicazione della Commissione su “Appalti pubblici per un ambiente migliore” del 16 luglio 2008, che fa parte del piano d'azione sul consumo e sulla produzione sostenibili nonché sulla politica industriale sostenibile (SCP/SIP), contenente un quadro per l’attuazione integrata di vari strumenti volti a migliorare l’efficienza energetica e ambientale dei prodotti (56). La logica è quella della “internalizzazione degli effetti esterni (54) Cfr. Disciplina comunitaria degli aiuti di Stato per la tutela ambientale Testo rilevante ai fini del SEE in GU C82 del 1 aprile 2008 nonché il nuovo Regolamento CE n. 800/2008 sulle categorie di aiuti compatibili con il mercato comune (artt. 17 e ss). (55) Cfr. in tema P. FALLETTA, La “permeabilità” e l’integrazione del valore ambiente nell’ambito delle politiche di sviluppo, in Amministrazioneincammino.luiss.it, 2009. (56) Si veda però anche la Comunicazione della Commissione del 4 luglio 2001, Il diritto comunitario degli appalti pubblici e le possibilità di integrare considerazioni di carattere ambientale negli appalti pubblici. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 mediante aggiustamenti dei prezzi. Grazie all’espediente costi e benefici ambientali possono essere internalizzati nei contratti pubblici” (57). La Commissione rileva, in particolare, che gli appalti pubblici possono determinare le tendenze della produzione e del consumo in quanto, grazie a una domanda sostenuta di beni “più ecologici” da parte delle pubbliche amministrazioni, si possono creare o ampliare i mercati di prodotti e servizi meno nocivi per l’ambiente, oltre ad incentivare le imprese a sviluppare tecnologie ambientali. Un utilizzo più sostenibile delle risorse naturali e delle materie prime andrebbe a vantaggio tanto dell’ambiente quanto dell’economia in generale, fornendo occasioni vantaggiose alle economie “verdi” emergenti. Scopo della Commissione è quello di potenziare gli acquisti verdi della pubblica amministrazione (Green Public Procurement o GPP) economicamente efficienti, soprattutto in settori in cui i prodotti ecologici non sono più costosi rispetto agli equivalenti non ecologici. Si tratta, anche in questo caso di una prospettiva che coniuga in maniera unitaria convenienza ambientale e sviluppo produttivo, tracciando una direzione particolarmente ferma e mirata della crescita economica (58). Alla luce di quanto sopra riportato, non sembra potersi dubitare del crescente riconoscimento comunitario dell’interesse ambientale e del suo rango primario. Di recente, in dottrina si è infatti sottolineato che, pur dovendo escludere prospettazioni unilateralistiche, “sono visibili le tracce di un dinamismo che tende a spingere in avanti la sua soglia di tutela” (59). Una lettura dinamica dell’obiettivo sancito nell’ “elevata protezione”, unitamente ai riferimenti indicati nella norma di cui all’attuale art. 114 (ex art. 95 del Trattato) (le proposte della Commissione, per garantire un elevato livello di protezione, tengono conto “degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici”; gli Stati membri possono introdurre disposizioni più rigorose fondate tra l’altro su nuove prove scientifiche; in tal caso se la norma nazionale è giustificata la Commissione esamina immediatamente l’opportunità di proporre un adeguamento della misura di armonizzazione), ha indotto a ritenere che la politica ambientale comunitaria sia informata ad una “logica incrementalista” degli interessi ambientali. Una logica però i cui esiti restano comunque affidati alle delicate operazioni di bilanciamento che la giurisprudenza comunitaria opera attraverso i consolidati “filtri” presidio delle libertà economiche (60). Tale logica sarebbe riconosciuta anche con riguardo all’ambito di azione riconosciuto, ex art.193, agli Stati membri per l’adozione di (57) Cfr. M. CAFAGNO, cit., p. 410. In questa prospettiva è la Strategia (CIPE) d’azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia approvata il 2 agosto 2002. Inoltre, in tema cfr. anche N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, Cedam, 2008. (58) Cfr. I. INDRIOLO, Il Green public procurement: gli “appalti verdi”, in R. ROTA (a cura di) Lezioni di diritto dell’ambiente, Aracne, 2009, p. 235 e ss. (59) Cfr. M. MAZZAMUTO, cit., p. 1581. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 299 provvedimenti volti ad una “protezione ambientale ancora maggiore”. Si è infatti evidenziato che mentre l’art. 114 (ex art. 95), con riguardo alle tradizionali misure di armonizzazione, circoscrive l’azione degli Stati membri, non solo per l’ancoraggio ai consueti filtri comunitari ma anche per gli specifici presupposti previsti dal Trattato (approvazione della Commissione con verifica della sussistenza di “nuove prove scientifiche”; sussistenza di un “problema specifico” che giustifichi le nuove misure più protettive), in base all’art.193 (ex art. 176) vi sarebbe più ampia libertà di azione degli Stati membri (ferma rimanendo comunque la “compatibilità con i Trattati” per l’adozione delle misure di maggior protezione). L’interpretazione sistematica delle due citate norme (61) conduce a ritenere che anche la previsione di cui all’art. 193 del Trattato, che dispone solo un obbligo di notifica alla Commissione e non una sua preventiva autorizzazione, imponga di tener conto di quegli stessi presupposti sostanziali fissati dall’art. 114. In tal modo assicurando il bilanciamento tra beni di rango primario. 3.3 Segue: Effetti del principio di integrazione nella giurisprudenza costituzionale italiana. Bilanciamento di interessi e competenza legislativa esclusiva dello Stato Appare chiaro da quanto detto che la valenza primaria degli interessi ambientali, in ambito comunitario, non implica subordinazione degli altri interessi aventi pari rango, ma impone delicate operazioni di bilanciamento, in attuazione del principio di integrazione congiuntamente al principio di proporzionalità, sia pure nella nuova estensione a tutti i settori e ad ogni politica (come clausola generale per una tendenziale interpretazione in chiave ambientale delle norme comunitarie). A ben guardare, è proprio la logica sottesa al principio di integrazione ad escludere gerarchie di interessi. Riguardata sul piano interno - del nostro ordinamento - tale logica sembra trovare analogo sostrato concettuale soprattutto nel mutamento di indirizzo giurisprudenziale della nostra Corte Costituzionale. Ed infatti la “primarietà” del bene ambiente da “tutelare” attraverso la ricerca del “punto di equilibrio (60) Con riguardo al bilanciamento degli interessi nella regolazione del rischio comunitario, cfr. la sentenza della Corte di Giustizia del 22 dicembre 2010 causa C-77/09, nella quale si affronta la questione del bilanciamento tra libertà antagoniste nel sistema della regolazione del rischio legato alla commercializzazione di prodotti fitosanitari (c.d. caso Gowan). (61) A favore di una lettura sistematica dei due gruppi di norme, oltre a M. MAZZAMUTO, cit., p. 1589, anche P. DELL’ANNO, Il principio di maggiore protezione nella materia ambientale e gli obblighi comunitari di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, in Foro amm., TAR, 2002, p. 1431. Un diverso approccio interpretativo è prospettato da M. RENNA, Il sistema degli “standard ambientali” tra fonti europee e competenze nazionali, in Scritti in onore di Giorgio Berti, III, 2005, Jovene, p. 1962. In tema cfr. anche M. CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente” in www.federalismi.it, p. 131. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sostanziale” (il contemperamento tra interessi di rilevanza costituzionale) sembra fondare la ratio alla base della ridefinita competenza legislativa esclusiva dello Stato (62). Secondo il nuovo indirizzo della Corte, infatti, solo lo Stato può assicurare “il punto di equilibrio sostanziale” ( tra contrapposti interessi) a fronte del quale l’ordine astratto delle competenze recede. In altri termini la cifra di riferimento resta, anche nel nostro ordinamento, il bilanciamento degli interessi. E ciò sia sul piano legislativo che amministrativo. L’iniziale slancio idealistico che aveva spinto la Corte a configurare l’ambiente come un “valore costituzionalmente protetto”, tale da incidere trasversalmente su differenti ambiti materiali e da legittimare interventi concorrenti di Stato e Regioni, purchè diretti alla massima protezione del valore, appariva ridimensionato già nelle sentenze della Corte del 2003, con le quali si affidava unicamente allo Stato il compito di bilanciare gli interessi ambientali con altri rilevanti interessi, in tal modo facendo prevalere una logica di “integrazione” piuttosto che di “maggior tutela”(63). Ma è a partire dalle pronunce n. 367 e 378 del 2007, nelle quali si avvia la tesi della netta distinzione tra “tutela” e “fruizione” del bene ambiente, che si gettano le basi per la progressiva ricostruzione statocentrica della tutela ambientale, ricostruzione più compiutamente definita negli anni successivi (64). La pronuncia n. 378 assume particolare rilevanza per l’inquadramento dogmatico ed il complessivo “posizionamento giuridico” della dimensione ambientale nell’ordinamento (65). “Si opera una nuova “codificazione” della nozione giuridica di ambiente, riconsegnando un contenuto materiale al concetto di ambiente, “rimaterializzando” il valore in un oggetto tangibile”. Muovendo dalla prospettiva globale delle problematiche ambientali, prospettiva recuperata dagli esiti della Conferenza di Stoccolma del 1972, si concepisce l’ambiente in una dimensione “sistemica”. In quanto “equilibrio complessivo tra ecosistemi” ne deriva la necessità di ricondurne allo Stato la disciplina, che può dettare “norme di tutela che abbiano ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto” (sentenza 378/07). Il “proficuo revi- (62) Cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n. 380/07; n. 108/08; n. 62/08; n. 214/08; 104/08; n. 61/09; n. 10/09; n. 225/09. Ma già con sentenza n. 307/03 e n. 166/04 la Corte precisava che “la normativa statale è punto di equilibrio non derogabile”. (63) In tali termini P. FALLETTA, La strumentale distinzione tra tutela e fruizione in merito al riparto della competenza legislativa ambientale (nota a Corte Cost., 14 gennaio 2010, 1), in Amministrazione in cammino, 2010. (64) Cfr. la sentenza n. 70 del 2011 in materia di aree protette e la sentenza n. 67 del 2011 che definisce l’ennesima contesa di competenze tra Stato e Regioni sul terreno dell’installazione e della realizzazione di impianti da fonti di energia rinnovabili. Anche la pronuncia n. 151 del 21 aprile 2011, in materia di caccia e pesca, conferma il nuovo assetto. (65) Cfr. D. PORENA, L’ambiente come “materia” nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale: “solidificazione” del valore ed ulteriore “giro di vite” sulla competenza regionale, in federalismi. it, n. 2/2009. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 301 rement” della Corte (66) va oltre la ricostruzione generale dell’ambiente e l’attribuzione allo Stato dei compiti di tutela: il punto focale riguarda l’estensione che secondo la Corte la competenza statale è idonea ad avere. Secondo quanto affermato dalla Corte infatti: “la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l'ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza”. Le Regioni, in altri termini, sono titolari di competenza legislativa su materie ed interessi che insistono sullo stesso oggetto, che toccano “incidentalmente” l’ambiente, ma che cedono poi di fronte al prevalere della disciplina unitaria del complessivo bene ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato. Anche la ricostruzione valoriale della tutela ambientale non viene negata: nella successiva sentenza n. 380/07 si precisa infatti che, proprio in quanto valore costituzionalmente protetto, l’ambiente è materia trasversale. L’ambiente è quindi sia un “valore”, e come tale “ispira” il diritto (67), costituendo un obiettivo che indirizza il legislatore, sia una “materia” che, riguardata dal punto di vista del suo contenuto, della sua “consistenza ontologica” (sistema complessivo… entità organica, che ha ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto), reclama sul piano strumentale, forme di intervento più ampie e condivise possibili. Sotto il profilo valoriale, la ricerca di dati positivi cui ancorarne l’esistenza si colloca nella prima parte della nostra Costituzione, attraverso la tradizionale interpretazione del combinato disposto degli artt. 2, 9, 32 ma anche 41, 42, 43, 44 Cost. (68). Con riguardo invece al secondo profilo rileva unicamente il dato costituzionale, per così dire, organizzativo: l’art.117, che attiene alla articolazione dei soggetti dell’ordinamento e alle loro competenze. Tale norma ha perciò come compito esclusivo quello di ripartire “materie”, non pone quindi questioni inerenti la (precostituita) dimensione anche valoriale dell’ambiente (69). Tale dimensione non comporta perciò, secondo la logica prospettata, la necessità inderogabile di una tutela diffusa. “Se è vero che è l’ordinamento nel suo complesso a proclamare ed a perseguire un valore, in (66) Così P. DELL’ANNO, La tutela dell’ambiente come “materia” e come valore costituzionale di solidarietà e di elevata protezione, in Ambiente e sviluppo, n. 7/09, p. 585. (67) Cfr. R.BIN - G.PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli, 2007, p. 220: “valori e interessi stanno fuori del diritto, nel senso che sono obiettivi che muovono il legislatore ”. (68) Val la pena di sottolineare che gli articoli menzionati sono contenuti nei “Principi fondamentali” della Costituzione ed in particolare nei “Rapporti etico-sociali” e nei “Rapporti economici”. Non può sfuggire in tale sottolineatura la stretta analogia con quanto oggi stabilito anche a livello Comunitario (vedi quanto ricostruito nel paragrafo 1 e 2). (69) Osserva acutamente P. DELL’ANNO, cit., che “il riconoscimento della tutela dell’ambiente come “valore costituzionale” non comporta affatto la conseguenza preclusiva che la medesima sia configurata come una “materia”, in quanto i due concetti definiscono vicende diverse”. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 concreto ciò avviene mediante la ripartizione tra i poteri pubblici dei compiti fondamentali necessari al raggiungimento di tale scopo. Ed è così, dunque, che la tutela dell’ambiente rifluisce nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, mentre la valorizzazione dei beni ambientali cade nell’area competenziale concorrente”(70). In tale quadro giurisprudenziale si iscrivono le due successive pronunce della Corte che hanno ulteriormente definito i contorni del nuovo assetto: la decisione n. 61/2009 e la decisione n. 225/09. Nella sentenza n. 61/2009, il cui antecedente logico è nelle precedenti sentenze n. 12/2009, n. 62, n. 104 e n. 105 del 2009, si perviene al definitivo superamento dell’indirizzo giurisprudenziale avviato dalla decisione n. 407/2002, pronunzia con la quale si era impostato, all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, un vero e proprio processo di “smaterializzazione” della materia ambiente (71). Con tale sentenza (n. 61/2009) si afferma invece il primato ed anzi l’esclusività delle potestà legislative dello Stato nel settore dell’ambiente, enunciando il principio per cui “Le regioni, nell’esercizio delle loro competenze, devono rispettare la normativa statale di tutela dell’ambiente, ma possono stabilire per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze (in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione dei beni ambientali, ecc.) livelli di tutela più elevati...”. Non è quindi la materia ambiente in quanto tale ad essere, per così dire, frammentata e disarticolata, fino a farle assumere il carattere di (mero) valore, ma è piuttosto l’oggettiva connessione di fondamentali materie di competenza concorrente delle Regioni, implicate nelle politiche pubbliche di protezione ambientale, a determinare la capacità diffusiva delle Regioni, sino al punto da poter legittimamente innalzare le soglie e gli standard di tutela ambientale nel territorio di competenza (72). Appare dunque ridefinita l’esclusività (e persino l’intangibilità) delle competenze legislative dello Stato nel campo ambientale, nel senso che il ruolo pur attivo, e non di mero supporto, delle regioni dovrà essere tratto da altre (70) Cfr. D.PORENA, cit. il quale riprendendo le notazioni di P. DELL’ANNO (La tutela dell’ambiente come “materia”… cit.,) in merito alla funzione del “valore” che sarebbe quella di indicare “la rilevanza che l’ordinamento attribuisce al bene giuridico (…), la scala di priorità nella quale è collocato nei confronti di altri beni giuridici ed interessi pubblici da tutelare, l’intensità e l’estensione della tutela”, sottolinea che “il valore, dunque, ha un’immediata rilevanza nell’orientare le diverse manifestazioni della legalità, ma non impedisce che le res che ne costituiscono, per così dire, l’ “elemento oggettivo”, rifluiscano in una ripartizione di compiti e materie tra diversi livelli di governo”. (71) Com’è noto, l’ambiente - in quella impostazione di continuità con il passato - non veniva considerata una materia in senso tecnico, ma piuttosto un valore, e, in quanto tale, capace di mobilitare le competenze di tutti i soggetti del nostro sistema multilivello (e, segnatamente, le competenze legislative delle regioni, nonostante il chiaro tenore letterale della formula di cui all’art. 117, secondo, comma, lettera s) Cost.). (72) Così R. FERRARA, Ambiente (Corte Costituzionale, anno 2009) Report annuale – 2011 Italia (gennaio 2011), in www.ius-publicum.com. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 303 materie (quelle di competenza concorrente), senza nulla togliere al valore ordinatore e dirimente della lettera s) dell’art. 117, primo comma, Cost. In questo modo, si ribadisce il principio per cui l’ambiente è un bene sempre e comunque “materiale”, oggettivamente “materiale" (innovando, anche su questo punto, la giurisprudenza costituzionale meno recente), e si conclude che, se lo Stato è tenuto ad assicurare “standard minimi di tutela”, ciò nulla toglie al fatto che i suddetti standard e livelli di protezione debbano comunque comportare una cura “adeguata e non riducibile dell’ambiente”. Protezione “adeguata" e non “riducibile", e pertanto “elevata”, che le singole regioni potranno eventualmente implementare, ma soltanto grazie alla attivazione di altre facoltà e potestà, nel solco dell’art. 117, terzo comma, Cost. (73) Ma è con la sentenza n. 225/2009 (74) che il quadro del nuovo assetto appare definito in tutti i suoi contorni. Tale pronuncia opera una preliminare chiarificazione della nozione di ambiente, richiamando la giurisprudenza più recente della Corte. si afferma, infatti che “La materia “tutela dell’ambiente” ha un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene (l’ambiente) e finalistico perchè tende alla migliore conservazione del bene stesso. Sull’ambiente concorrono diverse competenze statali e regionali, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline”. Sicché, l’ambiente è sicuramente materia, si configura come oggetto materiale e relativamente ad esso si registra un concorso plurale di potestà statali e regionali, concorso i cui presupposti sono comunque costruiti all’insegna dei principi di autonomia e differenziazione/distinzione. “Sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell’ambiente, mediante la fissazione di livelli “adeguati e non riducibili di tutela", mentre compete alle regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell’ambiente stesso”. Si conferma in tal modo l’orientamento già emerso con la pregressa decisione n. 61/2009, precisando che occorre distinguere nettamente fra una competenza (dello Stato) volta ad assicurare livelli adeguati e non riducibili di protezione ambientale e le potestà regionali dirette invece a disciplinare le forme concrete della fruizione (ossia del godi- (73) Le pronunzie successive alla decisione n. 61/2009, e, segnatamente la n. 12/2009 e la n. 30/2009 confermano ampiamente i presupposti della sentenza n. 61/2009. Si ribadisce, in particolare, che la disciplina nazionale relativa alla protezione dell’ambiente gioca il ruolo di “limite”, nel senso che prevale sulle normative poste dalle regioni (anche a statuto speciale), pur in materie e settori di loro competenza. (74) Per un commento analitico e ricostruttivo di tale pronuncia cfr. P. MADDALENA, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza costituzionale, L’interpretazione dell’art.117 e dell’art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza costituzionale in tema di tutela e fruizione dell’ambiente, in Federalismi.it, n. 9/2010, p. 15 nonché F. FONDERICO, La Corte Costituzionale e il codice dell’ambiente, in Giornale di diritto amministrativo fasc. n. 4/2010, p. 368 e ss. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 mento) del bene ambiente, senza che tale godimento possa risolversi in un minus di tutela dell’ambiente medesimo. In sintonia con larga parte della giurisprudenza consolidatasi nell’anno 2009, si precisa altresì che “La competenza statale, quando è espressione della tutela dell’ambiente, costituisce un limite all’esercizio delle competenze regionali” di tal che “Le regioni stesse, nell’esercizio delle loro competenze, non devono violare i livelli di tutela dell’ambiente posti dallo Stato” mentre, allorchè si tratti di esercizio delle loro competenze, “possono pervenire a livelli di tutela più elevati, così incidendo, in modo indiretto sulla tutela dell’ambiente”. Tale possibilità è, peraltro, esclusa nei casi in cui la legge statale debba ritenersi inderogabile, essendo frutto di un bilanciamento tra più interessi eventualmente tra loro in contrasto”. In altri termini, nei casi di c.d. attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato di funzioni nelle materie concorrenti e residuali in qualche modo connesse a quella ambientale, si riconosce che quando la ratio legis imponga una disciplina unitaria nell’ambito di materie diversamente intestate in base alla costituzione, debbano al contempo prevedersi, in virtù del principio del concorso, adeguate forme di leale collaborazione in sede amministrativa (75). Anche riguardo al riparto di competenze amministrative la Corte ha segnato una netta discontinuità rispetto all’assetto delineato dalla previgente disciplina (legge n. 59/97 e d.lvo n. 112/98), ritenendo che tale riparto non è intangibile ma può essere modificato nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Così nel caso oggetto di vaglio costituzionale (nella sentenza 225/09 la Corte giudica della legittimità costituzionale del d.lvo n. 152/06) si precisa che il legislatore delegato ben poteva modificare il previgente riparto, anche sottraendo o riducendo le competenze regionali, ogni qualvolta ciò si rivelasse necessario, in termini di effettività e funzionalità, al fine di attuare compiutamente i principi e criteri direttivi contenuti nella legge delega (legge n. 308/04). In definitiva da quanto riportato emerge che anche nel nostro ordinamento la logica “incrementalista” di tutela ambientale viene declinata, in ossequio al principio di sussidiarietà, attribuendo alla sede centrale (lo Stato) poteri (rectius competenze legislative) inderogabili e non riducibili per la tutela e conservazione dell’ambiente. Si è osservato in dottrina (76) che il termine “tutela” indica non solo il compito di protezione giuridica del bene ma anche quello volto a farsì che detto bene “progredisca, migliori, si sviluppi”. In tal senso si comprende come la “materia” “tutela dell’ambiente” reclami una logica di “governance” del bene sistemico ambiente (77), governance da attuare – sul piano dinamico af- (75) Cfr. F. FONDERICO, cit. Secondo P. MADDALENA, cit., sarebbe sempre necessaria l’intesa “forte”. (76) MADDALENA, cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 305 ferente la gestione complessiva del bene collettivo successivamente all’esercizio della competenza legislativa. Ma è proprio tale logica, che evidentemente esclude gerarchie di interessi, reclamando operazioni di bilanciamento (78) in un’ottica strategica dei diversi “primari” interessi, che fonda la ratio della competenza legislativa esclusiva dello Stato. In altri termini è la riconosciuta “primarietà” del bene sistemico ambiente ad incardinare la competenza legislativa al solo livello centrale. Del resto “se è vero che il conseguimento dello sviluppo sostenibile è anzitutto un problema di “riallineamento di scale” – quelle di estensione ridotta e a breve termine, proprie delle istituzioni umane e quelle, planetarie e di lungo termine, proprie dei cicli dinamici della biosfera – allora le funzioni normative di tutela e conservazione del “patrimonio ambientale della Nazione” non possono che spettare all’ente esponenziale della collettività, che dovrebbe garantire proprio quelle valutazioni di ampia scala” (temporale e territoriale) a beneficio delle presenti e delle future generazioni” (79). Quanto rilevato consente di evidenziare anche una stretta analogia di “trattamento” della materia ambientale tra l’ambito comunitario ed il nostro ordinamento. Ed infatti, pur rimanendo fermo che nel primo ambito la tutela ambientale resta una competenza concorrente tra i due livelli (comunitario e nazionale) ed il suo esercizio è regolato dal principio di sussidiarietà, mentre nel nostro ordinamento la relativa materia è di competenza esclusiva dello (77) Si è infatti notato (cfr. F. FONDERICO, cit.) che “la principale preoccupazione della nostra Corte è quella di desumere dalla natura della “cosa ambiente” regole sostanziali di tutela: prima ancora che criteri di riparto della competenza tra Stato e Regioni, si tratta di regole di governo del bene che il giudice costituzionale mostra di ritenere ontologicamente afferenti l’ambiente” (corsivo nostro). Riguardo al concetto di “governance” a livello europeo, che può rappresentare una specificazione del principio di sussidiarietà, cfr. “La governance europea – Un libro bianco (COM/2001/0428)”. Lo sviluppo della problematica inerente la “governance ambientale” non può evidentemente nemmeno essere accennata in questa sede, dati i limiti oggettivi del contributo. Per una ripresa del dibattito sulla governance in generale, si segnala il recente contributo di M.R. FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, 2010. Con riguardo alle “nuove forme di governo dei beni collettivi” cfr. E. OSTRAM, Governare i beni collettivi, Cedam, 2009 (ed. orig., Cambridge, 1990). In tema non si può omettere il fondamentale lavoro di PAOLO GROSSI, "Un altro modo di possedere". L'emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, 1977; cfr. inoltre G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in «Science», dicembre 1968. Sul dibattito relativo ai beni pubblici cfr. M. ARSÌ, I beni pubblici, in S. CASSESE, a cura di, Trattato di diritto amministrativo, Parte speciale, II, Giuffrè, 2003, 1705 ss.; M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni e destinazione pubblica, Giuffrè, 2004; A. POLICE, (a cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Giuffrè, 2008. (78) Lo scopo essenziale della normativa di tutela dell’ambiente consiste infatti nel bilanciamento tra le necessità di impiego delle risorse ambientali e la necessità di preservazione della capacità prestazionale del sistema che esse concorrono a formare. (79) Così F. FONDERICO, cit. che rinvia a P. DELL’ANNO, cit. Tale A. sottolinea che “la sussidiarietà costituisce un’applicazione operativa del principio di solidarietà. E poiché la solidarietà ambientale si giustifica non solo con riguardo alle situazioni attuali ma ancor più nella prospettiva di salvaguardare le aspettative delle generazioni future, tale compito non può essere svolto efficacemente che da un’istituzione stabile e destinata ad un futuro durevole quale è quello statuale (in senso lato) ”. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Stato, venendo la sussidiarietà in rilievo con riguardo alla sola allocazione delle funzioni amministrative, non sembra potersi disconoscere che anche nell’ordinamento comunitario l’ambiente sia riguardato innanzitutto come “valore” e conseguentemente come “materia”. Il rafforzamento nel nuovo Trattato del principio dello sviluppo sostenibile nel senso omnicomprensivo di sostenibilità economica, sociale ed ambientale (sviluppo basato su … economia sociale di mercato e su di un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente art. 3 p. 3 del Trattato); l’espressa previsione tra i valori comuni agli Stati membri dell’Unione europea (ex art. 2 Trattato) del pluralismo e della solidarietà; ma soprattutto l’espresso riconoscimento del valore della tutela ambientale nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (l’art. 37 si colloca nel capo titolato “solidarietà” e la solidarietà costituisce uno dei “valori indivisibili ed universali” ex par. 2 del Preambolo della Carta) e l’attribuzione a tale Carta, con il Trattato di Lisbona, dello stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 TUE), non lasciano dubbi sulla attuale posizione della Comunità europea riguardo la primarietà del valore della tutela ambientale. Ne emerge una nuova caratterizzazione dell’impianto programmatico che indirizza l’uso di pubblici poteri, non dissimile da quello tipico della nostra Costituzione (80), che potrebbe in futuro orientare diversamente le linee interpretative nell’ambito dello stesso ordinamento europeo. Attualmente, mentre in tale ordinamento, come già precisato, la riconosciuta primarietà della tutela ambientale non assume valenza di “assolutezza”, non implica cioè di per sé la attribuzione di un “peso” maggiore all’interesse ambientale nella fase di definizione (legislativa) degli obiettivi, per il nostro ordinamento pare potersi delineare una diversa prospettazione riguardo alla fase, per così dire, attuativa degli obiettivi, e cioè quella inerente “l’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità” laddove, per la “migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile” il nostro legislatore, con la novella del 2008, ha stabilito che “gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione” (81). Ed infatti pur essendo vero che, dal punto di vista semantico, la qualificazione di “prioritario” (che precede, viene prima) non significa “prevalente” (80) A riguardo D. CHIRICO, La tutela dell’ambiente nell’Unione europea tra libertà d’impresa, solidarietà e territorio, in F. GABRIELE, A.M. NICO (a cura di ), La libertà multilivello dell’ambiente, Bari, 2005. Cfr. anche P. DELL’ANNO, cit., il quale osserva come l’art. 119, c. 2 della nostra Costituzione, ove ravvisa un collegamento tra sviluppo economico, coesione e solidarietà sociale, presenti un valore programmatico generale che richiama il principio di coesione e di solidarietà degli stati membri posto a fondamento delle politiche economiche e sociali indicate nel Trattato, ma ben si presta ad un’applicazione anche al settore ambientale. (81) Art. 3-quater (Principio dello sviluppo sostenibile) del d.lvo 152/06 come modificato dal d.lvo n. 4/08. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 307 (che vale di più), non sembra potersi dubitare che sul piano giuridico – dove non avrebbe senso indicare solo un valore ordinale riguardo all’interesse ambientale – detta qualificazione implichi l’attribuzione di un “peso” maggiore, una superiorità di spessore qualitativo nella valutazione comparativa degli interessi (82). Inoltre, con riguardo alla ratio desumibile dalla complessiva formulazione delle disposizioni legislative di cui alla citata novella del 2008, può rilevarsi che il complesso rapporto uomo-natura ne esce specificato attraverso uno sviluppo graduale dei concetti espressi nelle disposizioni medesime. Infatti, dalla prospettiva antropocentrica (“bisogni delle generazioni attuali e qualità della vita delle generazioni future” (comma 1), precisate le modalità di attuazione del principio dello sviluppo sostenibile nell’esercizio del potere discrezionale della P.A nel cui ambito “gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale” diventano “prioritari” (comma 2), anche nel rispetto del “principio di solidarietà per salvaguardare l’ambiente futuro” (comma 3) si passa ad una prospettiva di tutela “olistica”, “integrata”: “salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane” (comma 4). In tal modo, accreditando normativamente quella visione “oggettiva” della tutela ambientale teorizzata da tempo, in un’ottica di antropocentrismo desoggettivizzato (83), e più di recente ridefinita “in una dimensione tesa ad elevare il nuovo diritto ambientale al ruolo di “interfaccia” tra società e natura, che “monitorando e registrando i cambiamenti ecosistemici, retroagisce sui comportamenti umani allo scopo di promuovere un processo permanente di aggiustamento dei tempi storici ai tempi biologici, necessario alla salvaguardia delle nostre opportunità di sopravvivenza, in quanto specie” (84). Conferma dell’assunto della primarietà ambientale nel significato sopra (82) Sia consentito rinviare a R. ROTA, Brevi note sui “nuovi” principi generali di tutela ambientale, in www.atrid.eu.it 4/2009, specie per le implicazioni sul tema della semplificazione. In tale lavoro si sottolinea l’emersione, dalle nuove disposizioni normative (d.lvo n. 4/08), di un’idea della tutela ambientale in senso circolare: l’ambiente come valore, principio e regola. La concezione “valoristica” dell’ambiente (ambiente come “categoria” in senso filosofico, predicato dell’agire, criterio che orienta), sembra infatti sottesa al “principio generale” ivi declinato (dello sviluppo sostenibile), principio che diventa anche “regola generale della materia ambientale” laddove fornisce, come canone per il bilanciamento degli interessi, la “considerazione prioritaria dell’ambiente”. (83) Cfr. F. VIOLA, Stato e natura, Anabasi, 1995. Per i riflessi di tale impostazione sulla revisione degli schemi e degli strumenti di tutela per l’ambiente cfr., tra i primi Autori impegnati in tale direzione, F. SPANTIGATI, Le categorie necessarie per lo studio del diritto dell’ambiente, cit., p. 236. Più di recente K. BOSSELMANN, Un approccio ecologico ai diritti umani, in M. GRECO (a cura di), Diritti umani e ambiente, ECP 2000. (84) Così M. CAFAGNO, op. cit., specie p. 64 e 65, per il quale il diritto ambientale è un processo di scoperta di percorsi adattativi. Inoltre, F. FRACCHIA, La tutela dell’ ambiente come dovere di solidarietà, in Dir. econ., 2009, p. 493; dello stesso A., Lo sviluppo sostenibile, cit., p. 247.; G. CORSO, Categorie giuridiche e diritti delle generazioni future, relazione al Convegno su Cittadinanza e diritti delle generazioni future, Copanello, 3-4 luglio 2009, in Atti, Rubettino, 2010. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 precisato sembra inoltre rinvenirsi anche in alcune recenti pronunce del giudice amministrativo del nostro ordinamento, ove si consideri la ritenuta preminenza valoriale del paesaggio e dell’ambiente o anche la ritenuta prevalenza del principio di precauzione rispetto al principio di proporzionalità (85). 3.4 Il principio di effettività per la tutela ambientale La “signoria del diritto comunitario” (86) trae il suo fondamento, com’è noto, dal disposto dell’art. 10 del Trattato della Comunità Europea, oggi art. 4 par. 3 del Trattato UE in base al quale: “In virtù del principio di leale cooperazione, L’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta a d assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti ad atti delle Istituzioni dell’Unione. Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”. Naturale conseguenza del primato del diritto comunitario è il principio di effettività, cioè della diretta applicabilità delle disposizioni comunitarie, principio che comporta sul piano delle fonti l’obbligo di disapplicazione delle norme nazionali che risultino in contrasto con l’ordinamento europeo (87). Evidente appare pertanto il forte condizionamento all’autonomia dei soggetti deputati all’attuazione de diritto comunitario (88). In altri termini, il principio di effettività, in uno con quello di leale collaborazione, richiede a tutti gli organi dello Stato, ed in primis ai giudici, la “non applicazione” di regole processuali nazionali che rendano impossibile o eccessivamente difficile la tutela, nonché la creazione di rimedi giurisdizionali efficaci in caso di lacune nel sistema di giustizia nazionale (89). L’applicazione di tale principio ha avuto particolare incidenza sull’isti- (85) Cfr. Cons. Stato V, n. 3770/09; TAR Molise 8 marzo 2011, n. 99; TAR Veneto 7 aprile 2011, nn. 311 e 312 e Tar Lazio 7 aprile 2011, n. 1268. (86) Cfr. S. CASSESE, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2002, p. 292 ss. (87) P. DELL’ANNO, La responsabilità degli Stati membri per inadempimento del diritto comunitario, in Le Responsabilità in materia ambientale – Atti e documenti, Collana diretta da N. ASSINI, Cedam, 2006. (88) Sui limiti di tale autonomia cfr. C. KAKOURIS, Do the member states possess sudicia procedural “autonomy?”, in Comm. Market Rev., 1997, p. 1389; G. C. RODRIGUEZ IGLESIAS, Sui limiti dell’autonomia procedimentale e processuale degli stati membri nell’applicazione del diritto comunitario, in Riv. It. Dir. Pubb. Comun. 2001, p. 5. (89) Per l’analisi della giurisprudenza, P. GIRERD, Les principes d’équivalence et d’effectivité: encadrement ou désencadrement de l’autonomie procédurale des Etats membres?, in Rev. trim. dr. europ., 2002, p. 75; I. CANOR, Harmonizing the European Community’s Standard of Judicial Review?, in Eur. Publ. Law, 2001, p. 135; M. GNES, Verso la “comunitarizzazione” del diritto processuale na- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 tuto della responsabilità per violazione del diritto comunitario, istituto che può considerarsi “la cartina di tornasole” per così dire dell’obbligo di lealtà comunitaria di cui al citato art. 4 par. 3 del Trattato UE. Detta responsabilità inerisce in effetti al sistema stesso del Trattato, essendo funzionale a garantire l’effettività della primazia dell’ordinamento comunitario rispetto agli ordinamenti nazionali. Sotto tale profilo l’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale comunitaria ben evidenzia il progressivo effetto conformativo che il diritto europeo ha avuto sulla tutela giurisdizionale interna, e ciò non solo con riguardo alle situazioni giuridiche soggettive che trovino la loro fonte nel diritto comunitario (90), ma anche degli stessi strumenti di azione (91) e zionale, in Giorn. dir. amm., 2001, p. 524; M. L. FERNANDEZ ESTEBAN, The Rule of Law in the European Constitution, the Hague, Kluwer, 1999; W. VAN GERVEN, OF RIGHTS, Remedies and procedures, in Comm. Market Rev., 2000, p. 501; R. CARANTA, Judicial Protection against Member States: A New Jus Commune Takes Shape, in Comm. Market Rev., 1995, p. 703; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Diritto soggettivo comunitario ed effettività dell'ordinamento, in La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema comunitario, Bruxelles, Bruylant, 1997, p. 383 ss.. Con riguardo al principio di effettività della tutela giurisdizionale nella giurisprudenza comunitaria, cfr. E. PICOZZA, Diritto amministrativo e diritto comunitario, Giappichelli, Torino, 2004; M. P.CHITI e G. GRECO, Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè 2007, in particolare i lavori di R. CARANTA, G. GRECO, E. PICOZZA E S. CASSESE. Inoltre, cfr. M.S. CARBONE, Principio di effettività e diritto comunitario, Ed. Scientifica, 2009. (90) I principi di primazia e di effettività dell’ordinamento comunitario impongono che le posizioni giuridiche soggettive create e protette dalle fonti comunitarie non possano subire una diminuzione di tutela, sul piano qualitativo, una volta introdotte nell’ordinamento giuridico nazionale e “riqualificate” da parte del singolo ordinamento. Ne consegue che “la riqualificazione, tipicamente italiana, delle posizioni soggettive di derivazione comunitaria correlate all’azione autoritativa dei pubblici poteri in termini di interessi legittimi, non può comportare una deminutio di tutela al di sotto dello standard di effettività comunitario, il quale non può ammettere fenomeni di violazione di posizioni garantite dalle norme comunitarie non accompagnate da adeguata sanzione e da piena tutela”. Cfr. M. SCHINAIA, Intensità ed estensione della giustizia amministrativa italiana ed i principi comunitari, in Actes du colloque pour le cinquantième anniversaire des Traitès de Rome, 2006. (91) Il riferimento è agli strumenti giudiziali ed agli ambiti di cognizione del giudice, come ormai chiarito dalla nostra Cassazione con l’ordinanza n. 2906 del 2010: le Sezioni Unite, facendo leva sul principio che impone al giudice di procedere ad una esegesi delle norme di diritto interno compatibile con i principi espressi da una direttiva entrata in vigore ed anche prima del termine per la trasposizione di essa nell'ordinamento interno, hanno affermato che la Direttiva comunitaria CE n. 2007/66 (diretti-va “ricorsi” sugli appalti pubblici) incide nel sistema giurisdizionale interno anche retroattivamente, “esigendo la trattazione unitaria delle domande di annullamento del procedimento di affidamento dell'appalto e di caducazione del contratto stipulato per effetto dell'illegittima aggiudicazione”. In definitiva, la necessità di concentrare su un solo giudice la cognizione di diritti e interessi, quando sia domandata la caducazione degli effetti del contratto di appalto come reintegratoria del diritto sorto dall'annulla-mento della gara chiesto con il medesimo ricorso, si impone alla luce di una interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata delle norme vigenti in materia. Tale interpretazione, pienamente conforme alle norme costituzionali che impongono la effettività della tutela (art. 24 e 111 Cost.), “non è oggi contestabile, derivando da norma comunitaria incidente sulla ermeneutica delle norme interne (art. 117), che è vincolante in tal senso per l'interprete”. Tra l'altro, precisa ulteriormente la Suprema Corte, tale impostazione interpretativa si impone alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204 e 11 maggio 2006 n. 196, dalle quali viene ricavato l'assunto per cui “se le due controversie per l'annullamento della gara e la caducazione del contratto sono in materia di giurisdizione esclusiva, deve ritenersi che, ai sensi dell'articolo 103 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 finanche dei poteri/doveri del giudice interno, sempre più vincolato nel percorso ermeneutico delle norme interne (92). Da più parti in dottrina, prima ancora delle recenti pronunce della Corte si era sottolineata la forza dirompente del principio comunitario di uniformazione delle regole di tutela, destinato a confluire nella creazione di uno “ius commune europeo” nel campo della tutela giurisdizionale nei confronti dei pubblici poteri (93). Ma probabilmente, a giudicare dagli effetti derivanti dagli ultimi arresti della Corte (94) sembra si stia andando oltre i naturali limiti alla “signoria comunitaria”: l’esigenza di legare persino lo spazio interpretativo alla ratio (principi e norme) della normativa comunitaria sembra conformare infatti l’azione dei soggetti attuatori non più solo “finalisticamente”, ma anche sul piano dei mezzi. Com’è noto, la giurisprudenza della Corte ha trattato in una prima fase della responsabilità dello Stato inadempiente nell’attuazione tardiva di direttive comunitarie prive di effetti diretti ma che conferivano diritti soggettivi ai singoli (è il caso “pilota” della nota sentenza Francovich del 1991) (95). della Cost., le richieste di tutela dei diritti inerenti ai rapporti contrattuali non sono scindibili da quelle sugli interessi legittimi violati dall'abuso dei poteri della P.A., su cui ha di certo cognizione il giudice amministrativo, che può quindi decidere “anche” su tali diritti, dopo essersi pronunciato sugli interessi al corretto svolgimento della gara”. Il percorso seguito nel ragionamento del giudice è volto a chiarire che la direttiva comunitaria ha come effetto di incidere direttamente sul riparto di giurisdizione interno: il precedente orientamento della Cassazione fondato sulla dinamica ordinamentale interna tra separazione delle fasi pubblicistica e privatistica, sulla applicazione dell’art. 103 Cost., e sulla insuscettibilità della connessione tra interessi e diritti di spostare l’ambito della giurisdizione domestica ma solo le articolazioni della competenza, viene così superato dalla forza cogente del diritto comunitario che “impone” un giudice “unico” per la cognizione delle domande di annullamento e di reintegrazione in forma specifica. In tali termini F. CARDARELLI, Commento a Cass. SS.UU. Ord.2906 del 12 gennaio 2010, in Federalismi.it, n. 3/2009. Inoltre cfr., C. LAMBERTi, La svolta delle Sezioni Unite sulla sorte del contratto pubblico. Il punto di vista amministrativistico (n.d.r. commento a Cass. civile. sez. un., ordinanza 10 febbraio 2010, n. 2906), in Urbanistica e appalti, 2010, fasc. 4, p. 421-434. Ancora sul tema molto dibattuto prima della citata ordinanza del 2010, P. DE LISE, Effettività della tutela e processo sui contratti pubblici, in Giustamm.it, pubblicato il 22 dicembre 2008; S. S. SCOCA, Aggiudicazione e contratto: la posizione dell’Adunanza plenaria (n.d.r. commento a Consiglio di Stato, ad. plen., 30 luglio 2008, n. 9 e 21 novembre 2008, n. 12), in Il foro amministrativo C.d.S., 2008, fasc. 12, p. 3283-3308. (92) Cfr. Cassazione civ. Sez .Un. n. 6316/2009. (93) Cfr. M.P. CHITI e G. GRECO, Trattato, op.cit., in particolare i contributi di S. CASSESE, E. PICOZZA E R. CARANTA. (94) Effetti spesso di anticipazione dell’azione legislativa, come nel caso della citata ordinanza della Cassazione n. 2906. L’art. 133 c.1 lett. a) n. 1 del nuovo codice del processo amministrativo (d.lvo n. 104/2010) recepisce infatti quanto affermato in tale Ordinanza. (95) La sentenza Francovich rappresenta il risultato finale e logico di una evoluzione giurisprudenziale che ha affermato e sviluppato i principi della specificità dell’ordine giuridico comunitario, del primato e dell’effetto diretto del diritto comunitario. Cfr. J. SCHOCKWEILER, La responsabilité de l’autorité nationale en cas de violation du droit communautaire, in Rev. trim. dr. eur., 1992, p. 27. Osserva in merito M.P.CHITI, in Trattato, op.cit., che in sostanza, l’azione di responsabilità è basata sul diritto comunitario, ma si svolge secondo le procedure nazionali sino a quando non siano eventualmente posti a rischio i due principi generali qua rilevanti: il principio di equivalenza e quello di CONTRIBUTI DI DOTTRINA 311 Con successive pronunce si è poi affermata la responsabilità per danni causati ai singoli da ogni violazione del diritto comunitario imputabile allo Stato (sentenza Brasserie du Pecheur del 1996). Infine il principio della responsabilità dello Stato è stato applicato anche nel caso di violazione derivante dalle decisioni di organi giurisdizionali di ultimo grado, a condizione che la norma comunitaria violata fosse preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione fosse sufficientemente caratterizzata e sussistesse un nesso causale diretto tra la violazione commessa ed il danno subito dalla parte lesa (sentenza Kobler del 2003). L’autonomia processuale ma anche quella relativa al diritto sostanziale degli Stati membri hanno trovato poi un ulteriore vulnus nel successivo caso esaminato nella sentenza Traghetti del Mediterraneo del 2006. Era in discussione, a seguito di procedura pregiudiziale attivata dal Tribunale di Genova, la questione se fosse contraria al diritto comunitario una previsione legislativa nazionale che esclude in via generale la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che l’interpretazione controversa risultava da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Secondo la Corte, anche quando sia invocato il principio di cosa giudicata, in virtù del primato del diritto comunitario tale principio non può giustificare l’esclusione della responsabilità del giudice di ultima istanza. Con riguardo alla responsabilità extracontrattuale per comportamento illecito della p.a. è da dire che questa si differenzia dagli altri due tipi di responsabilità (del legislatore e del giudiziario): mentre infatti la violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado può verificarsi “nel caso eccezionale” di violazioni gravi e manifeste; per la p.a. invece è sufficiente la semplice trasgressione del diritto comunitario, senza necessità di dimostrare la gravità particolare della violazione e senza rilievo per l’elemento soggettivo della colpa. La responsabilità dello Stato nelle diverse vicende di inadempimento verso il diritto comunitario sembrava poggiare saldamente sul pilastro della responsabilità aquiliana, ma di recente la nostra Corte di Cassazione ha evidenziato la natura “contrattuale” e non extracontrattuale di tale responsabilità. La Corte a Sezioni Unite ha qualificato infatti il comportamento antigiuridico come determinativo di un'obbligazione di natura "contrattuale", in quanto direttamente discendente dall'inadempimento di un obbligo, quello effettività della tutela. Il primo principio implica che le norme nazionali applicabili ai casi interni non siano più favorevoli di quelle relative ai casi di rilevanza comunitaria; il secondo, che le norme nazionali non rendano eccessivamente difficile l’azione risarcitoria a base comunitaria. 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 appunto di attuare la direttiva comunitaria (96). In ragione della capacità di espansione del diritto comunitario ed in particolare del diritto ambientale comunitario (“incrementalismo ambientale”), il principio di effettività nei termini sopra indicati sembra costituire una formidabile sonda per rilevare il grado di evoluzione attuale della tutela ambientale. Esso, realizzando in sostanza una logica di risultato sembrerebbe deputato ad attrarre in tale logica anche l’efficacia della diretta applicabilità delle disposizioni comunitarie quali i principi stabiliti nel Trattato. La migliore dottrina ha infatti evidenziato che solo alcuni di essi sono idonei di per sé a costituire situazioni giuridiche soggettive di rango comunitario, che comportano il sorgere di diritti e di obblighi tanto in capo agli Stati membri, quanto – a determinate condizioni – in capo ai singoli (i diritti di stabilimento; di libera circolazione di persone, capitali, merci; i diritti politici, etc.) (97). Con riguardo invece ai principi che costituiscono solo un obiettivo posto all’iniziativa degli Stati membri, in vista del perseguimento delle finalità comunitarie (es. il principio dell’elevato livello di tutela ambientale), tale dottrina esclude che essi possano essere posti a fondamento di situazioni di diretta ed immediata applicazione, ritenendo che (non diversamente da quanto accade per le direttive non selfexecuting) che “l’obbligo di risultato non possa gravare che sullo Stato membro, e dunque il principio non potrà assumere efficacia cogente per i singoli se non dopo – ed in conseguenza di – misure attuative (96) Cfr. Cass. Civ. III 1 maggio 2011 n. 20813 che ribadisce la sentenza della Corte a sezioni Unite n. 9147 del 2009. Cfr. anche Cass. Civ. Sez. Unite n. 4547 del 25 febbraio 2010. In una vicenda inerente la pretesa di specializzandi per la mancata remunerazione per l'attività prestata nell'ambito di corsi di specializzazione, si è precisato: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi, più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto - anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria - allo schema, della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall'ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all'adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all'area della responsabilità contrattuale, all'ordinario termine decennale di prescrizione”. L’esigenza di una revisione dell’impostazione generale della responsabilità extracontrattuale in senso oggettivo è indicata da M. CHITI, Diritto Amministrativo Europeo, Giuffrè 2008. In tema si veda anche la Relazione di E. PICOZZA al Convegno “La responsabilità dello Stato secondo la normativa comunitaria”, TAR Lazio 20 giugno 2011, Roma, il quale sottolinea la natura “istituzionale” di tale responsabilità, “derivante direttamente dagli obblighi attribuiti dall’ordinamento giuridico comunitario alle proprie istituzioni e quindi anche a quelle degli Stati membri e centrate sul fatto stesso della loro appartenenza all’ordinamento UE”. (97) P. DELL’ANNO, La responsabilità degli Stati membri, cit., p. 43 e 44. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 contenute in modo espresso in atti di trasposizione”. L’elaborazione giurisprudenziale più recente sembrerebbe tuttavia attribuire all’obbligo di risultato – o meglio al vincolo di conformità agli obiettivi una valenza ancor maggiore. In un orizzonte tendente al raggiungimento della piena effettività del diritto comunitario, l’obbligo di risultato, gravante comunque sullo Stato, potrebbe dunque implicare il riconoscimento di una “efficacia cogente” negli stessi principi, in guisa tale da poter questi ultimi costituire il fondamento diretto di situazioni di immediata applicazione o costitutive di obblighi/diritti in capo a tutti i soggetti, pubblici e privati. L’osservatorio giurisprudenziale in tema di accesso alla giustizia ambientale offre un sicuro contributo in questa direzione. Ed infatti, con riguardo a tale “accesso” da parte di organizzazioni ambientaliste non governative, in attuazione degli obiettivi della Convenzione di Aarhus approvata dalla Comunità con decisione 2005/370, la Corte ha chiarito importanti “tasselli” connessi al rispetto del principio di tutela effettiva del diritto dell’Unione europea (98). In merito ad una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema della Repubblica slovacca nell’ambito di una controversia fra un’organizzazione ambientale ed il Ministero dell’Ambiente, il giudice a quo si è domandato se, nel caso in cui un’associazione ambientale intenda contestare un atto amministrativo nazionale che deroghi a un regime europeo di tutela dell’ambiente – nella fattispecie, quello istituito dalla direttiva “habitat” –, tale associazione possa trarre diritto di azione dall’ordinamento giuridico dell’Unione europea, in forza dell’effetto diretto delle disposizioni dell’art. 9, n. 3, il cui scopo ultimo consiste nel consentire la garanzia di una tutela effettiva dell’ambiente. La Corte, riunita per l’occasione in grande sezione, ha, in primo luogo, dichiarato la propria competenza a statuire in via pregiudiziale sull’accordo in questione in quanto parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. In secondo luogo, ha ricordato che, affinché una disposizione di un accordo concluso dall’Unione e dai suoi Stati membri con Stati terzi abbia effetto diretto, questa deve stabilire un obbligo chiaro e preciso non subordinato all’intervento di alcun atto ulteriore. Ciò non avviene nel caso dell’art. 9, n. 3, in quanto esso dispone che solo “i membri del pubblico che soddisfino i criteri eventualmente previsti dal diritto nazionale possano promuovere procedimenti di natura amministrativa o giurisdizionale per impugnare gli atti o contestare le omissioni dei privati o delle pubbliche autorità compiuti in violazione del diritto ambientale nazionale”. Tale disposizione, dunque, non può avere effetto diretto, non contenendo alcun obbligo chiaro e preciso che regoli direttamente la situazione giuridica dei cittadini. Tuttavia, dopo essere giunta a tale conclusione, la Corte ha tenuto a precisare che il fatto (98) Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione), sentenza dell’8 marzo 2011, C- 240/09. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 che una specifica disposizione di un accordo internazionale non abbia efficacia diretta non significa che non debba essere presa in considerazione dai giudici nazionali, i quali, dunque, dovranno tenere in considerazione gli obiettivi prefissati nella Convenzione di Aarhus, e, nel rispetto del principio di tutela effettiva del diritto dell’Unione europea, saranno tenuti ad una interpretazione tale da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico europeo, nella fattispecie quelli derivanti dalla direttiva “habitat” (99). Come si può notare, “l’obiettivo/scopo” (che nella vicenda esaminata dalla Corte è duplice: lo scopo di una tutela effettiva dell’ambiente in base alla disposizione redatta in termini generali dall’art. 9, p. 3 della Convenzione; e l’obiettivo di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione), imponendo un’interpretazione (nei limiti del possibile) ad esso funzionalizzata (di conformità sostanziale), diventa la fonte attributiva di situazioni giuridiche soggettive (al fine di permettere ad un’organizzazione non governativa per la tutela dell’ambiente di contestare in giudizio una decisione adottata a seguito di un procedimento amministrativo eventualmente contrario al diritto ambientale dell’Unione). Analoga prospettiva è quella alla base di altra recente pronuncia della Corte di Giustizia CE (12 maggio 2011, C 115/09), sempre in tema di accesso alla giustizia ambientale, pronuncia resa in seguito alla domanda pregiudiziale inerente l’interpretazione della direttiva del Consiglio 85/337/CEE concernente la Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttive del Parlamento europeo e del Consiglio 2003/35/CE. La vicenda era originata dall’impugnazione di alcuni atti da parte di una associazione del Land Renania del Nord-Vestfalia, rilasciati dall’amministrazione distrettuale di Arnsberg per la realizzazione di un progetto di costruzione e gestione di una centrale elettrica, molto vicina a zone speciali di conservazione dei siti ai sensi della direttiva “habitat”. Il giudice del rinvio, (99) “Ne risulta che, quando è in causa una specie protetta dal diritto dell’Unione, segnatamente dalla direttiva «habitat», spetta al giudice nazionale, al fine di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori coperti dal diritto ambientale dell’Unione, offrire un’interpretazione del proprio diritto nazionale quanto più possibile conforme agli obiettivi fissati dall’art. 9, n. 3, della convenzione di Aahrus. 51. Spetta pertanto al giudice del rinvio interpretare, nei limiti del possibile, le norme processuali concernenti le condizioni che devono essere soddisfatte per proporre un ricorso amministrativo o giurisdizionale in conformità sia degli scopi dell’art. 9, n. 3, della convenzione di Aahrus sia dell’obiettivo di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, al fine di permettere ad un’organizzazione per la tutela dell’ambiente, quale lo zoskupenie, di contestare in giudizio una decisione adottata a seguito di un procedimento amministrativo eventualmente contrario al diritto ambientale dell’Unione” (v., in tal senso, sentenze 13 marzo 2007, causa C-432/05, Unibet, Racc. p. I- 2271, punto 44, e Impact, cit., punto 54). Così al p. 50 della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione), 8 marzo 2011, C-240/09. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 pur ritenendo sussistente la lamentata violazione di tale direttiva, non avendo la VIA del progetto consentito di dimostrare l’esclusione di un significativo pregiudizio per le zone speciali di conservazione situate nelle vicinanze, ha ritenuto che in base alle norme del diritto nazionale, un’associazione per la tutela ambientale non possa far valere la violazione di disposizioni del diritto per la protezione delle acque e della natura, nonché il principio di precauzione sancito dall’art. 5, n. 1, prima frase, punto 2, della normativa federale sulla protezione dall’inquinamento (BImSchG), in quanto dette disposizioni non conferiscono diritti ai singoli, ai sensi della normativa nazionale sui ricorsi in materia ambientale (artt. 2, nn. 1, punto 1, e 5, prima frase, punto 1, dell’UmwRG). Il giudice del rinvio ritiene che le disposizioni della legge sulla protezione dall’inquinamento, come anche del resto le disposizioni in materia di protezione della natura, in vista di un elevato livello di protezione della “totalità dell’ambiente” riguardano anzitutto la collettività e non hanno ad oggetto la tutela dei diritti individuali. Tuttavia, considerando che siffatta restrizione dell’accesso alla giustizia potrebbe pregiudicare l’effetto utile della direttiva 85/337, si chiede se il ricorso della Federazione per la tutela dell’ambiente non debba essere accolto sul fondamento dell’art. 10 bis di detta direttiva, in base al quale “… Gli Stati membri determinano ciò che costituisce interesse sufficiente e violazione di un diritto, compatibilmente con l’obiettivo di offrire al pubblico interessato un ampio accesso alla giustizia...”. La Corte, muovendo dall’obbligo del raggiungimento del risultato previsto da una direttiva, obbligo che si sottolinea nella sentenza vale per tutti gli organi degli Stati ivi compresi quelli giurisdizionali (v. in tal senso Corte 19 gennaio 2010 causa C 555/07), ha statuito che “L’art. 10 bis della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26 maggio 2003, 2003/35/CE, osta ad una normativa che non riconosca ad un’organizzazione non governativa, che opera per la protezione dell’ambiente, di cui all’art. 1, n. 2, di tale direttiva, la possibilità di far valere in giudizio, nell’ambito di un ricorso promosso contro una decisione di autorizzazione di progetti «che possono avere un impatto ambientale importante» ai sensi dell’art. 1, n. 1, della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 2003/35, la violazione di una norma derivante dal diritto dell’Unione ed avente l’obiettivo della tutela dell’ambiente, per il fatto che tale disposizione protegge esclusivamente gli interessi della collettività e non quelli dei singoli”. Anche in tale vicenda, come si vede, il principio delle conformità all’obiettivo diretto ad attribuire al pubblico interessato un “ampio accesso alla giustizia” è dirimente per il riconoscimento della legittimazione al ricorso, “qualunque sia l’orientamento” – sottolinea la Corte – “scelto dallo Stato 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 membro riguardo al criterio della ricevibilità” (100). Tale quadro giurisprudenziale assume non poco rilievo rispetto all’orientamento giurisprudenziale maggioritario del nostro ordinamento, ancora restrittivo a riconoscere ad esempio la legittimazione delle articolazioni territoriali di associazioni ambientaliste riconosciute ex art. 18 della legge n. 349/86 (101) . La “lettura” comunitaria in senso sostanziale dei principi e delle norme a tutela dell’ambiente stride quindi con quella “formale” cui sembra ancorato tutt’ora il nostro giudice amministrativo (102). IV. PRINCIPALI SETTORI E STRUMENTI DI INTERVENTO DELLA POLITICA COMUNITARIA 4.1 Il settore ecologico. La disciplina contro l’inquinamento atmosferico, climatico, idrico, acustico, da rifiuti La specifica trattazione dei diversi settori della materia ambiente, i quali, sin dagli anni ‘70, sono stati via via oggetto di specifica normativa comunitaria esula dai limiti del presente contributo che pertanto darà di essi solo pochi cenni al fine di evidenziare lo stato evolutivo della legislazione comunitaria (100) Cfr. il p. 42 della sentenza. La Corte precisa che se, in base alla stessa disposizione di cui all’art. 10bis della direttiva 85/337, spetta agli Stati membri stabilire quali siano i diritti la cui violazione può dar luogo a un ricorso in materia d’ambiente, essi, nei limiti assegnati da detta disposizione, nel procedere a tale determinazione non possono privare le associazioni a tutela dell’ambiente, rispondenti ai requisiti di cui all’art. 1, n. 2, della direttiva, della possibilità di svolgere il ruolo loro riconosciuto tanto dalla direttiva 85/337 quanto dalla Convenzione di Aarhus. “Se, come risulta da detta disposizione, tali associazioni devono poter far valere gli stessi diritti dei singoli, sarebbe in contrasto con l’obiettivo di garantire al pubblico interessato un ampio accesso alla giustizia, da una parte, nonché con il principio di effettività, dall’altra, la circostanza che le dette associazioni non possano anche invocare la violazione di norme derivanti dal diritto dell’Unione in materia ambientale per il solo motivo che queste ultime tutelano interessi collettivi. Infatti, come emerge dalla controversia nella causa principale, ciò le priverebbe in larga misura della possibilità di far verificare il rispetto di norme derivanti da tale diritto che sono, per la maggior parte dei casi, rivolte all’interesse pubblico e non alla sola protezione degli interessi dei singoli considerati individualmente. Ne deriva anzitutto che la nozione di «violazione di un diritto» non può dipendere da condizioni che solo altre persone fisiche o giuridiche possono soddisfare, come, ad esempio, la condizione di essere più o meno prossimi ad un impianto o quella di subire in un modo o in un altro gli effetti del suo funzionamento. Ne deriva più in generale che l’art. 10 bis, terzo comma, ultima frase, della direttiva 85/337 deve essere letto nel senso che tra i «diritti suscettibili di essere lesi», di cui si ritiene beneficino le associazioni a tutela dell’ambiente, devono necessariamente figurare le disposizioni di diritto nazionale che attuano la normativa dell’Unione in materia di ambiente, nonché le disposizioni aventi effetto diretto del diritto dell’Unione in materia di ambiente. Al riguardo, per fornire al giudice del rinvio una soluzione il più possibile utile, si deve osservare che il motivo dedotto contro la decisione impugnata dalla violazione di disposizioni del diritto nazionale derivanti dall’art. 6 della direttiva «habitat» deve poter quindi essere invocato da un’associazione a tutela dell’ambiente”. Cfr. anche Corte di Giustizia, II, 15 ottobre 2009, causa C-263/08. (101) Cfr. Cons. Stato IV, 15/2-28/3/2011 n. 1876 che richiama l’indirizzo avallato anche dall’Adunanza Plenaria 11 gennaio 2007, n. 2. Inoltre. Cfr. VI, 9 marzo 2010, n. 1403. (102) Aderente invece ad una lettura “sostanziale” e di apertura, cfr. Cons. Stato, VI, n. 6554 del 2010 e Tar Veneto, III, 9 maggio 2011, n. 803. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 per le diverse “componenti ambientali” (aria, acqua, suolo, rumore, rifiuti, paesaggio, territorio, aree protette). Iniziando dall’inquinamento atmosferico, è da dire che i primi interventi del legislatore comunitario si registrano a partire proprio da quegli anni, in conseguenza degli effetti nocivi derivanti dal processo di industrializzazione. In tale settore, l’obiettivo perseguito dall’ordinamento comunitario in via primaria è stato quello di ridurre il tasso di inquinamento e a tal fine sono state adottate diverse direttive e regolamenti che hanno imposto agli Stati membri di contenere, entro determinati valori, l’emissione di specifici agenti inquinanti (103). Una normativa di carattere generale si è avuta solo negli anni novanta con la direttiva quadro 96/62 sulla qualità dell’aria. Alla luce di più recenti sviluppi in campo scientifico e sanitario, è stata poi emanata la direttiva 2008/50/CE. Essa mira alla tutela della salute umana e dell’ambiente nel suo complesso, con l’obiettivo di combattere alla fonte l’emissione di inquinanti ed individuare e attuare le più efficaci misure di riduzione delle emissioni a livello locale, nazionale e comunitario. Tale più recente disciplina si colloca in un’ottica di semplificazione delle disposizioni già esistenti in tema di qualità dell’aria e al contempo di integrazione delle problematiche ambientali con i settori dell’energia, dei trasporti e dell’agricoltura, dunque anche di efficienza amministrativa. Detta normativa sostituisce la direttiva n. 96/62, la direttiva n. 99/30, la direttiva 2000/69 e la direttiva 2002/3. La lotta ai cambiamenti climatici è stata inserita, come si è visto, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tra gli obiettivi posti con l’art. 191 del Trattato FUE. Va detto però che già prima del Trattato, con la ratifica del protocollo di Kyoto avvenuta con decisione del Consiglio n. 2002/358 la Comunità ha dichiarato il significativo impegno a far fronte all’emergenza dell’effetto serra. Tale impegno peraltro risulta manifestato con forza anche all’interno del VI Programma d’azione per l’ambiente, ove la lotta contro il mutamento climatico viene qualificata come uno dei principali obiettivi del futuro intervento comunitario. In aderenza a questo obiettivo la Comunità si è perciò impegnata ad integrare detto scopo nelle varie politiche comunitarie, a migliorare l’efficienza energetica, ridurre i consumi, promuovere lo sviluppo di energie da fonti rinnovabili, potenziare la ricerca e migliorare l’informazione dei cittadini sui mu- (103) Al fine di contrastare la riduzione dello strato di ozono è stato dapprima adottato il regolamento n. 3952 del 1992 e successivamente il regolamento n. 2037 del 2000, in seguito parzialmente modificato dal regolamento n. 1804 del 2003 e successivamente sostituito dal regolamento n. 1005 del 2009. Con riguardo all’inquinamento dagli impianti industriali già oggetto di una prima direttiva del 1984 (la n. 84/360) la disciplina di cui alla direttiva 2008/1/CE introduce un approccio integrato per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento atmosferico, lo scarico di sostanze pericolose nell’acqua e le emissioni nel suolo, stabilendo per ciascuno di questi settori dei valori limite. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tamenti climatici. Dette linee guida, indicate in termini generali nel VI Programma d’azione, sono state poi meglio specificate nella Comunicazione della Commissione (2005/35) “Strategia sul cambiamento climatico”. Ma è con la direttiva n. 87/2003 che si istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas serra, direttiva in seguito modificata dalla direttiva 2008/101 e da ultimo dalla direttiva 2009/29, contenuta nel c.d. “pacchetto clima-energia”(104). Con riguardo alla tutela delle acque è da dire che la protezione di tale risorsa ha costituito uno dei primi settori di intervento della legislazione ambientale comunitaria. Le risorse idriche erano disciplinate all’inizio da una normativa che si ispirava ai tradizionali principi del diritto comunitario, ma senza un approccio integrato e globale. Con la direttiva 2000/60 si “istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque” e muta la prospettiva: le risorse idriche sono considerate unitariamente, attraverso l’organizzazione della gestione e tutela delle acque interne superficiali, sotterranee, di transizione e costiere, con misure che integrino gli aspetti qualitativi e quantitativi, al fine di assicurarne un uso equilibrato ed equo. Le finalità perseguite dalla direttiva quadro sono molteplici: proteggere e migliorare la qualità dei sistemi acquatici; promuovere un uso sostenibile dell’acqua basato su una gestione a lungo termine delle risorse idriche disponibili; ridurre/eliminare gradualmente l’inquinamento di sostanze pericolose prioritarie; proteggere le acque territoriali e marine; ridurre gli effetti delle inondazioni e delle siccità; realizzare gli obiettivi degli accordi internazionali in materia (105). Con riguardo alle acque sotterranee ulteriori misure specifiche di prevenzione e controllo dell’inquinamento sono poi indicate nella direttiva 2006/118. “Nell’approccio comunitario, a differenza del nostro, la sostenibilità nell’impiego delle risorse idriche viene declinata a livello ecologico, economico ed etico sociale. Anche in termini di “servizio idrico” la prospettiva europea è più ampia di quella nazionale: con esso infatti si intende qualsiasi attività di messa a disposizione di risorse idriche, interne e marine, per determinati usi. (104) Gli obiettivi posti nel “pacchetto” consistono nella riduzione del 20% delle emissioni provocate dai gas serra; nel miglioramento dell’efficienza energetica attraverso l’aumento del 20% del risparmio energetico e nella promozione dell’energia rinnovabile mediante l’aumento del 20% del consumo di energia derivante da fonti rinnovabili. In tema cfr. A. BINDI, Inquinamento atmosferico e clima, in G. ROSSI, Diritto dell’ambiente, Giappichelli, 2008, p. 308; A. PALUMBO, Inquinamento atmosferico, in Enc. Dir.; A. GRASSO - A. MARZANATI - A. RUSSO (a cura di) Tratt. dir. amm. Europeo, II ed., parte speciale, vol. I Giuffrè, 2007; J.G. J. LEVEFER, The new Directive on Ambient Air Quality Assesment and Management, in European Environmental Law Review, 1997. (105) Cfr. E. BRAIDO, Tutela delle acque, in G. ROSSI, cit., p. 296 e A. PIOGGIA, Acqua e ambiente, ibidem, p. 231; N. LUGARESI, Diritto delle acque, principi internazionali, etica, in N. LUGARESI - F. MASTRAGOSTINO (a cura di), La disciplina giuridica delle risorse idriche, Maggioli, 2003. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 Non più quindi un sistema idrico vincolato al sistema acquedotti stico per usi civili, ma relativo al complesso delle attività che dall’acquadipendono. In tale prospettiva anche il concetto di recupero del costo dei servizi idrici cambia. La direttiva infatti impone agli Stati di fare in modo che i prezzi dell’acqua riflettano il costo complessivo di tutti i servizi connessi con l’acqua stessa (gestione, manutenzione delle attrezzature, investimenti, sviluppi futuri) nonché i costi connessi con l’ambiente e l’impoverimento delle risorse. A tal fine entro il 2020 occorrèrà porre a carico dei vari settori di impiego dell’acqua i costi dei servizi idrici, anche sulla base del principio “chi inquina paga” (106) . Con la direttiva 2008/105 sono stati poi istituiti standard di qualità ambientale per le sostanze prioritarie e per alcuni tipi di inquinanti; mentre la successiva direttiva 2009/90 ha stabilito specifiche tecniche per l’analisi chimica ed il monitoraggio dello stato delle acque. Riguardo la tutela dell’ambiente marino, dopo un approccio settoriale con cui sono state elaborate le politiche, ai diversi livelli di governo, per tale bene ambientale (107), la direttiva 2008/56 definisce misure specifiche di strategia integrata per il mare (direttiva quadro per la strategia dell’ambiente marino), attraverso la promozione dell’uso sostenibile dei mari, la conservazione dei relativi ecosistemi ed aree protette, l’orientamento delle attività umane con impatto sul mare. L’obiettivo della direttiva quadro è duplice: entro il 2021 ripristinare la salute ecologica dei mari europei ed assicurare la correttezza ambientale delle attività economiche connesse, promuovendo l’integrazione dei fattori ambientali in altre politiche comunitarie, come la politica comune della pesca e la futura politica marittima europea. Ciò in linea con quanto previsto dal più volte citato VI programma quadro di azione ambientale (108). La problematica del rumore, in ambito europeo, è stata affrontata originariamente nel 1993 dal V Programma di azione per l’ambiente della Comunità europea che stabiliva una serie di azioni da realizzare entro il 2000, al fine di limitare l’esposizione al rumore dei cittadini dei paesi membri. L’incompiutezza di tali azioni ha determinato una revisione del V Programma e la definizione di una politica comunitaria mirata alla riduzione dell’inquinamento acustico. Con il VI Programma d’azione per l’ambiente (Decisione 1600/2002/CE) tale obiettivo è stato più compiutamente definito. Le tappe più significative, sul piano normativo, che hanno condotto all’acquisizione da parte delle Istituzioni comunitarie di una percezione del problema si rinvengono, anzitutto, nella pubblicazione da parte della (106) In tali termini A. PIOGGIA, cit., p. 239. (107) Il quadro normativo a tutela del mare si è, come noto, sviluppato su vari livelli (internazionale, comunitario e nazionale). Per una sintetica ricostruzione pluriordinamentale, che parte dall’analisi delle diverse Convenzioni di diritto internazionale, cfr.A. CONIO, Tutela del mare ed aree marine protette, in G. ROSSI, cit., p. 336. (108) Cfr. la bibliografia citata in A. CONIO, cit., p. 342 e 343. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Commissione del Libro Verde (COM 96/540) sulle politiche future in materia. Tale documento pone “un primo importante pilastro a partire dal quale sviluppare una politica integrata sulle problematiche del rumore da realizzare attraverso la creazione di una rete di esperti e gruppi di lavoro di supporto alla Commissione europea. La gestione organica delle problematiche acustiche connesse alle diverse sorgenti è invece oggetto della direttiva 2002/49/CE che ha come obiettivo principale quello di contrastare il rumore cui sono esposte le persone nelle zone edificate, nei parchi pubblici o in altre zone particolarmente sensibili al rumore” (109). L’approccio adottato, in una visione organica e globale volta a individuare i metodi di valutazione ed il livello massimo di rumorosità, visione imposta dalle mutate esigenze della popolazione, si fonda sulla determinazione dei livelli di esposizione al rumore ambientale attraverso la mappatura acustica dei territori comunali e l’attuazione dei piani di azione al livello locale. La disciplina dei rifiuti risulta invece particolarmente articolata, in ragione della peculiarità dell’oggetto. Essa in ambito comunitario costituisce un “anello fondamentale nella catena di attuazione delle politiche ambientali”( 110). Gli obiettivi di salvaguardia ambientale e di protezione della salute dei cittadini si rinvengono nel VI Programma d’azione ambientale. Tale Documento, recante le priorità e gli obiettivi della Comunità per il periodo 2001- 2010, si propone di attuare politiche che rendano sostenibile dal punto di vista ambientale il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, migliorandone l’efficienza e diminuendo la produzione di rifiuti. In tale direzione la Commissione nel 2005 ha adottato una prima “strategia tematica”, intitolata “Portare avanti l’utilizzo sostenibile delle risorse – Una strategia tematica sulla prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti ”. Già a partire dagli anni ’70, la produzione normativa comunitaria adottata ha investito la tematica dei rifiuti sia sul piano della disciplina generale che per gli aspetti settoriali (111). Con riguardo alla disciplina generale, il testo di riferimento è nella direttiva del 1975 n. 75/442, modificata successivamente dalla direttiva n. 91/156. Si è giunti in seguito ad una prima razionalizzazione normativa nel 2006, con la direttiva n. 12/2006, ed infine ad una rinnovata e più completa disciplina (109) Cfr. M. E.BARONE, Inquinamento acustico, in G. ROSSI, cit., p. 356 e la bibliografia ivi citata. (110) Cfr. F. GUALTIERI, Rifiuti, in G. ROSSI, cit., p. 365. G. BOTTINO - R. FEDERICI, Rifiuti, in M.P. CHITI - G. GRECO (a cura di) Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, 2007, II ed., p. 1679 e ss.; P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, 2003, p. 480 e ss. (111) Riguardo a tali aspetti settoriali della materia rifiuti, sono infatti state adottate normative di carattere settoriale relative ad esempio ai rifiuti pericolosi (direttiva n. 78/319 e n. 91/689); alla gestione di imballaggi e dei rifiuti di imballaggio (direttiva n. 94/62 poi modificata dalla direttiva n. 2004/12); alla eliminazione degli oli usati (direttiva n. 75/439). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 con la direttiva 2008/98, che non solo ha sostituito la precedente direttiva 2006/12, ma anche inglobato, per esigenze di semplificazione e coordinamento normativo, le disposizioni sui rifiuti pericolosi della direttiva n. 91/689 e quelle sull’eliminazione oli usati della direttiva n. 75/439 (112). Tale direttiva si caratterizza per una tendenza verso un’effettiva semplificazione legislativa del quadro comunitario vigente in materia di produzione e gestione di rifiuti (113). A tal fine vengono introdotte nuove definizioni allo scopo di prevenire le possibili distorsioni sul mercato derivanti da un’applicazione non uniforme delle nozioni in oggetto. Benché la definizione di rifiuto rimanga sostanzialmente immutata, si introduce una serie di nuove nozioni (prima fra tutte, quella di ‘‘sottoprodotto’’), intese a circoscrivere l’ambito di applicazione della legislazione comunitaria in materia. Sono, inoltre, specificate le definizioni di ‘‘riciclaggio’’, ‘‘riutilizzo’’ e ‘‘preparazione per il riutilizzo’’, rivisitate le definizioni di ‘‘raccolta’’ e di ‘‘recupero’’ e fissati i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto. Detta normativa prescrive che i Paesi membri garantiscano nella gestione dei rifiuti il rispetto della “gerarchia dei rifiuti”(114), attraverso fasi indicate secondo un preciso ordine: la prevenzione, la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio, il recupero di altro tipo e lo smaltimento. Tale strategia generale deve essere basata anche sul conseguimento di un “obiettivo ambientale complessivo” dato dalla minimizzazione delle conseguenze negative della gestione dei rifiuti per la salute umana e in generale per l’ambiente, da valutare considerando il complessivo ciclo di vita delle sostanze che compongono i rifiuti. (112) La direttiva 2008/98 è stata recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 205 del 2010. (113) Ciò che sembra attestato anche dalle nuove definizioni (di recupero, smaltimento, riciclaggio ecc.), contenute nell’art. 3, e dalla più duttile nozione di rifiuto, ove comparata con quelle del sottoprodotto e della materia prima secondaria, a valle del recupero (e del riciclaggio) ex artt. 5 e 6. (114) L’importanza centrale della “gerarchia dei rifiuti”, secondo una scala in ordine decrescente che va dalla prevenzione, riutilizzo, riciclaggio, recupero fino allo smaltimento, come regola generale della gestione dei rifiuti è sottolineata nella Risoluzione del Parlamento Europeo 2006/2175 su una strategia tematica per il riciclaggio di rifiuti, dalla quale emerge che la gerarchia comunitaria pone il riciclaggio ed il recupero come materia in posizione prevalente rispetto al recupero energetico. E’ interessante notare quanto evidenziato nelle premesse della Risoluzione, laddove il Parlamento Europeo sottolinea che: “Considerando che le economie sono come gli ecosistemi: ambedue sfruttano energia e materiali per trasformarli in prodotti e processi, con la differenza che la nostra economia segue flussi di risorse lineari mentre la natura è ciclica; considerando che gli ecosistemi svolgono funzioni che convertono i rifiuti in risorse trasferendo l'energia proveniente dalla luce del sole, mentre i processi industriali non sono in grado di farlo; considerando, nel contesto di economie e popolazioni in rapida crescita, che la produzione e i prodotti che generano flussi di rifiuti che la natura non può assorbire né trasformare in nuove risorse risultano sempre più problematici sotto il profilo della sostenibilità ... sottolinea che l'obiettivo essenziale della gestione dei rifiuti è quello di raggiungere un elevato livello di tutela dell'ambiente e della salute umana anziché quello di facilitare il funzionamento del mercato interno per il recupero dei rifiuti”. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Emerge, quindi una “accentuazione della tutela preventiva nella produzione oltre che nella gestione dei rifiuti, sia con disposizioni vincolanti (come quelle sul riutilizzo dei prodotti ovvero sulla preparazione per il riutilizzo, nonché sui programmi di prevenzione), sia con disposizioni programmatiche, che, in applicazione del principio della valutazione del ciclo integrale della vita di un prodotto (il c.d. “life cycle analysis”), e quindi del suo processo produttivo, ne considera i carichi energetici e ambientali, nelle varie fasi di vita”(115). Nel complesso la nuova normativa si distingue per un “approccio metodologico più duttile oltre che più articolato rispetto a quello codificato con prescrizioni rigide ed astratte dalla direttiva 2006/12/CE. Alla medesima logica risponde anche la previsione della continuativa collaborazione tra gli Stati membri e la Commissione, necessaria per “integrare” alcuni precetti e regole tecniche”(116). 4.2 Il settore territoriale/paesaggistico e delle aree protette Con riguardo alla tutela del paesaggio, a livello comunitario non si rinviene uno strumento giuridico dedicato specificatamente a tale bene che ha visto, in tale ordinamento, una tutela indiretta in considerazione della non univocità degli aspetti in esso ricompresi. Basti considerare la contiguità con le risorse naturali e la protezione dell’ambiente, ma anche gli aspetti relativi alla gestione del territorio, per i quali la competenza normativa è lasciata agli Stati membri. Una vera e propria politica comunitaria avente ad oggetto il paesaggio viene configurata solo nella Convenzione europea del paesaggio adottata il 19 luglio del 2000 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (117). Pur non essendo formalmente un Atto della Comunità europea, ma un vero e proprio Trattato internazionale redatto su impulso del Consiglio d’Europa, la Convenzione nasce in ambito politicamente comunitario e tra i soggetti firmatari oltre agli Stati vi è anche e soprattutto la Comunità europea (118). Sul piano sostanziale va segnalata la rilevanza attribuita dalla Convenzione al nuovo concetto di paesaggio, definito come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva (115) Così F. GIAMPIETRO, in AA.VV, Commento alla direttiva 2008/98/CE. Quali modifiche al Codice dell’ambiente, F. GIAMPIETRO (a cura di), Ipsoa, 2009. (116) Ancora F. GIAMPIETRO, cit., il quale osserva che “Si tratta di un regime che, pur con le sue luci (e le sue ombre ...) si caratterizza come un work in progress, nel quale gli Stati membri sono (forse con un tasso maggiore che nel passato ...) corresponsabili del suo successo o del suo fallimento, soprattutto rispetto all’obiettivo di un’effettiva armonizzazione delle regole nel mercato unico”. (117) Cfr. G. CARTEI (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Il Mulino, 2007. (118) La Convenzione è stata firmata dagli Stati membri il 20 ottobre 2000 ed è entrata in vigore nel nostro ordinamento il 1 settembre 2006. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 323 dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni ”. Tale definizione risulta simile a quella del nostro Codice dei beni culturali e del paesaggio, dove pure si fa riferimento al paesaggio comprendente sia aspetti naturali sia aspetti umani. L’ampia estensione dell’oggetto di salvaguardia (“spazi naturali, rurali, urbani e periurbani, paesaggi terrestri, acque interne e marine, paesaggi che possono essere considerati eccezionali ma anche paesaggi di vita quotidiana o degradati, paesaggio come comune patrimonio culturale, naturale e fondamento di identità”) consegna una nozione di paesaggio ad ampio spettro: non un insieme disomogeneo di beni ma un “bene comune”, da tutelare come componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità (119). In ragione di tale globale valutazione, la “politica del paesaggio” viene ivi definita come “la configurazione di principi generali e di strategie e orientamenti a carattere generale”, mentre “la pianificazione dei paesaggi come “l’insieme delle azioni volte alla valorizzazione, al ripristino ed alla creazione di paesaggi”. Emerge quindi dalla Convenzione un approccio globale e diretto al tema della qualità dei luoghi nei quali vivono le popolazioni, qualità riconosciuta come condizione essenziale del benessere (inteso in senso fisico, psicologico ed intellettuale) individuale e collettivo, fondamento per uno sviluppo sostenibile e risorsa che favorisce le attività economiche. Il paesaggio, sotto il profilo anche territoriale, viene perciò considerato nel suo insieme, senza operare alcuna distinzione fra aree urbane, periurbane, rurali e naturali, e neppure fra le parti che possono essere considerate eccezionali, quotidiane o deteriorate; di esso non vengono considerati i singoli elementi (culturali, artificiali, naturali), ma l’insieme nel quale gli elementi costitutivi sono interrelati. Vi è quindi la figura di un paesaggio come “forma dinamica del territorio” che come tale richiede la necessaria “integrazione nelle politiche di pianificazione del territorio ed in quelle di carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico” (art. 5 della Convenzione) (120). (119) Cfr. M. A. SANDULLI, (a cura di) Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lg. 22 gennaio 2004, n. 42 modificato con i DD.Lg. 24 marzo 2006, nn. 156 e 157), Giuffré, 2006, in particolare il cap. “Convenzioni internazionali - Articolo 133”. Per una sintesi dell’evoluzione del concetto di paesaggio a livello legislativo, giurisprudenziale e dottrinario cfr. G.F. CARTEI, Il Paesaggio, in Dizionario di Diritto Pubblico a cura di S. CASSESE, Giuffré, 2006; R. PRIORE, Paesaggio-Diritto, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti Treccani (2a appendice 2007). Inoltre, con specifico riguardo all’integrazione paesaggio-territorio cfr. A. CHIAUZZI, La tutela del paesaggio come parametro di governo del territorio, in R. ROTA (a cura di) Lezioni di diritto dell’ambiente, cit., p. 300; L. PERFETTI, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv. giur. amb., 2009, 33; S. AMOROSINO, Introduzione al diritto del paesaggio, Laterza, 2010. (120) Le misure specifiche di salvaguardia individuate dalla Convenzione sono finalizzate ad individuare le azioni tecnico - operative in relazione a tre aspetti: a) l’inserimento della questione del pae- 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 Vien così in risalto un’idea sistemica che mettendo al centro i due concetti di “percezione sociale del paesaggio” e di “ambiente di vita” riesce a legare i paesaggi naturali e i paesaggi culturali correlandoli alla comunità sociale. In tale ottica gli strumenti di intervento a tutela del paesaggio diventano strumenti di intervento sul territorio ed il paesaggio stesso ne diventa la cifra di riferimento. In altri termini se il paesaggio viene a costituire la forma in cui si presenta esteriormente ed anche interiormente (in quella visione di “coscienza di luogo” messa in luce dalla Convenzione europea del 2000) il territorio e quest’ultimo reclama una disciplina che superi le particolarità secondo un intento di sviluppo economico e sociale sostenibile, inevitabilmente, in tale logica di gestione dinamica, anche le modalità di intervento sul paesaggio non potranno che adeguarsi a tale metodo dinamico, trattandosi di “gestire” elementi legati alle attività, in perenne divenire, dell’uomo. Analoga impostazione è da rinvenire anche nel nostro quadro normativo che sembra aver recepito proprio l’idea di fondo della citata Convenzione europea, ove si consideri la rilevanza attribuita alla pianificazione paesaggistica (121). La più recente legislazione interna infatti si fonda su un’idea di paesaggio interamente integrata nel territorio, come evidenzia l’articolata indicazione degli elementi per l’elaborazione del piano di cui all’art.143 del nostro Codice dei beni culturali e del paesaggio (122). Tra questi elementi notevole rilievo assume la previsione della “individuazione delle misure necessarie al corretto inserimento degli interventi di trasformazione del territorio nel contesto paesaggistico, alle quali devono riferirsi le azioni e gli investimenti finalizzati allo sviluppo sostenibile delle aree interessate”. Lo sviluppo sostenibile si attua dunque, per tale settore, attraverso la salvaguardia, la valorizzazione, la gestione della dimensione culturale che connota il paesaggio-territorio, inteso nella sua globalità (123). Se si considera che il territorio costituisce “il luogo fisico” dell’impatto ambientale, si comprende anche la fondamentale rilevanza che assume per tale saggio in tutte le politiche settoriali che hanno ripercussioni sul territorio; b) la gestione del territorio sulla base degli obiettivi di qualità del paesaggio; c) la conformità degli interventi con tali obiettivi di qualità. In merito cfr. A. DI BENE, Paysage et amenagement du territoire en Italie “al Deuxieme reunion des Ateliers pour la mise en oevre de la Convention europeenne du paysage” – Conseil de l’Europe, Strasborg 27-28 novembre 2003. (121) Cfr. gli artt. 143, 144 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio come modificati dai decreti legislativi n. 62 e n. 63 del 2008. (122) Cfr. S. AMOROSINO, Commento agli artt. 135-143-144 e 145, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. A. SANDULLI, Giuffrè, 2006; P. CARPENTIERI, Commento all’art. 145 in AA.VV. Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. TROTTA, in G. CAIA e N. AICARDI, Cedam, 2006. (123) Cfr. D. SORACE, Paesaggio e paesaggi nella Convenzione europea, in G. CARTEI, Convenzione europea, cit., p. 17; S. CIVITARESE MATTEUCCI, La concezione integrale del paesaggio alla prova della prima revisione del Codice del paesaggio, ibidem, cit., p. 209. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 325 settore la Valutazione ambientale strategica riguardata come sintesi tra la tutela ambientale e la pianificazione territoriale e paesaggistica (124). Con riguardo invece alla protezione della natura o delle aree protette è da dire che la materia attiene a quel settore che va sotto il nome di biodiversità, termine che designa le varietà delle specie, degli ecosistemi e del loro patrimonio genetico (125). In ambito comunitario la salvaguardia della biodiversità è posta tra gli obiettivi del VI Programma quadro di azione ambientale ed è oggetto di un apposito piano comunitario d’azione adottato dalla Commissione europea il 22 maggio 2006. In tale Documento si pone l’accento sulla esigenza imprescindibile di tutelare tale “bene risorsa” anche in ragione dei “benefici che esso apporta alle generazioni attuali e future, grazie ai servizi offerti dagli ecosistemi, quali la produzione di cibo, combustibile, fibre e medicinali, l’effetto regolatore sull’acqua, l’aria ed il clima, il mantenimento della fertilità del suolo, i cicli dei nutrienti ”(126). In ragione poi della diversificazione della diffusione della biodiversità sul territorio europeo ma anche del rischio cui sono esposti i diversi habitat e le diverse specie, l’approccio comunitario è stato improntato alla differenziazione della tutela, con la creazione di una rete di siti ad elevato valore naturalistico denominata “Natura 2000”(127) . La disciplina comunitaria per tale settore fa capo alla direttiva 79/409/CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici, successivamente sostituita dalla direttiva 2009/147/CE (c.d. direttiva uccelli), e la diret- (124) Si consideri che pur in assenza di strumenti derivanti da specifica normativa comunitaria, il termine paesaggio figura già nella direttiva 85/337 sulla VIA, come elemento da considerare nell’effettuare le valutazioni dei progetti; ma ancora nella direttiva rifiuti 75/442 e 2006/12 ed ancora nella direttiva che recepisce la Convenzione di Aarhus allorchè afferma la necessità di coinvolgere il pubblico nelle decisioni concernenti il paesaggio. Infine espliciti riferimenti al paesaggio si possono rinvenire in strumenti legislativi ed iniziative afferenti l’ambito delle politiche agricole, soprattutto con riferimento alla tutela della diversità dei paesaggi rurali. La direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, al Considerando 40, tra i nuovi “motivi imperativi di interesse generale” specifica, accanto alla protezione dell’ambiente tout-court, quelli alla “protezione dell’ambiente urbano, compreso l’assetto territoriale in ambito urbano e rurale…, gli obiettivi di politica culturale …, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico...”. (125) Cfr. R. PAVONI, Biodiversità e biotecnologie nel diritto internazionale e comunitario, Giuffrè, 2004; W.P. J. WILS, La protection des habitats naturales en droit communautaire, in C. D. E., 1994. (126) Quale parte integrante dell’iniziativa sull’uso efficiente delle risorse, il 3 maggio 2011 la Commissione europea ha presentato una Comunicazione (COM(2011)244), relativa a una strategia UE sulla biodiversità fino al 2020 intesa ad aggiornare gli obiettivi UE stabiliti nel 2010 per porre fine, entro il 2020, alla perdita di biodiversità e al degrado dei servizi ecosistemici. Anche riguardo alla tutela del suolo, come preziosa risorsa naturale, va segnalata la Comunicazione n. 179 della Commissione intitolata “Verso una strategia tematica per la protezione del suolo”, che si caratterizza per la notevole rilevanza attribuita a detta risorsa considerata supporto alla vita e agli ecosistemi, riserva di patrimonio genetico e di materie prime, custode della memoria storica, nonché elemento essenziale del paesaggio. (127) Cfr. F. DINELLI, Tutela della biodiversità e protezione della natura, in G.ROSSI, cit., p. 322 e ss. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 tiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (c.d. direttiva habitat). La prima direttiva prevede, tra le misure che gli stati membri adottano per la tutela degli uccelli selvatici, l’istituzione di zone di protezione speciale (ZPS) alle quali si aggiungono le zone speciali di conservazione (ZSC), con i siti di importanza comunitaria (SIC), istituite ai sensi della direttiva habitat, le quali formano così la rete ecologica “Natura 2000”, destinate alla conservazione della biodiversità sul territorio dell’Unione Europea (128). Lo strumento previsto dalla normativa comunitaria a salvaguardia di tali zone è il procedimento della Valutazione di incidenza al quale deve essere sottoposto qualsiasi piano, progetto o intervento che possa avere incidenze significative su un sito di Natura 2000. La procedura, seguendo il principio di precauzione, si applica sia agli interventi che ricadono all'interno delle aree Natura 2000 sia a quelli che, pur sviluppandosi all'esterno, possono comportare ripercussioni sullo stato di conservazione degli habitat protetti (129). Da rilevare il particolare rigore assunto dal giudice comunitario circa l’interpretazione della disciplina concernente la valutazione di incidenza di cui all’art. 6 della direttiva habitat. Secondo l’orientamento interpretativo della Corte di Giustizia, infatti, la previsione della direttiva in base alla quale le autorità nazionali competenti autorizzano il piano o progetto solo a condizione che abbiano acquisito “la certezza” che esso sia privo di effetti pregiudizievoli per l’integrità del sito, deve essere intesa nel senso che tale situazione di certezza in un’ottica precauzionale – ricorre, una volta impiegate le migliori conoscenze scientifiche, solo “quando non sussista alcun dubbio ragionevole da un punto di vista scientifico circa l’assenza di tali effetti” (130). 4.3 Gli strumenti procedimentali: VIA, VAS e AIA Come tutto il complesso della materia del diritto dell'ambiente anche i procedimenti ambientali hanno avuto origine in ambito sovranazionale. In particolare tale settore si è sviluppato attraverso l’introduzione di strumenti di (128) Si definisce SIC un’area geografica che contribuisce in modo significativo a mantenere o a ripristinare un tipo di habitat naturale di cui all’allegato I o una specie di cui all’allegato II della direttiva del Consiglio 92/43/CEE (Direttiva Habitat). Sono invece denominate ZPS le aree per la protezione e conservazione delle specie di uccelli indicate negli allegati della direttiva 79/409/CEE, come modificata con la citata direttiva 2009/147/CE (Direttiva Uccelli). (129) Cfr. C. GIRAUDEL, La protection conventionnelle des espaces naturalles, Limoges, 2000; R. MONTANARO, Direttiva habitat e valutazione di incidenza: primi interventi giurisprudenziali, in Foro amm., n. 11, 2002; S. BOERIS FRUSCA - F. CATTAI - A. MAFFIOLOTTI - M. PAGNI, La valutazione di incidenza ecologica, (a cura di), ARPA-PIEMONTE, in Stato amb., 2002; Commissione europea, Valutazione di piani e progetti aventi un’incidenza significativa sui siti della rete natura 2000. Guida metodologica alle disposizioni dell’articolo 6, paragrafi 3 e 4 della direttiva Habitat 92/43/C.E.E., Lussemburgo – Ufficio per le pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee, 2002. (130) Corte di Giustizia 7 settembre 2004, in causa C-127/02; 26 ottobre 2006, in causa C-239/04 e 20 settembre 2007 in causa C-304/05. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 327 elevata tecnicità sul piano normativo e fondamentalmente ispirati al principio di prevenzione. Il primo di tali procedimenti è il procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA) (131), prototipo giuridico, per così dire, di tutti gli altri procedimenti introdotti successivamente. Com’è noto esso è stato disciplinato originariamente dalla direttiva 85/337/CEE del Consiglio, la quale costituisce indubbiamente una delle più significative realizzazioni normative della politica ecologica, sviluppata, a livello comunitario, intorno a tre riferimenti principali, ovvero i programmi di azione elaborati nel 1973, nel 1977 e nel 1981 in accoglimento delle sollecitazioni dei capi di Stato e di Governo provenienti dalla Conferenza di Parigi del 1972, che aveva elevato a compiti essenziali della Comunità la lotta alle varie forme di inquinamento, il miglioramento della qualità della vita e la protezione dell’ambiente naturale. Peculiarità del procedimento è la sua finalità preventiva: esso è, infatti, finalizzato a prevedere gli effetti sull'ambiente di determinati progetti pubblici e privati per la realizzazione di opere e interventi sul territorio, al fine di prevenire, evitare o minimizzare le conseguenze dannose di questi ultimi. Detta procedura affianca il procedimento autorizzatorio principale e, a seguito di un'istruttoria a carattere tecnico-scientifico ed interdisciplinare, sfocia in un giudizio preventivo in ordine alla compatibilità ambientale di un determinato progetto suscettibile di arrecare pregiudizi all'ambiente. Con riguardo alle categorie di progetti sottoponibili al procedimento di valutazione, la normativa comunitaria opera una distinzione tra progetti che obbligatoriamente formano oggetto del procedimento (i progetti appartenenti alle classi indicate nell'allegato I alla direttiva), e progetti che invece sono oggetto di valutazione solo quando gli Stati membri ritengano che le loro caratteristiche lo richiedano (progetti rientranti nelle classi indicate nell'allegato II (131) Per una compiuta trattazione dell’argomento, qui solo brevemente accennato, si rinvia alla parte speciale ad esso dedicata. La bibliografia in tema di VIA è pressoché sterminata, in generale cfr. L. KRAMER, Effect national des directives communautaires en matière d’environnement, in R.J.E., 1990; C. MALINCONICO, La prevenzione nella tutela complessiva dell’ambiente: La valutazione di impatto ambientale, in C. MALINCONICO, I beni ambientali, vol. V, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di G. SANTANIELLO), Padova, 1991; S. GRASSI, Problemi di attuazione della direttiva comunitaria sulla valutazione di impatto ambientale per i progetti di cui all’allegato II (art. 4, par. 2, direttiva n. 85/337/ C.E.E.), in Gazz. Ambiente, 1997; V. GRADO, Tendenze evolutive della politica comunitaria dell'ambiente in relazione al quarto programma d'azione, in Diritto Europeo, 1993, p. 24; A. CUTRERA, La direttiva 85/337/CEE sulla valutazione di impatto ambientale, in Riv. Giur. Amb., 1987, p. 499 e ss.; S. GRASSI, Il quadro europeo sulla VIA, in Gazzetta Ambiente, n. 1, 1997, p. 3; R. FERRARA (a cura di), La valutazione di impatto ambientale, Cedam, 2000; F. FONDERICO, Valutazione di impatto ambientale, in Diz. Dir. Pubb., diretta da S. CASSESE, VI, Giuffrè, 2006, p. 6171; dello stesso A., La tutela dell’ambiente, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di S. CASSESE), vol. II, Diritto amministrativo speciale, Giuffrè, 2000, ed. 2003; A. CROSETTI, Natura e funzione della V.I.A., in R. FERRARA, La Valutazione di impatto ambientale, cit.; P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Padova, 2000; A. CHIAUZZI, Gli strumenti del diritto dell’ambiente: i procedimenti ambientali, in R. ROTA (a cura di) Lezioni di diritto dell’ambiente, cit., p. 88; J.H. JANS, European Environmental Law, Groningen, 2008, p. 311. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 della direttiva medesima). Ai sensi dell'art. 4, secondo comma, della direttiva infatti, per i progetti elencati nell'allegato II, gli Stati determinano, mediante un esame concreto o mediante la fissazione di soglie e criteri se il progetto debba essere sottoposto o meno al procedimento di VIA. Gli Stati possono decidere di applicare anche entrambe le modalità; quando si parla di fissazione di soglie o criteri si fa riferimento ad un sistema nel quale la scelta se utilizzare o meno il procedimento non avviene considerando singolarmente ogni fattispecie, ma viene effettuata a monte già in sede normativa. Sia che si esamini caso per caso, sia che vengano fissate delle soglie, gli Stati tengono conto dei criteri stabiliti dal legislatore comunitario, nell'allegato III della direttiva, riguardanti tre aspetti: a) le caratteristiche dei progetti; b) la localizzazione dei progetti; c) le caratteristiche dell'impatto potenziale. L'introduzione di tali criteri da parte della direttiva 97/11, di modifica della direttiva n. 85/337 (132), costituisce l'ingresso nella disciplina comunitaria della procedura di "screening", in base alla quale gli Stati destinatari della direttiva, secondo le modalità indicate, analizzano e vagliano i singoli progetti allo scopo di decidere se sia il caso o meno di sottoporli alla valutazione di impatto ambientale. Tralasciando i profili più squisitamente strutturali e funzionali del procedimento, è da dire che la cifra distintiva della disciplina della VIA a livello comunitario resta la sua connotazione di valutazione prevalentemente tecnica. Il nostro ordinamento invece, a più riprese, ed anche nel tentativo di affinare via via gli strumenti atti ad un più adeguato recepimento, specie nell’ottica della semplificazione delle procedure (133), continua a non essere in linea con quell’impostazione ove si consideri che da sempre, e cioè sin dalla prima embrionale attuazione della direttiva 337/85 attraverso l’art. 6 della legge 349/86 e dpcm attuativi del 1988, la natura composita del procedimento ne ha fatto prevalere gli aspetti di discrezionalità amministrativa se non addirittura politica (134). Il procedimento di valutazione ambientale strategica (VAS), introdotto con la direttiva 2001/42, riguarda invece l’incidenza sull’ambiente dell’ap- (132) Con la direttiva 2003/35/CE del 26 maggio 2003 sono state apportate modifiche alle direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all'accesso alla giustizia. (133) Ottica che traspare già nelle modifiche apportate al d.lvo 152/06 con il d.lvo correttivo n. 4/08 e da ultimo con il d.lvo n. 128/10. (134) Su tali problematici aspetti, sia consentito rinviare a R. ROTA, Il binomio VIA partecipazione: alcuni spunti propositivi, in La VIA nei trasporti, CNR-PFT2, Capri, 13-15 ottobre, 1994 e La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa: alcune note ricostruttive, in Scritti in onore di Serio Galeotti, Giuffrè, 1998, vol. II, p. 353 e ss. In tema, cfr. inoltre F. GIAMPIETRO, Criteri tecnici o discrezionali nel c.d. giudizio di compatibilità ambientale? Proposte di coordinamento della V.I.A. con gli altri procedimenti autorizzatori, in Riv. Giur. Amb., 1995, p. 411 e ss.; F. FRACCHIA, I procedimenti amministrativi in materia ambientale, in A. CROSETTI - R. FERRARA - F. FRACCHIA - N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, Laterza, 2008. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 329 provazione di piani e programmi, e dunque implica una valutazione/scelta a monte, a livello cioè di pianificazione complessiva degli interventi. Pur essendo strutturalmente simile alla VIA se ne differenzia appunto per l’oggetto, che nella VAS come detto sono tutti gli atti di pianificazione e di programmazione i quali possono produrre “effetti significativi sull’ambiente”. Nell’art.3 della direttiva figurano infatti gli strumenti “elaborati per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli”. L’art. 4 della direttiva precisa poi che “la valutazione (…) deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o programma” e fissa l’obbligo per gli Stati membri di integrare la VAS nelle procedure, già esistenti nei singoli ordinamenti, concernenti l’adozione dei piani e dei programmi rientranti nel campo di applicazione della direttiva. Evidente dunque la centralità del ruolo che tale procedimento assume all’interno delle politiche ambientali europee. Con la VAS infatti la valutazione dell’interesse ambientale viene anticipata al momento in cui l’opera singola non è stata ancora progettata o nemmeno concepita. In questa prospettiva la VAS sicuramente nasce per porre rimedio al maggior limite della VIA; il presupposto è, infatti, la consapevolezza dei limiti intrinseci della valutazione di impatto ambientale, strumento che per la propria struttura si rivela inidoneo a consentire di cogliere le implicazioni sul sistema ambientale indotte dal sommarsi sul territorio di singoli interventi puntuali. Il primo articolo della direttiva sulla VAS precisa l’obiettivo della direttiva stessa che è quello di “garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e di contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile assicurando che…venga effettuata una valutazione ambientale di determinati piani e programmi che possono avere un impatto significativo sull’ambiente”. Alla luce di tale disposizione, si può senz’altro affermare che, pur essendo la Valutazione strategica, al pari della VIA, uno strumento finalizzato a prevenire eventuali pregiudizi ambientali, essa ha come funzione prevalente quella di integrare la politica ambientale nelle fasi decisionali dell’adozione dei piani e programmi. Il principio ispiratore della VAS, e sua base giuridica comunitaria, si rinviene perciò nel principio di integrazione e dunque nella previsione del Trattato in base alla quale “le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione delle politiche e delle azioni comunitarie, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile nel quale si chiede alle istituzioni comunitarie”. La normativa interna, che ha recepito nel nostro ordinamento la disciplina comunitaria della Valutazione Strategica, soprattutto dopo le modifiche ap- 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 portate con il decreto legislativo n. 4/08 (135), ci consegna un procedimento che più che volto a “regolare” l’iter autorizzativo, “concerne piuttosto un processo decisionale, qualificato dalla pubblica Amministrazione che, partendo da un determinato quadro normativo, da un certo contesto sociale ed economico, territoriale ed ambientale e confrontandosi con la società, compie scelte ed assume decisioni”(136). Anche il procedimento di autorizzazione ambientale integrata, come la VIA, costituisce applicazione del principio di prevenzione. Nasce in ambito comunitario con la direttiva n. 96/61 CE (c.d. IPPC – integrated pollution prevention and control), modificata successivamente dalla direttiva 2003/87/CE, e da ultimo confluita nella direttiva 2008/1/CE che ha riscritto la disciplina precedente senza modificarne le caratteristiche fondamentali. Analogamente, per tale procedimento, che ha ad oggetto l’autorizzazione per l’esercizio di impianti aventi possibili effetti nocivi per l’ambiente, l’approccio è quello di una visione complessiva del fenomeno inquinante teso a considerare l’interconnessione delle diverse forme di inquinamento con riferimento ad una singola attività. Obiettivo finale è la semplificazione del regime autorizzatorio vigente per determinate attività potenzialmente lesive di diversi fattori ambientali. La stretta relazione sussistente tra la procedura di VIA e l’AIA ha determinato la necessità di integrare le due procedure. In considerazione di ciò, la direttiva 97/11 CE ha previsto la possibilità di una procedura unica (137). (135) Il decreto legislativo n. 152/06 è stato ulteriormente modificato e integrato con il decreto legislativo n. 128 del 29 giugno 2010. (136) Così P. CECCHETTI, VAS in Italia: prospettive e criticità in Convegno Nazionale, Roma 26 novembre 2009, il quale sottolinea come “questo tipo di approccio è in linea con le procedure amministrative europee in materia ambientale, incentrate sui criteri di integrazione, responsabilizzazione e sussidiarietà, anche rispetto a procedure autoritative di tipo “command and control”. (137) Sull’autorizzazione ambientale integrata e sulle forme di prevenzione integrata degli inquinamenti cfr. T. MAROCCO, La direttiva IPPC e il suo recepimento in Italia, in Riv. Giur. Amb., 2004, 1, p. 35; A. SCARCELLA, L’autorizzazione integrata ambientale: il nuovo sistema di prevenzione controllo delle fonti inquinanti dell’ambiente: principi, procedure e sistema sanzionatorio, Giuffrè, 2005. Nell'ottica del coordinamento tra gli strumenti di tutela ambientale, il nostro legislatore, con il d.lgs. 128/2010, ha rivisto anche la norma di coordinamento tra VIA e AIA, confermando che a livello nazionale l'AIA rimane assorbita dalla VIA, la quale, tuttavia, dovrà essere integrata e completata così da soddisfare tutti i requisiti dell'autorizzazione sostituita. A livello regionale, invece, è confermata la semplificazione delle due procedure e la possibilità di prevedere anche a livello regionale l'assorbimento dell'AIA nella VIA. “L'unica vera novità introdotta dalla riforma è il coordinamento in caso di screening a livello nazionale. Mentre, infatti, la versione precedente nulla diceva rispetto al coordinamento tra AIA e verifica di assoggettabilità alla VIA, il nuovo articolo 10 prevede che tale verifica debba necessariamente essere espletata prima della richiesta di AIA. Qualora l'esito della verifica confermasse la necessità della VIA, quest'ultima assorbirebbe anche l'Autorizzazione Integrata Ambientale. Qualora, invece, la VIA fosse esclusa, il soggetto interessato potrà procedere a richiedere l'AIA”. Così F. VANETTI, Autorizzazione ambientale integrata, in Greenlex.it, ottobre 2010, il quale fa anche notare che “se da un lato l'intervento legislativo ha contribuito ad un maggior coordinamento della parte seconda del Codice, dall'altro, non ha sfruttato appieno l'occasione di modifica. Infatti, rispetto alle migliori tecniche CONTRIBUTI DI DOTTRINA 331 4.4 La responsabilità per danno ambientale La disciplina della responsabilità ambientale in ambito comunitario costituisce attuazione del principio di prevenzione e del principio “chi inquina paga”. Il Sesto programma di azione per l’ambiente evidenzia infatti che: “Il Trattato prevede che la politica ambientale comunitaria si basi su determinati principi fondamentali, tra cui il principio “chi inquina paga” ed il principio di azione preventiva. Pertanto uno dei principali compiti della Comunità è di garantire che chi causa danno alla salute umana o all’ambiente risponda delle proprie azioni e che comunque ove possibile tale danno sia evitato”. Anche il Libro Verde della Commissione Europea in materia di responsabilità civile per danno all’ambiente recita: “A Community wide system of civil liability for environmental damage would draw on a basic and universal principle of civil law, the concept that a person should rectify damage that he causes. This legal principle, is strongly related to two principles forming the basis of Community environmental policy since the adoption of the Single Act, the principle of prevention and the “polluterpays” principle”. In particolare, riguardo al principio “chi inquina paga” non può dubitarsi che esso assuma un ruolo fondamentale per la responsabilità civile in campo ambientale, ponendo le basi di un’azione della Comunità in tal senso. In dottrina si è infatti sottolineata la peculiarità di tale principio rispetto agli altri – anche per la sua formulazione – attribuendo ad esso non solo una valenza di indicazione programmatica (propria dei principi) bensì quella di obbligo di un risultato ben preciso: la traslazione di un costo da chi lo subisce a chi lo genera (138). L’importanza del principio è emersa già nel 1972 quando l’OECD (139), in occasione di una riunione del Comitato per l’ambiente, lo indicò quale “principio di efficienza economica”, ciò che evidenzia la stretta connessione con gli aspetti economici della tutela ambientale. Tale orientamento è stato poi formalizzato dallo stesso organo in due successive raccomandazioni, che ne hanno meglio specificato le modalità applicative (140). Tuttavia è da dire che per diverso tempo in ambito comunitario non si disponibili, pur inserendo un espresso richiamo ai documenti BREF (BAT Reference Documents) pubblicati dalla Commissione europea, il Codice riserva ancora a futuri decreti ministeriali la definizione delle linee guida per l'individuazione e l’utilizzo delle migliori tecniche disponibili per le diverse categorie di impianti”. (138) Cfr. M.MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, 1996 e D. DAVANZO, La nuova responsabilità ambientale. Profili di diritto comunitario e interno, Rubbettino, 2007. (139) OECD, menzionata nella Comunicazione della Commissione al Consiglio sul programma delle Comunità Europee per l’ambiente, 24 marzo 1972. (140) Raccomandation of the Council of guiding principles concerning international economic aspects of environmental policies, del 26 maggio 1972 e Raccomandation of the Council of the implementation of the polluter pays principle, del 14 novembre 1974, in OECD The Polluter Pays Principle, Paris 1975, p. 11, 18. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sono riscontrati elementi tali da attribuire al principio in questione la qualificazione di strumento di responsabilità civile ambientale. Almeno fino alla metà degli anni ’80, è sembrato che la Comunità abbia posto più l’accento su una politica di tipo preventivo che non di riparazione del danno. E’ solo con l’Atto Unico europeo infatti che il principio entra a far parte a pieno titolo dei principi fondamentali della tutela ambientale (141). In seguito, dopo un lungo e complesso iter legislativo, iniziato nei primi anni ottanta, il legislatore dell’UE ha approvato la direttiva 2004/35/CE, che introduce un quadro di riferimento per gli Stati membri in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale, in linea col principio «chi inquina paga» e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile (142). Essa richiama orientamenti già enunciati nei documenti quali il Libro (141) Una netta presa di posizione, in sede comunitaria, per quanto riguarda la connessione tra il principio “chi inquina paga” e la responsabilità per danno ambientale, è contenuta nella Proposta di Direttiva del Consiglio relativa alla responsabilità civile per i danni causati dai rifiuti presentata dalla Commissione l’1 settembre 1989, e modificata nel giugno del 1991. Nella Proposta è previsto un regime di responsabilità oggettiva per i danni causati all’ambiente e, nei Considerando, si legge che il ricorso a tale criterio di imputazione è correlato all’esigenza di rendere operativo il principio “chi inquina paga”. Il principio diventa quindi presupposto per l’attuazione di politiche ambientali incentrate sia su un criterio preventivo, legato all’intervento dei pubblici poteri, sia su un criterio riparatorio, legato alla responsabilità civile. Da questo momento in poi il principio “chi inquina paga” diverrà il presupposto per l’emanazione di una serie di atti della Comunità Europea in ordine alla creazione di un sistema di responsabilità civile in campo ambientale valido per tutti gli Stati membri, fino ad arrivare alla Direttiva 2004/35 CE. (142) Con riguardo alla direttiva, cfr. U. SALANITRO, La direttiva comunitaria sulla responsabilità per danno ambientale, in Rass. dir. pubbl. europeo, 2003, p. 137 ss.; dello stesso A., più di recente, Il danno ambientale, Aracne, 2009; C. CLARKE, The proposed EC liability Directive: half-way trhrough Co-Decision, in Reciel, Blackwell Publishing Lid, 2003; V. FOGLEMAN, The environmental liability directive, in Environmental liability, 2004, p. 101 ss.; B. POZZO (a cura di), La responsabilità ambientale. La nuova direttiva sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, Milano, 2005; L. BERGKAMP, Implementation of the environmental liability directive in EU member states, in 6 ERA Forum, 2005, p. 389 ss.; H. DESCAMPES, Liability for environmental damage in Belgium (Flemish region) in 2005, ivi, 401 ss.; A. FERRERI, La direttiva n. 2004/35/CE sulla prevenzione e riparazione del danno ambientale, in Dir. Comunitario e degli scambi internazionali, 2005, p. 56; E. CORNU -THENARD, La réparation du dommage environnemental: étude compa-rative de la directive 2004/35/CE du 21 avril 2004 sur la responsabilité environne-mentale et de l’US Oil Pollution Act, in Revue juridique de l’environnement, 2008, p. 175 ss. E.H.P. BRANS, Liability for damage to public natural resources under the 2004 EC Environmental liability directive. Standing and assessment of damages, in Environmental law review, 2005, p. 90 ss.; F. CARLESI, La prevenzione e la riparazione del danno ambientale come oggetto di funzione amministrativa: riflessioni alla luce della direttiva 2004/35/CE, in D. DE CAROLIS, E. FERRARI, A. POLICE (a cura di), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano 2006, p. 507 ss.; M. C. ALBERTON, Dalla definizione di danno ambientale alla costruzione di un sistema di responsabilità: riflessioni sui recenti sviluppi di diritto europeo, in Riv. giur. amb., 2006, p. 605 ss.; V. FOGLEMAN, Enforcing the environmental liability directive: duties, powers and self-executing provisions, in Environmental liability, 2006, p. 127 ss.; della stessa a.: The environmental liability directive and its impacts on English environmental law, in Journal of planning and environment law, 2006, p. 1443 ss.; G. CROWHURST, The environmental liability directive: a UK perspective, in European environmental law review, 2006, p. 266 ss.; A. DI CAPRIO, La responsabilità per danno ambientale, in R. ROTA (a cura di), Lezioni, cit., p. 163 e ss; M.C. ALBERTON, Il danno ambientale in un’ottica multilivello, IANUS, 2010. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 333 Verde sulla responsabilità civile per danno ambientale del 1993 e il Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente del 2000. In particolare si riconosce che “l’operatore” (la persona fisica o giuridica che esercita o controlla l’attività professionale) la cui attività abbia causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno (143), sarà considerato finanziariamente responsabile, in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale. La normativa affronta per la prima volta il problema della tutela diretta delle risorse naturali, attraverso lo strumento della responsabilità civile allorquando sia possibile identificare i soggetti inquinatori, il danno sia concreto e quantificabile e sia possibile accettare il nesso causale tra il danno ed il soggetto identificato. Nello specifico, la direttiva – che per taluni aspetti riprende i principi adottati dalla Convenzione internazionale di Lugano in materia di risarcimento del danno derivante dall’esercizio di attività pericolose indica due differenti ipotesi nelle quali ricorre la responsabilità per danno ambientale, che si distinguono sia per l’oggetto della tutela, sia per le caratteristiche dell’attività che ha causato il danno, sia per il criterio di imputazione della responsabilità. Nella prima ipotesi assume rilievo il danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, causato da un’attività professionale potenzialmente pericolosa per l’ambiente. La direttiva delimita il concetto di danno ambientale, il quale, per essere rilevante, deve rientrare in una delle seguenti tipologie: danno alle specie e agli habitat protetti, danno alle acque e danno al terreno. “Il danno alle specie e agli habitat protetti è rilevante se produce significativi effetti negativi sul conseguimento di uno stato di conservazione favorevole di specie o habitat tutelati dalle direttive comunitarie 79/409/CEE e 92/43/CEE o che lo Stato membro individua per fini equivalenti a quelli perseguiti da tali direttive. Il danno alle acque viene definito come qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque, così come definiti dalla direttiva 2000/60/CE. Il danno al terreno è limitato alle contaminazioni del suolo o del sottosuolo che creino un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana” (144). Per quanto riguarda le misure da adottare il legislatore europeo distingue tra misure di prevenzione e misure di riparazione. Le prime interessano un evento, un atto o un’omissione che hanno creato una minaccia imminente di (143) La direttiva definisce il danno ambientale quale “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, il quale può prodursi direttamente o indirettamente”. (144) Cfr. U. SALANITRO, Il danno ambientale, cit. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 danno ambientale, al fine di impedire o minimizzarne gli effetti; le seconde invece attengono a un danno già verificatosi e consistono in tutte quelle iniziative volte a controllare, circoscrivere, eliminare o gestire, con effetto immediato, gli elementi inquinanti dell’evento specifico, allo scopo di limitare o prevenire ulteriori danni ambientali ed effetti nocivi per la salute umana, ovvero ulteriori deterioramenti ai servizi (145). Sul piano soggettivo è responsabile del danno ambientale la persona fisica o giuridica che esercita o controlla l’attività professionale (cioè un’attività economica, commerciale o imprenditoriale, di carattere pubblico o privato, con o senza fini di lucro) che ha causato il danno. Ma tale responsabilità ricorre solo se l’attività economica rientra tra quelle prese in considerazione dalla disciplina comunitaria di settore, per la loro potenziale pericolosità per l’ambiente e la salute, elencate nell’Allegato III della direttiva (146). Il danno causato da una di tali attività determina una responsabilità ambientale di tipo oggettivo. Sono previste ipotesi di esenzione da detta responsabilità con onere della prova a carico dei c.d. operatori. Nella seconda ipotesi diventa invece rilevante, ai fini della responsabilità, esclusivamente il danno alle specie e agli habitat naturali protetti, o la minaccia imminente di tale danno, causato da un’attività professionale non compresa tra quelle indicate nell’Allegato III, in quanto potenzialmente non pericolosa per l’ambiente e la salute; in tal caso l’operatore è responsabile solo in caso di comportamento doloso o colposo. In sintesi ne risulta una responsabilità differenziata a seconda delle attività professionali: responsabilità oggettiva per le attività ad alto rischio e soggettiva per quelle non ad alto rischio. Sotto questo profilo, la normativa italiana di recepimento non sembra porsi in linea con la direttiva comunitaria, atteso che dalla disposizione normativa del d.lvo 152/06, come modificato fino al d.lvo 128/2010 ed anche d.lvo 205/2010, traspare un’impostazione ancora tutta fondata sulla responsabilità aquiliana. 4.5 L’ accesso alle informazioni ambientali Il diritto di accesso alle informazioni ambientali, nell’ordinamento comunitario, costituisce diretta applicazione del principio di trasparenza ma, al contempo, anche di quello di partecipazione. Non è quindi senza significato che l’ultima direttiva in ordine di tempo specificamente dedicata alla disciplina dell’accesso ambientale direttiva del (145) Cfr. A. DI CAPRIO, La responsabilità, cit., p. 165 e ss., specie riguardo ai diversi tipi di misure di riparazione. Inoltre, I. A. NICOTRA - U. SALANITRO, Il danno ambientale tra prevenzione e riparazione, Giappichelli, 2010, ivi in particolare i contributi di C. CASTRONOVO e A. LONGO. (146) Una serie di attività è espressamente esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva. In merito cfr. S. M. CARBONE - F. MUNARI - L. SCHIANO DI PEPE, The environmental liability for damage to the marine environment, in Environmental liability, 2008, p. 18 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 335 Parlamento europeo e del Consiglio n. 2003/4/CE del 28 gennaio 2003 al primo considerando espressamente affermi che un rafforzamento dell’accesso del pubblico all’informazione ambientale e la diffusione di tale informazione “contribuiscono a sensibilizzare maggiormente il pubblico alle questioni ambientali, a favorire il libero scambio di opinioni, ad una più efficace partecipazione del pubblico al processo decisionale in materia e, infine, a migliorare l’ambiente”. Evidente appare dunque lo stretto legame sussistente tra circolazione delle informazioni, partecipazione del pubblico alle decisioni e obiettivo finale di tutela dell’ambiente naturale. Ne consegue che la relativa regolamentazione è preordinata sì ad assicurare esigenze di trasparenza e diffusione delle informazioni, ma soprattutto – in ultima analisi la protezione del bene ambientale. Allo stesso tempo l’accesso in materia ambientale è un precipitato dei principi comunitari ambientali, quali quello di precauzione e dell’azione preventiva. Se il perseguimento dei principi di precauzione e di prevenzione presuppone conoscenze scientifiche adeguate e azioni basate su dati aggiornati e corretti, la diffusione delle informazioni e degli studi permette infatti di assumere decisioni più ponderate e basate su una migliore conoscenza della realtà. L’origine dell’accesso ambientale, in ambito comunitario, viene fatta risalire alla direttiva 90/313/CE, espressamente dedicata alla libertà di accesso all’informazione in materia di ambiente. In essa il tema dell’accesso alle informazioni ambientali trova una prima, parziale, sistemazione e codificazione, contenente comunque già in nuce tutti gli elementi di novità rispetto allo schema tradizionale dei rapporti tra pubblici poteri e cittadini in materia. Su tale disciplina si è innestata la interpretazione estensiva della Corte di Giustizia CE che, ogni volta che è stata chiamata in causa per chiarire la portata della disciplina sull’accesso ambientale, non ha perso occasione per valorizzare sia la ratio sia il dato positivo delle direttive in materia, giungendo quasi sempre ad ampliare gli spazi per le istanze di ostensione e, per converso, a leggere restrittivamente le ipotesi di esclusione (147) . Trascorsi alcuni anni il Legislatore comunitario ha ritenuto non di aggior- (147) Così la Corte di Giustizia CE, 17 giugno 1998, in causa C-321/96, richiesta di stabilire se l'art. 2, lett. a), della direttiva deve essere interpretato nel senso che esso si applica ad una presa di posizione adottata da un'autorità amministrativa competente in materia di conservazione del paesaggio nell'ambito della sua partecipazione ad una procedura di approvazione di progetti di costruzione, se la detta presa di posizione è tale da incidere, relativamente agli interessi alla tutela dell'ambiente, sulla decisione di approvazione di tali progetti, oltre a rispondere affermativamente, ha dichiarato che “la nozione di ‘misure amministrative’ costituisce una mera illustrazione delle ‘attività’ o delle ‘misure’ considerate dalla direttiva. Infatti… il legislatore comunitario si è astenuto dal dare una definizione della nozione di ‘informazione relativa all'ambiente’ che possa escludere una qualsiasi delle attività svolte dall'autorità pubblica, poiché il termine ‘misure’ serve soltanto a precisare che devono essere incluse tra gli atti rien-tranti nella direttiva tutte le forme di esercizio dell'attività amministrativa”. La Corte ha poi offerto una interpretazione restrittiva del concetto di ‘azione investigativa preliminare’, previsto nella direttiva n. 313 come eccezione al dispiegarsi del principio di trasparenza. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 nare ma addirittura sostituire la direttiva 90/313/CE (148), per dare spazio ad una serie di nuovi principi e introdurre i necessari aggiustamenti, al fine di stare al passo con i cambiamenti sociali intervenuti e gli sviluppi della tecnologia. L’attuale disciplina comunitaria dell’accesso alle informazioni ambientali è fortemente debitrice nei confronti della Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, sulla partecipazione del pubblico ai processi decisionali e sul ricorso alla giustizia in materia ambientale, approvata in Danimarca il 25 giugno 1998 ed entrata in vigore il 30 ottobre 2001. Tale Convenzione è stata approvata dalla CE con la Decisione 17 febbraio 2005 n. 2005/370/CE. Essa si basa su tre pilastri: l’accesso all’informazione, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia nel settore ambientale (149). L’accesso alle informazioni ambientali è stato così allineato a tale Atto attraverso la direttiva 2003/4/CE, mentre la partecipazione del pubblico alle decisioni in materia ambientale è stata a sua volta oggetto di altra specifica direttiva: la 2003/35/CE (150). “Differenziandosi dal modello tradizionale, la Convenzione di Aarhus concepisce l’ambiente come un vero e proprio diritto dell’uomo e ne offre tutela a livello internazionale. In particolare il diritto dell’ambiente è inteso in termini procedurali: ciò che viene tutelato non è il diritto ad una determinata qualità dell’ambiente, ma il diritto dei cittadini ad essere associati dalle istituzioni nell’assunzione delle decisioni che riguardano l’ambiente. In tal modo la qualità ambientale a cui gli individui hanno diritto non viene definita una volta per tutte in astratto, ma di volta in volta nell’ambito di un processo decisionale a cui i cittadini hanno diritto a partecipare” (151). (148) Afferma il sesto considerando della direttiva : “E’ opportuno, nell’interesse di una maggiore trasparenza, sostituire la direttiva 90/313/CEE anziché modificarla, in modo da fornire agli interessati un testo legislativo unico, chiaro e coerente”. (149) L’art. 1 della suddetta Convenzione stabilisce infatti: “Per contribuire a tutelare il diritto di ogni persona, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere, ciascuna Parte garantisce il diritto di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale in conformità delle disposizioni della presente convenzione”. (150) La Direttiva 2003/35/CE del 26 maggio 2003 – “Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia” – afferma che tra gli obiettivi della Convenzione di Aarhus “vi è il desiderio di garantire il diritto di partecipazione del pubblico alle attività decisionali in materia ambientale, per contribuire a tutelare il diritto di vivere in un ambiente adeguato ad assicurare la salute e il benessere delle persone” (sesto considerando), e che “la partecipazione, compresa quella di associazioni, organizzazioni e gruppi, e segnatamente di organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente, dovrebbe essere incentivata di conseguenza, tra l’altro promuovendo l’educazione ambientale del pubblico” (quarto considerando). (151) M. SALVADORI, Il diritto di accesso all’informazione nell’ordinamento dell’Unione Europea, in www.evpsi.org., 2010. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 337 Il carattere “multilivello” della disciplina di tutela ambientale richiede oggi, infatti, che tutti gli attori che a vario titolo intervengono o sono coinvolti dalle politiche pubbliche che interessano l’ambiente abbiano assicurata, sempre più, la possibilità di far valere il proprio punto di vista attraverso la partecipazione democratica e, prima ancora, il diritto di ottenere e accedere a tutte le informazioni e le conoscenze che permettono di acquisire una consapevolezza e la formazione di un proprio punto di vista in materia, in vista di un controllo sociale diffuso sul bene-Ambiente (152). L’importanza della Convenzione di Aarhus sta proprio nell’aver dedicato attenzione e messo in rilievo l’aspetto procedurale e organizzativo della partecipazione del pubblico, facendo capire come l’effettiva realizzazione delle situazioni giuridiche soggettive astrattamente riconosciute è vanificata se le associazioni e i soggetti portatori di istanze collettive non sono messi in grado di incidere sul farsi della decisione (153). L’accesso alle informazioni ambientali ha quindi costituito fertile terreno per l’implementazione e la sperimentazione di istituti, facoltà e strumenti innovativi di tutela, cui corrispondono stringenti doveri in capo ai soggetti detentori delle informazioni di carattere ambientale, che vengono dalla normativa – accompagnata da una lettura estensiva operata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia – obbligati non solo ad assicurare una piena ed effettiva soddisfazione delle puntuali istanze di accesso (154), ma anche a realizzare quella per certi versi nuova e più incisiva forma di pubblicità costituita da una divulgazione attiva dei dati e delle informazioni in proprio possesso. Peculiari dell’accesso ambientale, rispetto alla configurazione e alla lettura tradizionale dell’accesso ai documenti amministrativi, sono infatti la titolarità di tale situazione giuridica, basata su una legittimazione diffusa in capo a tutti gli interessati, che non sono tenuti a dare dimostrazione di un interesse qualificato e di un qualche collegamento con il dato che chiedono di (152) “Oltre a influire sui modelli di consumo e di comportamento, l’informazione ambientale... diviene il presupposto di una più consapevole partecipazione dei cittadini ai processi decisionali pubblici che interferiscono con gli equilibri ecologici, migliorandone la trasparenza, l’accountability e il tasso di adesione democratica”: F. FONDERICO, Il diritto di accesso all’informazione ambientale, in Giornale di diritto amministrativo, giugno 2006, n. 6, p. 676. (153) Cfr. M. CIAMMOLA, Il diritto di accesso all’informazione ambientale: dalla legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente al decreto legislativo n. 195 del 2005, in Il Foro amministrativo - CdS, 2007, n. 2, p. 685 il quale osserva: “è sufficiente accennare al carattere dirompente rispetto allo status quo, per limitarci solo alla disciplina della fase partecipativa, delle previsioni che impongono che il pubblico sia informato nella fase iniziale del processo decisionale in materia ambientale e che ciò avvenga in modo adeguato, tempestivo ed efficace, mediante pubblici avvisi od individualmente (con possibilità di audizioni pubbliche), ovvero di quelle secondo cui l’effettiva partecipazione del pubblico all’elaborazione di regolamenti e norme interessanti l’ambiente deve avvenire in una fase adeguata e quando tutte le alternative sono ancora praticabili”. (La parte in corsivo riprende gli artt. 6 e 8 della Convenzione). (154) Con il solo limite di casi di esclusione, per legge, dell’accesso, tassativamente determinati. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 visionare, nonché il contenuto o l’oggetto di tale diritto, che concerne non soltanto i formali documenti amministrativi, bensì tutta la scienza in possesso delle autorità pubbliche, e quindi anche le attività informali o i dati non ancora assurti al livello di documento ufficiale: per l’appunto, le informazioni. Informazioni relative all’ambiente e al territorio che la normativa comunitaria obbliga a raccogliere, catalogare, aggiornare, rendere intelligibili e mettere a disposizione della collettività (il “pubblico”, nella dizione comunitaria), attraverso le moderne tecnologie, in primo luogo Internet. Ne risulta confermato, anche in questo particolare settore, il ruolo di “apripista” e precursore del diritto ambientale (155), vero e proprio spazio privilegiato per l’introduzione di innovativi modelli organizzativi e strumenti di tutela. I principi e le garanzie previsti dalla citata Convenzione di Aarhus del 1998 sono dunque alla base della direttiva 2003/4/CE del 28 gennaio 2003. Obiettivo esplicito di detta normativa è ampliare l’accesso alle informazioni ambientali rispetto a quello sancito dalla direttiva 90/313/CEE. L’intento è perciò di rafforzare il principio di trasparenza, sia attraverso una assai estesa nozione di informazioni ambientali, sia individuando in maniera rigorosa i casi di esclusione per legge dell’accesso, sia responsabilizzando le autorità pubbliche detentrici delle informazioni attraverso la necessaria catalogazione, lavorazione, organizzazione e massima diffusione di tali informazioni verso l’esterno. Riguardo il nuovo concetto di informazione ambientale accessibile, “è interessante osservare la definizione del concetto di informazione ambientale che risulta riferibile, in qualunque forma si presenti, non solo ai tradizionali elementi naturali, antropici e amministrativi (già presenti nella direttiva 90/313/CEE), ma anche allo stato della salute e della sicurezza umana – compresa la contaminazione della catena alimentare – e, più in generale, alle condizioni della vita umana (art. 2, lett. f)” (156). Architrave di tutta la disciplina è il primo comma dell’art. 3 (“Accesso all’informazione ambientale su richiesta”) che afferma il diritto all’accesso ambientale “a chiunque ne faccia richiesta”, senza che il richiedente debba non solo dimostrare, ma addirittura dichiarare il proprio interesse. Alla istanza l’autorità pubblica deve rispondere al più presto e comunque entro 30 giorni, che possono salire a 60 a causa del volume e della complessità delle informazioni richieste, ma in tal caso l’autorità è tenuta entro i 30 giorni a informare il richiedente della proroga e dei motivi che la giustificano. Ne risulta confermata una titolarità incondizionata (157) del diritto di accesso, (155) Cfr. in merito M. CIAMMOLA, op. cit., p. 714-715 e F. DE LEONARDIS, in Le organizzazioni ambientali come paradigma delle strutture a rete, Foro amm.- CdS, gennaio 2006, n. 1, p. 273. (156) D. BORGONOVO RE, Informazione ambientale e diritto di accesso, in Codice dell’ambiente, a cura di S. NESPOR e A. L. DE CESARIS, Milano, III edizione, 2009, p. 1494. (157) M. SALVADORI, op. cit., p. 8. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 339 per cui “l’informazione ambientale è patrimonio di conoscenza di chiunque”. Sul versante della tutela la direttiva n. 2003/4/CE compie grandi passi in avanti, affermando espressamente che essa coinvolge anche le omissioni delle autorità pubbliche (articolo 6). E’ quindi prevista la possibilità di un riesame della decisione di fronte alla stessa o a un’altra autorità o in via amministrativa da un organo indipendente e imparziale istituito per legge, oppure di fronte ad un organo giurisdizionale, le cui decisioni sono vincolanti per l’autorità pubblica. Soprattutto innovativa, come si accennava, è quella forma di circolazione delle informazioni denominata “Diffusione dell’informazione ambientale” (art. 7), in cui è previsto l’obbligo per le autorità pubbliche, relativamente ai dati posseduti o anche solo detenuti dalle stesse, di una attiva e sistematica diffusione al pubblico, “mediante le tecnologie di telecomunicazione informatica e/o le tecnologie elettroniche, se disponibile”. E’ quindi disposto che l’informazione ambientale sia resa progressivamente disponibile attraverso banche dati elettroniche, facilmente accessibili, nonché che essa comprenda un complesso minimo di dati (i testi di trattati, convenzioni e accordi internazionali; le politiche, i piani e i programmi relativi all’ambiente; le relazioni sullo stato dell’ambiente; le autorizzazioni con un impatto significativo sull’ambiente, ecc.), allo scopo di costringere le amministrazioni, volenti o nolenti, ad attivarsi facendo tutti gli sforzi possibili, con le risorse date, per incrementare successivamente e periodicamente il patrimonio informativo messo “d’ufficio” a disposizione del pubblico, attraverso la libera consultazione di banche dati o collegamenti a siti Internet. E’ evidente il vantaggio derivante dalla fruibilità in formato elettronico dell’informazione ambientale, perché così facendo si eliminano tutti gli ostacoli di carattere spaziale e territoriale, garantendo la massima conoscibilità (e non solo la pubblicità) del dato ambientale (158). La normativa sull’accesso ambientale ha finito per costituire un punto di riferimento e un limite, in positivo, per le discipline successive, che non hanno potuto non tenerne conto. Così, ad es., la direttiva 14 marzo 2007, n. 2007/2/CE, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un’Infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea (Inspire) (159), - dopo aver sottolineato che “esiste una certa sovrapposizione tra le informazioni territoriali trattate dalla presente direttiva e le informazioni di cui alla direttiva (158) “Strutturare l’informazione significa realizzare sistemi informativi efficienti dal punto di vista della circolazione interna dei dati e con elevata usabilità, in modo da garantire la diffusione esterna dell’informazione”, cfr. E. SÀNCHEZ JORDÀN e C. MAIOLI, Diffusione e accesso all’informazione territoriale in accordo con il recepimento della direttiva Inspire, in www.altalex.com. Inspire (acronimo di INfrastructure for SPatial InfoRmation in Europe) è un’infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea, istituita con la direttiva 2007/2/CE del 14 marzo 2007. (159) Recepita in Italia dal decreto legislativo 27 gennaio 2010 n. 32. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 2003/4/CE” – all’art. 2 espressamente afferma che essa si applica fatta salva la direttiva 2003/4/CE, che quindi ha carattere prevalente. Lo stesso Regolamento CE 23 aprile 2009 n. 401/2009, “istitutivo” dell’Agenzia europea per l’ambiente (160), allo scopo precipuo di attuare una rete europea di informazione e di osservazione in materia ambientale, attribuisce – tra l’altro – alla nuova Agenzia il compito di fornire informazioni oggettive, attendibili e comparabili, allo scopo di garantire un’efficace informazione del pubblico sullo stato dell’ambiente. In conclusione, la disciplina comunitaria dell’accesso ambientale si caratterizza per gli elementi di specialità e innovazione rispetto alla tradizionale tutela riservata al diritto di accesso alla documentazione: l’utilizzo e l’implementazione dei moderni strumenti informatici ed elettronici – Internet in primo luogo – hanno permesso di fare leva e promuovere quella modalità di realizzazione di una pubblicità diffusa delle informazioni possedute rappresentata dalla divulgazione attiva delle informazioni ambientali, per il tramite di una serie di obblighi organizzativi e procedurali imposti ai detentori delle informazioni stesse. (160) Va detto che tale Agenzia è stata istituita con regolamento CEE n. 1210 del 1990, modificato anche a più riprese e perciò “codificato” con il nuovo regolamento del 2009 a fini di razionalità e chiarezza (cfr. 1 considerando del regolamento CE 23 aprile 2009 n. 401/2009). R E C E N S I O N I GIAMPAOLO ROSSI (*), Potere amministrativo e interessi a soddisfazione necessaria. Crisi e nuove prospettive del diritto amministrativo. (G. Giappichelli Editore - Torino, 2011) Questo studio è tratto, con integrazioni e modifiche, dal primo capitolo del libro “Principi di diritto amministrativo”, Torino, 2010. L’esposizione chiara ed esauriente dei principi intesi come chiavi di lettura, che servì a una prima enucleazione dei caratteri specifici della disciplina, assume una nuova importanza, sia didattica che scientifica. L’evoluzione tumultuosa degli ordinamenti rende necessario il tentativo di individuare, nella disarticolazione della materia, le ragioni essenziali che ne consentono una ricomposizione, i punti fermi, dotati di sufficiente stabilità. E’ evidente che la stabilità va intesa in senso relativo: è quella che si riferisce ai caratteri fondamentali di un ordinamento e quindi si perde con il mutare di questi. I cicli storici possono avere una diversa durata; sono più duraturi per quanto riguarda i rapporti interprivati e più soggetti a trasformazioni nel funzionamento delle collettività organizzate e nel loro rapporto con le persone e i gruppi che le compongono. Basta aver presente, per averne conferma, quanta parte degli istituti del diritto privato romano sono ancora attuali mentre nulla resta del diritto pubblico di allora. Ciò spiega, per altro, come l’enunciazione dei “principi” non sia possibile in tutte le fasi storiche. Le teorie giuridiche non possono vivere fuori del proprio tempo, delle condizioni di vita, delle convinzioni, del sistema economico insieme al quale nascono e si esauriscono. Non è possibile nei periodi di dissoluzione dei sistemi, perchè nel momento della totale frammentazione la si può solo registrare e non si può riportare a sistema una vicenda che è asistematica. Neppure è possibile nei periodi di lunga stabilità, nel senso che, quanto i capisaldi concettuali si sono consolidati da tempo, la dottrina non può elaborare i principi in quanto (*) Avvocato in Roma, Professore ordinario di diritto amministrativo - Facoltà di giurisprudenza - Università di Roma 3. L’esposizione chiara e l’obiettivo della ricerca delle essenzialità nella trattazione delle tematiche affrontate - si riporta la prefazione dell’Autore - hanno la capacità di suscitare interesse e riflessioni sia nell’occasionale cbe nel consumato conoscitore della materia (n.d.r.). 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 sono già elaborati; e infatti la dottrina in questi contesti concentra spesso la sua attenzione su questioni di dettaglio o di mera descrizione. In genere i principi, intesi come nuove chiavi di lettura, si producono nelle fasi nascenti nelle quali si possono individuare con sufficiente chiarezza i segni dell’evoluzione in atto, i caratteri di un sistema che si sta consolidando e nel quale, anche in termini concettuali, si possono formare nuove categorie. E’ stato così alla infine del Medio Evo, quando è diventato evanescente il potere dell’Impero e della Chiesa e i giuristi che ne furono consapevoli elaborano le teorie sulla sovranità riferendole ai nascenti stati nazionali o, ancora, agli inizi dell’800, quando l’affermarsi delle democrazie parlamentari richiese e consentì ai giuristi di elaborare le teorie sulla divisione dei poteri e sulla supremazia della legge. C’è allora da domandarsi se l’attuale periodo storico presenti questo tipo di caratteristiche o se l’evoluzione troppo rapida escluda la possibilità di individuare linee che si vanno consolidando in un nuovo assetto che possa essere teorizzato. E’ evidente che è in crisi lo stato nazionale, inteso come l’organizzazione “autosufficiente” (Aristotele). E in crisi, quindi, il cardine fondamentale sul quale si è fondato il diritto pubblico e quindi il diritto amministrativo negli ultimi secoli. Ne deriva una inevitabile crisi del diritto amministrativo, di tutto il diritto pubblico e delle categorie sulle quali è stato costruito. Ma, come poi si vedrà, non mancano segni che fanno presagire l’inizio di una nuova fase nell’evoluzione degli ordinamenti, della quale è prematuro definire tutti i profili sistematici e che consente tuttavia tentativi di rielaborazione basati su elementi essenziali del vivere sociale e degli assetti istituzionali che sussistono nelle trasformazioni assumendo vesti e contenuti nuovi. Nella complessità e frammentarietà degli attuali contesti sociali e istituzionali le chiavi ricostruttive devono ripartire dai fondamenti primi delle aggregazioni umane, dalla rinnovata consapevolezza dell’esistenza di interessi che il singolo non può soddisfare da solo e quindi dalla necessità di appartenenza a gruppi organizzati e dell’esercizio di poteri in grado di soddisfarli (...). L’Autore RECENSIONI 343 AA.VV., a cura di FRANCOGIAMPIETRO (*), La nuova disciplina dei rifiuti. Commento al D.Lgs 205/2010. Aggiornato al Testo Unico “Sistri”. (IPSOA, 2011, pp. 1-319) Il volume risponde alle tante domande ed ai rilevanti dubbi sorti tra gli operatori, ma anche tra gli esperti, dopo la pubblicazione del D.Lgs. n. 205/2010, attuativo della direttiva 2008/98/CE sui rifiuti, commentata nel precedente volume del 2009, per la stessa Casa Editrice e dal medesimo coordinatore del presente volume (Cfr. “Commento alla direttiva 2008/98/CE”, 2009, pp. 1-288). Il decreto è intervenuto sul Testo Unico Ambientale, come se fosse (ma non lo è) un quarto “Correttivo”, attraverso modifiche, sostituzioni, aggiunte e abrogazioni, introducendo istituti nuovi (come per es. la responsabilità estesa del produttore del “futuro” rifiuto; obiettivi e termini di riciclaggio; le definizioni di sottoprodotto e dell’end of waste, ecc.) e non soltanto di derivazione comunitaria (ci riferiamo al SISTRI e alle sue tante proroghe). I temi oggetto di analisi e commento sono: • Troppe regole “annunciate” e ancora dubbi sul giudice competente (F. Giampietro); • le nozioni di rifiuto e di sottoprodotto (A. Farì); • la cessazione della qualifica di rifiuto (end of waste) (D. Röettgen); • il sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) (D. Röettgen); • la responsabilità estesa del produttore (G. Garzia); • i procedimenti di autorizzazione e di registrazione. Oneri e controlli (F. Benedetti); • le norme transitorie e il rapporto con la disciplina di particolari tipologie di rifiuti (A. Borzi); • la classificazione dei rifiuti pericolosi (V. Giampietro); • i piani regionali di gestione dei rifiuti (M. Medugno); • i profili tecnici della riforma con i relativi Allegati tecnici (A. Muratori); • il sistema sanzionatorio penale e le sue modifiche “indirette” (A.L. Vergine). (*) Prof. Avv., titolare di Studio legale ambientale in Roma, già magistrato ordinario (sino al 1994); fondatore e condirettore Rivista consulenza ambientale (ora Ambiente & Sviluppo) dell’IPSOA. Presidente Associazione giuristi ambientali (www.giuristi ambientali.it). Autore di volumi e pubblicazioni in materia ambientale. E’ stato docente universiatrio a contratto alla Luiss (Roma) ed in altre Università. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2011 RUGGIERO DIPACE, La disapplicazione nel processo amministrativo. Collana di Studi “Nuovi problemi di amministrazione pubblica” diretti da FRANCO GAETANO SCOCA. (G. Giappichelli Editore - Torino, 2011, pp. 1-295) La monografia, pubblicata nella collana di studi sui nuovi problemi della Pubblica Amministrazione diretta dal prof. F. Scoca, propone una lettura innovativa ed originale dell'istituto della disapplicazione nel processo amministrativo in linea con la più recente giurisprudenza in materia: la disapplicazione viene considerata come un potere connaturato alla funzione giurisdizionale e, quindi, attraverso una puntuale ed approfondita analisi degli articoli 4 e 5 della Legge Abolitiva del Contenzioso amministrativo inerente anche alla giurisdizione amministrativa. La disapplicazione viene configurata come un potere alternativo a quello di annullamento dell'atto nelle ipotesi in cui vengano in rilievo domande differenti da quella demolitoria. Tale conclusione risulta ancor più avvalorata nell'attuale contesto normativo ove il codice del processo amministrativo introduce il principio di atipicità delle azioni. Nel testo si chiariscono i confini tra la disapplicazione, sindacato principale e sindacato incidentale, affermando che la disapplicazione può essere la conseguenza sia di un sindacato in via incidentale sia di un sindacato in via principale sull'atto. Tale affermazione è sorretta da una approfondita motivazione e risulta essere di sicura originalità. Interessante è la disamina delle vicende dell'istituto in chiave storica operata nel primo capitolo del libro. Le vicende della disapplicazione vengono analizzate sia con riferimento all'evoluzione del criterio di riparto fra le giurisdizioni sia con riguardo ai mutamenti nel sistema tradizionale di giustizia amministrativa. Nel secondo capitolo viene trattato l'argomento della compatibilità della disapplicazione con il sistema costituzionale e il suo radicamento nel processo amministrativo. In questa parte del libro si dimostra come la disapplicazione sia un potere generale compatibile con la giurisdizione del giudice amministrativo e tale ragionamento viene affrontato tenendo presente le norme costituzionali. La Costituzione si limita a prevedere l'annullamento dell'atto non perché questo sia l'unico potere in mano al giudice amministrativo quanto perché incidendo sull'esistenza dell'atto stesso deve essere accuratamente disciplinato nei suoi effetti a livello costituzionale. II potere di disapplicazione, invece, non avendo tale esito non richiede una apposita disciplina ma è presupposto allo ius dicere proprio di qualsiasi giudice. La disapplicazione, quindi, è diretta espressione del principio di legalità e di effettività della tutela. Viene quindi nei successivi capitoli esaminato il ruolo della disapplicazione nelle tipologie della giurisdizione amministrativa. Gli spunti più innovativi riguardano la giurisdizione di legittimità laddove non venga in rilievo la domanda di annullamento. In questa prospettiva viene riletta la vicenda della disapplicazione dei regolamenti e degli atti contrastanti con il diritto comunitario, nonché trattata approfonditamente la compatibilità della disapplicazione con i principi generali del processo amministrativo e il suo ruolo nel sistema delle azioni. (*) Professore di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi del Molise. RECENSIONI 345 Con particolare riguardo alla inoppugnabilità del provvedimento, l'Autore afferma la piena compatibilità con la disapplicazione, considerando l'inoppugnabilità solo ed esclusivamente come preclusione alla proposizione della domanda di annullamento senza conferire alcun ulteriore valore ad un provvedimento che resta illegittimo. Nel sistema delle azioni delineato dal codice del processo amministrativo quella di annullamento ha perso la sua centralità a scapito della azione di condanna e delle prime ammissioni inerenti I'azione autonoma di accertamento. In questo contesto, secondo l'Autore, la disapplicazione trova ampi spazi di operatività: basti pensare alla proposizione autonoma dell'azione risarcitoria laddove il giudice può condannare la pubblica amministrazione all’adozione delle misure più idonee per tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. In questo caso, in presenza di un provvedimento non annullato il giudice ben potrà disapplicarlo al fine di pronunciare la condanna della p.a. Di particolare interesse è la ricostruzione in termini di disapplicazione dei poteri del giudice nella vicenda della sorte del contratto a seguito dell'aggiudicazione. A ben vedere in questa ipotesi al giudice amministrativo viene concesso il potere di dichiarare I'inefficacia del contratto. Secondo l'Autore tale potere sarebbe inquadrabile nel generale potere di disapplicazione. In questa ipotesi, la disapplicazione sarebbe particolarmente invasiva visto che non riguarderebbe un atto della amministrazione bensì un contratto frutto della negoziazione tra due parti. Discorso particolare merita I'azione di nullità. E chiaro che un provvedimento nullo non può essere disapplicato in quanto non produce effetti giuridici ma secondo l'Autore è altrettanto vero che vi sono provvedimenti che, ad onta della loro qualificazione in termini di nullità, possono produrre effetti giuridici, basti pensare ai provvedimenti in violazione o meglio in elusione del giudicato. In questi casi il giudice ben potrebbe disapplicare il provvedimento "nullo". Il ruolo della disapplicazione viene esaminato anche con riferimento all'azione di accertamento, con riguardo all'azione sul silenzio, con riferimento alla class action. M.B. Finito di stampare nel mese di ottobre 2011 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma