ANNO LXIII - N. 1 GENNAIO - MARZO 2011 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Aldo Linguiti. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Maria Vittoria Lumetti - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Antonella Anselmo, Roberto Antillo, Giuseppe Arpaia, Ignazio Francesco Caramazza, Gianni Cortigiani, Roberto de Felice, Michele Dipace, Fabrizio Fedeli, Ettore Figliolia, Michele Gerardo, Federico Maria Giuliani, Palmira Graziano, Guilherme Francisco Alfredo Cintra Guimarães, Paolo Marchini, Lilia Marra, Marco Stigliano Messuti, Fabio Pammolli, Lucia Paura, Stefano Pizzorno, Carmela Pluchino, Marina Russo, Nicola C. Salerno, Francesco Spada, Paolo Superbi, Concetta Quartuccio, Vittorio Raeli. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Ignazio Francesco Caramazza in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 - Assemblea Generale della Corte Suprema di Cassazione - Roma, 28 gennaio 2011 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Audizione dell’Avvocato Generale davanti alla Commissione giustizia della Camera. Legge 117/88. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Appelli avverso sentenze in materia di opposizione ad ordinanza ingiunzione ex art. 23 L. 689 del 24 novembre 1981 - Circolare A.G.S. n. 66 del 7 dicembre 2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indicazione e produzione degli atti processuali e dei documenti sui cui si fonda il ricorso per cassazione - artt. 360 n. 6 e 369 secondo comma n. 4 c.p.c. - Circolare A.G.S. n. 67 del 7 dicembre 2010. . . . . . . . . . . . . . . . . Art. 3, comma 2, del Codice del processo amministrativo: redazione degli atti in maniera chiara e sintetica - Circolare A.G.S. n. 1 del 3 gennaio 2011 Predisposizione dei ricorsi per Cassazione in materia tributaria - Circolare A.G.S. n. 12 del 2 marzo 2011. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Arpaia, L’art. 417 bis c.p.c.: la gestione del contenzioso lavoro da parte dei funzionari delle pubbliche amministrazioni. . . . . . . . . . . . . Maurizio Borgo, Riserva all’Avvocatura dello Stato in materia di servizi legali ex R.D. 1611/1933 (Cons. St., Sez. VI, sent. 3 febbraio 2011 n. 780) Roberto de Felice, Gli atti amministrativi (e negoziali) elusivi del patrocinio obbligatorio dello Stato non possono suscitare nel privato alcun affidamento (Cons. St., Sez. VI, sent. 3 febbraio 2011 n. 780) . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Giuseppe Fiengo, Pubblico servizio e concorrenza nella gestione delle farmacie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonella Anselmo, I servizi farmaceutici: sistemi comunitari di sanità solidale e modelli liberistici a confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fabio Pammolli, Nicola C. Salerno, Le Farmacie e le Corti. Istruzioni per un uso non corporativo delle Sentenze. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fabio Pammolli, Nicola C. Salerno, Sulla recente Ordinanza della Corte di Giustizia Europea in data 6 ottobre 2010, causa C-563/08. . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Michele Dipace, Brevi note. Gli atti defensionali dell’Avvocatura e le sentenze della Consulta sul legittimo impedimento (C. cost. sent. 25 gennaio 2011 n. 23; C. cost., sent. 26 gennaio 2011 n. 29) . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 7 ›› 13 ›› 15 ›› 17 ›› 18 ›› 27 ›› 31 ›› 38 ›› 53 ›› 54 ›› 75 ›› 84 ›› 89 Alfonso Mezzotero, Incarichi dirigenziali a tempo determinato (C. cost., sent. 12 novembre 2010 n. 324) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Il termine di comparizione e di costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo. Mutamento giurisprudenziale operato dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., sent. 9 settembre 2010 n. 19246; Trib. Napoli, ord. 15 ottobre 2010 n. 42582/09 R.G.) . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio Borgo, Comportamento antisindacale: cognizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., ord. 24 settembre 2010 n. 20161) . . . . . . . . . Federico Maria Giuliani, Non deducibilità reddituale, per le società di capitali, dei compensi pagati ai propri amministratori. Estensione del precedente oppure clamorosa svista? (Cass., Sez. Trib., ord. 13 agosto 2010 n. 18702) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Pizzorno, Patti di convivenza e riconoscimento giuridico dei medesimi nell’ordinamento italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Pizzorno, Stato di rifugiato e asilo politico. . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Fabrizio Fedeli, Incarico di consulenza legale in via breve conferito ad avvocato dello Stato. Applicabilità art. 17, comma 30, D.L. 1° luglio 2009 n. 78, convertito in Legge 3 agosto 2009 n. 102 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, Collocamento a riposo del personale dirigenziale. Parere in ordine all’art. 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 come modificato dall’art. 17 comma 35 novies della l. 102/2009 . . . . . . . . . . . . . Carmela Pluchino, Parere in merito alla possibilità: 1) per la società consortile costituita ai sensi dell’art. 96 del D.P.R. 554/1999 di sottoscrivere un contratto di subappalto; 2) per il Consorzio stabile capogruppo dell’ATI aggiudicataria di non partecipare alla società consortile, costituita soltanto dalla mandante e da due consorziate designate in via esclusiva dal Consorzio medesimo per l’esecuzione dei lavori . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Rivalutazione indennità integrativa speciale ex art. 2 comma 2 Legge 25 febbraio 1992 n. 210 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Albenzio, Controlli sulle restituzioni all’esportazione dei prodotti agricoli. Art. 11 Reg. CE 485/2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marco Stigliano Messuti, Sulle attribuzioni di titolarità delle procedure delle pratiche finalizzate all'acquisizione del certificato di prevenzione incendi (CPI) degli edifici scolastici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ettore Figliolia, Disciplina in materia di rimborso spese legali ex d.l. n. 67/97, convertito in l. n. 135/97 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo Marchini, Compensabilità tra crediti per indebiti aiuti di Stato per la ricapitalizzazione delle cooperative di pesca con debiti a titolo di premio per arresto temporaneo e definitivo natante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 133 ›› 152 ›› 163 ›› 175 ›› 185 ›› 188 ›› 195 ›› 198 ›› 203 ›› 210 ›› 215 ›› 218 ›› 224 ›› 225 LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ Maurizio Borgo, Il contenzioso in materia di operazioni elettoriali nel nuovo codice del processo amministrativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gianni Cortigiani, Alcune perplessità sul nuovo rito elettorale . . . . . . . Vittorio Raeli, L’ambito di applicazione della mediazione civile e commerciale nel sistema del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. In allegato Circolare AGS n. 21 del 24 marzo 2011 . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Spada, L’immediata applicabilità delle disposizioni della c.d. riforma Brunetta. Poteri della dirigenza pubblica in materia di organizzazione e gestione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Guilherme Francisco Alfredo Cintra Guimarães, Avvocatura dello Stato, amministrazione pubblica e democrazia: il ruolo della consulenza legale nella formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche . . . . . . . . . . Lilia Marra, Concetta Quartuccio, Roberto Antillo, In tema di pubblico impiego privatizzato. Il discrimine temporale ai fini del riparto di giurisdizione tra “atti di gestione e dato storico” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lucia Paura, Privatizzazioni e affidamento “in house”. Il ruolo delle azioni collettive nella tutela dei beni comuni e sociali . . . . . . . . . . . . . . Paolo Superbi, La transazione fiscale e il concordato preventivo: riflessioni a margine di un caso concreto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Alessandra Bruni - Giovanni Palatiello, La difesa dello Stato nel processo, UTET Giuridica, 2011. Prefazione di Ignazio Francesco Caramazza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 239 ›› 256 ›› 259 ›› 276 ›› 283 ›› 312 ›› 326 ›› 353 ›› 371 T E M I I S T I T U Z I O N A L I Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Ignazio Francesco Caramazza In occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 Assemblea Generale della Corte Suprema di Cassazione Roma, 28 gennaio 2011 Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente della Corte di Cassazione, Signore e Signori Considero un vero privilegio poter prendere la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per dare conto, in estrema sintesi, delle attività svolte nel 2010 dall’Istituto che ho l’onore di dirigere. La ristrettezza del tempo a disposizione mi impone di ricorrere all’arido ma concreto linguaggio delle cifre e dei dati. I nuovi affari trattati nell’anno dall’Avvocatura dello Stato ammontano, complessivamente, a livello nazionale, ad oltre 185.000 (che si aggiungono a molte centinaia di migliaia di affari degli anni scorsi ancora pendenti). La diminuzione di circa il 10% rispetto al numero di affari dell’anno precedente non è dovuta ad un calo del contenzioso ma ad un più rigoroso sistema di classificazione introdotto lo scorso anno. Si tratta di una mole di contenzioso imponente che grava su di un organico di sole 370 unità togate e che rappresenta quindi un aspetto della crisi della giustizia la cui causa principale, secondo le analisi più recenti, sembra doversi ascrivere a quello scarso coefficiente di osservanza spontanea delle leggi che è una poco invidiabile peculiarità italiana. Lo spettro delle materie trattate è il più variegato che si possa immaginare. L’Avvocatura rappresenta e difende, infatti, lo Stato nelle sue principali articolazioni dinanzi a tutti gli organi giudiziari sopranazionali e nazionali. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Ricordo, a puro titolo esemplificativo, sul piano internazionale la causa intentata dalla Germania contro l’Italia dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per fare affermare l’esenzione dello Stato tedesco dalla giurisdizione italiana anche per danni derivanti dai crimini di guerra nazisti. Sul piano sovranazionale ricordo, fra gli oltre trecento affari trattati dinanzi ai giudici comunitari quello, che ha avuto ampia eco di stampa, sulla illegittimità della etichettatura del cioccolato come “cioccolato puro” (C- 47/09), quello che ha condotto alla declaratoria di legittimità della normativa italiana che vieta il concomitante esercizio della professione forense e di un impiego pubblico (C-225/09) e quello che ha condotto alla precisazione del principio “ne bis in idem” alla stregua del diritto europeo in tema di cooperazione in materia penale e di mandato di arresto europeo (C-261/09). A livello nazionale degni di particolare menzione, fra gli oltre cinquecento giudizi trattati in Corte Costituzionale, sono quello che ha portato alla sentenza 138/2010, che ha dichiarato in parte inammissibili ed in parte infondate le questioni di legittimità relative alle norme che non consentono il matrimonio fra persone dello stesso sesso nonché quelli che hanno portato alle sentenze 278 e 331/2010 sul riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni in tema di produzione dell’energia nucleare e quello recentissimo sul legittimo impedimento. Dinanzi ai giudici ordinari va citato il vasto contenzioso, spesso con connotazioni seriali, relativo alla legge Pinto, alla responsabilità per danni alla salute conseguenti all’uso di amianto, di uranio impoverito, di sangue infetto; le importanti iniziative assunte per ottenere la riparazione dei danni ambientali; i processi penali per le vicende del G8 di Genova, per la collisione fra la nave militare Sibilla e una barca albanese carica di clandestini, i danni da emissioni elettromagnetiche, i processi collegati al terremoto de l’Aquila ed alla strage di Piazza della Loggia a Brescia; le costituzioni di parte civile nei processi riguardanti la mafia ed il racket. Una caso particolare che si inserisce nel quadro del recupero di opere d’arte illecitamente esportate riguarda la confisca dell’“Atleta marciante” di Lisippo, acquistato dal Paul Getty Museum e confiscato dal G.U.P. in funzione di giudice dell’esecuzione del Tribunale di Pesaro, su incidente promosso dal Ministero dei beni culturali. Altrettanto corposo il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi, in tema di appalto di lavori pubblici e di pubbliche forniture, di utilizzo di energie alternative, di diniego di accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso. Molte sono anche le controversie relative all’esame di idoneità alla professione di avvocato o ai concorsi per posti di notaio e uditore giudiziario. Delicate e numerosissime sono anche le vertenze riguardanti la magistratura ordinaria, per il conferimento di funzioni direttive e semidirettive nelle quali rappresentiamo il CSM; il diniego di contributi e finanziamenti comunitari, lo scioglimento dei Consigli Comunali per infiltrazioni mafiose, le attribuzioni TEMI ISTITUZIONALI 3 di frequenze televisive, i provvedimenti delle Autorità indipendenti. Da ultimo, e non per ultimo ma solo per evidenziarne la particolare importanza, il nostro impegno dinanzi alla Corte di cassazione, che oggi ci ospita e con la quale siamo onorati di poter lavorare in piena armonia. Dinanzi alla Corte Suprema il contenzioso è particolarmente nutrito: nel 2010 sono stati impiantati dall’Avvocatura Generale ben 11.406 affari, che rappresentano il 23% di tutti gli affari contenziosi e consultivi impiantati nell’anno dall’Avvocatura Generale. Limitando l’esame agli affari contenziosi iniziati nell’anno in Cassazione e trattati dall’Avvocatura si constata che il contenzioso dello Stato rappresenta oltre un terzo di tutto quello all’esame della Suprema Corte e che di questo terzo ben il 67,5% (7.696 affari) è costituito dal contenzioso tributario. Dopo un’eclisse durata quasi un trentennio e che aveva ridotto a poche centinaia l’anno i contenziosi tributari trattati dalla Suprema Corte, l’entrata a regime della riforma del contenzioso del 1992 (potenziata dalla legge 28.12.2001 n.448) ha portato fino a picchi di 10.000 affari annui, all’inizio del presente millennio, quelli trattati dalla Cassazione. L’Avvocatura dello Stato riacquista, dunque, una sua peculiare funzione, connaturata d’altronde con le sue origini e le sue tradizioni. Non a caso essa fu originariamente denominata “avvocatura erariale” ed ebbe come sua principale funzione la difesa dello Stato nei giudizi tributari e non a caso l’omologa istituzione austriaca - che affonda le sue radici nello stesso humus storico-culturale - era denominata, ed è tuttora denominata Finanzprokuratur. Nello specifico settore tributario va ricordato che nel 2010 la Suprema Corte ha deciso con encomiabile celerità una serie di ricorsi dell’Amministrazione finanziaria tesi a recuperare aiuti di Stato dichiarati illegittimi dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Le ingiunzioni a tal fine emesse erano state contestate dalle società contribuenti sotto diversi profili. La Suprema Corte, con otto sentenze (nn. 23414 - 23421 del 19.11.2010) ha deciso le diverse questioni in senso favorevole all’Amministrazione. Tra le tante significative, mette conto ricordare l’affermazione secondo la quale del tutto legittimamente l’Amministrazione finanziaria aveva emesso le ingiunzioni limitandosi a verificare l’avvenuto godimento dell’esenzione, senza svolgere alcun altro tipo di verifica e senza essere tenuta a motivare ulteriormente, nonché l’enunciazione dell’importante principio secondo cui il potere-dovere del giudice nazionale di conformarsi al diritto comunitario comporta la necessaria disapplicazione delle - eventualmente confliggenti - regole processuali di diritto interno. La Corte ha così affermato che nel provvedere al recupero dell’aiuto indebito, i beneficiari non possono eccepire né di essersi avvalsi del condono “tombale”, né la prescrizione, né la decadenza, in quanto le relative disposizioni nazionali invocate devono essere disapplicate per con- 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 trasto con la fonte di grado superiore. In senso conforme alla tesi dell’Avvocatura è stata risolta anche la questione della non equiparabilità delle Università allo Stato ai fini del trattamento tributario (Cass. 21.4.10 n. 9496) e sempre in senso favorevole all’Erario la Suprema Corte ha deciso una serie di cause aventi ad oggetto l’effettività del domicilio fiscale all’estero nei suoi riflessi tributari. Una preoccupazione che non posso tacere riguarda però alcune sentenze in tema di procedura dinanzi alla Corte. Mi riferisco alla interpretazione letterale della disposizione contenuta nell’art. 369 c.p.c. che impone l’obbligo di depositare in cassazione gli atti ed i documenti sui quali si fonda il ricorso. Ebbene tale disposizione è stata interpretata nel senso che il ricorso è improcedibile anche quando gli atti e i documenti siano già presenti nel fascicolo d’ufficio. Viene quindi irrogata la massima sanzione (quella della improcedibilità) per non avere adempiuto un obbligo che non solo è meramente formale, ma addirittura del tutto superfluo. Tale interpretazione è stata ritenuta applicabile anche in caso di contenzioso tributario, nonostante il dettato dell’art. 25 D.Lgs. 546/1992 il quale dispone che “i fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo”, con la conseguenza che tutte le produzioni documentali vanno a formare il fascicolo d’ufficio ed ivi restano fino al passaggio in giudicato della sentenza (Cass. V, 13.10.2010 n. 21121). L’Avvocatura dello Stato deve preannunciare che chiederà alla Suprema Corte un riesame della questione alla luce dei principi costituzionali e comunitari del diritto di difesa e di effettività della tutela. In materia extratributaria mi limito a segnalare una questione particolarmente delicata attualmente all’esame della Cassazione e relativa alla qualità ed entità economica delle conseguenze derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dello spoil system di cui alla legge 145/2002. Fattispecie in cui emerge il problema della qualificazione del comportamento della P.A. che ha dato esecuzione a norme di legge poi dichiarate incostituzionali. All’impegno sul fronte del contenzioso si affianca quello consultivo, spesso di non lieve momento e di grande rilievo sotto il profilo economico, quale ad esempio l’affiancamento delle Amministrazioni per fornire consulenza legale in transazioni di particolare rilievo, quale quella all’esame del Ministero della Salute per il riconoscimento dei danni da emotrasfusioni o da risoluzione di contratti per acquisto di vaccini o quella all’esame del Ministero dell’Ambiente per un risarcimento multimilionario in materia di danni ambientali. Passando ai risultati del nostro lavoro fornisco alcuni dati statistici relativi alla sede romana. Tale limitazione è dovuta ad una non ancora completata rilevazione statistica nelle sedi periferiche. L’esperienza degli anni TEMI ISTITUZIONALI 5 passati dimostra, peraltro, che i dati percentuali romani sono sostanzialmente analoghi a quelli relativi a tutto il territorio nazionale. Dinanzi al Tribunale civile le cause vinte sono il 65%, dinanzi al TAR il 70%, dinanzi al Consiglio di Stato il 66% e dinanzi alla Cassazione il 57%. Fa stecca nel coro la Corte d’Appello, dinanzi alla quale le cause vinte sono appena il 33%. Ma di questa discrasia vi è ragione ben precisa: il dato statistico è alterato dal fatto che nel numero sono comprese le cause di “legge Pinto”, che rappresentano la maggioranza degli affari trattati in Corte d’Appello (come unico grado di merito) e che sono nella stragrande maggioranza cause perse per lo Stato. Depurati i dati falsati dai fattori alteranti, può concludersi su una percentuale media di vittoria nei 2/3 della cause. Il che porta a concludere per un buon rapporto costi-benefici dell’attività svolta dall’Avvocatura ove si consideri che da un recente studio della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, al quale il “Sole 24 ore” ha dedicato un lungo articolo adesivo, risulta che ogni causa - quale che sia la sua durata ed il numero dei gradi di giudizio - costa allo Stato 785 euro, cioè meno di un decimo di quello che sarebbe il costo di mercato. Questo a fronte di un contenzioso che ha riguardato, nel 2010, 134.000 nuovi affari per un ruolo organico non del tutto coperto e del tutto insufficiente di 370 avvocati e di 850 amministrativi. Mi rendo conto che nell’attuale temperie caratterizzata da una drammatica crisi economica e finanziaria di dimensioni planetarie sarebbe inopportuna ogni richiesta di riforme comportanti spese o di maggiori stanziamenti. L’Istituto si è limitato a chiedere al Governo tre modesti interventi normativi a costo zero o a costi modestissimi relativi ad una modifica delle norme regolamentari che reggono il concorso di accesso in carriera per snellirne le procedure ed i tempi, alla introduzione di una norma che agevoli il passaggio in tempi ragionevoli dei procuratori dello Stato nel ruolo degli avvocati, in quanto allo stato tale passaggio è stato reso assai più lento del normale da due successive elevazioni dell’età pensionabile ed una deroga al blocco delle assunzioni che consenta la copertura mediante concorso dei ruoli del personale togato. Aggiungo che l’Istituto non potrebbe assolvere i suoi doveri ove l’importo delle spese di funzionamento - che ammontano a circa 10 milioni annui - dovesse essere ridotto. Si tratta infatti di spese incomprimibili, indispensabili per garantire l’assolvimento dei compiti istituzionali, quali ad esempio quelle per indennità di trasferimento, pagamenti di canoni, spese postali e telegrafiche, fitto di locali nonché quelle per l’acquisto di carta da fotocopiatrici necessarie al deposito nel numero di copie prescritte degli atti difensionali fino a quando non sarà a regime il processo telematico, per il quale pure l’Istituto sta lavorando attraverso progetti pilota in sedi deputate per il civile ed un progetto ormai in fase conclusiva con il Consiglio di Stato per l’amministrativo. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 L’ausilio dell’informatica è già determinante, attraverso l’istituzione dell’indirizzario elettronico delle amministrazioni patrocinate, la protocollazione automatica, l’informatizzazione degli scadenzieri, lo sviluppo del processo di colloquio diretto con l’Agenzia delle entrate e la consultazione diretta della banca dati dell’Avvocatura da parte delle Amministrazioni interessate. Senza detto ausilio il carico di lavoro sarebbe insostenibile ma molto resta ancora da fare e la meta di una completa informatizzazione è ancora lontana. Mi avvedo che il tempo concessomi sta per scadere e concludo ricordando un monito del Presidente della Repubblica, che nel suo messaggio di fine d’anno agli italiani ha sottolineato come nella attuale difficile situazione “il futuro da costruire richiede un impegno generalizzato”. E’ un monito rivolto ad ogni individuo e ad ogni istituzione perché tutti adempiano compiutamente ai loro doveri. Credo di poter dare assicurazione che l’Avvocatura dello Stato assolverà alle sue funzioni con tutto l’impegno richiesto. Grazie, signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti per avermi ascoltato. TEMI ISTITUZIONALI 7 Audizione dell’Avvocato Generale davanti alla Commissione giustizia della Camera Legge 117/88 La legge sulla responsabilità dei magistrati si inquadra fra quei particolari rimedi che l’ordinamento giuridico mette a disposizione del cittadino per i casi in cui i suoi diritti siano stati lesi dall’attività giudiziaria. Credo sia opportuno un breve cenno ad essi soprattutto a fini di una comparazione dei dati numerici. A) La riparazione dell’errore giudiziario. L’istituto trova fondamento nell’art. 24, comma 4, Cost. secondo cui: “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. La disciplina è contenuta negli artt. 643 e ss. c.p.p. Le norme regolano il riflesso più importante delle conseguenze dell’errore giudiziario, ossia l’indennizzo pecuniario. Esso costituisce un rimedio di natura “riparatoria”, distinto perciò dal rimedio “risarcitorio” ex art. 2 L. n. 117/1988. Legittimato ad agire è il soggetto che sia stato prosciolto in sede di revisione (art. 643 c.p.p.) di una sentenza di condanna già passata in giudicato. Consente di ottenere un risarcimento dei danni subiti (patrimoniali e non) senza limiti di valore, in funzione ovviamente delle conseguenze dell’errore. È possibile ottenere anche, in alternativa al risarcimento, una rendita vitalizia (ovvero l’accoglimento in un istituto a spese dello Stato). L’istituto è di limitata applicazione, essendo necessario il previo accoglimento di una istanza di revisione del processo (ipotesi questa molto rara). Risultano infatti proposte solo poche decine di cause a livello nazionale nell’ultimo decennio. B) La riparazione per ingiusta detenzione. È un istituto che, a differenza del precedente, è stato introdotto per la prima volta con il nuovo codice di procedura penale del 1988. Anch’esso trova fondamento nell’art. 24, comma 4, Cost. nonchè nell’art. 5, par. 5, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. È disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p. Le norme regolano la riparazione derivante da detenzione “ingiusta”, subita sia da imputati riconosciuti innocenti sia da imputati riconosciuti col- 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 pevoli con sentenza irrevocabile. In particolare la legittimazione spetta a chi è stato prosciolto con formula piena in base a sentenza irrevocabile o archiviazione, dopo aver subito un periodo di custodia cautelare (o di arresti domiciliari o detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto) e semprechè non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. La legittimazione spetta anche a chi abbia comunque subito un periodo di custodia cautelare (o di arresti domiciliari o sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto) a seguito di un provvedimento emesso o mantenuto senza che esistessero gravi indizi di colpevolezza o un’adeguata gravità di reato ovvero le condizioni per la convalida (accertati con decisione irrevocabile). La legittimazione spetta infine anche a chi è abbia comunque subito una detenzione a causa di erroneo ordine di carcerazione emesso sul presupposto di una condanna definitiva non esistente o a pena detentiva da non espiare ed in altri casi minori. L’indennizzo spetta per: 1) custodia cautelare; 2) arresti domiciliari; 3) detenzione a seguito di arresto in flagranza e fermo; 4) applicazione provvisoria di misure di sicurezza; 5) detenzione per erroneo ordine di carcerazione. La riparazione avviene mediante l’erogazione di una somma comunque non superiore a € 516.456,90 (un miliardo delle vecchie lire). L’istituto trova una diffusa applicazione (le cause proposte nell’ultimo decennio sono circa 7.000 e quelle proposte nel corso del 2010 a livello nazionale sono circa 2.600). C) L’equa riparazione per l’irragionevole durata dei processi. Si tratta della procedura prevista dalla legge n. 89/2001 (c.d. “Legge Pinto”), attuativa dei principi contenuti nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed applicati dalla Corte di Strasburgo. In sostanza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha individuato dei tempi “ragionevoli” entro i quali una controversia ordinaria deve concludersi: 3 anni per il primo grado, 2 per l’appello e 1 per l’ulteriore terzo grado, prevedendo un “indennizzo” intorno ai 1000 € per ciascun anno di ritardo (non imputabile alle parti). Il contenzioso è molto vasto ed oneroso per l’erario (si è passati da 4 milioni di euro di condanne nel 2002 ad 81 milioni nel 2008). Il numero annuale delle controversie è stato pari a 24.290 nel 2010 a livello nazionale, e di queste 7.030 riguardano la sede romana. TEMI ISTITUZIONALI 9 D) L’azione di responsabilità ex legge n. 117/1988. È un’azione concessa a chiunque si assuma danneggiato da un atto (o dall’inerzia) di un magistrato nell’esercizio dell’attività giurisdizionale. In particolare la legge (approvata, come è noto, a seguito di un famoso referendum che abrogò le norme che limitavano la responsabilità del magistrato ai casi di dolo, frode o concussione) prevede: a) un termine di decadenza biennale per l’esercizio dell’azione; b) la legittimazione passiva dello Stato, con possibilità di intervento in causa del magistrato a cui la citazione dovrà essere comunicata; c) un filtro di ammissibilità dell’azione, diretto alla verifica di determinati presupposti tra cui la non manifesta infondatezza della domanda; d) la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare nei confronti del magistrato non appena l’azione venga dichiarata ammissibile; e) la rivalsa dello Stato verso il magistrato in caso di condanna al risarcimento dei danni in favore del danneggiato, con un tetto massimo pari ad un terzo dello stipendio annuo salvo il caso di dolo; f) la possibilità di un’azione diretta verso lo Stato ed il magistrato (senza filtro e senza limiti alla rivalsa), da parte di chi ha subito un danno in conseguenza di un fatto costituente reato, commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (art. 13 della legge). Questo tipo di azione presenta delle evidenze statistiche singolari. Già in uno studio del 2004 (M. Lupo, La responsabilità civile del magistrato: primi bilanci sulla applicazione della L. 117/88, in Responsabilità civile e previdenza, 2004, 679) si legge: «In sedici anni di applicazione, abbiamo potuto rinvenire, 6 casi in cui è stata ammessa l’azione contro lo Stato; di questi solo due sono giunti ad una sentenza di merito con relativa condanna a carico dello Stato». Dai dati dell’Avvocatura dello Stato raccolti dalla prima applicazione della legge ad oggi risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste, 253 (pari al 62%) sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo; 49 (pari al 12%) sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità; 70 (pari al 17%) sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 (pari all’8,37%) sono state dichiarate ammissibili. Di queste 34 a loro volta risultano ancora pendenti n. 16 cause. Delle 18 già decise, 14 risultano respinte e solo in 4 casi (pari al 22%) vi è stata condanna dello Stato. Da tali dati emerge una eccessiva operatività sia del “filtro” di ammissibilità, che dei criteri di valutazione del merito in quanto, in buona sostanza, è stato dichiarato ammissibile solo il 10% delle domande e solo l’1% di esse è stato accolto. Tale difettoso funzionamento della legge ha innescato una tendenza sostanzialmente volta ad una abrogazione di parti qualificanti della legge in 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 esame ed in tal senso è la maggior parte dei disegni di legge all’esame della Commissione. Effetti di una eventuale abrogazione totale della legge n. 117/1988 (o di sue norme qualificanti). Le finalità della legge sono essenzialmente: a) garantire l’indipendenza del magistrato nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, evitando che sia esposto a condizionamenti sotto forma di azioni risarcitorie; b) evitare il proliferare “a cascata” di processi derivanti da altre cause; c) responsabilizzare comunque il magistrato prevedendo la possibilità di una sua condanna risarcitoria (ancorché limitata in un importo massimo predeterminato), nonché di una sanzione disciplinare (possibile già al solo superamento della fase “filtro”). Una eliminazione tout court della legge o di sue norme qualificanti farebbe però sorgere seri problemi di legittimità costituzionale. Più volte, infatti, la Corte Costituzionale ha affermato che “la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101- 113 Cost.), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni” (sentenza n. 26/1987, che richiama la precedente n. 2/1968). Ne deriva che una disciplina che prevedesse la pura e semplice equiparazione dei magistrati agli impiegati pubblici sotto il profilo della responsabilità civile ex art. 28 Cost., si esporrebbe al rischio di incostituzionalità. Proposte migliorative della legge n. 117/1988. Il maggior ostacolo ad un utilizzo “fisiologico” della legge, sta nell’art. 2 comma 2 ed in particolare nella speciale causa di inammissibilità ivi contenuta, in forza della quale “Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. Tale principio è già stato derogato per i casi di violazione del diritto comunitario. Nella sentenza 13 giugno 2006 emessa nella causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo, relativa proprio alla legge n. 117/1988, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che: Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. TEMI ISTITUZIONALI 11 Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler. È attualmente pendente davanti alla stessa Corte una procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea contro l’Italia, proprio al fine di ottenere una modifica della norma nel senso indicato nella citata sentenza. La modifica della legge sul punto è quindi già necessaria (nella causa in Corte di Giustizia la difesa del Governo italiano fa leva sulla sola circostanza che la modifica della legge non sarebbe necessaria, in quanto la formulazione della norma già consentirebbe una interpretazione “comunitariamente orientata” nel senso della sentenza Traghetti). La modifica dovrebbe però non essere limitata ai soli casi di “violazione manifesta del diritto comunitario” (così la sentenza Traghetti), ma anche estesa alle analoghe violazioni del diritto interno. Diversamente ci si esporrebbe ad un problema di costituzionalità interna (per violazione dell’art. 3 Cost.) per una non giustificata disparità di trattamento. L’ampliamento della responsabilità nel senso sopra indicato avrebbe il vantaggio: a) di evitare la possibile proliferazione “a cascata” delle cause (che si verificherebbe qualora ogni violazione del diritto, anche non manifesta, diventasse fonte di responsabilità); b) di ancorare il concetto di violazione “manifesta” del diritto alla giurisprudenza in materia della Corte di Giustizia, caratterizzata da un elevato grado di stabilità (a differenza delle Corti nazionali) e di omogeneità a livello europeo (le sentenze della Corte di Giustizia, com’è noto, sono fonte di diritto in tutti gli Stati membri); c) di non discriminare le violazioni del diritto nazionale rispetto a quelle del diritto comunitario. Il mantenimento, per il resto, del meccanismo della legge n. 117/1988, consentirebbe altresì di lasciare in vigore la responsabilità diretta del magistrato e dello Stato nei casi di fatti-reato, prevista nell’art. 13 della legge. In mancanza di tale disposizione infatti, troverebbero applicazione i principi generali in tema di responsabilità dei funzionari pubblici, in base ai quali il comportamento doloso costituente reato interrompe il nesso organico con l’Amministrazione che pertanto non è più tenuta ad alcun risarcimento. Ciò rischierebbe di pregiudicare il danneggiato, soprattutto nei casi di danni molto elevati, in cui la solvibilità del singolo magistrato non garanti- 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 rebbe la riparazione integrale del danno. Che non si tratti di un’ipotesi scolastica è confermato dall’attuale pendenza di un’unica causa ex art. 13 davanti al Tribunale di Roma, dove una Banca (in relazione alla nota vicenda “IMI SIR ”) ha chiesto allo Stato italiano un risarcimento di un miliardo di euro, a seguito dell’accertata responsabilità penale di un magistrato nella emanazione di una sentenza. Roma, 10 febbraio 2011 L’AVVOCATO GENERALE Ignazio F. Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 13 Appelli avverso sentenze in materia di opposizione ad ordinanza ingiunzione ex art. 23 L. 689 del 24 novembre 1981* Con ordinanze nn. 23285/10 e 23286/10 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il principio secondo il quale “La regola del “foro erariale” non è applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative”. Nelle stesse pronunzie, in via di obiter dictum, le Sezioni Unite assumono inoltre un orientamento che, se confermato, potrebbe comportare che l’appello, debba essere proposto con atto di citazione: infatti, nella motivazione delle richiamate sentenze, le SS.UU. fanno riferimento alla “mancanza di un’espressa previsione legislativa di “ultrattività del rito”, che estenda all’appello l’applicabilità delle norme suddette, [quelle applicabili al primo grado, n.d.r.] … mancanza del resto giustificata dal maggiore tecnicismo che caratterizza i procedimenti di impugnazione e che comporta la necessità di patrocinio professionale richiesto dall’art. 82 c.p.c. …”. In considerazione delle pronunzie della Suprema Corte sopra richiamate, in attesa dell’esame da parte del Governo della bozza di modifica delle disposizioni regolanti la materia che è stata già da tempo sottoposta al suo esame, si rende opportuno diramare le seguenti indicazioni. §§§ Innanzi tutto, posto che le Sezioni Unite non hanno affrontato ex professo la questione della forma dell’appello, ma hanno solo incidentalmente sostenuto la non ultrattività del rito speciale in sede di gravame, si invitano le SS.LL., nelle more di un auspicabile pronunciamento chiarificatore sul punto, a continuare ad attenersi a quanto indicato nella circolare n. 24/07, con la quale è stato diffuso il parere approvato dal Comitato Consultivo nella seduta del 6 giugno 2007, ove si afferma “… in attesa di una pronuncia della Suprema Corte che dirima i non univoci orientamenti emersi in sede di merito … appare opportuno, laddove la giurisprudenza locale ritenga necessaria per la proposizione del gravame la forma della citazione, provvedere cautelativamente, ove possibile, non solo alla notifica ma anche all’iscrizione a ruolo entro il termine per impugnare, al fine di evitare comunque decadenze, consentendo l’eventuale conversione dell’atto irritualmente proposto …”. §§§ La necessità di adeguare la condotta processuale dell’Avvocatura al principio della non applicabilità del foro erariale agli appelli ex art. 23 l. 689/81, allorquando si renda necessario proporre appelli che, secondo il suddetto principio, vanno incardinati innanzi ad un Tribunale sito in luogo diverso da quello in cui ha sede l’Avvocatura Distrettuale dello Stato nel cui Distretto fu resa la sentenza di primo grado, determina svariati problemi di ordine pratico ed organizzativo, sia ai fini dell’espletamento degli adempimenti di cancelleria, sia ai fini della partecipazione alle udienze. Come noto, la problematica inerente la rappresentanza delle Amministrazioni in giudizi che si svolgono fuori dalla sede degli uffici dell’Avvocatura dello Stato è disciplinata dall’art. 2 R.D. 1611/33, il quale al comma 1 prevede che l’Avvocatura abbia “… facoltà di delegare funzionari dell’Amministrazione interessata, … ed in casi eccezionali anche procuratori le- (*) Circolare n. 66 - 7 dicembre 2010 prot. 378775 - dell’Avvocato Generale. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 gali, esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio”. Deve preliminarmente considerarsi che il conferimento di delega ad avvocati del libero foro alla rappresentanza delle Amministrazioni in giudizi “fuori sede” è consentita, a mente dell’art. 2 R.D. 1611/333, solo “in casi eccezionali”. A ciò si aggiunga la considerazione che, nella maggior parte dei casi, il valore economico della sanzione oggetto del contendere è contenuto entro limiti piuttosto modesti, ciò che in linea di massima sconsiglia – per ovvie ragioni di economicità – di ricorrere alla delega ad avvocati, onde evitare che l’Amministrazione finisca con l’essere gravata, a titolo di compenso spettante al delegato, di oneri maggiori rispetto allo stesso valore del giudizio. Tanto premesso, sembra, opportuno distinguere i casi in cui l’Amministrazione ha veste processuale di appellante da quelli in cui è, invece, appellata. Prendendo le mosse da tale ultima eventualità, si ritiene che le difese possano essere di norma svolte solo per iscritto (sulle modalità da seguire per il relativo deposito si dirà infra), atteso che la presenza alle udienze può ritenersi, generalmente, non strettamente indispensabile. Sono, ovviamente, fatti salvi casi eccezionali, giustificati anche alla luce del valore economico della sanzione in contestazione o della questione di principio dibattuta, in cui – al contrario – la presenza all’udienza appaia inderogabile. In tal caso, ove l’avvocato incaricato sia impossibilitato ad intervenire, dovrà farsi ricorso alla delega ad avvocato ex art. 2 cit., e non alla delega a funzionari: tale ultima possibilità è ragionevolmente da escludere non solo quando si tratti della comparizione innanzi alla Corte d’Appello, ma anche quando si tratti di giudizi innanzi al Tribunale adito in funzione di giudice d’appello. La Corte di Cassazione ha infatti recentemente affermato (ordinanza n. 14520 del 19 giugno 2009): “In tema di opposizione a sanzione amministrativa disciplinata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, la difesa personale della parte consentita dall’art. 23, quarto comma, della stessa legge è prevista esclusivamente per il giudizio di primo grado, non trovando applicazione anche per il giudizio di appello, per il quale, in assenza di alcuna specifica previsione contraria, si applica la regola generale di cui al terzo comma dell’art. 82 cod. proc. civ., secondo cui davanti al tribunale e alla corte di appello la parte deve stare in giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente”. Tale posizione è stata recentemente ribadita dalle Sezioni Unite proprio nelle ordinanze 23285/10 e 23286/10. Quanto al deposito degli atti di cancelleria, non sembra esservi dubbio circa la possibilità di procedere allo stesso tanto attraverso funzionari, quanto attraverso l’invio per posta. Ed invero, gli adempimenti di cancelleria costituiscono “un’attività materiale priva di requisito volitivo autonomo e che non necessariamente deve esser compiuta dal difensore, potendo essere realizzata anche da un “nuncius” (Cass. SS.UU. 5160/09). Inoltre, nella medesima pronuncia le Sezioni Unite riconoscono che “L’invio a mezzo posta dell’atto processuale destinato alla cancelleria … al di fuori delle ipotesi speciali … realizza un deposito dell’atto irrituale, in quanto non previsto dalla legge, ma che, riguardando un’attività materiale priva di requisito volitivo autonomo e che non necessariamente deve essere compiuta dal difensore, … può essere idoneo a raggiungere lo scopo, con conseguente sanatoria del vizio ex art. 156, terzo comma, cod. proc. civ.; in tal caso, la sanatoria si produce con decorrenza dalla data di ricezione dell’atto da parte del cancelliere ai fini processuali, ed in nessun caso da quella di spedizione”. Tale ultimo principio dovrà essere tenuto nella dovuta consi- TEMI ISTITUZIONALI 15 derazione al fine di evitare di incorrere in esiti pregiudizievoli. Venendo al caso in cui l’Amministrazione sia parte appellante, si osserva che la presenza in giudizio è indubbiamente necessaria a dare impulso al processo, nonché ad evitare decadenze: la mancata comparizione determinerebbe infatti l’improcedibilità del gravame ex art. 348 c.p.c. In tali ipotesi, sempre ove l’avvocato incaricato dell’affare non possa intervenire, appare inevitabile il ricorso alla delega ex art. 2 R.D. 1611/33, da rilasciarsi ad avvocati del foro libero per le stesse ragioni di cui si è detto sopra, ricorrendo indubbiamente quell’eccezionalità del caso cui la norma subordina l’uso della delega a liberi professionisti. Quanto sopra implica che - nella valutazione circa l’opportunità e la convenienza economica della proposizione dell’appello - dovrà tenersi necessariamente in considerazione l’onere connesso al compenso del delegato. Sempre in attesa degli interventi normativi già suggeriti e che non si mancherà di sollecitare, ci si riserva, comunque, alla prima occasione utile, di riproporre al vaglio delle Sezioni Unite la questione dell’applicabilità del “foro erariale” agli appelli ex art. 23 L. n. 689/81, nell’auspicio di una revisione del recente orientamento. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza Indicazione e produzione degli atti processuali e dei documenti su cui si fonda il ricorso per cassazione – artt. 360 n. 6 e 369 secondo comma n. 4 c.p.c.* Come in più occasioni segnalato (tra l’altro, con Circolare n. 17/06 e con Comunicazione di Servizio n. 47/06), le modifiche al codice di procedura civile introdotte con D.Lgs 2 febbraio 2006 n. 40, comportano il rispetto, a pena di inammissibilità, di numerosi adempimenti formali nella redazione dei ricorsi per cassazione. In considerazione di ciò, si è già ripetutamente rappresentata la necessità che le Avvocature Distrettuali, nel trasmettere all’Avvocatura Generale le sentenze sfavorevoli, esprimano il loro motivato parere sull’eventuale impugnazione e, in caso di parere favorevole, indichino – sia pure sinteticamente – i singoli vizi ex art. 360 comma 1 nn. 1, 2, 3, e 4 ravvisabili nella sentenza. L’esigenza appare poi particolarmente pressante ove si ipotizzi il ricorrere del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., che più facilmente appare rilevabile a cura del difensore che ha trattato la causa nei giudizi di merito. Si è inoltre richiamata l’attenzione delle Avvocature Distrettuali sulla necessità di inviare, unitamente alle sentenze sfavorevoli ed al parere di cui sopra, anche copia della documentazione – in particolare dei ricorsi e delle memorie – relativa ai fatti contestati. Tanto premesso, nel richiamare e ribadire l’invito ad attenersi scrupolosamente alle indicazioni di cui sopra, si evidenzia che nella giurisprudenza di legittimità si è andato progressivamente consolidando un orientamento quanto mai rigoroso in materia di indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui si fonda il ricorso (art. 366 n. 6 c.p.c.). (*) Circolare n. 67 - 7 dicembre 2010 prot. 378810 - dell’Avvocato Generale. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Al riguardo, in particolare, rileva quanto affermato dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 7161 del 25 marzo 2010: “In tema di ricorso per cassazione, l’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., novellato dal d.lgs n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rileva opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) qualora si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso (art. 372 c.p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso”. I principi affermati nella richiamata pronuncia rendono assolutamente necessario, fin dal momento della redazione del ricorso, disporre di tutta la documentazione rilevante, e individuarla con precisione. Per tale motivo, in attesa di un’auspicabile revisione di tale rigoristico orientamento, per la quale si sono già assunte iniziative in sede processuale, mentre si richiama l’attenzione degli avvocati e procuratori dello Stato sulla necessità di attenersi rigorosamente, nella redazione dei ricorsi per cassazione, ai richiamati orientamenti della giurisprudenza di legittimità, si raccomoda altresì agli avvocati e procuratori in servizio presso le sedi distrettuali di curare che l’invio di tutti gli atti ed i documenti utili al ricorso avvenga unitamente alla trasmissione della sentenza sfavorevole ed al parere sulla relativa impugnazione. In particolare, dovranno essere trasmessi: - i fascicoli di parte dei precedenti gradi; - copia dei verbali di udienza e di ogni altro documento già acquisito al giudizio di merito, sui quali debba fondarsi il ricorso; - in particolare, copia dei documenti della controparte, che si avrà cura di acquisire prima che la stessa provveda al ritiro del proprio fascicolo; - eventuali documenti non prodotti nelle fasi di merito, relativi alla nullità della sentenza o all’ammissibilità del ricorso (art. 372 c.p.c.); - eventuali documenti attinenti alla fondatezza del ricorso formati dopo la fase di merito o dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo. Si confida nella puntuale osservanza di quanto disposto con la presente circolare al fine di evitare pregiudizi. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 17 Art. 3, comma 2, del Codice del processo amministrativo: redazione degli atti in maniera chiara e sintetica* L’articolo 3, comma 2, del Codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs 2 luglio 2010 n. 104, dispone che: “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Si tratta di una disposizione di particolare importanza, che recepisce il principio di economia processuale sul quale da tempo insistono anche il legislatore ed il giudice comunitario, ma la cui completa attuazione postula la cooperazione di tutti gli operatori della giustizia: una sentenza adeguatamente motivava, ma chiara e sintetica, necessariamente presuppone che anche gli atti di parte presentino gli stessi caratteri. Per rispondere anche alle sollecitazione in tale senso provenienti dai vertici della giustizia amministrativa raccomando quindi alle SS.LL. di contenere, di norma, gli scritti difensivi nel limite delle 20-25 pagine, evitando ogni inutile ripetizione del contenuto di atti precedenti. Ove esigenze di completezza rendessero necessario il superamento di tale limite in casi particolarmente complessi, sarà opportuno redigere, come incipit dell’atto processuale, una sintesi dell’atto stesso sotto forma di indice ragionato. Con l’occasione segnalo la necessità di non indulgere mai alla deplorevole prassi, talvolta purtroppo seguita, di depositare, come unica attività difensiva, il rapporto dell’Amministrazione. Rapporto che – soprattutto se completo e ben fatto – potrà spesso costituire utile base per una difesa, ma che andrà, ove possibile fin dalla fase cautelare, e comunque in sede di merito, tradotto dal linguaggio burocratico a quello curiale e sfrondato di ogni (frequente) lungaggine e di passaggi inutili quando non dannosi alla difesa. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza (*) Circolare n. 1 - 3 gennaio 2011 prot. 614 - dell’Avvocato Generale. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Predisposizione di ricorsi per Cassazione in materia tributaria* In conseguenza di sostanziali modifiche normative e degli orientamenti giurisprudenziali restrittivi fatti propri in tempi recenti dalla Suprema Corte, la predisposizione dei ricorsi per cassazione costituisce oggi attività di grande complessità e richiede da parte dell’Avvocato dello Stato considerevole impegno professionale. Tali considerazioni valgono in particolar modo per i ricorsi in materia tributaria (costituenti la più consistente parte del contenzioso che l’Avvocatura porta all’esame della Corte), poiché in tale materia l’attività è regolata anche dalle vigenti convenzioni con le Agenzie fiscali, che pongono una complessa e delicata serie di adempimenti a carico dell’Avvocatura. Considerato che l’assegnazione del contenzioso tributario si va estendendo ad Avvocati che in passato non hanno mai trattato la materia, ritengo utile sottoporre alle SSLL un sintetico Promemoria nel quale sono illustrate, accanto a talune disposizioni particolari regolanti i rapporti con le Agenzie e i principali orientamenti giurisprudenziali, le prassi che si sono consolidate nel tempo al fine di assicurare una migliore e più celere difesa degli interessi erariali. Per coloro che fossero interessati alla consultazione, saranno resi successivamente disponibili con modalità da precisare gli schemi di atti e di lettere indicati in calce al promemoria. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza *********** RICORSI IN CASSAZIONE TRIBUTARIA PROMEMORIA 1) RICHIESTE ISTRUTTORIE 2) PARERE DI NON IMPUGNAZIONE 3) RECAPITO DEI DESTINATARI DELLE NOTIFICHE 4) SENTENZE NOTIFICATE 5) NOTIFICA DEL RICORSO 6) ISTANZA EX ART. 369 C.P.C. 7) ISCRIZIONE A RUOLO 8) NOTIFICA NULLA 9) NOTIFICA INESISTENTE 10) NOTIFICA A PIU’ PARTI 11) L’UDIENZA 12) LA SENTENZA 13) CONTRORICORSO E RICORSO INCIDENTALE 14) SCHEMI DI ATTI 15) SCHEMI DI LETTERE. 1) RICHIESTE ISTRUTTORIE Le proposte di ricorso per cassazione pervengono di norma dalle D.R. (Direzioni Regionali) e solo eccezionalmente dalle D.P. (Direzioni Provinciali). Per qualsiasi richiesta di chiarimenti o di documentazione integrativa, può contattarsi per e-mail (o anche telefonicamente) il funzionario dell’Agenzia (1) indicato come responsabile in calce alla relazione della D.R. L’elenco degli indirizzi dell’Agenzia delle Entrare è comunque reperibile sul relativo sito in http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/portal/entrate/contatta. E’ opportuno che di ogni e-mail, se di rilievo, sia stampata copia da inserire nel fascicolo. Allo stesso modo le telefonate possono essere annotate sulla copertina interna del fascicolo specificando nome dell’interlocutore dell’Agenzia, oggetto in sintesi e data. (*) Circolare n. 12 - 2 marzo 2011 prot. 74200 - dell’Avvocato Generale. TEMI ISTITUZIONALI 19 2) PARERE DI NON IMPUGNAZIONE Circa i tempi e i modi di resa del parere di non impugnazione si richiama quanto previsto al punto 15 del protocollo d’intesa tra l’Avvocatura e Agenzia delle Entrate 13 maggio 2010 (allegato alla Circolare n. 46/2010): 2.4.3. L’Avvocatura, nei casi in cui non condivida la richiesta di ricorso per cassazione, dà tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla competente Direzione regionale, tramite posta elettronica o fax e se del caso dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta di ricorso. In ogni caso, tale parere è inviato alla Direzione regionale , salvo obiettive circostanze impedienti, almeno dodici giorni prima della scadenza del termine di impugnazione. 2.4.4. La Direzione regionale, qualora non condivida il parere negativo dell’Avvocatura, formula alla stessa, entro due giorni utili dalla ricezione di detto parere, le proprie osservazioni e le invia, tramite posta elettronica o fax, unitamente alla completa documentazione relativa alla richiesta di ricorso, anche alla Direzione centrale affari legali e contenzioso. 2.4.5. Qualora l’Avvocatura non condivida la reiterata richiesta di proposizione del ricorso di cui al punto precedente, comunica con la necessaria urgenza il proprio definivo parere direttamente alla Direzione centrale affari legali e contenzioso e alla Direzione regionale competente, mediante posta elettronica o fax. Nel caso in cui la Direzione centrale non condivida il parere dell’Avvocatura, per la la risoluzione della divergenza si applica il secondo periodo del punto 2.1.3 (2). 2.4.6. In mancanza di formale e tempestiva conferma del parere negativo espresso dall’Avvocatura, quest’ultima provvede, in modo da evitare decadenze, alla proposizione del ricorso per cassazione, in attesa dell’eventuale soluzione della divergenza insorta. E’ pertanto opportuno che il parere sia reso via telefax alla D.R. conservando la documentazione che potrebbe essere necessaria per la proposizione del ricorso e che, di norma, non viene comunque restituita (salvo casi di particolare voluminosità della stessa). Come deliberato in sede di Comitato per il Coordinamento Tributario (3) nel caso di reiterazione di un parere di non impugnazione, il parere stesso dovrà esser firmato dal Vice Avvocato Generale competente dopo aver sentito l’Avvocato Generale Aggiunto. 3) RECAPITO DEI DESTINATARI DELLE NOTIFICHE Il domicilio delle parti a cui il ricorso va notificato viene in genere evidenziato dall’ufficio. E’ necessario però effettuare verifiche aggiornate per le società collegandosi al sito https://telemaco.infocamere.it/ (user e password sono riportate nella home page delle banche dati sulla intranet) ed effettuare una visura ordinaria (l’Avvocatura ha stipulato una convenzione che prevede un corrispettivo per ogni visura). In tal modo sarà possibile accertare: a) la sede legale della società; b) l’eventuale assoggettamento a procedure concorsuali; c) l’eventuale fusione o incorporazione in altra società; (1) E’ opportuno inviare l’e-mail anche all’indirizzo dell’ufficio, al fine di evitare il rischio che il messaggio non venga letto per l’assenza del funzionario. (2) Il punto 2.1.3. prevede, per il caso di divergenza di opinioni, la determinazione del Direttoe dell’Agenzia. (3) Il CO.CO.TRIB. è stato istituito con la Circolare n. 62/2010. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 d) il nome e recapito del legale rappresentante, e) i nomi dei soci; f) l’eventuale cancellazione della società. E’ opportuno ricordare che la giurisprudenza attribuisce efficacia costitutiva alle cancellazioni, con la conseguenza che il ricorso va proposto (anche) nei confronti dei soci ex art. 2495 c.c. (Cass. SS.UU. 22 febbraio 2010 n. 4061) (4). Di grande utilità è anche il sito www.paginebianche.it (in pratica l’elenco telefonico on line, aggiornato pressoché in tempo reale). Per quel che riguarda il recapito di Avvocati si può consultare per l’ordine di Roma il sito http://www.ordineavvocati.roma.it/. Per gli altri ordini è sufficiente usare un qualsiasi motore di ricerca (Google, Virgilio, Yahoo, ecc.) per individuare il relativo sito, al cui interno si trova l’albo aggiornato. Se non si conosce il circondario dove l’avvocato esercita, si può fare la ricerca sul sito dl Consiglio Nazionale Forense (che però a volte può essere incompleto), all’indirizzo: http://www.consiglionazionaleforense.it/on-line/Home/AreaAvvocati/Ricercaavvocati.html. Analogo meccanismo si può utilizzare per gli albi dei dottori commercialisti e/o ragioneri (che spesso sono i difensori nelle cause tributarie di merito) all’indirizzo: http://www.cndc.it/CMS/home/ricercacommercialista/ricerecacommercialista.jsp. 4) SENTENZE NOTIFICATE Occorre tenere presente il fatto che in caso di avvenuta notifica della sentenza, il termine breve di 60 giorni decorre sempre, quale che sia l’ufficio dell’Agenzia (locale, D.R. o centrale) a cui sia stata eseguita la notifica (Cass. SS.UU. n. 3116/2006). La notifica all’Agenzia presso l’Avvocatura è invece da ritenersi nulla (Cass . SS.UU. 22642/2007). Si ricorda che il D.L. n. 40/2010 ha introdotto modifiche all’art. 38 del D.L.gs n. 546/1992, consentendo anche la notifica mediatne consegana a mani all’ufficio (5). Tale forma di notificazione è sempre più frequente, per cui occorre prestare attenzione in quanto la prova della notifica è data dalla semplice ricevuta allegata alla sentenza in cui l’ufficio attesta l’avvenuta consegna a mani. 5) NOTIFICA DEL RICORSO Di norma il ricorso si notifica tramite l’UNEP di Roma a mani per le notifiche in Roma (in tal caso il Servizio Esterno Notifiche deve ricevere l’atto al massimo entro le ore 8,15 del giorno di scadenza) oppure a mezzo posta (in tal caso entro le ore 9,30 al massimo) in quanto, com’è noto, la tempestiva consegna dell’atto all’UNEP impedisce ogni decadenza. Con la Comunicazione di servizio n. 77/2009 (e successiva n. 13/2010) è stato precisato (4) Dalla visura della società è pure possibile ottenere i bilanci in formato elettronico, nonchè altri atti depositati. (5) Il comma 2 dell’art. 38 ora prevede che “Le parti hanno l’onere di provvedere direttamente alla notificazione della sentenza alle altre parti a norma dell’articolo 16 depositando, nei successivi trenta giorni, l’originale o copia autentica dell’originale notificato, ovvero copia autentica dellal sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomanata a mezzo del servizio postale unitamente all’avvisio di ricevimento nella segreteria, che ne rilascia ricevuta e l’inserisce nel fascicolo d’ufficio”. TEMI ISTITUZIONALI 21 che è ora possibile effettuare la notifica a mezzo posta dall’Avvocatura con il meccanismo previsto dall’art. 55 delle legge n. 69/2009 (6). Questo tipo di notifiche è possibile anche per le notifiche su Roma ma occorre utilizzarlo solo nei casi estremi (quando il termine scade in giornata), in quanto il costo è molto maggiore della notifica a mani tramite UNEP. Anche nelle notifiche ex art. 55, il termine è salvo con la spedizione del plico (Cass. 17748/09; Cons. St. 7349/2004). In genere, e comunque sempre nelle cause rilevanti, è opportuna una doppia notifica sia al domiciliatario che presso la sede o residenza del contribuente. Qualora sussistano motivi particolari per eseguire la notifica a mani (ovviamente fuori Roma), non ci si avvarrà delle Avvocature Distrettuali, bensì delle singole D.R. (per le notifiche nei capoluoghi di Regione) ovvero dell’ufficio locale (D.P. o, in mancanza, uffici territoriali) dell’Agenzia dove ha sede l’UNEP che deve seguire la notifica. A tale fine, partendo dal Comune dove la notifica va fatta, è possibile individuare: - il Tribunale (o la sezione staccata, che ha in genere anche l’UNEP) competente all’indirizzo http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_4.wp - l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente all’indirizzo: http://www1.agenziaentrate. gov.it/strumenti/mappe/. L’invio all’Agenzia per la notifica potrà avvenire o per raccomandata (se c’è un adeguato lasso di tempo, almeno un mese), ovvero per posta celere o ancora via telefax (7). In quest'’ultimo caso l’atto va trasmesso (completo della formula della relata) in unica copia in calce alla quale va apposto (prima ovviamente della relata e subito dopo la firma dell’avvocato) la seguente dicitura: “Il suesteso atto, trasmesso a mezzo telefax dall’Avvocatura Generale dello Stato, è firmato nelle copie fotoriprodotte dal sottoscritto funzionario del ricevente ufficio……… ai sensi dell’articolo 10 della legge 18 ottobre 2001, n. 383……”. E’ opportuno indicare in oggetto nella nota fax di accompagno, il termine ultimo entro il quale la notifica va effettuata e specificare il numero delle copie da riprodurre e consegnare all’Ufficiale Giudiziario. In ogni caso l’atto da notificare deve pervenire all’ufficio dell’Agenzia almeno 3 giorni lavorativi prima della scadenza del termine (8) (il sabato è considerato festivo). 6) ISTANZA EX ART. 369 C.P.C. Alla competente D.R. va invece inviata l’istanza ex art. 369 c.p.c. via telefax con le modalità descritte per il ricorso (con richiesta di autenticarne tre copie e restituirne due vistate); (6) Con la comunicazione di serivizio n. 43/2010 sono stati precisati gli orari per la ccnsegna al S.E. degli atti da notificare: le ore 8,15 nei casi di notifica ultimo giorno a mani: le ore 17 (da lunedì al venerdì) e le ore 12 del sabato per gli atti da notificare ex art. 55 legge 69/2009. In casi estemi, ad orario scaduto, si può comunque eseguire la notifica a mezzo posta raccomandata su richiesta dell’Avvocato (l’ufficio postale di Piazza San Silvestro chiude alle 19). In tali si si può infatti sostenre che trattasi di notifica nulla (e come tale sanabile) e non inesitente (in tale senso cfr. Cass. SS.UU. 1242/2000; 15081/2004; v. però cass. Sez. trib. 19577/2006). (7) In generale la richiesta di ricorso della D.R. contiene in calce tutti i recapiti di fax da utilizzare. (8) Punto 2.1.7. del protocollo d’intesa. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 in tal modo l’Agenzia verrà a conoscenza sia dei riferimenti dell’Avvocatura (numero di affare e avvocato incaricato), sia del fatto che il ricorso è stato proposto. Peraltro quando trattasi di Sezione staccata di Commissione Tributaria Regionale (9) l’istanza ex art. 369 c.p.c. va inviata anziché alla D.R., all’ufficio (in genere una Direzione Provinciale ) dove ha sede la Sezione Staccata. In tal caso la nota di trasmissione dell’istanza va trasmessa per conoscenza alla D.R. Per la Commissione Tributaria Regionale del Lazio (anche per la Sezione staccata di Latina) al deposito dell’istanza ex art. 369 c.p.c. provvede il Servizio esterno, cui l’istanza dovrà essere inviata (in tre copie) tempestivamente; dall’avvenuta proposizione del ricorso dovrà darsi comunicazione alla D.R. mediante posta elettronica (ad oggi tale adempimento viene effettuato in automatico dalle Segreterie una volta completato il deposito del ricorso in cassazione). 7) ISCRIZIONE A RUOLO Una volta tornato l’originale del ricorso notificato, va eseguita l’iscrizione a ruolo presso la Corte di Cassazione entro 20 giorni dall’ultima notifica (purché non superflua, altrimenti il termine decorre dall’ultima notifica indispensabile). A norma dell’art. 134 disp. att. c.p.c. l’iscrizione a ruolo può avvenire anche a mezzo posta raccomandata (l’Ufficio Postale di via della Scrofa 61/63 è aperto fino alle 14; quello di Piazza San Silvestro fino alle 19). Il termine per il deposito decorre dal perfezionamento della notifica, e quindi: a) dalla consegna a mani al destinatario; b) dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento nelle notifiche a mezzo posta; c) dalla spedizione della racc. A/R nella notifica ex art. 140 c.p.c. (10). Si può iscrivere a ruolo con riserva di deposito sia dell’A/R che della istanza ex art. 369 c.p.c. E’ rischiosa invece la riserva per la copia autentica della sentenza (che la Cassazione vuole sia depositata nel termine di 20 giorni a pena di inammissibilità (sempre a pena di inammissibilità la copia autentica depositata deve essere quella eventualmente notificata ai fini del decorso del termine breve). 8) NOTIFICA NULLA Qualora vi siano dubbi sulla validità delle notifiche (e semprechè non vi sia tempo utile per rinnovarle), è preferibile iscrivere comunque a ruolo la causa ed attendere circa due mesi. Se nel termine di legge (40 giorni dalla notifica del ricorso) viene notificato il controricorso, ogni eventuale nullità è sanata ex tunc (Cass. 1156/2008). Se controparte invece non si costituisce, è opportuno rinnovare la notifica con un secondo originale del tutto identico al primo, anche per quanto concerne la data di redazione (salvo ovviamente la relata) da depositare poi nel fascicolo in Corte nei 20 giorni successivi alla notifica. In tal modo si anticipa (con effetto sanante ex tunc) l’ordine di rinnovazione della noti- (9) Sono sedi di Sezione staccata le citta: Caltanissetta, Catania, Brescia, Foggia, Latina, Lecce, Livorno, Messina, Parma, Pescara, Reggio Calabria, Rimini, Salerno, Sassari, Siracusa, Taranto, Verona. (10) Occorre però considerare che per effetto di Corte Costituzionale n. 3/2010 la notifica ex art. 140 c.p.c. si intende eseguita il decimo giorno dalla spedizione della raccomandata. TEMI ISTITUZIONALI 23 fica che la Suprema Corte darebbe ex art. 291 c.p.c., evitando in tal modo un’udienza inutile (Cass. 4067/1997) (11). Nei casi di notifica a mezzo posta occorre sempre acquisire l’avviso di ricevimento, che può essere depositato anche oltre il termine per iscrivere a ruolo (12) e senza le formalità di cui all’art. 372 c.p.c. (SS.UU. 23666/2009). Qualora dopo un tempo congruo (2 mesi dalla spedizione del plico) l’avviso non sia pervenuto, e sempreché la controparte non sia costituita con controricorso (nel qual caso l’avviso è di norma superfluo), si potrà verificare la consegna dell’atto sul sito delle poste http://www.poste.it/online/dovequando/controller?action=start&subaction=raccomandata e si potrà chiedere un duplicato dell’avviso di ricevimento alle poste (come da comunicazione di servizio n. 75/2010). Con la Comunicazione di Servizio 21/2010 è stato precisato che per le notifiche mezzo posta eseguite da Roma è possibile acquisire tramite internet l’avviso di ricevimento scannerizzato (telefonare al 569 per l’attivazione del servizio). E’ bene ricordare che la rimessione in termini in caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento viene concessa dalla Corte, solo se l’interessato dimostra di essersi attivato per ottenere un duplicato dell’avviso (SS.UU. 23666/2009). E’ consigliabile pertanto controllare sempre che l’avviso di ricevimento sia pervenuto (oppure che la controparte si sia costituita), prima di inserire il fascicolo al suo posto, in quanto tale verifica in occasione dell’udienza (che può essere successiva di anni) potrebbe essere ormai inutile. 9) NOTIFICA INESISTENTE Nei casi in cui la notifica di una impugnazione non sia andata a buon fine senza colpa del notificante e il termine sia ormai scaduto, è opportuno iscrivere comunque la causa a ruolo e nel frattempo rinnovare la notifica all’indirizzo esatto (con un nuovo originale); ciò in quanto la Corte di Cassazione (SS.UU. 17352/2009) ha precisato che: “Nel caso in cui la notificazione di un atto processuale da compiere entro un termine perentorio non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere di richiedere la ripresa del procedimento notificatorio. La conseguente notificazione, ai fini del rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data della iniziale attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presente i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie”. Si tratta in realtà di una applicazione del principio contenuto nel nuovo art. 153 comma 2 c.p.c. (13), anche se tale disposizione si applica alle sole cause iniziate in primo grado dal 4 luglio 2009. (11) Come è noto la rinnovazione è disposta nel caso di notifiche ritenute nulle ma non nel caso di notifiche ritenute “inesistenti”. (12) L’avviso può essere depositato sino all’udienza di discussione ma prima che inizi la relazione. (13) In forza del quale “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma”. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 10) NOTIFICA A PIU’ PARTI L’art. 330 c.p.c., dopo le modifiche introdotte con la legge n. 69/2009 (anch’esso applicabile alle sole cause iniziate in primo grado dal 4 luglio 2009), consente di notificare in unica copia una impugnazione a più parti aventi lo stesso difensore. Ad identici risultati però era nel frattempo intervenuta la giurisprudenza, affermando che “E’ valida, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., la notificazione dell’atto di impugnazione eseguita mediante la consegna di un’unica copia presso il procuratore costituito per più parti” (Cass. SS.UU. 15 dicembre 2008 n. 29290). Pertanto in tutte le cause è possibile notificare il ricorso in un’unica copia al comune difensore di più parti. In tale ipotesi occorrerà però predisporre la relazione di notifica nel senso che la stessa viene eseguita mediante consegna (o invio) dell’atto al procuratore domiciliatario di tutte le parti (da indicare nominativamente) (14). 11) L’UDIENZA Quando arriva l’avviso d’udienza (in genere con anticipo di 2 o tre mesi) verificare: a) se è udienza in camera di consiglio, sono acquisite di norma le conclusioni del P.M. (per i ricorsi relativi a sentenze depositate fino al 4 luglio 2009) ovvero la relazione ex art. 380 bis predisposta dal relatore (per i ricorsi relativi a sentenze depositate dal 5 luglio 2009). Se le conclusioni proposte alla Corte sono sfavorevoli, occorre predisporre (se del caso) memoria da depositare fino a 5 giorni (15) prima dell’udienza ed eventualmente andare a discutere la causa. Le cause in camera di consiglio sono chiamate alle ore 10 in aula “S” (che sta per “Struttura”, dove si trattano solo cause in camera di consiglio), oppure vengono chiamate nell’apposita aula, al termine dell’udienza pubblica (che inizia alle 10 e che dura in genere da 1 a 2 ore). Negli altri casi (di conclusioni del P.M. o relazione favorevole) non è di norma necessario essere presenti in udienza. b) Se la causa è chiamata in udienza pubblica, valutare se depositare memoria (in generale per replicare al controricorso di controparte e richiamare giurisprudenza aggiornata), ed inviare il fascicolo in anticipo al collega di turno per quell’udienza (i turni sono diramati e inseriti su INTRANET) con le necessarie istruzioni. Se trattasi di causa complessa o di particolare rilievo occorre discuterla personalmente o parlarne direttamente con il collega che andrà in udienza. In tali casi sarà ancora possibile depositare brevi osservazioni scritte di replica al P.M. ai sensi dell’art. 379 c.p.c. Se è indetta una riunione per la verifica delle tematiche dell’udienza occorre portare il fascicolo alla riunione. 12) LA SENTENZA Quando arriva la sentenza, (in genere due o tre mesi dopo l’udienza), occorre trasmetterla con urgenza, di norma solo alla competente D.R. (che provvederà a inviarla all’ufficio incaricato) restituendo gli atti (16). (14) Diversamente, se nella realta è indicato che l’atto viene notificato alle parti presso il domiciliatario, l’UNEP non accetta di seguire la notifica con unica copia. (15) Il termine di 5 giorni non è da considerare libero: Cass. 20464/2007. TEMI ISTITUZIONALI 25 Si segnala l’importanza di tale adempimento in quanto in materia tributaria in caso di sentenza definitiva favorevole all’erario, di norma decorre un termine relativamente breve di decadenza per la notifica della cartella esattoriale diretta alla riscossione del credito definitivo (art. 25 D.P.R. 602/1973). Si possono utilizzare gli allegati schemi di lettera per le diverse ipotesi. 13) CONTRORICORSO E RICORSO INCIDENTALE Occorre tenere presente il fatto che il termine di 40 giorni per il controricorso decorre dalla data in cui la notifica del ricorso è stata eseguita presso qualsiasi ufficio dell’Agenzia (locale, D.R. o centrale: Cass. SS.UU. 3116/2006), mentre il termine non decorre (per nullità della notifica) se eseguita presso l’Avvocatura (Cass. SS.UU. n. 22641/2007) (17). Qualora per qualsiasi motivo (scadenza del termine; chiara fondatezza del ricorso avversario) il controricorso non sia stato notificato, è necessario depositare comunque un atto di costituzione in giudizio (v. schema allegato), onde evitare di non avere più alcuna notizia della causa (non è possibile depositare alcun altro atto; neanche copia degli atti pregressi). Ciò consentirà: a) di acquisire il numero di ruolo generale che verrà inserito dal Servizio Esterno nel NSI; b) di ricevere lo scadenziere e l'avviso di udienza per l’eventuale partecipazione alla discussione orale, consentita in cassazione anche in mancanza di costituzione in giudizio (art. 370 comma 1 c.p.c.); c) di ricever l’avviso di deposito della sentenza e copia della stessa. Di norma non occorre dare notizia all’Agenzia della mancata costituzione in giudizio. Qualora non si ritenga di proporre il ricorso incidentale richiesto dall’Agenzia, il protocollo d’intesa (punto 2.4.10 e s.) prevede che L’Avvocatura, qualora ritenga che non sia opportuna la proposizione del ricorso incidentale, dà tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla competente Direzione regionale, almeno cinque giorni prima della scadenza del termine per la notifica del ricorso incidentale, tramite posta elettronica o fax e se del caso dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta. Nel caso di parere negativo dell’Avvocaura si applicano, per la risoluzione della divergenza, i punti da 2.4.4. a 2.4.6. 14) SCHEMI DI ATTI 1. Ricorso in cassazione 2. Contoricorso in cassazione 3. Controricorso con ricorso incidentale 4. Ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c. 5. Controricorso a ricorso per revocazione (16) L’invio alla D.R. è necessario anche quando la corrispondenza precedente è solo con altri uffici dell’Agenzia. La sentenza non va mai trasmessa all’Agenzia Centrale. (17) A meno che, ovviamente nel ricorso non sia evocato il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tale chiamata in causa non può ritenersi errata per le sole cause in cui l’Agenzia non risulti costituita in giudizio dopo il 1° gennaio 2001 (cfr. Cass. Sez. Trib. n. 8507/2010). Nella pratica si tratta per lo più delle sole cause decise dalla Commissione Tributaria Centrale. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 6. Ricorso per correzione di errore materiale 7. Contoricorso a ricorso per correzione errore materiale 8. Atto di mera costituzione 9. Memoria difensiva 10. Ricorso per rinnovazione notifica ex art. 291 c.p.c. 11. Brevi osservazioni scritte alle conclusioni del P.M. ex art. 379 c.p.c. 12. Istanza trasmissione fascicolo ex art. 369 c.p.c. 13. Istanza di rinvio 14. Istanza di riunione cause 15. Istanza di sollecita fissazione udienza. 15) SCHEMI DI LETTERE 1. Parere di impugnazione 2. Reiterazione parere di non impugnazione 3. Invio a mezzo telefax atto da notificare tramite D.R. 4. Invio a mezzo telefax atto da notificare tramite ufficio con istanza 369 a D.R. 5. Invio a mezzo telefax istanza 369 a D.R. 6. Invio a mezzo telefax istanza 369 a D.R. + parere di non impugnazione parziale 7. Nota invio fascicolo in cassazione ax art. 134 disp. att. c.p.c. 8. Nota trasmissione sentenza 9. Nota trasmissione sentenza inammissibilità ex art. 366 bis c.p.c. 10. Nota trasmissione sentenza riassunzione attiva 11. Nota trasmissione sentenza riassunzione passiva 12. Relata di notifica ex art. 55 legge n. 69/2009 13. Lettera alle Poste per duplicato avviso di ricevimento. TEMI ISTITUZIONALI 27 L’art. 417 bis c.p.c.: la gestione del contenzioso lavoro da parte dei funzionari delle pubbliche amministrazioni a cura di Giuseppe Arpaia* L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli ha ideato e sviluppato, nel quadro delineato dalla circolare n. 43/10 dell’Avvocato Generale sul contenzioso del lavoro, un progetto di formazione dei dipendenti delle P.A. incaricati di svolgere l’attività di rappresentanza e difesa in giudizio delle stesse, quale prevista dalla norma di cui all’art. 417 bis c.p.c.. La concreta realizzazione di tale progetto ha avuto inizio con il corso di formazione dei funzionari delle Agenzie fiscali (tenutosi il 21 dicembre 2010) ed è proseguita con il secondo corso rivolto ai funzionari dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania, dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e della Seconda Università degli Studi di Napoli (“L’art. 417 bis c.p.c.: la gestione del contenzioso lavoro da parte dei funzionari delle Pubbliche Amministrazioni”), tenutosi il 4 febbraio 2011, presso la sede dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, dall’Avv. dello Stato Giuseppe Arpaia. Il progetto è stato concepito quale naturale esito della constatazione - ribadita dalla citata circolare n. 43/2010 del 29 luglio 2010 -, da un lato, del carattere eccezionale del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nel primo grado delle controversie giudiziarie di lavoro, secondo quanto statuito dall’art. 417 bis c.p.c., dall’altro, dell’esigenza, fortemente avvertita dalle stesse Pubbliche Amministrazioni, che l’Avvocatura dello Stato collabori attivamente nel fornire una precipua formazione, funzionale all’attività di rappresentanza e difesa, ai dipendenti delle stesse, e, in particolare, a quelli appartenenti ai relativi uffici del contenzioso del lavoro, previsti dall’art. 12 del T.U. del pubblico impiego - d.lgs. n. 165/2001. Nel concepire il corso di formazione dei funzionari delle Amministrazioni pubbliche, si è dovuto tener conto di una serie di fattori. In primis, scopo dell’Avvocatura dello Stato è quello di trasmettere in modo adeguato le principali cognizioni in materia di processo del lavoro: da ciò sono derivati la corposità, oltre che l’eterogeneità, dei contenuti del corso, sia sotto il profilo teorico, che pratico. Difatti, volendo sintetizzare gli obiettivi del corso, mediante lo stesso (*) Avvocato dello Stato. Nota dell’Autore: Un ringraziamento alla dott.ssa Palmira Graziano, praticante avvocato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli e docente a contratto per l’anno accademico 2010/2011 presso la IV Cattedra di Diritto Civile della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, che ha, sotto la mia guida, elaborato le slide del corso. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli ha inteso far acquisire ai relativi partecipanti conoscenze teorico-pratiche in ordine: 1) alla disciplina della giurisdizione sui rapporti di lavoro dipendente nel pubblico impiego, in particolare quanto alle norme del T.U. n. 165/2001 e succ. modifiche (Slide nn. 1-11); 2) alla disciplina inerente la gestione del contenzioso del pubblico impiego da parte delle stesse P.A. - T.U. n. 165/2001 ed art. 417 bis c.p.c. - (Sl. nn. 12-13); 3) alle procedure di conciliazione ed arbitrato introdotte dalla riforma di cui alla legge “collegato lavoro”, la l. n. 184 del 4 novembre 2010 (Sl. nn. 14-28); 4) all’atto di ricorso (in particolare quanto ad elementi essenziali, alla patologia dell’atto e della relativa notifica) (Sl. nn. 29-42); 5) alla memoria difensiva (in particolare quanto ad elementi essenziali, ed al preliminare conferimento dell’incarico di difesa al funzionario ex art. 417 bis c.p.c.) (Sl. nn. 43-66); 6) ai poteri decisionali del giudice (Sl. nn. 67-75); 7) al ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo ed alla procedura di redazione informatica della relativa nota di iscrizione a ruolo (Sl. nn. 76-94); 8) all’atto di reclamo ed alla procedura di redazione informatica della relativa nota di iscrizione a ruolo (Sl. nn. 95-104). In secondo luogo, il corso ha inteso accogliere l’istanza, spesso manifestata dalle stesse Amministrazioni, di concentrare in una stessa giornata l’attività didattica: ciò ha reso necessario, indicare, quale incipit del corso, i relativi obiettivi formativi, già prima richiamati, indicando ciascuno di essi quale una delle varie tappe del percorso (all’interno di una slide c.d. “indice”). In tal modo si è voluto consentire ai partecipanti di cogliere illico et immediate, la strumentalità di ogni singolo argomento via via affrontato rispetto al corrispondente obiettivo, oltre che i punti di connessione reciproca tra gli stessi. Ciò ha fatto salva, nonostante l’orario prolungato del corso, quella “visione d’insieme” dei molteplici temi esaminati, che è indispensabile ad una loro piú pronta e completa comprensione da parte di chi ascolta. A tal fine, si è reso indispensabile il ricorso allo strumento didattico delle slide, efficace nel fornire una migliore ed immediata visualizzazione dei precetti normativi, spesso di recente emanazione (come nel caso della disciplina delle procedure di conciliazione ed arbitrato - v. slide nn. 14-28), oltre che della reale conformazione e della struttura compositiva dei vari atti giudiziari analizzati. Ciascuna slide è stata numerata, di modo che al termine del corso, è stato possibile a chi vi abbia partecipato fruire delle slide come una sorta di manuale per la gestione del contenzioso del lavoro, slide che risultano ordinate per argomenti e raggruppate in relazione ai corrispondenti obiettivi. TEMI ISTITUZIONALI 29 Sempre nell’ottica dell’efficace fruizione da parte dei partecipanti al corso delle relative slide, si è optato per una impaginazione che costituisca di per se stessa una sorta di mappa orientativa degli specifici temi, eminentemente pratici, che in ciascuna slide vengono affrontati: piú precisamente, all’inizio di ogni nuovo gruppo di slide (corrispondente ad un specifico obiettivo), è stato indicato l’argomento oggetto dell’intero gruppo con una formattazione similare a quella propria dei titoli dei capitoli di una monografia. Sempre al fine di una catalogazione ordinata dei vari temi affrontati, tale struttura formale del corso ha avuto una sua precisa corrispondenza in una struttura parimenti ordinata ed articolata dei relativi contenuti. Talora, si è reso necessario perfino creare un’indicizzazione all’interno delle slide relative al medesimo obiettivo, laddove l’argomento nelle stesse trattato, essendo particolarmente articolato, ha preteso una schematizzazione in passaggi successivi, che, poiché numerosi, hanno, a loro volta, reso opportuno, al termine di ciascuno di essi, un breve riepilogo. Questo è stato il caso delle slide nn. 14-28 correlate all’obiettivo n. 3, riguardante «le procedure di conciliazione ed arbitrato introdotte dalla riforma di cui alla legge “collegato lavoro” del 4 novembre 2010»: nella slide n. 16 è stato inserito un indice (relativo al solo obiettivo n. 3) nel quale sono esplicate tutte le varie alternative tra l’azione giudiziale e le procedure conciliative ed arbitrali, che si offrono alla P.A. ed al lavoratore laddove sussista tra loro un contenzioso. Inoltre, durante il corso sono state sottoposte all’attenzione dei funzionari tecniche redazionali dei principali atti giudiziari, che spetterà loro redigere o controbattere, sia introduttivi del giudizio (l’atto di ricorso, nonché atti di opposizione a decreto ingiuntivo e di reclamo avverso provvedimento cautelare), che endo-processuali (si pensi, ad esempio, alla memoria difensiva - slide n. 51 ss. -, alla citazione testimoniale - slide n. 55 -, ed alla nota spese - slide 70-71). Rispetto a tali atti sono stati forniti ai partecipanti al corso dei modelli, frutto dell’applicazione di tecniche redazionali suggerite allo scopo di rendere piú ordinata e razionale l’elaborazione del relativo contenuto. Nell’ottica di una risoluzione pratica dei problemi che si pongono all’operatore giuridico, con riferimento a ciascun atto processuale, dopo una slide riepilogativa delle principali norme disciplinanti gli elementi strutturali (ad esempio per la memoria difensiva v. slide n. 50), sono state proposti concreti modelli redazionali (ad esempio si vedano per la memoria difensiva le slide nn. 51 ss.), nonché protocolli comportamentali conseguenti alla mancanza di taluno di detti elementi o alla condotta di controparte (si vedano, ad esempio, sempre per la memoria difensiva, le slide nn. 56, 61-2). Va precisato che sono stati forniti ai funzionari che hanno preso parte al corso, cd-rom contenenti copia delle slide (in formato pdf), nonché degli atti giudiziari esaminati e della giurisprudenza richiamata durante la lezione (in 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 particolare di quest’ultima è stata offerta una rassegna nell’ultima slide - “slide G”). Per un più approfondito esame delle slide del corso e dei relativi allegati, si rinvia ai relativi file disponibili sul sito web dell’Avvocatura. Quanto alle slide, va precisato che la versione pdf (protetta) è quella destinata ai partecipanti al corso, mentre la versione power point è resa disponibile quale strumento di docenza utilizzabile in futuri analoghi corsi. TEMI ISTITUZIONALI 31 Riserva all’Avvocatura dello Stato in materia di servizi legali ex R.D. 1611/1933 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 3 febbraio 2011, n. 780) Le brevi note che seguono sono dedicate alla sentenza in oggetto che ha fatto definitiva giustizia di una pericolosa “fuga in avanti”, posta in essere da un’amministrazione statale che aveva mostrato, per così dire, “insofferenza” verso il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, in favore di studi legali privati che avevano “confidato” nel tramonto, almeno parziale, del monopolio dell’Avvocatura Erariale sulle cause dello Stato. Ma andiamo, con ordine. 1. I fatti da cui trae origine la causa Con bando, pubblicato sulla G.U.R.I. (Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana) del 2 marzo 2007, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali aveva indetto una gara avente ad oggetto "la fornitura dei servizi legali comprensivi di quelli di assistenza nelle procedure contenziose, relativi alla protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche in Italia, in Europa e nel mondo", rivolta agli studi legali associati con le caratteristiche indicate nell’art. 5 del capitolato d’oneri (in particolare, erano ammessi a partecipare studi legali con un numero di associati, iscritti all’albo degli avvocati, non inferiore a venti alla data di pubblicazione del bando sulla G.U.C.E., ovvero il 17 febbraio 2007). In un primo momento, la gara era stata aggiudicata ad una ATI ma, in seguito alle verifiche sul possesso dei requisiti previsti dal citato art. 5 del capitolato d’oneri (ovvero il numero di associati, iscritti all’albo degli avvocati, non inferiore a venti alla data di pubblicazione del bando sulla GUCE), l’amministrazione statale aveva revocato, con provvedimento n. 4439 del 4 agosto 2008, l’affidamento in favore della prefata Associazione Temporanea ed aveva aggiudicato il servizio alla seconda classificata. Avverso tale atto, aveva proposto impugnativa l'ATI, originaria aggiudicataria del servizio, chiedendone l'annullamento ed, in via subordinata, la condanna del Ministero al risarcimento dei danni. Si costituivano in giudizio, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e l’ATI controinteressata. L’Avvocatura dello Stato, in difesa del Ministero intimato, depositava agli atti del giudizio un proprio parere del 15 ottobre 2008 con cui, dopo aver chiarito che la decisione di affidare il servizio di che trattasi a studi legali non rispetta l’art. 1 del R.D. n. 1611/1933 (in materia di patrocinio dell’Avvocatura dello Stato per la difesa in giudizio delle amministrazioni statali), aveva pro- 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 posto allo stesso Dicastero di procedere alla revoca, in autotutela, del bando di gara. In aderenza al predetto parere, il Ministero, con decreto n. 9608 del 27 novembre 2008, aveva revocato il bando di gara in argomento. Con ricorso per motivi aggiunti, l’ATI ricorrente aveva impugnato il decreto di revoca del bando di gara unitamente a tutti gli atti connessi; impugnativa, quest’ultima, che veniva proposta, con autonomo ricorso, anche dall’ATI controinteressata; entrambe le parti private formulavano domanda di risarcimento dei danni, sofferti a cagione dell’intervenuta revoca della procedura di gara. 2. La decisione del T.A.R. del Lazio - Sezione seconda Ter, n. 6527 del 7 luglio 2009 (prima parte) La decisione del TAR del Lazio risultava pienamente condivisibile nella sua prima parte anzi avremmo potuto adottarla come “manifesto” della “resistenza” del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato nei confronti delle amministrazioni statali. Affermava, il T.A.R. capitolino, che “la normativa contenuta nel R.D. n. 1611/1933 esclude la possibilità per le amministrazioni statali di affidare tale attività agli avvocati del libero foro attraverso una gara ad evidenza pubblica posto peraltro che, nel caso di specie, non risultano esternati quei motivi eccezionali che consentono di avviare la procedura di autorizzazione per derogare alla norma che prevede il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato. Ed invero: - l’art. 1 del R.D. n. 1611/1933 prevede, in sintesi, il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato in caso di rappresentanza, patrocinio ed assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato; - la possibilità di deroga al predetto obbligo previsto dal citato art. 1 è fissato nel successivo art. 5 del RD n. 1611/1993 secondo cui "nessuna Amministrazione dello Stato può richiedere la assistenza di avvocati del libero foro se non per ragioni assolutamente eccezionali, inteso il parere dell'Avvocato generale dello Stato e secondo norme che saranno stabilite dal Consiglio dei ministri. L'incarico nei singoli casi dovrà essere conferito con decreto del Capo del Governo di concerto col Ministro dal quale dipende l'Amministrazione interessata e col Ministro delle finanze"; - non risulta, nel caso di specie, che il Ministero resistente abbia fatto valere "ragioni assolutamente eccezionali" né che abbia richiesto l’attivazione della speciale procedura di cui al citato art. 5 del regio decreto; - a ciò deve essere aggiunto che l’eventuale ammissibilità dell’affidamento del servizio di assistenza giudiziale ad avvocati del libero foro potrebbe TEMI ISTITUZIONALI 33 provocare disservizi anche di carattere organizzativo se si considera anche il tenore dell’art. 11 del R.D. n. 1611/1933 secondo cui gli atti giudiziari devono essere notificati, a pena di nullità, presso l’Avvocatura dello Stato, nel senso che gli organi di difesa erariale sono tenuti ad assumere la difesa in giudizio in favore delle amministrazioni statali. Ciò che si vuole dire è che, seppure nulla escluda che un soggetto giuridico possa essere difeso da più patrocinatori, nel caso delle amministrazioni statali, in difetto dell’autorizzazione rilasciata ai sensi del citato art. 5 del R.D. n. 1611/1933, la difesa erariale non può abdicare alle proprie funzioni defensionali lasciando ad avvocati del libero foro la decisione sulle "strategie" da intraprendere durante le varie fasi del giudizio. Ora, il Collegio non vuole spingersi fino a delineare scenari ipotetici con riferimento ai rapporti tra difesa erariale, amministrazione statale e avvocati del libero foro ma è verosimile supporre che, in assenza di rapporti chiari in ordine alla responsabilità da assumere in sede di giudizio (perché non attivata a priori la procedura di cui al citato art. 5 del RD n. 1611/1933 che consente alla difesa erariale di abdicare ai propri obblighi defensionali in favore delle amministrazioni statali) ed in mancanza di accordo sulle strategie da intraprendere, la linea da privilegiare debba essere quella proposta dall’Avvocatura dello Stato (cfr art. 13 R.D. n. 1611/1933 nella parte in cui dispone che la stessa "provvede… a consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi…"), rendendo quindi inutile (o inutilizzabile) l’apporto da parte dello studio legale a cui è stato affidato, con un appalto oneroso, il servizio di assistenza giudiziale”. La sentenza passava, poi, alla “difesa” della funzione consultiva dell’Avvocatura dello Stato, affermando che “analoghe considerazioni valgono con riferimento all’attività di consulenza stragiudiziale, seppure non sia rinvenibile una norma espressa nel R.D. n. 1611/1933 che imponga il ricorso obbligatorio all’Avvocatura dello Stato. Pur tuttavia, il Collegio è dell’avviso che, pur in assenza di una norma espressa in tal senso, sussistano comunque nell’ordinamento una serie di norme che consentono alle amministrazioni statali, prima di rivolgersi al "mercato" dei servizi legali, di avvalersi di organismi istituzionali che, anche per la loro autorevolezza, sono preposti - tra l’altro - ad affiancarle nella soluzione di questioni controverse, attraverso la formulazione di appositi pareri. È noto, infatti, che sia l’Avvocatura dello Stato che il Consiglio di Stato, in sede consultiva, possono essere consultati dalle amministrazioni statali e ciò è previsto, nel primo caso, dal citato art. 13 del RD n. 1611/1933 (nella parte in cui dispone che l’Avvocatura dello Stato "provvede… alle consultazioni legali richieste dalle Amministrazioni…") e, nel secondo, dall’art. 14 del R.D. n. 1054/1924 secondo cui "il Consiglio di Stato… dà parere… sugli affari di ogni natura, pei quali sia interrogato dai Ministri…". 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 A ciò si aggiunga che l’art. 7, comma 6, del D.lgs n. 165/2001 prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche, "per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, (di) conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria...", che peraltro devono essere affidati attraverso procedure comparative disciplinate secondo i rispettivi ordinamenti (cit. art. 7 comma 6 bis). In altre parole, ciò che si vuole dire è che, sebbene non sussista una previsione di rango legislativo che vieti l’affidamento a studi legali dell’attività di consulenza stragiudiziale, l’indizione di siffatta procedura selettiva rimane una ipotesi eccezionale rispetto a quelle ordinarie previste dalle norme citate in materia di attività consultiva resa dall’Avvocatura dello Stato e dal Consiglio di Stato ovvero di affidamento di incarichi di collaborazione a singoli professionisti (per specifiche questioni) secondo la procedura di cui all’art. 7 del D.lgs n. 165/2001 (seppure anche quest’ultima norma, avente carattere eccezionale)”. 2.1. La decisione del T.A.R. del Lazio (seconda parte) La seconda parte della decisione in commento non convinceva. Affermava, il T.A.R. del Lazio: “Va, invece, verificato se, a fronte della legittimità del decreto di revoca del bando, sussistano i presupposti per riconoscere in capo al Ministero resistente ipotesi di responsabilità c.d. "da contratto" ovvero "precontrattuale" (comunque da risarcire nei limiti dell’interesse negativo) che, seppure non richiesta in maniera espressa, deve intendersi compresa nelle richieste risarcitorie delle ATI interessate. Come noto, la declinazione in ambito amministrativo dell'istituto della responsabilità precontrattuale (cui è pacifica l'ascrizione all'ambito della giurisdizione risarcitoria dell'adito Giudice amministrativo - Cons. Stato, Ad. Plen. 5 settembre 2005, n. 6; ma anche Cass. Civ., SS.UU., 12 maggio 2008, n. 11656) ha avuto origine da ipotesi in cui l'esercizio del jus poenitendi daparte dell'Amministrazione fosse stato correttamente disposto, così determinando una sorta di scissione fra la (legittima) determinazione di caducare l'aggiudicazione ed il complessivo tenore del comportamento tenuto dalla medesima Amministrazione nella sua veste di controparte negoziale, non informato alle generali regole di correttezza e buona fede che devono essere osservate dall'Amministrazione anche nella fase precontrattuale (in tal senso, Cons. Stato, Ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6; Sez. V, 30 novembre 2007, n. 6137; id., Sez. V, 14 marzo 2007, n. 1248). Ciò posto, il Collegio ritiene che non emergano ragioni sistematiche per escludere la configurabilità di una responsabilità di carattere precontrattuale in capo all'Amministrazione in ipotesi (quale quella oggetto della presente TEMI ISTITUZIONALI 35 controversia) in cui il mancato rispetto dei generali canoni di buona fede e correttezza in contrahendo si sia risolto in un'attività nel suo complesso illegittima (seppure rilevata in via di autotutela dalla stessa amministrazione), come la scelta di indire una gara per l’affidamento di servizi legali in violazione del R.D. n. 1611/1933, con conseguente impossibilità del sorgere del vincolo contrattuale (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 15 aprile 2008, n. 9906; id., Sez. I, 26 maggio 2006, n. 12629). Ed invero, non sussistono ragioni valide per escludere che in fattispecie quale quella in esame possa individuarsi un'ipotesi di responsabilità precontrattuale in capo all'Amministrazione atteso che, da un lato le trattative fra le parti sono state interrotte dall’annullamento in autotutela dell’intera procedura selettiva e, dall’altro, sono intercorsi 21 mesi dall’indizione della gara all’adozione del decreto che ha posto nel nulla l’intera procedura selettiva. In altre parole, il Collegio ravvisa la condotta illecita del Ministero nell’aver ingenerato in capo alle ATI interessate un affidamento nella conclusione positiva della procedura quando, invece, era chiaro che l’aggiudicazione tramite gara dei servizi legali (in particolare, quelli di assistenza giudiziale) era inibita da quanto previsto nel R.D. n. 1611/1933. Da ciò deriva che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso in cui la P.A. violi il dovere di lealtà e correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte in modo da "sorprendere" la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale ai sensi dell'art. 1337 cod. civ. ed il danno deve essere risarcito nei limiti dell’interesse negativo (ovvero le spese di partecipazione alla procedura e la perdita di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti). È ciò che è avvenuto nel caso di specie dove l’amministrazione resistente, a fronte di una condotta illecita di natura colposa (non scusabile in ragione del chiaro dettato normativo), ha ingenerato un affidamento nella conclusione di una "trattativa" contrattuale la cui lesione (cristallizzata nel provvedimento di annullamento della gara) è fonte di danno risarcibile nei limiti dell’art. 1337 c.c., applicabile in via analogica nel presente giudizio”. Si trattava di affermazioni che non potevano essere, in alcun modo, condivise. Come poteva affermarsi che degli studi legali associati che, secondo le previsioni degli atti di gara, dovevano essere composti da almeno venti associati iscritti all’albo degli avvocati, avessero incolpevolmente fatto “affidamento” sulla conclusione di un contratto che, per le ragioni ben esplicitate nella prima parte della sentenza, doveva qualificarsi nullo per contrarietà a norme imperative? Come si poteva parlare, con riferimento all’impossibilità della conclusione del predetto contratto, di “sorpresa” da parte dei predetti studi legali? 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 E’, al proposito, ben noto che le norme in materia di rappresentanza obbligatoria dell’Avvocatura dello Stato afferiscono alla materia dell’ordine pubblico processuale e, venendo in rilievo una disposizione legale inderogabile, deve, pertanto, affermarsi la natura imperativa dell’addentellato normativo ex R.D. n. 1611/1933 che statuisce il patrocinio erariale necessario (cfr., in tale senso, Tribunale di Catanzaro, sezione II civile, 1 febbraio 2008, n. 72). Ne consegue che difetta del necessario jus postulandi l’avvocato del libero foro che rappresenti in giudizio un’amministrazione statale, poiché in contrasto con la c.d. esclusività del patrocinio erariale (definito, in tal senso, dalla migliore dottrina come organico, obbligatorio ed esclusivo) (cfr., sentenza sopra citata). 3. La sentenza del Consiglio di Stato Il Giudice di Appello, dopo avere confermato la sentenza di primo grado con riferimento alla prima parte della stessa (del tutto ineccepibile, per come sopra evidenziato), perviene, invece, all’integrale riforma della statuizione del TAR capitolino nella parte in cui aveva riconosciuto agli studi legali, che avevano partecipato alla gara, il risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale. Ecco, qui di seguito, le parole del Consiglio di Stato: “… per la pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione (consolidatasi per le controversie devolute ratione temporis al giudice civile): non si può ritenere accoglibile una domanda volta al risarcimento del danno derivante da responsabilità precontrattuale, quando il contratto non sia stato stipulato, perché una delle parti – anche in extremis – rileva che la stipula comporterebbe la violazione di norme imperative (per tutte, Sez. Un., 11 febbraio 1982, n. 835; Sez. Un., 14 marzo 1985, n. 1987); - l’Amministrazione pubblica, quando abbia posto in essere trattative per addivenire alla stipula di un contratto da concludere a seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, può senz’altro recedere dalle trattative senza incorrere in alcuna responsabilità (Sez. I, 29 luglio 1987, n. 6545), non potendosi anche in tal caso ravvisare un ‘ragionevole affidamento’, giuridicamente tutelato, alla relativa stipula. La Sezione rileva che tali orientamenti, a loro volta, sono espressione di un più generale principio generale, per il quale l’Amministrazione deve sempre evitare di concludere un contratto contrastante con norme imperative e cioè: - deve interrompere la trattativa privata avviata quando sia prescritta la gara ad evidenza pubblica; - deve annullare gli atti della gara ad evidenza pubblica, se il previsto contratto di per sé risulta in contrasto con una norma imperativa. TEMI ISTITUZIONALI 37 Infatti, l’ordinamento da un lato apprezza con favore il ritorno alla legalità, prevedendo i poteri di autotutela dell’Amministrazione, dall’altro non prende in favorevole considerazione - sotto il profilo di possibili pretese risarcitorie - la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano consapevolmente o colposamente aderito alla iniziativa illegittima dell’Amministrazione. 11.2. Nella specie, a seguito di una segnalazione già proveniente dal Ministero e poi dell’avviso sulla questione della Avvocatura Generale dello Stato, l’Amministrazione ha legittimamente constatato che il bando di gara mirava ad incidere indebitamente sullo svolgimento della attività istituzionale della medesima Avvocatura e all’esborso di denaro, per ragioni palesemente inconsistenti. Il Ministero ha quindi constatato che la stipula del contratto avrebbe dato evidentemente luogo alla violazione delle norme imperative, desumibili dal testo unico n. 1611 del 1933 e dalle leggi di contabilità di Stato. Considerate le circostanze, ritiene la Sezione che nessun legittimo affidamento altrui si possa essere formato col bando o nel corso del procedimento seguito dall’atto di aututela. Le ATI concorrenti non hanno utilizzato, invero, in sede di partecipazione alla gara, l’ordinaria diligenza, non potendo certamente sfuggire a professionisti del settore giustizia, e per di più alle compagini professionali di indubitabile valore che hanno partecipato alla gara stessa, il fatto che questa era stata bandita in una situazione di manifesto contrasto con il medesimo testo unico. Oltre dunque alle considerazioni sopra riportate sulla rilevanza in sé delle norme imperative (ciò che già rileverebbe per escludere un legittimo affidamento), nella specie proprio la qualità dei professionisti coinvolti avrebbe dovuto da subito far loro constatare la manifesta illegittimità della iniziale determinazione dell’Amministrazione: ciò evidenzia non solo la mancanza di un legittimo affidamento, ma anche la loro colpa professionale, dal momento che rientra - o deve rientrare - nel bagaglio di comune conoscenza degli avvocati la regola per cui le Amministrazioni statali si avvalgono e si devono avvalere del patrocinio della Avvocatura dello Stato”. M.B. 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Gli atti amministrativi (e negoziali) elusivi del patrocinio obbligatorio dello Stato non possono suscitare nel privato alcun affidamento (*) La complessa controversia su cui si è espresso il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, muove dalla inopinata pubblicazione di un bando per la fornitura di servizi legali (di assistenza e consulenza) a una amministrazione dello Stato. Aggiudicata la gara, la Pa successivamente, verificata la mancanza dei requisiti, annullava l’aggiudicazione al primo Studio legale in graduatoria e aggiudicava la gara al secondo. Ciò portava alla reazione giurisdizionale dell’ex aggiudicatario, e, come effetto riflesso, all’invito dell’Avvocatura, così venuta a conoscenza del bando, affinché la PA revocasse il bando: quod evenit, previo parere del generale Ufficio che sottolineava, oltre alla violazione della riserva della funzione di assistenza ex art. 1 Rd 1611/33, nonché della procedura derogatoria che deve svolgersi, caso per caso e non per una serie di casi indeterminata, ai sensi dell’art. 5 del Rd 1611, anche lo spreco di denaro pubblico insito in tale violazione di legge. Reagivano così, con autonomi ricorsi, i due Studi legali (primo e secondo aggiudicatario) ottenendo solo parziale soddisfazione con la sentenza del TAR Lazio sez. II Ter n. 6257/09, che liquidava loro € 30.000 ciascuno a titolo di risarcimento del danno, avendo la PA, con il suo bando, suscitato il legittimo affidamento dei ricorrenti. Nel merito dell’affare, invece, la Sezione rilevava la violazione delle inderogabili norme di cui all’art. 1 e 5 Rd 1611/33 quanto all’assistenza in giudizio, e, quanto alla consulenza legale, l’obbligo della PA di avvalersi dei propri organi consultivi (Avvocatura dello Stato e Consiglio di Stato), o di ricorrere, in caso di assoluta necessità, a una motivata determinazione sul perché la PA decida di non avvalersene. Il TAR sottolineava anche che l’affidamento in via sistematica ad avvocati del libero foro della consulenza stragiudiziale come modalità di assistenza nell’espletamento dei propri compiti deresponsabilizzasse i dirigenti, portandoli anzi a concordare ogni scelta con i legali di tali studi, con vulnus dell’art 97 Cost. Il Generale Ufficio appellava, sostenendo che non potessero due studi legali, tenuti alla diligentia diligentissimi, ignorare l’invalidità del bando, ergo, non potevano essere destinatari di alcun risarcimento, non versando in buonafede perché in colpa grave. Gli appellati reagivano a loro volta, non solo chiedendo un aumento del chiesto risarcimento, ma soprattutto chiedendo l’annullamento della sentenza della parte in cui confermava l’annullamento del bando. In primo luogo la sentenza afferma la natura inderogabile della riserva al (*) Nota a commento alla stessa sentenza in rassegna a cura dell’avv. dello Stato che ha curato entrambi i gradi di giudizio della causa. TEMI ISTITUZIONALI 39 patrocinio dell’Avvocatura delle Amministrazioni dello Stato. Questa norma, l’art. 1 Rd 1611, non solo realizza un risparmio di spesa, ma soprattutto consente alla PA di essere stabilmente assistita da un corpo di Avvocati indipendenti (1), perché esclusivamente al suo servizio, e altresì qualificati dal doppio concorso di accesso. Inoltre, sul fronte dei cittadini, garantisce la loro parità di trattamento, per il coordinamento della difesa sulle stesse questioni, che quindi non vengono abbandonate in una Regione e coltivate in un’altra. Si ricorda che l’art. 1 del Codice etico dell’Avvocatura generale impone agli Avvocati dello Stato di agire in piena indipendenza dalle Amministrazioni e secondo le proprie motivate convinzioni giuridiche ed etiche. Le eventuali deroghe al Patrocinio devono avvenire caso per caso, sentita l’Avvocatura, il ministro delle finanze e con delibera del Consiglio dei ministri, ex art. 5 Rd 1611/33 nei casi previsti dal Governo (che in 80 anni nulla ha previsto). Le stesse conclusioni del TAR sull’attività di consulenza sono ribadite dal Supremo Consesso. A parte che nel caso di specie assistenza e consulenza erano inestricabili, tanto più lo sono anche in astratto, sicché, essendo dotato lo Stato di numerosi organi consultivi (oltre l’Avvocatura generale e il Consiglio di Stato, ricordati dal Collegio: si pensi al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici) mancava una motivazione sulla necessità di ricorrere al mercato dei servizi (2). (1) Anzi “sono equiparati ai Magistrati dell’Ordine Giudiziario’’ (art. 23 RD 1611 ) e non possono occupare altri impieghi (art. 24 Rd 1611). (2) Non sussistendo precedenti in termini, è opportuno, sul punto, riportare parte della motivazione della sentenza Tar Lazio, sez. II, n. 6527/2009, parzialmente riformata dal Consiglio di Stato con la sentenza in esame. Al riguardo, il Tar Lazio disponeva che “l’eventuale ammissibilità dell’affidamento del servizio di assistenza giudiziale ad avvocati del libero foro potrebbe provocare disservizi anche di carattere organizzativo se si considera anche il tenore dell’art. 11 del RD n. 1611/1933 secondo cui gli atti giudiziari devono essere notificati, a pena di nullità, presso l’Avvocatura dello Stato, nel senso che gli organi di difesa erariale sono tenuti ad assumere la difesa in giudizio in favore delle amministrazioni statali. Ciò che si vuole dire è che, seppure nulla escluda che un soggetto giuridico possa essere difeso da più patrocinatori, nel caso delle amministrazioni statali, in difetto dell’autorizzazione rilasciata ai sensi del citato art. 5 del R.D. n. 1611/1933, la difesa erariale non può abdicare alle proprie funzioni defensionali lasciando ad avvocati del libero foro la decisione sulle “strategie” da intraprendere durante le varie fasi del giudizio … è verosimile supporre che, in assenza di rapporti chiari in ordine alla responsabilità da assumere in sede di giudizio (perché non attivata a priori la procedura di cui al citato art. 5 del RD n. 1611/1933 che consente alla difesa erariale di abdicare ai propri obblighi defensionali in favore delle amministrazioni statali) ed in mancanza di accordo sulle strategie da intraprendere, la linea da privilegiare debba essere quella proposta dall’Avvocatura dello Stato (cfr. art. 13 RD n. 1611/1933 nella parte in cui dispone che la stessa “provvede … a consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi …”), rendendo quindi inutile (o inutilizzabile) l’apporto da parte dello studio legale a cui è stato affidato, con un appalto oneroso, il servizio di assistenza giudiziale. Analoghe considerazioni valgono con riferimento all’attività di consulenza stragiudiziale, seppure non sia rinvenibile una norma espressa nel RD n. 1611/1933 che imponga il ricorso obbligatorio all’Avvocatura dello Stato. Pur tuttavia, il Collegio è dell’avviso che, pur in assenza di una norma espressa in tal senso, sussistano comunque nell’ordinamento una serie di norme che consentono alle amministrazioni statali, prima di rivolgersi al “mercato” dei servizi legali, di avvalersi di organismi istituzionali che, anche per la loro autorevolezza, sono preposti - tra l’altro - ad affiancarle 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 L’inderogabilità delle cennate disposizioni, sul piano procedimentale e della motivazione dell’atto di secondo grado di annullamento di ufficio, che ex 21 nonies L. proc. amm., impone sussistano ragioni d’interesse pubblico e la valutazione degli interessi della PA e degli interessati, la sentenza, oltre a qualificare in re ipsa l’interesse a impedire lo spreco di pubblico denaro (2.700.000 Euro in tre anni) puntualmente citato dal parere del generale Ufficio, richiamato in parte motiva dall’atto impugnato, ritiene in re ipsa l’interesse della PA alla doverosa osservanza di un obbligo inderogabile di legge prevalente su ogni altro e da non esplicitare in modo particolare in motivazione. Si deve quindi concludere che esistano almeno due livelli di offensività per l’ordinamento delle norme violate da un provvedimento - che non sia nullo o inesistente, altrimenti non si parlerebbe di auto annullamento - : la violazione di legge (che non può consistere nella mera irregolarità, ma deve coincidere con l’entità del vizio per cui sia possibile richiedere al giudice l’annullamento o la disapplicazione dell’atto) e la “doverosa osservanza di un obbligo inderogabile di legge” che fa sempre presumere la sussistenza di un interesse in re ipsa all’autoannullamento, e quindi consente una motivazione che prescinda dal bilanciamento con gli interessi dei privati da esso incisi. Sotto questo profilo, e alla luce dell’art. 21 nonies, va precisato che la valutazione del preminente interesse pubblico in re ipsa, è una formula tradizionale, che proprio per la sua caratteristica di diritto vivente, essendo ribadita da innumerevoli sentenze, merita una riflessione (3). nella soluzione di questioni controverse, attraverso la formulazione di appositi pareri. È noto, infatti, che sia l’Avvocatura dello Stato che il Consiglio di Stato, in sede consultiva, possono essere consultati dalle amministrazioni statali e ciò è previsto, nel primo caso, dal citato art. 13 del RD n. 1611/1933 (nella parte in cui dispone che l’Avvocatura dello Stato “provvede … alle consultazioni legali richieste dalle Amministrazioni ….”) e, nel secondo, dall’art. 14 del RD n. 1054/1924 secondo cui “il Consiglio di Stato … dà parere … sugli affari di ogni natura, pei quali sia interrogato dai Ministri …”. A ciò si aggiunga che l’art. 7, comma 6, del D.lgs n. 165/2001 prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche, “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, (di) conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria …”, che peraltro devono essere affidati attraverso procedure comparative disciplinate secondo i rispettivi ordinamenti (cit. art. 7 comma 6 bis) … Il Collegio, poi, non può non evidenziare come affidare, in maniera sistematica (se non addirittura in via ordinaria), l’attività di consulenza stragiudiziale ad avvocati del libero foro come modalità di assistenza continua nell’espletamento di compiti affidati all’amministrazione statale … porti con sé il rischio di deresponsabilizzare la dirigenza e gli organi amministrativi preposti dalla legge al perseguimento degli obiettivi istituzionali. In altre parole, affiancare agli organi degli uffici ministeriali uno studio legale che li supporti costantemente nell’espletamento delle funzioni ad essi affidate comporta che gli stessi possano essere indotti a non adottare scelte se prima non le abbiano confrontate (recte: concordate) con gli avvocati del libero foro nella loro veste di consulenti. Ciò può costituire fonte di deresponsabilizzazione degli organismi pubblici, in contrasto con il disegno delineato, in particolare, dal D.lgs n. 165/2001”. (Tar Roma, Lazio, sez. II, 7 luglio 2009, n. 6527, in De Jure). (3) La giurisprudenza, infatti, ha costantemente ritenuto che vi siano determinate ipotesi in cui l’interesse pubblico all’annullamento sia in re ipsa e che, pertanto, non necessiti di risultare da una specifica motivazione: “è il caso in cui il provvedimento originario costituisca la risultante di un’attività TEMI ISTITUZIONALI 41 Certamente, per procedere all’annullamento d’ufficio occorre che l’atto sia affetto da un vizio di legittimità, e quindi non da una mera irregolarità o da vizi che ne comportino la nullità. Tuttavia, riprendendo la tradizionale formula dell’interesse pubblico, la cui sussistenza è richiesta ai fini di questa autotutela, che non deve essere solo quello di ripristinale la legalità, deve osservarsi che il vizio in questione deve non solo avere reso illegittimo l’atto, ma anche avere leso un altro valore superiore tutelato dall’ordinamento. Tradizionalmente, l’interesse in re ipsa è stato ravvisato (lo fa anche questa decisione) nella necessità di non recare un aggravio alle finanze pubbliche. Questo altro non è che la esigenza di evitare e sanare un possibile danno erariale (4). Ma come l’evitamento del danno erariale, così anche il danno in generale, recato a terzi, deve essere giudicato un valore tale da giustificare l’autotutela, più che in re ipsa, con una motivazione sintetica che tale valore richiami. Andell’amministrazione vincolata, tanto nell’an quanto nei modi di esercizio. In tali casi, infatti, l’individuazione dell’interesse pubblico ed il modo di soddisfarlo sono predeterminati dalla legge e il vizio del provvedimento si risolve nel dar vita ad effetti contrastanti con la disciplina giuridica dettata dalla norma”. Le tradizionali ipotesi di annullamento doveroso “sono quelle dell’ottemperanza ad una decisione del Giudice ordinario passata in giudicato in cui un atto amministrativo sia stato ritenuto illegittimo … ; della decisione negativa di un’autorità di controllo cui non competa direttamente il potere di annullamento; dell’annullamento di un atto consequenziale come necessaria conseguenza dell’annullamento (giurisdizionale o amministrativo) dell’atto presupposto”. Oltre alle ipotesi ora esposte, la giurisprudenza più recente ha individuato ulteriori ipotesi di interesse pubblico in re ipsa. Ad esempio, si ritiene non necessaria la verifica dell’esistenza di un interesse pubblico “qualora non sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento”. (F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, 2010, DIKE Giuridica Editrice, p. 1305). (4) E’ sufficiente al riguardo richiamare quella giurisprudenza che considera che l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo “è in re ipsa e non richiede specifica motivazione, in quanto l’atto oggetto di autotutela produce un danno per l’amministrazione consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo … Né rileva il tempo trascorso dalla sua emanazione”. (Consiglio di Stato, sez. V, 31 dicembre 2008, n. 6735, in De Jure). In altre parole, “non è necessaria una diffusa motivazione sulla sussistenza del c.d. interesse pubblico attuale a disporre l’annullamento (in quanto esso sussiste in re ipsa), né rileva il tempo decorso dalla sua emanazione, quando l’atto illegittimo abbia conseguenze permanenti e perduranti e comporti l’esborso di denaro pubblico senza titolo … quando vi è una situazione attualmente contra jus, può essere senz’altro emanato il provvedimento che ripristina la legalità”. (Consiglio di Stato, sez. V, 24 febbraio 1996, n. 232, in Consiglio di Stato, 1996, I, p. 245). Il buon andamento della pubblica amministrazione, secondo l’orientamento, assolutamente univoco, della giurisprudenza amministrativa, infatti, viene considerato come “ principio di corretta amministrazione delle risorse finanziarie pubbliche; principio, che ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, dev’essere immanente alla gestione della funzione pubblica”. Invero, da un lato, la citata norma costituzionale affida alla legge il compito di organizzare i pubblici uffici, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro, l’art. 1 della L. 241/1990, stabilendo che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge, rinviene nei criteri di economicità, efficacia e pubblicità, le basi su cui tale attività deve reggersi. Dal testo delle richiamate norme è dunque possibile affermare che, sul versante dell’interesse pubblico, il compito della legge sia quello di “assicurare, nella disciplina dell’attività pubblica, che questa sia tempestiva, equilibrata nei costi e capace di raggiungere i fini cui tende”. Essendo l’attività della P.A. volta alla concreta cura dell’interesse collettivo, infatti, diviene essenziale il rispetto dell’economicità della sua azione, al fine di conseguire un “risultato positivo in termini di costi e benefici”. (F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., pp. 1305 – 1306). 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 cora: tale è stata giudicata l’illegittimità, che, violando anche il diritto comunitario, esponga lo Stato a una responsabilità. Più in generale, potrebbe includersi nell’elenco ogni violazione del diritto internazionale (5). E, nel caso di specie, la motivazione aggiunge che l’interesse pubblico derivava anche dal fatto che l’atto annullato aveva privato altra Amministrazione delle proprie attribuzioni, id est l’Avvocatura dello Stato del patrocinio, altrimenti istituzionale e obbligatorio, dello Stato. Quindi anche l’alterazione delle competenze di altra Amministrazione è una gross violation che giustifica, con motivazione sommaria (in re ipsa) l’autotutela. Il consiglio non affronta poi, l’elemento dell’interesse dei soggetti coinvolti dal procedimento. Premesso che è corretto omettere, in caso di gross violation, una comparazione dei due interessi, pubblico e privato, prevalendo il primo, l’art. 21 nonies ha il torto di avere (apparentemente) eliminato dal quadro dei presupposti dell’autotutela il legittimo affidamento, che non è dato semplicemente dalla somma tra il tempo occorso e la sussistenza di un interesse, di una pretesa a un bene della vita (qui: un appalto da 2,7 milioni di euro), ma implica la buona fede, che, essendo esclusa dalla colpa grave, come (5) Circa la violazione del diritto comunitario, è utile segnalare che un orientamento giurisprudenziale e dottrinario sostiene la doverosità per l’Amministrazione dell’intervento in autotutela laddove ciò sia reso necessario dal contrasto con le norme comunitarie. L’acclarata supremazia del diritto comunitario, del resto, vincola direttamente non solo lo Stato che non abbia recepito e applicato la norma nell’ordinamento interno ma anche la pubblica amministrazione. Un diverso orientamento, invece, ritiene che l’annullamento in autotutela debba essere sempre subordinato alla concreta verifica della sussistenza di un interesse pubblico. (F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 1308). A sostegno di quest’ultimo assunto è stato puntualizzato che “per quanto concerne l'annullamento d'ufficio, l'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha indicato quali presupposti per l'esercizio di tale potere, oltre all'accertamento dell'originaria illegittimità dell'atto, la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico, il decorso di un termine ragionevole (e quindi non eccessivamente lungo) e la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Tali principi non vengono derogati quando il vizio di illegittimità del provvedimento da rimuovere consiste nella violazione del diritto comunitario (cfr. C.d.S., sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023 e 4 A. 2008, n. 1414). Infatti, anche nell'ordinamento comunitario, la sola illegittimità dell'atto non è elemento sufficiente per giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti tra cui quello del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo. Secondo la Corte di Giustizia, la revoca di un atto illegittimo è consentita entro un termine ragionevole e se la Commissione ha adeguatamente tenuto conto della misura in cui il privato ha p-tuto eventualmente fare affidamento sulla legittimità dell'atto (Corte Giust. CE 26 febbraio 1987 - C-15/85). Anche con la sentenza Künhe … il giudice comunitario, pur affermando che il giudicato formatosi su una interpretazione ritenuta poi non conforme al diritto comunitario dalla stessa Corte di Giustizia non costituisce un limite all'esercizio dei poteri di autotutela, ha ribadito che il diritto comunitario non esige, in linea di principio, che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquistato carattere definitivo, in quanto la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini ragionevoli di ricorso o in seguito all'esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza (Corte di Giustizia, 13 gennaio 2004 - C-453/00)”. ( Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 21 aprile 2010, n. 553, in De Jure; conforme Consiglio di Stato, 4 aprile 2008, n. 1414, in De Jure). TEMI ISTITUZIONALI 43 il Consiglio afferma di seguito sul capo del risarcimento danni, nel caso di specie non sussiste. Sotto il profilo civilistico, è pienamente condiviso, con affermazione esplicita della colpa professionale dei concorrenti, l’argomento dell’appello che in concreto i ricorrenti, dovendo conoscere l’esistenza dell’Avvocatura dello Stato, non potessero vantare alcun affidamento, ma anche, in astratto, che l’ignoranza delle norme imperative non può essere opposta né invocata da alcuno; ergo, in caso di violazione di una norma imperativa, nessuno è in buona fede, dovendola conoscere, e quindi non spetta il risarcimento ex 1337 c.c. (6). Del resto i contraenti, se concludessero il contratto, incorrerebbero in una nullità ex art. 1418 c.c., dunque i medesimi, quale che sia lo stato delle trattative, e pure in presenza di ipotetico preliminare, dovrebbero astenersi dal compiere atto inutile e contrario all’ordinamento; nelle gare pubbliche questo comporta l’obbligo di annullare gli atti di gara. L’art. 1 Rd 1611/33 è quindi una norma imperativa, che, se, violata, sul piano negoziale comporta la nullità (art. 1418 c.c.) del contratto che vi deroghi. Le norme imperative, come è noto, non devono contenere una testuale san- (6) Al riguardo, il Consiglio di Stato si è conformato all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale espresso dalle Sez. Un., 11 febbraio 1982, n. 835, alla stregua del quale “non può configurarsi responsabilità per colpa in contraendo, quando la causa di invalidità del negozio, ancorché nota a uno dei contraenti e da questi taciuta, derivi da una norma di legge che, per presunzione assoluta, deve essere nota alla genericità dei sottoposti all’ordinamento giuridico”. (Sez. Un., 11 febbraio 1982, n. 835 in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, 1982, I, p. 501; conforme Cass., Sez. I, 29 luglio 1987, n. 6545, in Rivista trimestrale degli appalti, I, p. 231). Più di recente, e con maggior precisione, la Suprema Corte ha statuito che “se la causa di invalidità del negozio deriva da una norma imperativa o proibitiva di legge, o da altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, tali cioè da dover essere note per presunzione assoluta alla generalità dei cittadini e, comunque, tali che la loro ignoranza bene avrebbe potuto e dovuto essere superata attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa precontrattuale a carico dell’altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l’esistenza delle norme stesse”. (Corte di Cassazione, sez. III, 26 giugno 1998, n. 6337, in Giustizia civile, 1998, I, p. 2773). E’ bene rilevare, inoltre, che la pronuncia in esame supera le critiche mosse dalla dottrina secondo cui l’automatica qualificazione dell’ignorantia legis in termini di colpa, quale criterio generale ed assoluto sul quale fondare l’assenza della responsabilità precontrattuale, escluderebbe “la possibilità di dar spazio ad un giudizio concreto, così ritenendo inammissibile distinguere di volta in volta fra norma e norma (al fine di valutarne in concreto il grado di conoscibilità), fra contraente e contraente (al fine di determinare caso per caso il grado di esperienza e, correlativamente, l’intensità dell’onere di diligenza a suo carico), fra situazione e situazione (onde poter tenere conto delle più imprevedibili circostanze di fatto)”. (G. SAPIO, Ignorantia legis e responsabilità precontrattuale, in Giustizia civile, 1998, I, p. 2774; in conformità a tale orientamento, Trib. Pescara 4 marzo 1978, in Riv. dir. comm., 1982, II, p. 233 e Trib. Roma 14 maggio 1980, in Temi rom., 1980, p. 531). Il Consiglio di Stato, infatti, alle considerazioni sulla rilevanza in sé delle norme imperative aggiunge, attraverso l’analisi del caso concreto, che “nella specie proprio la qualità dei professionisti coinvolti avrebbe dovuto da subito far loro constatare la manifesta illegittimità della iniziale determinazione dell’Amministrazione: ciò evidenzia non solo la mancanza di un legittimo affidamento, ma anche la loro colpa professionale, dal momento che rientra – o deve rientrare – nel bagaglio di comune conoscenza degli avvocati la regola per cui le Amministrazioni statali si avvalgono e si devono avvalere del patrocinio della Avvocatura dello Stato”. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 zione di nullità (cfr Cass. 3272/01, inter plurimas); la nullità in questo caso definita virtuale, dipende dalla circostanza che la norma persegua un interesse pubblico che trascenda i contingenti interessi delle parti del contratto (7). Tale evidentemente, non può non essere la norma in esame che categoricamente dispone che “la rappresentanza , l’assistenza e la difesa in giudizio delle Amministrazioni dello Stato … spettano all’Avvocatura dello Stato’’ e che è seguita dalla norma dell’art. 5 che categoricamente dispone “Nessuna Amministrazione dello Stato può richiedere l’assistenza di avvocati del libero foro”. Ciò, per le ragioni supra compendiate: risparmio di spesa, unitarietà degli indirizzi di difesa, determinati dall’Avvocato generale (art. 15 RD 1611/33). Tali interessi trascendono quelli delle singole Amministrazioni, che non possono rinunziare a questa unitaria funzione né privare delle sue competenze l’Avvocatura, che, non a caso, essendo organo dello Stato e non delle singole Amministrazioni, dipende dalla presidenza del Consiglio (art. 17, RD 1611/33). Una sentenza, che oltre a difendere l’unitarietà della difesa dello Stato, esprime principi degni di approfondimento in diritto civile e amministrativo. Avv. Roberto de Felice* (7) In presenza di un contratto contrario a norme imperative, “la mancanza di una espressa sanzione di nullità dell’atto negoziale, in conflitto con il divieto, non è rilevante ai fini della nullità”, in quanto vi sopperisce il combinato disposto dai commi 1 e 3 dell’art. 1418 c.c., “che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi assoluti non si accompagna una previsione di nullità. (Cass. n. 6691 del 1987; n. 6601 del 1982; n. 5311 del 1979; n. 1901 del 1977)”. (Cass., Sez. I, 7 marzo 2001, n. 3272, in Giustizia civile, 2001, I, p. 2111). (*) Avvocato dello Stato. TEMI ISTITUZIONALI 45 Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 3 febbraio 2011 n. 780 - Pres. Maruotti, Rel. Buonvino - Ministero delle Politiche Agricole, Agrarie e Forestali (avv. Stato R. de Felice) c. Studio legale A (avv. prof. F. G. Scoca) e Studio Legale B (avv. M. Sanino) - Riforma parzialmente Tar Lazio Sez. II ter, 6527/09. Appalti pubblici - Appalti di servizi - Servizi legali - Consulenza - Possibile ricorso agli Organi Consultivi dell’Amministrazione Appaltante e dello Stato - Deroga - Stringente motivazione - Necessità L’amministrazione dello Stato che pubblichi il bando di gara relativo all’appalto di servizi legali di consulenza, per una serie indeterminata di casi, a privati, violando la competenza dell’Avvocatura generale dello Stato e degli altri Organi consultivi dello Stato, deve puntualmente motivare sulle necessità di tale deroga, in difetto, deve annullare d’ufficio il bando e i successivi atti della procedura (L. 7 agosto 1990 n. 241 art. 3) Appalti pubblici - Appalti di servizi - Servizi legali - Riservati all’Avvocatura generale dello Stato - Annullamento d’ufficio del bando - Doverosa osservanza di obbligo inderogabile di legge - Giustificazione di un interesse pubblico diverso dal ripristino della legalità - Immanenza L’amministrazione dello Stato che annulli d’ufficio il bando di gara relativo al non consentito - da norma imperativa - appalto di servizi legali comprensivi dell’assistenza legale, per una serie indeterminata di casi, a privati, violando la competenza dell’Avvocatura generale dello Stato - non è tenuta a motivare sull’interesse pubblico, diverso da quello del mero ripristino della legalità, soddisfatto dall’atto, trattandosi di doverosa osservanza di un obbligo inderogabile di legge (L. 7 agosto 1990 n. 241 art. 21 nonies; Rd 30 ottobre 1933 n. 1611 art. 1) Appalti pubblici - Appalti di servizi - Servizi legali - Riservati all’Avvocatura generale dello Stato - Annullamento d’ufficio del bando - Responsabilità precontrattuale della PA - Non sussiste L’amministrazione dello Stato che annulli d’ufficio il bando di gara relativo al non consentito - da norma imperativa - appalto di servizi legali comprensivi dell’assistenza legale, per una serie indeterminata di casi, a privati, violando la competenza dell’Avvocatura generale dello Stato - non è tenuta ad alcun risarcimento ai concorrenti aggiudicatari, poiché questi non possono vantare alcun affidamento, dovendo essere loro nota tale norma imperativa sia come consociati sia nella loro qualità di studi legali associati (c.c., artt. 1337, 1338) (Omissis) FATTO e DIRITTO 1. Con la sentenza impugnata il TAR, previa riunione dei ricorsi nn. (...) e (...), ha dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo n. (...), ha respinto i relativi motivi aggiunti unitamente al ricorso n. (...) ed ha accolto la domanda di risarcimento del danno formulata in primo grado, 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 con cui è stata dedotta la sussistenza di una responsabilità precontrattuale del Ministero delle Politiche agricole, condannando l’Amministrazione al pagamento di 30.000 euro, in favore di ciascuna associazione temporanea, ricorrente in primo grado. 2. Con il ricorso introduttivo n. (...), in particolare, proposto dallo studio legale (A), in proprio e nella qualità di mandataria dell’ATI con lo studio legale (A1), è stato chiesto l’annullamento) del provvedimento n. 004439 del 4 agosto 2008 con cui il Ministero intimato ha revocato l’aggiudicazione della gara per la fornitura di servizi legali relativi alla protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche, con rifusione dei danni asseritamente patiti; con i relativi motivi aggiunti è stato chiesto l’annullamento del decreto n. 9698 del 27 novembre 2008 con cui il Capo del Dipartimento delle Politiche di sviluppo economico e rurale del Ministero intimato ha revocato, in via di autotutela, il bando di gara per la fornitura di servizi legali relativi alla protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche pubblicato sulla GUCE in data 17 febbraio 2007 e sulla GURI (Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana) del 2 marzo 2007. Con il ricorso n. (...), lo studio legale (B), in proprio e nella qualità di mandataria dell’ATI con lo studio legale (B1) e lo studio legale (B2) (in seguito: (B)), ha chiesto l’annullamento dell’anzidetto decreto n. 9698 del 27 novembre 2008, di tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali ed, in particolare, del parere dell’Avvocatura dello Stato n. 119799 del 15 ottobre 2008, oltre alla condanna del Ministero al risarcimento dei danni. Con bando pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana del 2 marzo 2007, il Ministero resistente (Dipartimento delle Politiche di sviluppo economico e rurale) aveva indetto una gara avente ad oggetto la fornitura (per la durata di un triennio e per un importo a base d’asta di euro 2.700.000,00) “dei servizi legali comprensivi di quelli di assistenza nelle procedure contenziose, relativi alla protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche in Italia, in Europa e nel mondo” (art. 1 del capitolato d’oneri), rivolta agli studi legali associati con le caratteristiche indicate nell’art. 5 del predetto capitolato (in particolare, erano ammessi a partecipare studi legali con un numero di associati, iscritti all’albo degli avvocati, non inferiore a venti alla data di pubblicazione del bando sulla GUCE, ovvero il 17 febbraio 2007). In un primo momento (30 maggio 2008), la gara era stata aggiudicata all’ATI ricorrente (ATI (A)), ma, in seguito alle verifiche sul possesso dei requisiti previsti dal art. 5 del capitolato d’oneri (ovvero il numero di associati, iscritti all’albo degli avvocati, non inferiore a venti alla data di pubblicazione del bando sulla GUCE), il Ministero aveva revocato, con provvedimento n. 4439 del 4 agosto 2008, l’affidamento in favore dell’ATI (A) ed aggiudicato il servizio alla seconda classificata, l’ATI (B). In particolare, l’amministrazione resistente aveva ritenuto che la documentazione presentata, in sede di verifica, dall’ATI (A) non fosse sufficiente a provare il possesso, alla data di pubblicazione del bando sulla GUCE (17 febbraio 2007), del requisito previsto dal citato art. 5 del capitolato d’oneri, relativo al numero minimo di associati (venti) iscritti all’albo degli avvocati. Di tale atto l'ATI (A) ha chiesto l'annullamento ed, in via subordinata, la condanna del Ministero al risarcimento dei danni. A seguito dell’acquisizione, da parte del Ministero, del parere 15 ottobre 2008 dell’Avvocatura Generale dello Stato (con cui, dopo aver chiarito che la decisione di affidare il servizio di che trattasi a studi legali non rispettava l’art. 1 del R.D. n. 1611/1933, ha proposto allo stesso Dicastero di procedere alla revoca, in autotutela, del bando di gara), il Ministero stesso, con de- TEMI ISTITUZIONALI 47 creto n. 9608 del 27 novembre 2008, ha revocato il bando di gara in argomento; provvedimento, questo, impugnato dall’ATI studio legale (A) con motivi aggiunti depositati in giudizio il 20 febbraio 2009. Con il ricorso RG n. 1236/2009, l’ATI studio legale (B) ha chiesto, a sua volta, l’annullamento del decreto n. 9698 del 27 novembre 2008 di revoca del bando di gara di che trattasi e, in via subordinata, ha chiesto la condanna del Ministero al risarcimento dei danni. 3. I primi giudici, riuniti i ricorsi per motivi di connessione, hanno ritenuto opportuno anticipare l’esame dei motivi aggiunti al ricorso n. 9038/2008 e del ricorso n. 1236/2009, avendo il loro esito effetti sulla pronuncia da adottare con riferimento al ricorso introduttivo del giudizio RG n. 9038/2008. Al riguardo, il TAR ha ritenuto legittimo l’annullamento operato dall’Amministrazione in via di autotutela. Quanto alla pretese risarcitorie, il TAR: - ha respinto quelle avanzate dalle ATI interessate in ragione della mancata aggiudicazione della gara di che trattasi, ciò in ragione del fatto che il provvedimento di revoca (recte: annullamento) del bando non era risultato inficiato dai vizi dedotti, con il conseguente automatico travolgimento degli atti di aggiudicazione in favore, prima, dell’ATI (A) e, poi, dell’ATI (B); - ha invece ritenuto sussistente la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, atteso che, da un lato, le trattative fra le parti erano state interrotte dall’annullamento in autotutela dell’intera procedura selettiva e, dall’altro, erano intercorsi 21 mesi dall’indizione della gara all’adozione del decreto che ha posto nel nulla l’intera procedura per ragioni idonee – come, in precedenza, precisato – alle quali, attesa la chiarezza preclusiva del dato normativo, non poteva neppure ostare il fatto che, in precedenza, lo stesso Dicastero aveva affidato, mediante gara, servizi similari; avendo, quindi, la P.A. posto in essere comportamenti che non salvaguardavano l'affidamento della controparte in modo da “sorprendere” la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa doveva risponderne per responsabilità precontrattuale ai sensi dell'art. 1337 cod. civ. ed il danno doveva essere risarcito nei limiti dell’interesse negativo (ovvero le spese di partecipazione alla procedura e la perdita di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti). Ciò posto, il primo giudice ha precisato che le ATI interessate nulla avevano provato con riferimento alla seconda voce di danno (ovvero la perdita di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti) tanto che, in questa parte, la richiesta di risarcimento andava dichiarata inammissibile per mancanza di prova; quanto, invece, alle spese di partecipazione, il Tribunale ha ritenuto di dover ricorrere alla valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. anche con riferimento alla richiesta dell’ATI (B) che (nel quantificare la propria richiesta per un importo di circa 127.000,00 euro) si era limitata a quantificare, in via generale, un numero di ore per ogni singolo avvocato coinvolto nella procedura selettiva senza, tuttavia, produrre alcuna documentazione giustificativa a corredo. In conclusione, il TAR ha stimato equo liquidare, in favore dell’ATI (A) e dell’ATI (B), la somma di euro 30.000,00 (per ciascuno dei raggruppamenti), con l’aggiunta degli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza fino all’effettivo soddisfo. 4. Avverso la sentenza propone appello, con due distinti ricorsi (identici, peraltro, nel contenuto), il Ministero delle Politiche agricole; il primo di essi (n. 8535/2009), notificato il 9 ottobre 2009, è stato depositato il successivo 27 ottobre; il secondo (n. 9283/2009) è stato notificato il 9 novembre 2009 e depositato il successivo 19 novembre. Ad avviso della Amministrazione appellante, poiché l’ATI Grieco non sarebbe risultata esi- 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 stente, non avrebbe potuto presentare offerte e non avrebbe potuto conseguire, quindi, alcun risarcimento; inoltre, poiché sia l’ATI (A) che l’ATI (B) erano espressione di qualificati professionisti, non avrebbero potuto non rendersi conto della invalidità del bando, con la conseguente riforma della sentenza appellata nella parte in cui ha riconosciuto il diritto di entrambe le associazioni di professionisti al risarcimento del danno. 5. In entrambi gli appelli svolgono gravame incidentale l’ATI (A) da un lato e l’ATI (B) dall’altro. La prima – con l’appello incidentale svolto nel ricorso n. 8535/2009 - eccepisce, anzitutto, la tardività del deposito del primo dei citati appelli; ad ogni buon conto, deduce, nel merito, l’erroneità della sentenza appellata sia per ciò che attiene ai profili di merito (laddove è stato riconosciuto legittimo l’annullamento della gara) che a quelli risarcitori ed insistendo, altresì (una volta riconosciuta la piena validità dell’indizione della gara), per l’accoglimento delle censure, non esaminate dal TAR, con le quali era stata dedotta l’illegittimità della revoca dell’aggiudicazione definitiva disposta in suo favore, in quanto non sarebbero sussistiti i presupposti per procedere in tal senso. Censure di merito analoghe, con la riproposizione, anche in questo caso, dei motivi non esaminati dai primi giudici, vengono svolte in seno al gravame incidentale proposto dall’ATI (A) nell’appello n. 9283/2009. L’ATI (B), a sua volta, con appello incidentale svolto nel ricorso n. 8535/2009, censura la sentenza impugnata, anzitutto, per vizio di ultrapetizione, poiché essa avrebbe affrontato una tematica (quella dell’affidamento, agli avvocati del foro libero, anche dell’attività di consulenza stragiudiziale) del tutto assente, si assume, nell’atto impugnato e nelle stesse difese in giudizio; donde l’erroneità della sentenza laddove basata su considerazioni legate direttamente all’attività stragiudiziale, con la conseguenza che l’annullamento legato ai soli aspetti inerenti all’attività giudiziale avrebbe consentito all’Amministrazione di revocare la procedura limitatamente alla sola attività giudiziale o, in ogni caso, di esperire una nuova procedura avente ad oggetto la sola attività stragiudiziale. Sempre l’ATI (B) deduce, poi, l’erroneità della sentenza laddove non ha ravvisato l’illegittimità del provvedimento di annullamento della procedura in assenza di un concreto interesse pubblico in tal senso atto a giustificarne l’adozione, in un momento in cui era già da tempo seguita la definitiva aggiudicazione, non essendo sufficiente il richiamo al semplice scopo del ripristino della legalità, né gli aspetti legati all’esborso di denaro pubblico, questo essendo dovuto, principalmente, al solo espletamento della preponderante attività stragiudiziale di cui si assume la piena legittimità anche se affidata a studi legali privati. Anche con riguardo all’attività contenziosa, ad ogni buon conto, la sentenza sarebbe erronea e formalistica in quanto, dall’esame del capitolato speciale e dell’offerta concretamente formalizzata dalla deducente, sarebbero emerse chiaramente le ragioni particolari giustificative (anche ai sensi dell’art. 5 del r.d. n. 1611/1933) dell’operata deroga, anche perché, nell’insieme, l’attività di carattere contenzioso in parola sarebbe stata marginale, aleatoria e del tutto indeterminata; quanto, poi, all’attività stragiudiziale, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, non esisterebbe, nel nostro ordinamento, alcuna disciplina normativa in grado di escluderne l’affidamento a qualificati professionisti, conferma piena in tal senso dovendo, del resto, rinvenirsi nell’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 e nell’allegato IIB del d.lgs. n. 163/2006. Contrariamente, poi, a quanto ritenuto dai primi giudici, nella specie sarebbe stato, a tutto concedere, anche possibile operare, in via di subordine, l’annullamento solo parziale della gara, distinguendo tra attività stragiudiziale e giudiziale ed espungendo dall’affidamento in base a TEMI ISTITUZIONALI 49 gara solo quest’ultima, non essendo neppure ipotizzabili impedimenti in tal senso, tanto più, si assume, nella considerazione dell’assoluta modestia dell’attività contenziosa stessa. Quanto, infine, al risarcimento del danno, l’ATI (B) insiste, tenuto conto della fondatezza dell’appello incidentale, per il pieno accoglimento delle domande avanzate in primo grado, ovvero, nell’ipotesi di rigetto, per la condanna dell’Amministrazione alle somme richieste in primo grado che si assumono pienamente documentate, salvo, all’occorrenza, l’esperimento, se ritenuto necessario, di un’apposita CTU. Censure analoghe svolge l’ATI (B) nel gravame incidentale dalla medesima proposto in seno all’appello n. 9283/2009; con memoria unica ribadisce, poi, i propri assunti difensivi. 6. (...) Nel merito, risulta fondato l’appello principale del Ministero, mentre gli appelli incidentali autonomi svolti, in seno ad entrambi gli appelli, dall’ATI (A) (in disparte quanto potrebbe osservarsi in merito alla loro tempestività), unitamente a quelli svolti dall’ATI (B), sono infondati. 7. Rileva la Sezione che oggetto della gara era “la fornitura dei servizi legali comprensivi di quelli di assistenza nelle procedure contenziose, relativi alla protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche in Italia, in Europa e nel mondo” (punto II.1.5 del bando di gara e art. 1 del capitolato d’oneri). Poiché nessun’altra specificazione era contenuta nel bando con riferimento all’oggetto, ne conseguiva che l’appalto riguardava sia la consulenza stragiudiziale in materia di (omissis), che la correlata difesa in giudizio innanzi agli organi giurisdizionali. Non può pertanto condividersi l’assunto secondo cui l’attività contenziosa avrebbe assunto carattere meramente residuale rispetto alla prevalente attività stragiudiziale, ciò non emergendo affatto dalla lex specialis della gara che poneva le due forme di attività legale sullo stesso piano, con la conseguente inconfigurabilità di un preventivo giudizio di prevalenza; del resto, l’attività di consulenza stragiudiziale sfocia spesso, secondo comuni canoni d’esperienza, nell’avvio di attività precontenziosa e contenziosa, costituendo, in effetti, di sovente due facce della stessa medaglia, l’una essendo il più delle volte intimamente legata all’altra. In punto di fatto, poi, negli stessi progetti offerta formulati dalle ATI appellanti incidentali figurano (in particolare, e tra gli altri, punti 2 e 5 dell’offerta dell’ATI (A) e n. 3, lett. A, pagg. 15/17, dell’offerta dell’ATI (B)) significative quanto centrali attività contenziose, collocate sullo stesso piano di quelle di consulenza legale e in sinergia con queste, in un rapporto spesso indissolubile. Come hanno rilevato correttamente i primi giudici per tale profilo, del resto, neppure poteva assumere carattere dirimente il fatto che l’attività di assistenza giudiziale sarebbe stata svolta a sostegno dei consorzi di tutela, poiché ciò che rilevava era che il bando di gara non solo non escludeva che la difesa in giudizio sarebbe stata svolta anche in favore dello stesso Ministero resistente, ma era stato predisposto utilizzando risorse economiche del bilancio statale, assegnate alla medesima amministrazione. Ciò premesso, non può convenirsi, con le ATI appellanti, nel ritenere erronea la sentenza per ciò che attiene, anzitutto, alla ritenuta insussistenza delle ragioni particolari che, ai sensi dell’art. 5 del r.d. n. 1611/1933, potrebbero giustificare l’eccezionale deroga ivi prevista (peraltro limitata a casi delimitati e non di certo limitativi delle attività istituzionalmente spettanti all’Avvocatura dello Stato). La deroga, in ogni caso, avrebbe dovuto essere debitamente esternata e puntualmente motivata sulla accertata ed irrisolvibile impossibilità della Avvocatura dello Stato di svolgere tempestivamente i suoi compiti istituzionali, anche tenuto conto dei verosimili, correlati aggravi di bi- 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 lancio; né la deroga poteva certamente emergere dai semplici contenuti dell’offerta, quella derogatoria costituendo necessariamente valutazione preventiva rispetto all’indizione della gara che non può certamente trovare implicita giustificazione nei contenuti delle offerte presentate dai concorrenti e, in particolare, nel semplicemente asserito carattere marginale che l’assistenza contenziosa avrebbe, in ipotesi, assunto in seno alle offerte concretamente avanzate. 8. Quanto all’attività stragiudiziale, deduce l’ATI (B) che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, non esisterebbe, nel nostro ordinamento, alcuna disciplina normativa in grado di escluderne l’affidamento a qualificati professionisti, conferma piena in tal senso dovendo, invero, rinvenirsi nell’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 e nell’allegato IIB del d.lgs. n. 163/2006; e che, sul punto, i primi giudici sarebbero andati persino ultra petita, essendo rimasta del tutto assente, si assume, nell’atto impugnato e nelle difese del Ministero la tematica afferente all’affidamento, agli avvocati del foro libero, anche dell’attività di consulenza stragiudiziale; donde l’erroneità della sentenza laddove basata su considerazioni legate direttamente all’attività stragiudiziale, con la conseguenza che l’annullamento legato ai soli aspetti inerenti all’attività giudiziale avrebbe consentito all’Amministrazione di revocare la procedura limitatamente alla sola attività giudiziale o, in ogni caso, di esperire una nuova procedura avente ad oggetto la sola attività stragiudiziale. Ritiene la Sezione che anche tali doglianze non appaiono condivisibili, dal momento che la sentenza impugnata va interpretata nel senso che l’attività stragiudiziale possa essere anche conferita a terzi mediante procedura concorsuale o para concorsuale, ma previa esternazione delle ragioni che inducono ad una scelta siffatta. In particolare, hanno rilevato, i primi giudici, che, pur non essendo rinvenibile una norma espressa nel r.d. n. 1611/1933 atta ad imporre il patrocinio obbligatorio all’Avvocatura dello Stato, non di meno era dato ritenere la sussistenza, nell’ordinamento, di una serie di norme idonee a consentire alle amministrazioni statali, prima di rivolgersi al “mercato” dei servizi legali, di avvalersi di organismi istituzionali che, anche per la loro autorevolezza, sono preposti – tra l’altro - ad affiancarle nella soluzione di questioni controverse, attraverso la formulazione di appositi pareri e, in particolare, alla stessa Avvocatura dello Stato o al Consiglio di Stato in sede consultiva; con l’aggiunta che l’art. 7, comma 6, del d.lgs n. 165/2001 prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche, “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, (di) conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria…”, che peraltro devono essere affidati attraverso procedure comparative disciplinate secondo i rispettivi ordinamenti (cit. art. 7 comma 6 bis). Ebbene, appare evidente che il TAR si è correttamente limitato a ribadire la sussistenza, nell’ordinamento, di un ordinario onere di puntuale motivazione in presenza di scelte, da parte dell’Amministrazione, in grado di incidere potenzialmente sul bilancio pubblico, scegliendo la strada della collaborazione – pur in presenza di appositi organi deputati, come in particolare, nel caso delle amministrazioni statali, a fornire tale supporto di consultazione – degli apporti di liberi professionisti; ciò, evidentemente, per escludere la possibilità stessa per cui, una volta scartata la possibilità di affidare, mediante concorso, incarichi di natura contenziosa, potesse, non di meno, direttamente ridursi l’ambito della gara alla sola attività professionale stragiudiziale senza previa, motivata indizione di una nuova gara circoscritta alla sola attività stragiudiziale ora detta. Ques’ultima possibilità era ed è logicamente da escludersi anche in considerazione della necessaria concatenazione che, nell’ottica concorsuale in esame, i due tipi di attività erano ine- TEMI ISTITUZIONALI 51 vitabilmente destinati ad assumere. Né, del resto, la riduzione dell’oggetto concorsuale potrebbe essere rimessa al giudice amministrativo, competendo alla sola amministrazione ogni valutazione discrezionale al riguardo. D’altra parte, non v’è alcun dubbio sulla manifesta illegittimità degli originari atti con cui l’Amministrazione aveva attivato e fatto proseguire il procedimento, per la scelta di professionisti che avrebbero dovuto svolgere l’attività istituzionalmente svolta dalla Avvocatura dello Stato (sicché il decreto n. 9608 del 27 novembre 2008 con evidenza va qualificato come di annullamento dei precedenti atti, e non certo quale revoca). Il citato testo unico n. 1611 del 1933, infatti, consente alle Amministrazioni statali di designare un professionista del libero foro solo nei casi previsti dalla legge e preclude radicalmente che la medesima attività – in luogo dell’Avvocatura dello Stato - sia svolta da liberi professionisti con oneri a carico dello Stato. 9. Neppure appare condivisibile, poi, la censura secondo cui la sentenza impugnata sarebbe erronea laddove non ha ravvisato l’illegittimità del provvedimento di annullamento della procedura, perché sarebbe mancato un concreto interesse pubblico in tal senso atto a giustificarne l’adozione, in un momento in cui era già da tempo seguita la definitiva aggiudicazione (non essendo sufficiente il richiamo al semplice scopo del ripristino della legalità, né gli aspetti legati all’esborso di denaro pubblico, questo essendo dovuto, principalmente, al solo espletamento della preponderante attività stragiudiziale di cui si assume la piena legittimità anche se affidata a studi legali privati). Non si tratta, infatti, nella specie, di semplice ripristino della legalità con un atto meramente discrezionale, ma di doverosa osservanza di un obbligo inderogabile di legge, oltre che di rispetto delle funzioni legalmente svolte dalla Avvocatura dello Stato (che neppure potrebbe rinunziarvi), cui si ricollegano anche rilevanti problemi di spesa pubblica; con la conseguenza che deve ritenersi in re ipsa l’interesse alla rimozione del provvedimento illegittimo di indizione della gara. Quanto al fatto che, secondo l’assunto dell’appellante incidentale, i profili di spesa sarebbero minimali in considerazione dell’assolutamente preponderante attività stragiudiziale, a parte la considerazione che la legge conferisce alla Avvocatura dello Stato anche ogni attività di supporto ai Ministeri, già sopra si è rilevato che un apprezzamento al riguardo sarebbe potuto competere solo all’Amministrazione. 10. In base alle deduzioni proposte dalle ATI appellanti incidentali in via subordinata, la sentenza sarebbe erronea, ad ogni buon conto, nella parte in cui limita a soli € 30.000,00 l’entità risarcitoria. Quanto a tali domande delle appellanti incidentali, volte a far quantificare il danno da responsabilità precontrattuale in misura superiore a quella liquidata dal TAR, osserva il Collegio che assume carattere preliminare l’esame dell’appello (n. 9283/2009) proposto dal Ministero delle politiche agricole circa l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto fondate le pretese risarcitorie delle originarie ricorrenti, sia pure nel limite dell’interesse negativo. 11. Ritiene la Sezione che l’appello principale del Ministero sia fondato e vada accolto. 11.1. Va premesso che, per la pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione (consolidatasi per le controversie devolute ratione temporis al giudice civile): non si può ritenere accoglibile una domanda volta al risarcimento del danno derivante da responsabilità precontrattuale, quando il contratto non sia stato stipulato, perché una delle parti – anche in extremis – rileva che la stipula comporterebbe la violazione di norme imperative (per tutte, Sez. Un., 11 febbraio 1982, n. 835; Sez. Un., 14 marzo 1985, n. 1987); 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 - l’Amministrazione pubblica, quando abbia posto in essere trattative per addivenire alla stipula di un contratto da concludere a seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, può senz’altro recedere dalle trattative senza incorrere in alcuna responsabilità (Sez. I, 29 luglio 1987, n. 6545), non potendosi anche in tal caso ravvisare un ‘ragionevole affidamento’, giuridicamente tutelato, alla relativa stipula. La Sezione rileva che tali orientamenti, a loro volta, sono espressione di un più generale principio generale, per il quale l’Amministrazione deve sempre evitare di concludere un contratto contrastante con norme imperative e cioè: - deve interrompere la trattativa privata avviata quando sia prescritta la gara ad evidenza pubblica; - deve annullare gli atti della gara ad evidenza pubblica, se il previsto contratto di per sé risulta in contrasto con una norma imperativa. Infatti, l’ordinamento da un lato apprezza con favore il ritorno alla legalità, prevedendo i poteri di autotutela dell’Amministrazione, dall’altro non prende in favorevole considerazione – sotto il profilo di possibili pretese risarcitorie - la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano consapevolmente o colposamente aderito alla iniziativa illegittima dell’Amministrazione. 11.2. Nella specie, a seguito di una segnalazione già proveniente dal Ministero e poi dell’avviso sulla questione della Avvocatura Generale dello Stato, l’Amministrazione ha legittimamente constatato che il bando di gara mirava ad incidere indebitamente sullo svolgimento della attività istituzionale della medesima Avvocatura e all’esborso di denaro, per ragioni palesemente inconsistenti. Il Ministero ha quindi constatato che la stipula del contratto avrebbe dato evidentemente luogo alla violazione delle norme imperative, desumibili dal testo unico n. 1611 del 1933 e dalle leggi di contabilità di Stato. Considerate le circostanze, ritiene la Sezione che nessun legittimo affidamento altrui si possa essere formato col bando o nel corso del procedimento seguito dall’atto di aututela. Le ATI concorrenti non hanno utilizzato, invero, in sede di partecipazione alla gara, l’ordinaria diligenza, non potendo certamente sfuggire a professionisti del settore giustizia, e per di più alle compagini professionali di indubitabile valore che hanno partecipato alla gara stessa, il fatto che questa era stata bandita in una situazione di manifesto contrasto con il medesimo testo unico. Oltre dunque alle considerazioni sopra riportate sulla rilevanza in sé delle norme imperative (ciò che già rileverebbe per escludere un legittimo affidamento), nella specie proprio la qualità dei professionisti coinvolti avrebbe dovuto da subito far loro constatare la manifesta illegittimità della iniziale determinazione dell’Amministrazione: ciò evidenzia non solo la mancanza di un legittimo affidamento, ma anche la loro colpa professionale, dal momento che rientra – o deve rientrare - nel bagaglio di comune conoscenza degli avvocati la regola per cui le Amministrazioni statali si avvalgono e si devono avvalere del patrocinio della Avvocatura dello Stato. Da ciò consegue la fondatezza dell’appello (n. 9283/2009) proposto dal Ministero delle politiche agricole e, per converso, l’infondatezza di ogni pretesa risarcitoria da parte di entrambe la ATI partecipanti alla gara, con la conseguente reiezione, per tutti i restanti profili, degli appelli incidentali. ...omissis... C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E Pubblico servizio e concorrenza nella gestione delle farmacie Le recenti decisioni della Corte di Giustizia dell’U.E. in tema di gestione delle farmacie, di cui la Rassegna ha dato contezza nei precedenti numeri (1), sono oggi oggetto di un dibattito abbastanza vivace tra quanti si occupano del settore: hanno chiuso un problema o ne hanno aperto uno nuovo? Di qui l’opportunità di presentare in Rassegna due saggi: da una parte l’articolo dell’avvocato Antonella Anselmo Lemme, che in Corte di Giustizia ha assistito la Federazione Nazionale degli Ordini dei Farmacisti, dall’altra la tesi di due illustri studiosi del CeRM che rimettono in discussione quello che i farmacisti ritengono oramai un dato acquisito: la legittimità della riserva di attività di gestione delle farmacie a favore dei farmacisti e/o della mano pubblica (le farmacie comunali). La tesi dell’Avvocatura Generale dello Stato, nelle cause comunitarie, è stata quella di difendere (con successo) il diritto nazionale, comune d’altronde a tutti gli altri Stati membri dell’area mediterranea, all’Austria e alla Germania. Ed è paradossale che i teorici della liberalizzazione ad ogni costo, che fino a ieri reclamavano l’obbligo dell’Italia di adeguarsi sic et simpliciter alle regole della concorrenza comunitaria, oggi, dopo le decisioni della Corte di Giustizia, rivendichino l’autonomia del diritto nazionale. In realtà la valenza delle decisioni del giudice comunitario, sembra più ampia di quella di ritenere “semplicemente giustificata”, in un approccio logico di regola/eccezione, la scelta limitativa della concorrenza: l’Unione Eu- (1) M. RUSSO “Discrezionalità dello Stato e tutela della salute: la riserva della proprietà ai farmacisti” in Rass., 2009, II, 140; F. GIOVAGNOLI “Titolarità e gestione delle farmacie nella normativa comunitaria ed italiana” in Rass., 2009, III, 74; M. RUSSO “Le recenti pronunce della Corte in tema di farmacie”, in Rass., 2010, III, 46. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 ropea non è infatti più soltanto una comunità di “operatori economici”, che reclamano giustamente la libertà dei mercati e le regole di trasparenza negli affari; è anche – ed il voto diretto al Parlamento europeo lo dimostra – un’unione di cittadini, con i loro bisogni, le loro tradizioni, il loro modo di vivere. Il diritto della concorrenza si sposa e si correla con pari dignità ai bisogni essenziali dei cittadini europei e alla missione dei pubblici servizi. Il diritto alla salute è materia sensibile, che può trovare ostacoli anche in vecchie regole corporative e/o in situazioni di privilegio non più giustificate, che è compito del legislatore nazionale eliminare o ridurre; ma da questo a mettere in mano alle aziende produttrici tutta la distribuzione al dettaglio dei farmaci il passaggio merita accortezza. GF I servizi farmaceutici: sistemi comunitari di sanità solidale e modelli liberistici a confronto Antonella Anselmo* “Veleni e medicine sono spesso fatti con le stesse sostanze, sono solo dati con intenti diversi” Peter Mere Lathan SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Il servizio farmaceutico nel sistema solidale nazionale - 3. L’evoluzione del diritto comunitario: la tutela dei diritti fondamentali della persona e il modello sociale europeo - 3.1. I Trattatti - 3.2. Il diritto comunitario derivato - 3.3. Le decisioni della Corte di giustizia e il principio di precauzione - 3.4. La politica comunitaria sulla salute - 4. Verifica della posizione dell’Autorità per la Concorrenza ed il Mercato. 1. Premessa L’organizzazione del servizio farmaceutico in Italia è sotto la costante pressione di tentata “liberalizzazione” (1). Al riguardo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato da anni si impegna nel sollecitare progetti di riforma che modifichino l’attuale sistema (*) Avvocato in Roma. (1) In senso inconciliabile rispetto alla ragionevolezza delle presunte liberalizzazioni: L. IANNOTTA, “L’assistenza farmaceutica come servizio pubblico”, in Servizi pubblici e appalti, 2003, 49; F. MASTRAGOSTINO, “La disciplina delle farmacie comunali tra normativa generale sui servizi pubblici e normativa di settore, in D. DE PRETIS (a cura di) La gestione delle farmacie comunali: modelli e problemi giuridici, Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche Università degli Studi di Trento n. 53, 2006, 26. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 solidale di sanità pubblica, indicando un modello liberistico assoggettato alle logiche di mercato, qualificate in sé quali pro-concorrenziali e migliorative della quantità dell’offerta (2). Da ultimo si registrano le Osservazioni al Parlamento in data 1 settembre 2010 ex art. 22 L. 287/1990 (3) e la successiva Audizione al Senato Commissione XII, Igiene e Sanità in data 11 novembre 2010 (4). In linea generale L’Autorità assimila del tutto la distribuzione dei farmaci agli altri tipi di distribuzione, di natura squisitamente commerciale (5). Ebbene, l’equiordinazione e la compatibilità “astratta” rispetto al diritto comunitario di entrambe le formule organizzatorie dei servizi sanitari - rispettivamente quella di sistema, solidale e basata sulla pianificazione, e quella liberistica - sono state recentemente accertate dalla Corte di Giustizia, nelle note sentenze del 19 maggio 2009, Grande Sezione, Causa C-531/06, 1° giugno 2010, cause riunite C-570/07 e C-571/07; 1° luglio 2010 causa C-393/08. Tuttavia proprio la Grande Sezione della Corte ha accertato che il sistema sanitario solidale italiano, che in parte pone restrizioni “non discriminatorie” alle libertà economiche, in applicazione del principio di precauzione, risulta in concreto proporzionato ed adeguato rispetto all’obiettivo di interesse generale teso a garantire, attraverso un uso razionale e sicuro del farmaco, un elevato livello di salute pubblica. Ovviamente per il futuro è fatta salva la responsabilità dei Parlamenti nazionali, a fronte di una contestuale evoluzione del diritto comunitario verso un modello sociale europeo più maturo, volta a migliorare la regolazione in vista di un più elevato livello di tutela del bene salute e di crescenti bisogni della collettività. Ebbene, alla base di ogni eventuale riforma normativa di siffatta portata, (2) Tra le tante: Segnalazioni AS057 in data 19 ottobre 1995; AS131 in data 26 marzo 1998; AS144 in data 11 giugno 1998; AS163 in data 4 febbraio 1999; AS194 in data 17 febbraio 2000; AS300 in data 3 giugno 2005; AS306 in data 13 luglio 2005; gli studi di riferimento dell’AGCM sono Institut for Advanced Studies (IHS) Vienna “L’impatto economico della regolamentazione nel settore delle professioni liberali in diversi stati membri. La regolamentazione dei servizi professionali” gennaio 2003 di IAIN PATERSON MARCEL FINK, ANTONY OGUS et al. nonchè le numerose pubblicazioni CERM in argomento. (3) Aventi ad oggetto l’articolo unico del DDL 2079 recante “Norme in materia di apertura di nuove parafarmacie” in discussione in seno alla XII Commissione permanente Senato che prevede una sospensione dell’apertura di nuove parafarmacie in attesa del riordino del settore. In tale documento l’Autorità ipotizza, in luogo della pianificazione mediante pianta organica delle farmacie, la previsione di un numero minimo di esercizi lasciando libero, secondo logiche di mercato, il numero massimo degli stessi. Sull’inadeguatezza del criterio cd. de minimis vd. Corte di Giustizia, 1 giugno 2010, Cause C- 570/07 e 571/07. (4) Esame congiunto dei disegni di legge nn. 863, 1377, 1417, 1465, 1627, 1814, 2030, 2042, 2079, 2202 recanti normative in materia di medicinali a uso umano e riordino dell’esercizio farmaceutico. (5) In tal senso AS659- Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza, in data 9 febbraio 2010. 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 si pone un problema, non tanto ideologico, ma certamente di scelta politica. In altri termini occorre chiedersi se i pubblici poteri debbano o meno mantenere una “riserva” in tema di pianificazione dei servizi sanitari. In tale prospettiva risulta irrinunciabile garantire esaustive ricognizioni economico-giuridiche, di natura indipendente, circa lo stato di efficienza e soddisfazione del servizio da parte della collettività e giustificare un’eventuale riforma alla luce della decisione vincolante della Corte di Giustizia che ha avuto ad oggetto proprio il giudizio di compatibilità comunitaria della normativa italiana. Risulta altresì imprescindibile una valutazione indipendente di impatto della presunta “liberalizzazione” sulla qualità (6) complessiva dei servizi in relazione ai bisogni della collettività e ai livelli essenziali di assistenza sull’intero territorio nazionale. Ai fini della verifica di compatibilità costituzionale deve poi risultare chiaro l’obiettivo di interesse generale che si intende perseguire, se sociale o economico, nonchè l’eventuale criterio di contemperamento del loro potenziale conflitto. Ogni riforma radicale ed organica del sistema socio-sanitario deve inserirsi in un processo decisionale che coinvolga non solo le categorie di settore (produttori, intermediari, distributori, farmacisti), ma soprattutto l’intera società civile attraverso adeguati strumenti di informazione, consultazione e partecipazione democratica. L’importanza strategica, nelle politiche europee, del futuro assetto dell’organizzazione dei servizi socio-sanitari è infatti accentuata dalla grave crisi economica che colpisce i mercati, dal progressivo invecchiamento della popolazione, dalle possibilità di controllo e manipolazione delle informazioni scientifiche da parte dei poteri economici e, infine, da un uso distorto del principio di sussidiarietà orizzontale. Una tutela sanitaria “rafforzata” per le fasce deboli della popolazione (tra le quale in preponderanza oltre ai malati, gli anziani, le donne nel periodo della gravidanza e della maternità, i bambini, i meno abbienti), costituisce anche una strategia essenziale di coesione economico-sociale e di perequazione. Con il presente scritto ci si propone pertanto di verificare se le linee guida di riforma costantemente indicate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato siano ancora attuali e giustificate in relazione ai principi fondamentali della Carta Costituzionale nonché in riferimento alla più recente evoluzione del diritto comunitario (7). Ci si propone altresì di verificare se le medesime linee guida risultino ap- (6) E non solo “quantità”. (7) Costituito quest’ultimo dalle norme del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, dalle direttive e dai precedenti della Corte di Giustizia in materia. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 propriate in relazione all’obiettivo di ottimizzazione dell’organizzazione dei servizi-sanitari, in un sistema nazionale che assegna consapevolmente agli interessi economici una valenza marcatamente marginale, ovvero se le stesse salvaguardino gli interessi non già della collettività, unitariamente intesa, bensì di una categoria ben individuata di operatori economici. E proprio l’assetto oligopolistico dei mercati europei afferenti la produzione e distribuzione del farmaco, le prospettive concrete di crescita verso nuove fasce di mercato per scadenza dei brevetti di molti farmaci branded, gli interessi economici dei distributori all’incremento dei profitti, costituiscono rischi di efficienza dei servizi e di compressione dell’uso razionale e sicuro dei farmaci, tali da essere valutati attentamente. 2. Il servizio farmaceutico nel sistema solidale nazionale Il servizio farmaceutico è qualificato nell’ordinamento interno quale servizio pubblico preordinato alla tutela della salute e trova garanzia costituzionale protetta principalmente negli artt. 3 e 32 della Cost. (8). In particolare è una delle prestazioni di cura e assistenza che lo Stato assicura ai propri cittadini in attuazione dei propri fini sociali. L’art. 1, co. 2 della L. 23 dicembre 1978 n. 833 e succ. mod. e int., istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, S.S.N., qualifica il servizio sanitario quale complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio (9). L’art. 25, co. 1, L. cit. chiarisce che le prestazioni di cura comprendono l’assistenza medico-generica, specialistica, infermieristica, ospedaliera e farmaceutica. L’art. 28, co. 1 e 2, L. cit. dispone altresì che l’unità sanitaria locale eroga l’as- (8) Sulla nozione di servizio pubblico vd. U. POTOTSCHING, “I pubblici servizi”, Cedam, Padova, 1964. L’A. analizza le ipotesi in cui l’ordinamento giuridico sottrae al privato la disponibilità dei “fini” della propria attività economica. Detti fini divengono “sociali” perché concernono ugualmente tutti i soggetti dell’ordinamento “... si pensi alla disciplina in vigore per l’apertura e l’esercizio delle farmacie: il richiamo posto dalle norme in materia alle “esigenze” (art. 104, t.u. 27 luglio 1934, n. 1265), ai “bisogni” (art. 116), alle “necessità” (art. 109) dell’assistenza farmaceutica locale dice chiaramente come i fini che presiedono all’attività siano sottratti alla libera valutazione degli operatori privati che agiscono nel settore”, p. 226. (9) Vd. BRUNO RICCARDO NICOLOSO: La farmacia come unicum di professione struttura e servizio a tutela di un diritto di libertà e di un dovere di salute in in www.euro-pa.it, pag. 57 e ss., che richiama il contributo di Piero Calamandrei nella formulazione dell’art. 32 Cost. quale parte integrante dello Stato sociale. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1984, 603 e 1082, definisce il servizio farmaceutico quale servizio privato sotto direzione pubblica svolto sulla base di una concessione costitutiva. G. ABBAMONTE, Iniziativa pubblica e privata nell’esercizio dell’attività farmaceutica, Rass. Amm. San. 1962, 102; M.S. GIANNINI, Le farmacie, ibid. 1973, 171; G. LANDI, voce Farmacia, in Enc. Diritto, Vol. XVI 1967, 836; FERRARA, voce Farmacia in Enc. Giur. Vol. XIV, Roma, 1989. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sistenza farmaceutica attraverso le farmacie di cui sono titolari enti pubblici e le farmacie di cui sono titolari i privati, tutte convenzionate secondo i criteri e le modalità di cui agli articoli 43 e 48; che gli assistiti possono ottenere da entrambe le tipologie di farmacie, su presentazione di ricetta compilata dal medico curante, la fornitura di preparati galenici e di specialità medicinali compresi nel prontuario terapeutico del servizio sanitario nazionale. L’istituzione del servizio sanitario nazionale eredita e mantiene la bipartizione della titolarità delle farmacie - comunale e privata - discendente dalla pregressa evoluzione normativa e dal processo storico di ampliamento dei compiti dello Stato sociale. Il sistema farmaceutico italiano – che rimane essenzialmente unitario per finalità e disciplina – dal punto di vista gestorio, può definirsi “dualistico”. Ma si veda nel dettaglio. In origine, la deregolamentazione introdotta dalla L. 22 dicembre 1888 n. 5849, cd. L. Crispi era causa di grave squilibrio sul territorio nazionale dell’offerta del servizio farmaceutico (10). Nel 1913, con la riforma Giolitti (11), lo Stato riconosce come proprio compito essenziale l’assistenza farmaceutica, che viene regolamentata attraverso l’esercizio delle farmacie, la cui titolarità è ricondotta, rispettivamente, in capo ai Comuni (12) e ai privati. Questi ultimi, di cui si avvale lo Stato quale risorsa “indiretta” dell’organizzazione pubblica per il perseguimento di interessi collettivi, acquisiscono titolarità e diritto di esercizio in virtù di atto concessorio, all’esito di un concorso pubblico per esami(13). Il ricorso alla procedura concorsuale si impone quale effetto della necessaria pianificazione e razionale localizzazione delle sedi farmaceutiche sul territorio. Infatti la limitazione del numero di farmacie determina la necessità che le assegnazioni avvengano secondo procedure ad evidenza pubblica - i concorsi - atte a individuare i soggetti più idonei al conseguimento dello scopo. A tal fine - garantire un’equilibrata offerta del servizio anche in aree disagiate e scarsamente (10) In argomento vd. osservazioni dell’Austria afferenti il procedimento di infrazione n. 2004/4468, e, in particolare, l’allegato Conseguences of Crispi Act 1888: Community Pharmacis before and after deregulation. (11) L. 22 maggio 1913 n. 468. (12) Cd. farmacie municipalizzate, ex art. 12 e farmacie condotte ex art. 13 L. cit, secondo le modalità organizzative di cui alla L. 103/1913 sull’assunzione diretta dei pubblici servizi, successivamente sostituita dalla L. 2578/1925. (13) In dottrina ZANOBINI, Corso di Diritto Amministrativo, 1949, Giuffrè, p. 148: “Lo Stato e gli Enti pubblici minori possono conseguire i propri fini oltre che direttamente, cioè traverso l’azione dei propri organi, anche indirettamente, valendosi dell’opera di persone che, pur restando fuori della loro organizzazione, curano in vario modo la soddisfazione degli interessi pubblici. Tali persone conservano posizione di privati: la loro attività non è riferibile all’ente pubblico, ma è attività loro propria, da essi dispiegata in proprio nome e il più delle volte anche nel proprio interesse. Essa è pubblica solo per i suoi effetti: perché soddisfa a fini e interessi pubblici ”. La tesi era già stata esposta dall’A. in “L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici”, Milano, 1920. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 popolate - viene istituita la pianta organica: l’apertura delle nuove farmacie risulta pertanto condizionata al rispetto del criterio demografico. Detti principi risultano in parte mantenuti dai successivi interventi legislativi in materia. L’originario assetto giolittiano è infatti confermato dal Testo Unico delle Leggi sanitarie approvato con R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 (14). Le successive leggi di riforma del settore, rispettivamente la L. 2 aprile 1968 n. 474, cd. Legge Mariotti, e la L. 8 novembre 1991 n. 362 e succ. mod. e int., in parte confermano, in parte modificano il sistema previgente (15). In particolare si delinea il servizio farmaceutico quale servizio pubblico in titolarità regionale, per effetto del trasferimento alle regioni dei rispettivi compiti, compiutosi in virtù del DPR 14 gennaio 1972 n. 4. Conseguentemente, anche l’apertura e l’esercizio delle farmacie comunali sono soggetti all’autorizzazione regionale (16). La giurisprudenza costituzionale ha avuto modo, negli anni, di accertare (14) Il quale dispone, tra l’altro: l’attribuzione del diritto di esercizio a chi abbia conseguito il titolo di abilitazione (art. 100); la previsione e disciplina del regime concessorio, ivi incluse le ipotesi di decadenza, avente ad oggetto la titolarità e l’esercizio della farmacia (artt. 104, 108, 109, 110, 113); la vigilanza pubblicistica dell’esercizio della farmacia (art. 99); la distinzione tra farmacie urbane e quelle rurali (art. 115, vd. ora L. 8 marzo 1968 n. 221); la previsione del criterio topografico in relazione a esigenze dell’assistenza farmaceutica, quale criterio aggiuntivo di pianificazione (art. 104); il divieto di cumulo di autorizzazioni in una sola persona (art. 112); l’incompatibilità con la professione medica e il divieto di convenzioni con i medici sulla partecipazione agli utili della farmacia (art. 102); la riserva di vendita di medicinali a dose o forma di medicamento ai soli farmacisti e da effettuarsi nella farmacia sotto la responsabilità del titolare della medesima (art. 122); la natura personale della concessione e il regime delle responsabilità del titolare-gestore, gli obblighi di prestazione del servizio atti a garantire regolarità e continuità (artt. 112, 119); gli obblighi del titolare e il conseguente regime sanzionatorio (art. 123). (15) Il regime concessorio e il necessario contingentamento nell’apertura delle nuove farmacie per effetto della pianificazione data dal rapporto farmacie - popolazione (art. 1, co. 1, 2 e 3 L. 475/68 come mod. dall’ art. 1 L. 362/1991); le procedure concorsuali, non solo per esami ma anche per titoli, bandite dalle Regioni in ambito provinciale e riservate ai cittadini di uno Stato membro della Comunità Europea in possesso dei diritti civili e politici e iscritti all’Albo dei farmacisti (art. 4, co. 1 e 2, L. 362/91) la flessibilità della pianta organica in relazione alle esigenze della collettività (artt. 2 e 5 L. 362/91); la titolarità e gestione della farmacia privata in capo ai farmacisti o a società personali di farmacisti aventi ad oggetto esclusivo la gestione di una farmacia (art. 7 L. 362/91, succ. mod.); il regime delle incompatibilità con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco, come interpretato dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 275/2003 e successivamente modificato dall’art. 5, co. 5, DL 223/2006 cd. decreto Bersani, che ha eliminato il termine “distribuzione” (art. 8 L. 362/91); il regime della responsabilità del regolare esercizio e della gestione in riferimento sia al titolare, soggetto, sia alla struttura, oggetto (art. 11 L. 475/1968, come mod. dall’art. 11 L. 362/91); il riconoscimento di un’indennità di residenza per compensare la carenza di autosufficienza economico-finanziaria alle farmacie rurali (L. 8 marzo 1968 n. 221); le condizioni per il trasferimento inter vivos delle farmacie private (art. 12 L. 475/1968 come mod. dall’art. 6 L. 892/1984, 7 co. 8 e ss. e 13 L. 362/1991 e succ. mod. e int.). (16) Cfr. Cons. giust. Sic. 27 aprile 1978 n. 89, confermandosi l’unicità della titolarità a titolo originario in capo alle regioni. Circa i modelli gestionali delle farmacie comunali (e di queste soltanto), l’art. 9 L. 475/1968 stabiliva che “le farmacie che si rendano vacanti e quelle di nuova istituzione a seguito della revisione della pianta organica possono, per la metà, essere assunte in gestione dal comune secondo 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 la piena legittimità costituzionale della disciplina farmaceutica, in primis ex artt. 3 e 32 Cost., pronunciandosi sulle disposizioni fondamentali, caratterizzanti il sistema solidale nazionale: la pianta organica (17), i concorsi per assegnazioni di sedi farmaceutiche (18), la regolamentazione degli orari e turni del servizio (19), le modalità gestionali delle farmacie private e comunali (20). Successivamente nell’ambito degli interventi legislativi volti a promuovere la concorrenza, la competitività e la liberalizzazione dei settori produttivi, viene espressamente innovata una parte del sistema della distribuzione dei farmaci. le norme stabilite dal r.d. 15 ottobre 1925 n. 2578”. Successivamente all’entrata in vigore della L. n. 142 del 1990 sugli Enti locali, la L. 362/1991, modificando il citato art. 9 L. 475/1968, richiamava - anche per le farmacie comunali - le nuove forme di gestione sui servizi pubblici locali di rilevanza economicoimprenditoriale: in economia, a mezzo di azienda speciale, di consorzi fra i comuni, ovvero a mezzo di società di capitali costituite tra il comune e i farmacisti in servizio presso l’esercizio di cui sia stata acquistata la titolarità. L’art. 12 L. 362/1991 cit. definiva il trasferimento della titolarità delle farmacie in gestione comunale. Successivamente l’art. 12 della L. 23 dicembre 1992 n. 498 avviava un più ampio processo di privatizzazione e, per l’effetto, estendeva anche alle farmacie comunali il modello della società a prevalente capitale privato. Allo stato attuale le citate modalità di gestione delle farmacie comunali trovano conferma nella disciplina generale descritta dall’art. 113 D.Lvo 267/2000, T.U. sugli Enti locali, riguardante la “Gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, disposizione che ha natura inderogabile e integrativa delle discipline di settore. Per effetto dell’entrata in vigore della L. 448/01, che integra e modifica il citato art. 113, si impongono due principi generali: i) le società di erogazione dei servizi pubblici a rilevanza economica non possono essere né divenire proprietarie di reti impianti e altre dotazioni patrimoniali (salve ipotesi derogatorie e tassative); ii) l’affidamento del servizio al terzo gestore, ovvero la scelta del partner privato, deve avvenire nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica. Tali principi trovano conferma nella disciplina di settore che consente la scissione tra titolarità della farmacia comunale, che rimane in capo all’ente locale, e la gestione, affidata alla società mista, ancorché con capitale maggioritario privato. Sulla scissione tra titolarità e gestione d’impresa GALGANO, Diritto civile e commerciale, III, t. I, 1990, 110 ss., spec. 116, 117; BERLE & MEANS, Società per azioni e proprietà privata, Torino, 1966; PUGLIATTI, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965. (17) Sent. 579/1987; 4/1996; 27/2003; 76/2008; 295/2009. (18) Sent. 352/1992 e 448/2006. In tale ultima si precisa : “3.3. – La regola, oggi vigente, del concorso pubblico risponde all’esigenza di «garantire in modo stabile ed efficace il servizio farmaceutico» (sentenza n. 352 del 1992) sull’intero territorio nazionale (onde al suo rispetto sono tenute anche «le province autonome»). E’ proprio il concorso ad assicurare – stando alla lettera dell’art. 4 della legge n. 362 del 1991 – la parità di trattamento tra i farmacisti ai fini del conferimento delle sedi vacanti o di nuova istituzione. Inoltre, se si considera che, sotto il profilo funzionale, i farmacisti sono concessionari di un pubblico servizio, la regola del concorso costituisce lo strumento più idoneo ad assicurare che gli aspiranti vengano selezionati secondo criteri oggettivi di professionalità ed esperienza, a garanzia dell’efficace ed efficiente erogazione del servizio. Ne discende la natura di «principio fondamentale» della regola del concorso, aperto alla partecipazione di tutti i soggetti iscritti all’albo dei farmacisti, per il conferimento delle sedi farmaceutiche vacanti o di nuova istituzione. Alla stregua di tale principio dev’essere valutata la legittimità della norma censurata, che pone sullo stesso piano i cittadini italiani e i cittadini degli altri Paesi comunitari, sia ai fini del conferimento delle sedi riservate, nel caso in cui fossero titolari di una delle farmacie rurali cui la legge si riferisce, sia, nel caso contrario, ai fini dell’esclusione dalla possibilità di concorrere per il conferimento di quelle sedi”. (19) Sentt. nn. 446/1988 e 27/2003. (20) Sent. 275/2003. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 L’art. 5 del Decreto Bersani 2006, d.l 4 luglio 2006 n. 233 conv. con mod. in L. agosto 2006 n. 248 (21), introduce la vendita dei farmaci senza obbligo di prescrizione medica e da automedicazione anche al di fuori delle farmacie, nei corner dei supermercati e negli esercizi commerciali di vicinato (definite nel linguaggio comune “parafarmacie”), su semplice comunicazione al Ministero della Salute e alla regione di competenza. Dunque, oltre ai farmacisti titolari di farmacie, anche gli esercizi commerciali (rectius, i titolari degli stessi) divengono soggetti abilitati a dispensare al pubblico talune tipologie di famaci, (21) Art. 5: “Interventi urgenti nel campo della distribuzione di farmaci” 1. Gli esercizi commerciali di cui all'articolo 4 comma 1 , lettere d) e) f) del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 114 possono effettuare attività di vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione, di cui all'articolo 9 –bis del decreto-legge 18 settembre 2001 n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001 n. 405, e di tutti i farmaci o prodotti non soggetti a prescrizione medica, previa comunicazione al Ministero della salute e alla regione in cui ha sede l'esercizio e secondo le modalità previste dal presente articolo. È abrogata ogni norma incompatibile. 2. La vendita di cui al comma 1 è consentita durante l'orario di apertura dell'esercizio commerciale e deve essere effettuata nell'ambito di un apposito reparto, alla presenza e con l'assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all'esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine. Sono, comunque, vietati i concorsi, le operazioni a premio e le vendite sotto costo aventi ad oggetto farmaci. 3. Ciascun distributore al dettaglio può determinare liberamente lo sconto sul prezzo indicato dal produttore o dal distributore sulla confezione del farmaco rientrante nelle categorie di cui al comma 1, purché lo sconto sia esposto in modo leggibile e chiaro al consumatore e sia praticato a tutti gli acquirenti. Ogni clausola contrattuale contraria è nulla. Sono abrogati l'articolo 1, comma 4 del decreto-legge 27 maggio 2005 n. 87, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 luglio 2005 n.149, ed ogni altra norma incompatibile. 3-bis. Nella provincia di Bolzano è fatta salva la vigente normativa in materia di bilinguismo e di uso della lingua italiana e tedesca per le etichette e gli stampati illustrativi delle specialità medicinali e dei preparati galenici come previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1988 n. 574. 4. Alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 105 del decreto legislativo 24 aprile 2006 n. 219, è aggiunto, infine, il seguente periodo: «L'obbligo di chi commercia all'ingrosso farmaci di detenere almeno il 90 per cento delle specialità in commercio non si applica ai medicinali non ammessi a rimborso da parte del servizio sanitario nazionale, fatta salva la possibilità del rivenditore al dettaglio di rifornirsi presso altro grossista». 5. Al comma 1 dell'articolo 7 della legge 8 novembre 1991 n. 362, sono soppresse le seguenti parole: «che gestiscano farmacie anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge»; al comma 2 del medesimo articolo sono soppresse le seguenti parole: «della provincia in cui ha sede la società»; al comma 1, lettera a), dell'articolo 8 della medesima legge è soppressa la parola: «distribuzione». 6. Sono abrogati i commi 5, 6 e 7 dell'articolo 7 della legge 8 novembre 1991 n. 362. 6-bis. I commi 9 e 10 dell' dell'articolo 7 della legge 8 novembre 1991 n. 362 sono sostituiti dai seguenti: “9. A seguito di acquisto a titolo di successione di una partecipazione in una società di cui al comma 1, qualora vengano meno i requisiti di cui al secondo periodo del comma 2, l'avente causa cede la quota di partecipazione nel termine di due anni dall'acquisto medesimo. 10. Il termine di cui al comma 9 si applica anche alla vendita della farmacia privata da parte degli aventi causa ai sensi del dodicesimo comma dell'articolo 12 della legge 2 aprile 1968 n. 475”. 6-ter. Dopo il comma 4 dell'articolo 7 della legge 8 novembre 1991 n. 362 è inserito il seguente: "4-bis. Ciascuna delle società di cui al comma 1 può essere titolare dell'esercizio di non più di quattro farmacie ubicate nella provincia dove ha sede legale”. 7. Il comma 2 dell'articolo 100 del decreto legislativo 24 aprile 2006 n. 219 è abrogato. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 a determinate condizioni di vendita e vigilanza (titolarità dell’attività). La parziale deregolamentazione - attribuendo la titolarità di una parte del servizio farmaceutico anche in capo a soggetti non qualificati, perché privi del conferimento della relativa funzione propria del SSN come sopra descritta (procedure concorsuali e atti di pianificazione mediante inserimento nella pianta organica) - costituisce un pericoloso vulnus al sistema generale e unitario di organizzazione dei servizi sanitari, specie all’esito dei precedenti della Corte di Giustizia. Vi è infatti da chiedersi se oggi la dispensazione dei farmaci da banco o senza obbligo di prescrizione medica fuori dalla farmacia, sia sempre qualificabile “servizio farmaceutico” ovvero se la titolarità, originariamente pubblica (nella specie attribuita alle Regioni) non sia più “riservata” ai farmacisti vincitori dei concorsi, ovvero, ai Comuni. Al riguardo è bene ricordare che, anteriormente alle pronunce del giudice comunitario sulla riserva di titolarità in capo ai soli farmacisti (e ai Comuni), la Consulta è stata investita della verifica di legittimità della citata disposizione del d.l. 4 luglio 2006 n. 233 conv. con mod. in L. 4 agosto 2006 n. 248. Ebbene, con decisione n. 430 del 14 dicembre 2007 la Corte Costituzionale nel fissare implicitamente i parametri di bilanciamento tra la tutela della concorrenza (e dunque la competitività economica del Paese) e la tutela della salute, ha attribuito valore prevalente a quest’ultima. La Corte, rigettando i ricorsi delle Regioni Veneto e Sicilia che censuravano la violazione delle prerogative legislative regionali in materia di “commercio” e “professioni”, ha confermato l’inquadramento del servizio farmaceutico quale parte integrante della più vasta organizzazione pubblicistica predisposta a tutela della salute. Nell’ambito di detto servizio, infatti, il legislatore ha regolamentato in dettaglio la produzione e messa in commercio dei farmaci, anche di automedicazione, mantenendo la riserva di vendita in capo ai farmacisti (art. 122 del regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265 e art. 9 bis del decreto legge 18 settembre 2001 n. 347 conv. in legge 16 novembre 2001 n. 405). La Consulta, rinviando a propri consolidati orientamenti, afferma che la materia dell’organizzazione del servizio farmaceutico va ricondotta al titolo di competenza “concorrente” della “tutela della salute”: “la complessa regolamentazione pubblicistica dell'attività economica di rivendita dei farmaci mira, infatti, ad assicurare e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale, sia l'indubbia natura commerciale dell'attività del farmacista (sentenze n. 448 del 2006 e n. 87 del 2006; nonché sentenze n. 275 e n. 27 del 2003), dei quali pure si occupa la norma. Analogamente il divieto di concorsi, delle operazioni a premio e delle vendite sotto costo aventi ad oggetto i farmaci, peraltro stabilito nel quadro di una legge diretta ad eliminare vincoli e CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 restrizioni nell'esercizio delle attività di distribuzione commerciale, è palesemente ispirato dall'intento di assicurare modalità della vendita coerenti con la funzione dei prodotti e con la tutela della salute, e cioè di evitare che l'acquisto dei medicinali possa essere influenzato da ragioni diverse da quelle della loro indispensabilità ai fini terapeutici. L'interferenza va, quindi, composta facendo ricorso al criterio della prevalenza, applicabile appunto quando risulti evidente, come nella specie, l'appartenenza del nucleo essenziale della disciplina alla materia «tutela della salute» (sentenze n. 422 e n. 181 del 2006; n. 135 e n. 50 del 2005)”. La decisione, da un lato, accerta la legittimità costituzionale del Decreto Bersani nei limiti delle censure all’epoca prospettate dalle regioni ricorrenti (22); dall’altro attribuisce “prevalenza” alla materia di salvaguardia del diritto alla salute, ponendo limiti insuperabili a qualsivoglia scelta legislativa di riforma del servizio farmaceutico elaborata in chiave prevalentemente economicistica. Ebbene, sul punto della riserva di titolarità (23) del servizio, la citata decisione della Consulta andrebbe rimeditata alla stregua della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ad ogni modo deve escludersi che il legislatore statale, nel riformare il servizio farmaceutico, possa operare un’indebita attrazione, nell’ambito della competenza trasversale della “tutela della concorrenza”, della diversa materia di “tutela della salute”, in virtù del richiamato criterio di prevalenza. Risultano pertanto costituzionalmente determinati e incomprimibili gli obiettivi di interesse generale riconducibili agli artt. 3 e 32 della Cost. e sottesi alla disciplina di organizzazione dei servizi sanitari, con conseguente rilevanza meramente marginale degli obiettivi sottesi alle libertà economiche protette e garantite dall’art. 41 Cost. (24). In tale ambito appare incontestabile che l’art. 32 Cost. costituisca limite di utilità sociale alla libertà di iniziativa economica e al contempo principio fondamentale a giustificazione della potestà di pianificazione pubblica basata principalmente sui principi fondamentali di: i) istituzione e assegnazione delle sedi farmaceutiche per pubblico concorso; ii) contingentamento attuato mediante pianta organica; iii) convenzione con il servizio sanitario nazionale; iiii) riserva (di titolarità) di vendita dei medicinali in capo ai farmacisti. Il sopra descritto “sistema nazionale” è garanzia di indirizzo e coordinamento delle attività economiche a fini sociali. (22) E comunque non opera alcuna distinzione tra titolarità e gestione dell’attività di vendita. (23) Distinta dalla gestione. (24) “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 In questa visione prospettica, le aperture al mercato introdotte dall’art. 5, del d.l. 4 luglio 2006 n. 233 conv. con mod. in L. 4 agosto 2006 n. 248 - che oggi debbono necessariamente essere interpretate alla luce della successiva evoluzione del diritto comunitario, in primis all’esito delle sentenze del 19 maggio 2009 Causa C-531/06; 1 giugno 2010 cause riunite C-570/07 e C- 571/07; 1 luglio 2010 causa C-393/08 della Corte di Giustizia - pongono seri problemi di ragionevolezza ed eguaglianza ex artt. 3, 32 e 41 Cost.. In altri termini, una più accentuata liberalizzazione potrebbe risultare costituzionalmente irragionevole, ingiustificata, non proporzionata e comunque discriminatoria, anche alla luce del primato del diritto comunitario (25): disciplinare in modo differenziato una medesima attività, qualificata dalla Consulta essenzialmente “servizio farmaceutico”, e non già “attività commerciale”, in ragione del luogo in cui viene esercitata, costituisce una deroga alla regolamentazione generale fondata sui principi fondamentali della pianificazione pubblica e del pubblico concorso, rilevanti ex artt. 3, 32 e 41, commi 2 e 3, Cost.. Appare allora ingiustificato che i limiti di utilità sociale discendenti dalla disciplina della pianificazione non operino nei confronti di strutture “diverse” dalla farmacia, la sola convenzionata con il servizio sanitario nazionale, istituita mediante concorso pubblico e inserita nella pianta organica. Ancor più censurabile, dal punto di vista della compatibilità costituzionale e comunitaria, sarebbe poi una riforma che renda assoluto l’esercizio delle libertà economiche, eliminando del tutto le restrizioni di utilità sociale, le finalità e il coordinamento pubblico, fondati sulla primaria esigenza di tutela della salute pubblica e di erogazione di prestazioni assistenziali di natura anche non economica. 3. L’evoluzione del diritto comunitario: la tutela dei diritti fondamentali della persona e il modello sociale europeo L’intervento in campo sanitario dell’Unione Europea mediante l’attività di produzione normativa e cooperazione con gli Stati Membri è in progressivo incremento. (25) Come si vedrà oltre la Corte di Giustizia (sent. 19 maggio 2009 causa C-531/06) mentre ha accertato la ragionevolezza e proporzionalità dell’introduzione della deroga alla riserva della titolarità in capo ai farmacisti per le sole farmacie comunali, il cui esercizio gestionale è tutelato da cogenti controlli pubblici, ha dichiarato compatibile con il diritto comunitario la restrizione della titolarità delle farmacie private in capo ai soli farmacisti, in quanto inserite nel sistema solidale della pianificazione pubblica. A questo punto, in relazione alla vendita di farmaci da automedicazione e senza obbligo di prescrizione medica, sorge un problema di disparità di trattamento della regolamentazione interna, rispettivamente tra farmacisti assegnatari di sedi farmaceutiche in esito a concorsi pubblici, la cui attività è gravata da obblighi assai onerosi di pubblico servizio e farmacisti titolari di esercizi di vicinato, non titolari di farmacie, non inseriti nella pianta organica e non gravati dagli obblighi di servizio pubblico propri delle farmacie. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 3.1. I Trattati A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, che inserisce un titolo denominato “sanità pubblica”, è andata crescendo l’attenzione delle politiche comunitarie nei confronti della salute pubblica fino al salto di qualità dei Trattati di Amsterdam (1997) e Lisbona (2007) e della Carta di Nizza (2000) che riconoscono la centralità dei diritti della persona e rendono pienamente vincolante in ambito europeo la Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU), tra i quali è compreso il diritto alla salute (26). Il consolidamento dei Trattati (27) in riferimento alle materie della libera concorrenza e della salute pubblica, e alle reciproche interferenze, risulta sinteticamente articolato nel modo seguente: - in applicazione dei criteri di attribuzione, l’art. 3, lett. b) ed e), TFUE assegna una competenza esclusiva all’UE in materia di definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno e di politica commerciale comune (con la conseguenza che ex art. 2 TFUE solo l'Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti, mentre gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall'Unione oppure per dare attuazione agli atti dell'Unione); - risultano viceversa applicabili in materia di tutela e miglioramento della salute umana, che assurge a diritto fondamentale del cittadino europeo i criteri di sussidiarietà e proporzionalità sanciti dall’art. 6 TFUE sicchè “l'Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri”. Inoltre “Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana (art. 9 TFUE). - A norma dell’art. 168 TFUE (ex art. 152 TUE): “1. Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche ed attività dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana. L'azione dell'Unione, che completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all'eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e la loro prevenzione, nonché l'informazione (26) Secondo l’elaborazione della Corte dei Diritti dell’Uomo la prima frase dell’art. 2 CEDU obbliga gli Stati non solo ad astenersi dal dare la morte “intenzionalmente” ma anche ad adottare le misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione (L.C.B. c. Royaume- Uni arret du 9 juin 1998. Recai des arrets et decisions 1998-III p.1403 § 36; Powell c. Royaume-Uni (dec.) n. 45305/99, CEDH 2000-V; Calvelli et Ciglio § 49). (27) Versioni consolidate pubblicate in GUUCE C 83 del 30 marzo 2010: i riferimenti riguardano gli articoli come rinumerati dopo il Trattato di Lisbona con decorrenza dal 1 dicembre 2009. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 e l'educazione in materia sanitaria, nonché la sorveglianza, l'allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero. L'Unione completa l'azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall'uso di stupefacenti, comprese l'informazione e la prevenzione. 2. L'Unione incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri nei settori di cui al presente articolo e, ove necessario, appoggia la loro azione. In particolare incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri per migliorare la complementarietà dei loro servizi sanitari nelle regioni di frontiera. Gli Stati membri coordinano tra loro, in collegamento con la Commissione, le rispettive politiche ed i rispettivi programmi nei settori di cui al paragrafo 1. La Commissione può prendere, in stretto contatto con gli Stati membri, ogni iniziativa utile a promuovere detto coordinamento, in particolare iniziative finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all'organizzazione di scambi delle migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici. Il Parlamento europeo è pienamente informato. 3. L'Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali competenti in materia di sanità pubblica. 4. In deroga all'articolo 2, paragrafo 5, e all'articolo 6, lettera a), e in conformità dell'articolo 4, paragrafo 2, lettera k), il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, contribuiscono alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente articolo, adottando, per affrontare i problemi comuni di sicurezza: a) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati; tali misure non ostano a che gli Stati membri mantengano o introducano misure protettive più rigorose; b) misure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo primario sia la protezione della sanità pubblica; c) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza dei medicinali e dei dispositivi di impiego medico. 5. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, possono anche adottare misure di incentivazione per proteggere e migliorare la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l'allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, e misure il cui obiettivo diretto sia la protezione della sanità pubblica in relazione al tabacco e all'abuso di alcol, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 6. Il Consiglio, su proposta della Commissione, può altresì adottare raccomandazioni per i fini stabiliti dal presente articolo. 7. L'azione dell'Unione rispetta le responsabilità degli Stati membri per la definizione della loro politica sanitaria e per l'organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica. Le responsabilità degli Stati membri includono la gestione dei servizi sanitari e dell'assistenza medica l’assegnazione delle risorse loro destinate. Le misure di cui al paragrafo 4, lettera a) non pregiudicano le disposizioni nazionali sulla donazione e l'impiego medico di organi e sangue”. - a norma dell’art. 174 TFEU (ex articolo 158 del TCE) per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. - l’art. 35 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce inoltre che ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche e che deve essere garantito un livello elevato di protezione della salute umana. Secondo l’assetto attuale, dunque, il progresso economico dell’Unione deve essere accompagnato dalla coesione sociale e territoriale e dalla tutela dei diritti fondamentali della persona. 3.2. Il diritto comunitario derivato Sul piano del diritto derivato afferente il servizio farmaceutico l’Unione Europea ha disciplinato esclusivamente il riconoscimento delle qualifiche professionali (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/36/CE, GU L 255, pag. 22, avente ad oggetto anche i farmacisti) e la distribuzione e il commercio dei farmaci (Direttive 2001/83/CE, 2004/24/CE, 2004/27CE- Codice comunitario per i medicinali ad uso umano). Il ventiseiesimo ‘considerando’ della Direttiva 2005/36/CE, enuncia quanto segue: “La presente direttiva non coordina tutte le condizioni per accedere alle attività nel campo della farmacia e all’esercizio di tale attività. In particolare, la ripartizione geografica delle farmacie e il monopolio della dispensa dei medicinali dovrebbe continuare ad essere di competenza degli Stati membri. La presente direttiva non modifica le norme legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che vietano alle società l’esercizio di talune attività di farmacista o sottopongono tale esercizio a talune condizioni”. Tale ‘considerando’ riprende, in sostanza, il secondo ‘considerando’ della direttiva del Consiglio 16 settembre 1985, 85/432/CEE, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti talune attività nel settore farmaceutico (GU L 253, pag. 34), e il decimo ‘considerando’ della direttiva del Consiglio 16 settembre 1985, 85/433/CEE, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 in farmacia e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento per talune attività nel settore farmaceutico (GU L 253, pag. 37), direttive che sono state abrogate con effetto a decorrere dal 20 ottobre 2007 e sostituite dalla direttiva 2005/36. Il recente D.Lvo 24 aprile 2006 n. 219 - Codice comunitario per i medicinali ad uso umano - in attuazione delle Direttive 2001/83/CE, 2004/24/CE, 2004/27CE, disciplina altresì la distribuzione e il commercio dei medicinali. La distribuzione all’ingrosso è subordinata al possesso di un’autorizzazione regionale (art. 100, co.1). La citata autorizzazione non è richiesta se l’interessato è in possesso dell’autorizzazione alla produzione a condizione che la distribuzione all’ingrosso sia limitata ai medicinali oggetto di tale autorizzazione (art. 100, co. 3). Dunque il medesimo soggetto, già autorizzato alla produzione, è abilitato anche alla distribuzione all’ingrosso. Il testo normativo disciplina altresì nel dettaglio, mediante rigorose procedure di autorizzazione e controllo, le attività di informazione scientifica a medici e farmacisti (art. 119 e ss.), le pubblicità commerciali al pubblico (art. 118), le funzioni e i compiti di farmacovigilanza (28). Il 45° Considerando della Direttiva stabilisce che la pubblicità presso il pubblico di medicinali che possono essere venduti senza prescrizione medica potrebbe, se eccessiva e sconsiderata, incidere negativamente sulla salute pubblica; che inoltre (52° Considerando) è necessario che le persone autorizzate a prescrivere o a fornire medicinali dispongano di fonti di informazioni imparziali e obiettive sui medicinali disponibili sul mercato. L’art. 5, comma 7 del D.L. 223/2006, decreto Bersani, ha abrogato l’incompatibilità tra la distribuzione all’ingrosso e la vendita dei medicinali (29): la modifica, in combinato disposto con le altre disposizioni del Codice comunitario in esame, in un regime liberalizzato, potrebbe aggravare il rischio di concentrazioni nel mercato e di integrazioni verticali e comunque risulterebbe in contrasto con la sostanziale distinzione di attività distribuzione all’ingrosso e dispensazione al pubblico da parte dei farmacisti sottesa dagli artt. 77 – 85 della medesima Direttiva 2001/83/CE (30). (28) Ai sensi dell’art. 113, viene definita pubblicità dei medicinali qualsiasi azione di informazione di ricerca della clientela o di esortazione intesa a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali. La pubblicità di un medicinale, assoggettata a limiti e autorizzazione ministeriale, deve comunque favorire l’uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà, e non può essere ingannevole. (29) L’art. 100/2 del D.Lvo 219/2006 recitava “Le attività di distribuzione all’ingrosso dei medicinali e quella di fornitura al pubblico di medicinali in farmacia sono fra loro incompatibili”. (30) L’art. 77 Direttiva consente la distribuzione all’ingrosso da parte dei farmacisti ma non viceversa. “Quando le persone autorizzate a fornire medicinali al pubblico possono esercitare, in forza della legislazione nazionale, anche un'attività di grossista, esse sono soggette all'autorizzazione di cui al paragrafo 1” . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 3.3. Le decisioni della Corte di giustizia e il principio di precauzione Su ricorso ex art. 226, primo comma, CE la Commissione avviava il procedimento per inadempimento dello Stato Italiano in riferimento ai presunti profili di incompatibilità della legislazione interna, per violazione degli artt. 43 CE (libertà di stabilimento) e 56 CE (libertà di circolazione dei capitali), nella misura in cui la stessa riserva la titolarità delle farmacie in capo ai soli farmacisti o società di farmacisti e preclude alle imprese di distribuzione di prodotti farmaceutici di acquisire partecipazioni nella società di gestione di farmacie comunali. Il procedimento - che trovava origine, significativamente, in un ricorso da parte di un importante gruppo europeo di distribuzione (e produzione) di farmaci generici - era accompagnato da altre iniziative della Commissione nei confronti di analoghe legislazioni nazionali (austriaca, spagnola) in ordine ai principi della pianificazione (pianta organica). Intervenivano nel procedimento innanzi alla Corte di Giustizia, a sostegno della posizione italiana in difesa del sistema nazionale di natura solidale fondato sulla pianificazione, ben cinque Stati membri: la Repubblica Ellenica, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica di Lettonia e la Repubblica d’Austria. In particolare la Lettonia, che aveva consentito la recente liberalizzazione dei servizi, segnalava nei propri scritti difensivi le gravi inefficienze e compressioni della qualità dei servizi farmaceutici in seguito alle citate riforme. L’Austria provava significativamente i gravi rischi per la salute umana derivanti da un uso non corretto dei farmaci, anche da banco e da automedicazione; la Spagna censurava l’operato della Commissione che tentava di introdurre un modello liberistico unico per l’intera Europa in violazione del principio di sussidiarietà e al di fuori dei meccanismi di partecipazione democratica propri dei parlamenti nazionali ed europeo. La questione, data l’importanza, veniva devoluta alla Grande Sezione. All’esito della discussione la Corte rigettava il ricorso della Commissione riconoscendo la piena compatibilità del diritto italiano rispetto al diritto comunitario. Nel dettaglio accertava non provato da parte della Commissione che le restrizioni oggetto di censura non fossero proporzionate ed adeguate in relazione alla tutela della salute pubblica. Nelle proprie argomentazioni il giudice adito, avendo chiarito preliminarmente come la responsabilità degli Stati membri nell’organizzazione dei propri servizi sanitari non debba comprimere in modo ingiustificato e sproporzionato le libertà economiche garantite dal Trattato (punti 35 e 36) riconosce che la salute e la vita delle persone occupano il primo posto tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato (punto 36); che inoltre nessuna disposizione specifica comunitaria precisa l’ambito delle persone titolari del diritto di gestire una farmacia. Effettivamente, afferma la Corte, la normativa italiana comporta restrizioni, sia pur non discriminatorie, sia alla libertà di stabilimento che alla libertà di circolazione dei capitali e pertanto occorre verificare se le citate re- 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 strizioni siano giustificate allo scopo di garantire un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità inteso quale motivo imperativo di interesse pubblico (punti 49-53). Ebbene conclude la Corte, si giustifica pienamente che “qualora sussistano incertezze circa l’esistenza o l’entità dei rischi per la salute delle persone lo Stato membro possa adottare misure di tutela senza dover aspettare la concretezza di tali rischi sia pienamente dimostrata. Inoltre lo Stato membro può adottare misure che riducano per quanto possibile il rischio per la sanità pubblica (v. in tal senso sentenza 5 giugno 2007 causa C- 170/04 Rosengren e a., Racc. pag. I-4071, punto 49) compreso, più precisamente, il rischio per il rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità (punto 54)”. Data la nocività di tutti i medicinali, i potenziali rischi per la salute pubblica e per l’equilibrio finanziario dei sistemi di sicurezza sociale dei singoli Stati giustificano, in quanto proporzionata e adeguata allo scopo, una legislazione nazionale coerente e sistematica che riservi in capo ai soli farmacisti indipendenti, con esclusione degli altri operatori economici, la titolarità della gestione del servizio farmaceutico. In ultima analisi, osserva la Corte che uno Stato membro può ritenere che costituisca un rischio per la sanità pubblica, la gestione di una farmacia da parte di un non farmacista: “….valutare se un tale rischio esista con riferimento ai produttori e ai commercianti all’ingrosso di prodotti farmaceutici per il motivo che questi ultimi potrebbero pregiudicare l’indipendenza dei farmacisti stipendiati incitandoli a promuovere i medicinali da essi stessi prodotti o commercializzati. Del pari uno Stato membro può valutare il rischio che i gestori non farmacisti compromettano l’indipendenza dei farmacisti stipendiati incitandoli a smerciare medicinali il cui stoccaggio non sia più redditizio o procedano a riduzioni di spese di funzionamento che possano incidere sulle modalità di distribuzione al dettaglio dei medicinali”. La citata sentenza chiarisce ed enfatizza quanto segue: - la salute e la vita delle persone sono bene primario e incomprimibile della persona, protetto dal Trattato (e non solo dagli Stati membri, pur competenti a determinarne il livello di garanzia e le modalità per raggiungerlo); - il principio di precauzione ben può essere a fondamento di una legislazione interna che anticipi la soglia di tutela del bene salute a fronte di rischi anche solo potenziali e non accertati; - la salvaguardia dell’indipendenza e formazione professionale del farmacista sono requisiti di garanzia per una dispensazione dei medicinali corretta e di qualità, e quale prevenzione dai rischi di un mercato “imperfetto,” caratterizzato da gravi asimmetrie informative e forti interessi economici. Successivamente la Corte di Giustizia torna a pronunciarsi in ordine alle farmacie. L’occasione è la domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 234 CE del Tribunal Superior de Justicia de Asturias (cause C-570/07 e C-571/07) in virtù CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 della quale si chiede di accertare se il diritto di stabilimento garantito dal Trattato osti alle disposizioni restrittive interne delle Asturie - del tutto simili alla normativa italiana - che disciplinano la pianta organica e il regime delle autorizzazioni all’apertura delle farmacie. Anche in tale decisione la Corte ribadisce preliminarmente la responsabilità degli Stati membri nell’impostare i propri sistemi nazionali di assistenza sanitaria tenendo conto del fatto che la salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato (punti 43 e 44); che il diritto comunitario derivato lascia impregiudicato sia il principio del concorso – inteso come condizione di accesso alle attività del settore farmaceutico – sia i criteri di distribuzione territoriale del servizio. Verificato dunque che la normativa spagnola contiene disposizioni restrittive della libertà di stabilimento (concorso e pianta organica), ancorchè non discriminatorie, (punti 53-60), il giudice comunitario verifica se le stesse risultino giustificate dall’obiettivo di garantire alla popolazione una fornitura di medicinali sicura e di qualità ai sensi degli artt. 168, n. 1 TFUE e 35 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ebbene in applicazione del principio di precauzione (31) - sostiene la Corte - lo Stato membro può garantire un’equilibrata distribuzione del servizio sull’intero territorio nazionale mediante una pianificazione che tenga conto dei criteri, tra loro complementari, della popolazione e della distanza tra farmacie. Inoltre la Corte chiarisce espressamente le ragioni per le quali le argomentazioni a sostegno delle liberalizzazioni non siano condivisibili. In primo luogo la gravità degli obiettivi propri della tutela della salute pubblica può giustificare restrizioni che abbiano conseguenze negative, anche gravi, per taluni operatori; secondariamente la normativa spagnola appare coerente e sistematica anche in ragione degli elementi di flessibilità correlati alle specifiche esigenze della collettività (punti 97-103); in ultimo il cd. sistema de minimis non appare parimenti efficace rispetto all’obiettivo di assicurare un approvvigionamento sicuro e di qualità nelle zone poco attraenti (punti 104 – 111). Successivamente la Corte di Giustizia con la sentenza 1° luglio 2010, causa C-393/08, avente valenza solo processuale in quanto dichiara irricevibile la domanda pregiudiziale del Tar Lazio in tema di orari e ferie delle farmacie, accerta tra l’altro, che le disposizioni del diritto comunitario in materia di concorrenza (artt. 81 CE – 86 CE) risultano manifestamente inapplicabili in un contesto quale quello del procedimento principale. (31) Qualora sussistano incertezze sull’esistenza o sulla portata di rischi per la salute delle persone, lo Stato Membro può adottare misure di protezione senza dover attendere che la realtà di tali rischi sia pienamente dimostrata (punto 74) in relazione al rischio di inadeguato approvvigionamento di medicinali quanto a sicurezza e qualità (punto 75). 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 3.4. La politica comunitaria sulla salute La tendenza evolutiva della politica europea per la salute pubblica è delineata altresì dal Libro Bianco della Commissione “Un impegno comune per la salute: approccio strategico dell’UE per il periodo 2008 – 2013”(32). La Relazione del Parlamento Europeo del 16 settembre 2008 sul citato documento evidenzia che i sistemi di sanità solidali sono un elemento essenziale del modello sociale europeo, che è prioritario assicurare la sostenibilità dei citati sistemi ed eliminare le disparità a livello di assistenza sanitaria tra gli Stati e all’interno di ciascuno Stato, pur nel rispetto delle differenze dei sistemi gestionali e delle competenze dei singoli Stati. In tale prospettiva il Parlamento sollecita una politica europea più appropriata e adeguata ad assicurare un elevato livello di tutela della salute pubblica, basata su corrette valutazioni di impatto sanitario, sulla definizione del ruolo e delle responsabilità dell’industria farmaceutica nell’ambito della sostenibilità dei sistemi sanitari, un’informazione affidabile, indipendente e comparabile, la capacità di elaborare linee guida per ridurre la prescrizione degli antibiotici nei casi di sola effettiva necessità, garantire la lotta alla contraffazione dei medicinali ed una maggiore integrazione tra le politiche dei singoli Stati. 4. Verifica della posizione dell’Autorità per la Concorrenza ed il Mercato Considerato che il sistema sanitario italiano è fondato sul modello solidale (e non già liberistico) e che lo stesso, oltre ad essere pienamente compatibile con il diritto comunitario, anticipa le politiche europee in materia di salute pubblica, la posizione ufficialmente assunta dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato nell’ambito della funzione consultiva di enforcement antitrust ex artt. 21 e 22 L. 287/1990 appare non più attuale e soprattutto non condivisibile per difetto di competenza, approccio metodologico ed esito dei contenuti. In primo luogo, nella prospettiva pur non condivisibile dell’AGCM, si pone un dubbio in ordine al riparto di competenze tra istituzioni nazionali e quelle comunitarie - in primis la Commissione - ai sensi degli artt. 1 L. 287/1990, 2 e 3 TFUE. I giudizi innanzi alla Corte di Giustizia hanno infatti evidenziato che il contesto di mercato afferente la produzione, importazione e distribuzione all’ingrosso dei medicinali, data l’entità degli operatori economici, la fluidità tra ambiti nazionali e la vigenza del Codice Comunitario concernente i medicinali per uso umano, è significativamente rilevante per il mercato unico, e dunque di competenza comunitaria. Il rigetto del ricorso della Commissione da parte della Corte di Giustizia vincola pertanto anche l’Autorità indipendente nazionale, alla quale è preclusa ogni ulteriore valutazione in (32) COM (2007)0630. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 contrasto con le decisioni del giudice comunitario che affermano il carattere marginale delle libertà economiche in relazione al modello solidale esaminato. Resta quindi confermato che le eventuali restrizioni alla dispensazione dei farmaci al pubblico - attività ontologicamente distinta se non contrapposta alla produzione/distribuzione all’ingrosso dei medicinali - sono pienamente giustificate, adeguate e proporzionate per il perseguimento di fini di interesse generale. Il che comporta il venir meno dei presupposti a fondamento di qualsivoglia intervento dell’Antitrust ai sensi degli artt. 1, 21 e 22 L. 287/1990 nella misura in cui lo stesso vada a censurare i fondamenti dell’organizzazione del servizio farmaceutico già vagliati favorevolmente dalla Corte di Giustizia. Il sistema sanitario solidale - fondato sulla pianificazione e sul principio del concorso pubblico - presuppone infatti che la dispensazione dei farmaci al pubblico riservata ai soli farmacisti titolari di farmacie, sia sottratta al mercato in quanto attività assistenziale. Pertanto le modalità di dispensazione dei farmaci al pubblico, in quanto afferenti, in prevalenza, la tutela della salute pubblica (e non già della concorrenza) esulano dall’ambito di applicabilità della L. 287/1990. Sotto il profilo metodologico si rileva che, ammesso e non concesso che l’Autorità possa sindacare in sé la coerenza ed efficacia dell’organizzazione del servizio farmaceutico, tale valutazione debba essere compiuta in relazione ai fini di interesse generale sottesi alla disciplina di cui trattasi: la tutela della salute pubblica. Diversamente argomentando si porrebbe in essere un’inversione arbitraria tra fini e mezzi: la disciplina del servizio farmaceutico non è preordinata a soddisfare interessi economici o a garantire la competitività del Paese, bensì ad assicurare un elevato livello della salute pubblica. Né appaiono condivisibili le soluzioni che prospetta l’Autorità. Per valutare il grado di efficienza e soddisfazione del servizio da parte della collettività l’AGCM dovrebbe allora fondare le proprie posizioni non già su documenti forniti da soggetti portatori di interessi economici settoriali – in specie Anifa Federchimica – bensì studi e rilevazioni di carattere “indipendente” o quanto meno “istituzionale”, aventi valenza non solo economica. Stupisce allora che l’Autorità ignori del tutto i dati messi a disposizione periodicamente dal Censis ovvero dall’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed)(33). Il Censis, nell’audizione al Senato Commissione XII Igiene e Sanità del 22 settembre 2010 attesta un altro grado di gradimento da parte dei cittadini del sistema farmaceutico - quale parte integrante del SSN - mentre l’OsMed, nel Rapporto nazionale gennaio-settembre 2010 evidenzia, a seguito del venir meno della copertura brevettuale di importanti molecole, l’aumento globale della spesa farmaceutica degli equivalenti (30%). In altri termini a fronte di una diminuzione dei costi si registra comunque un aumento del consumo pro- (33) L’Osservatorio nazionale sull’Impiego dei farmaci, istituito con L. 448/98 ha tra le sue finalità quella di descrivere i cambiamenti nell’uso dei farmaci e correlare problemi di sanità. 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 capite dei farmaci generici, che rappresentano oggi una fetta crescente del mercato globale (34). Risultano altresì disattesi i molteplici risultati della letteratura scientifica e delle Agenzie internazionali che si sono espresse circa i rischi di abuso dei farmaci o disinformazione degli assistiti. Considerato quindi che nel settore farmaceutico deve aversi riguardo all’uso razionale e sicuro dei farmaci (quale parametro di qualità del servizio) i dati puramente quantitativi e parziali prodotti dall’Autorità a sostegno della liberalizzazione (tesi ad una diversa distribuzione dei ricavi tra i protagonisti della filiera del farmaco) appaiono del tutto inconferenti in relazione ai fini di interesse generale di tutela della salute pubblica. Peraltro le esperienze delle liberalizzazioni poste in essere in altri Paesi europei - emerse nei giudizi innanzi alla Corte di Giustizia - hanno dimostrato che sottrarre la riserva in capo ai farmacisti della dispensazione dei farmaci costituisce un serio rischio di aumento ingiustificato dei consumi(35). Al riguardo la possibilità di pubblicizzare i farmaci da banco e senza obbligo di prescrizione medica aggrava notevolmente tale rischio. A ciò si aggiunga che l’acquisto dei canali di vendita da parte dei distributori - nei paesi in cui ciò è consentito - costituisce ragione di crescita dell’EBITDA, correlato all’aumento dei consumi . Un’ultima argomentazione, di carattere centrale ed assorbente. Sorprende non poco come difetti del tutto nelle segnalazioni dell’Autorità uno studio di impatto della proposta liberalizzazione in relazione alla sostenibilità complessiva del sistema farmaceutico. Le farmacie, oltre alla vendita dei farmaci, erogano una serie di servizi alla persona, propri del SSN, senza alcun onere a carico delle finanze pubbliche: anticipazioni sugli acquisti dei farmaci rimborsabili, CUP, servizi domiciliari, farmacovigilanza ecc. Appare allora evidente che la liberalizzazione della vendita minerebbe gravemente la redditività delle farmacie quale fondamento della sostenibilità delle sistema, pregiudicandone gravemente l’efficienza quali presidi del servizio sanitario nazionale. Si auspica che l’Autorità ponderi in maniera più approfondita i principi fondamentali che caratterizzano l’organizzazione del servizio sanitario nazionale e concentri viceversa l’esercizio delle proprie funzioni ex L. 287/90 sui rischi concreti di concentrazione e integrazione verticale che sussistono nei (34) Tavola 12 del Rapporto in www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/farmaci_spesa/ (35) Margine Operativo Lordo, vd. dati Celesio (gruppo già Gehe, controllata da Franz Haniel & Cie Gmbh quotata alla Borsa di Francoforte e collegata anche a Lloydpharmacy e Apoteke Doc Morris e alla Grande Distribuzione, METRO Group) Rassegna stampa Celesio 11 novembre 2010 che registra nel periodo gennaio-settembre 2010 un incremento dell’EBITDA del 10.3 per cento fino a 17.35 miliardi di euro, principalmente riconducibili alle vendite all’ingrosso di prodotti farmaceutici. Tali dati sono da correlare alla politica del gruppo volta alle acquisizioni delle farmacie in molti paesi, tra i quali l’Italia: Azienda farmacie milanesi spa (n. 84 farmacie comunali in Milano e n. 2 dispensari) e AFM spa (35 farmacie comunali in Emilia Romagna). In argomento AGCM, provv.ti 9563/2001 e 7234/1999, che tuttavia non rileva rischi di concentrazione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 settori economici a valle dell’assistenza sanitaria costituiti dalle attività di produzione e distribuzione all’ingrosso dei farmaci, significativamente emersi nei giudizi innanzi alla Corte di Giustizia. Le Farmacie e le Corti Istruzioni per un uso non corporativo delle sentenze Fabio Pammolli* e Nicola C. Salerno** SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e Corte Costituzionale. – 3. Commissione Europea e Corte di Giustizia Europea. – 4. Conclusioni. 1. Premessa Nel dibattito che accompagna i tentativi di riforma degli esercizi farmaceutici e della distribuzione del farmaco, si è aggiunto, negli ultimi tempi, un argomento “nuovo”. Un presunto contrasto tra da un lato le indicazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in seguito “Antitrust”) e della Commissione Europea e, dall’altro, le sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia Europea. Antitrust e Commissione, nei rispettivi ruoli e con gli strumenti propri di ciascuno, chiedono il superamento degli aspetti anti-concorrenziali e di chiusura corporativistica che caratterizzano il settore. Dalle due Corti sono sopraggiunte sentenze che, a prima vista e soprattutto ad occhio inesperto, potrebbero sembrare sconfessare rispettivamente l’Antitrust e la Commissione. Poiché questo argomento ricorre sempre più spesso e potrebbe confondere il confronto tra le parti e ostacolare la finalizzazione delle riforme, si riporta, di seguito, una lettura ragionata delle posizioni espresse dalle quattro Istituzioni, che tiene conto della loro sfera di competenze e delle loro attribuzioni. Il loro disallineamento è solo apparente. 2. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e Corte Costituzionale Nella sua ormai quasi ventennale attività di analisi e segnalazione riguardo la distribuzione dei farmaci, l’Antitrust ha ripetutamente sollecitato Parlamento e Governo ad affrontare i nodi strutturali di origine corporativistica (*) Presidente del CeRM - Competitività, Regole, Mercati (www.cermlab.it), e direttore della scuola dottorale IMT - Alti Studi Lucca (www.imtlucca.it). (**) Dirigente di ricerca in CeRM. 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 e di ostacolo alla concorrenza. L’Antitrust ha periodicamente chiesto: la rimozione della pianta organica con copertura delle zone che restano scoperte a cura del comune; il superamento della sovrapposizione proprietà-gestione e del divieto che la proprietà possa essere di società di capitali; l’introduzione di un nuovo criterio di remunerazione per la distribuzione dei farmaci “A” (i rimborsati dal servizio sanitario nazionale), senza la proporzionalità al prezzo al consumo; la trasformazione di tutti gli obblighi in termini di ore, giorni, periodi di apertura da tetti massimi a standard minimi di servizio pubblico; l’eliminazione del vincolo di prezzo unico nazionale per i farmaci rimborsati; etc.. Alla base di queste richieste, alcune valutazioni di merito economico. I vincoli posti dal legislatore sono sovradimensionati rispetto all’obiettivo di perseguire la salute pubblica. Un ampliamento dell’offerta, con conseguente efficientamento della distribuzione e maggiore concorrenza a monte tra produttori, è nell’interesse del servizio sanitario nazionale e dei cittadini. Il primo potrebbe, con le risorse a disposizione, più concretamente perseguire, bilanciandoli, l’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa e quello di ammettere a rimborso i prodotti in-patent (coperti da brevetto) con prezzi all’altezza della loro innovatività e del sottostante impegno in ricerca e sperimentazione. I secondi avrebbero sempre a disposizione la più ampia varietà di farmaci, sia in fascia “A” (i mutuati) che in fascia “C-Op” (i non mutuati con obbligo di prescrizione), per ottimizzare il loro impiego a seconda delle esigenze terapeutiche. Se l’Antitrust non ha mai nutrito dubbi sull’agenda settoriale da indicare al Parlamento e al Governo, da qualche tempo a questa parte, ovvero da quando il dibattito di policy si è intensificato, tra le varie tesi è comparsa anche quella di un presunto contrasto tra gli intenti dell’Antitrust e le sentenze della Corte Costituzionale. Invero, in più occasioni la Corte si è espressa su questioni inerenti la distribuzione al dettaglio dei farmaci, e dalla lettura delle motivazioni e del dispositivo delle sentenze si vorrebbero ricavare conferme della bontà dell’attuale struttura di settore. Su questo punto, e sui rapporti tra Antitrust e Corte Costituzionale, è importante maturare un punto di vista approfondito, che tenga conto delle rispettive competenze e dei ruoli. Si rischia, altrimenti, di rimanere bloccati in una contrapposizione tra due alte istituzioni che avrebbe del paradossale, dal momento che l’Antitrust è nata per dare attuazione a principi economici affermati nella Costituzione (libertà di intrapresa, diritto al lavoro, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, etc.), e che la Corte Costituzionale è un organo costituzionale di garanzia e, come tale, non può esprimersi nel merito delle scelte di politica economica di Parlamento e Governo. Per la Corte il profilo rilevante è quello della legittimità costituzionale. Il contrasto con l’Antitrust è solo apparente. La Corte adotta un punto di vista giuridico, per giunta non complessivo (visione settoriale e connessioni CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 intersettoriali), ma focalizzato sulla fattispecie su cui è sollecitata; l’Antitrust esprime un punto di vista economico e sistemico. Il primo verifica la coerenza interna della normativa e la sua rispondenza ai principi costituzionali; il secondo pone la normativa al vaglio dell’analisi economica, in una prospettiva di potenziale riscrittura e ristrutturazione. La Corte prende in esame, il corpus normativo esistente per giudicare su eventuali aporie e inconsistenze interne, che minino l’unitarietà con cui il complesso delle leggi deve tendere a realizzare i principi fondanti della Costituzione. L’Antitrust si esprime sulla migliorabilità delle norme attraverso processi di riforma pro-concorrenziale per adeguarle ai tempi, alle nuove capacità organizzative e imprenditoriali, di nuovi strumenti di governance, etc.. Non deve sembrare una diminutio della Corte affermare che, per forza di cose, il suo giudizio si veste di una maggior prevalenza formale, mentre quello dell'Antitrust può puntare direttamente ai fondamentali economici. Per avere delle esemplificazioni, si prendano la Sentenza n. 446 del 1988, la sentenza n. 27 del 2003, e la sentenza n. 275 del 2003, le tre maggiormente invocate nel confronto di politcy. Nella Sentenza n. 446 del 1988, la Corte Costituzionale si esprime sugli obblighi di chiusura estiva e infrasettimanale e sulla fissazione degli orari giornalieri, sui quali hanno competenza le regioni. Qui la stessa Corte, a latere, nel dispositivo che rigetta il ricorso contro gli obblighi di chiusura, inserisce una precisazione che fa assumere allo stesso dispositivo una luce completamente diversa: “[Si rammenta] che il potere [di questa Corte] di giudicare in merito alla utilità sociale alla quale la Costituzione condiziona la possibilità di incidere sui diritti della iniziativa economica privata concerne solo la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine e la generica idoneità di mezzi predisposti per raggiungerlo”. In altri termini, la Corte sostiene che nel corpo normativo regionale si riscontra (nella formulazione degli articoli, nelle premesse, nei rimandi ai principi costituzionali, etc.) la volontà di volgere quelle limitazioni delle libertà di intrapresa verso finalità socialmente meritorie (organizzazione della rete di welfare locale, mantenimento delle qualità psicofisiche dei lavoratori, etc.). La stessa Corte ne prende atto, riconoscendo poterci essere un generico legame tra le limitazioni e le finalità sociali. Ma il punto su cui si dovrebbe approfondire è proprio questo: non fermarsi alla dichiarazione formale delle finalità e, al contrario, entrare nel merito dei legami di azione-effetto che ci sono tra la misura di policy e l’auspicata utilità sociale. Solo che questa funzione non la può assolvere la Corte, che non può impegnarsi nella valutazione di merito sulla proporzionalità tra l’azione e l’effetto, né, tantomeno, sull’esistenza di altre eventuali misure in grado di perseguire le stesse finalità secondo modalità e con esiti migliori. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 La Sentenza n. 27 del 2003 offre un esempio ancora più chiaro. La Corte è di nuovo chiamata ad esprimesi sui vincoli ai periodi di apertura degli esercizi (orari, ferie estive, giorni di lavoro nella settimana). Qui non si dubita che la scelta del Legislatore (nazionale e regionale) sia volta a perseguire la salute pubblica, e che i limiti alla concorrenza tra esercizi farmaceutici abbiano natura strumentale alla salute pubblica. La Corte “giustifica” i vincoli sui periodi di apertura rimandando alla stessa ratio alla base del contingentamento numerico delle farmacie (la pianta organica), aspetto non coinvolto (in questo specifico caso) dal ricorso alla stessa Corte. Assodato (nel “ritenuto in fatto” e nel “considerato in diritto” della sentenza) che il contingentamento numerico mira ad una migliore realizzazione del servizio pubblico, allora, conclude la Corte, i vincoli agli orari possono essere visti come un completamento dello stesso contingentamento, condividendone la finalità. Non un giudizio di adeguatezza e proporzionalità dello strumento, ma un giudizio di coerenza interna del corpo normativo in vigore. E’ evidente che, se la ratio viene costruita in questa maniera, i singoli aspetti del corpus normativo in vigore si sostengono a vicenda, senza passare per una analisi di congruità e di adeguatezza. Da questo punto di vista, di particolare interesse è quanto la Corte afferma poco prima del dispositivo, quando riconosce che: “[…] Le mutate condizioni di fatto e di diritto consentirebbero un cambiamento dei convincimenti [circa i vincoli di apertura], [… sennonché] appare evidente che una simile operazione di rimodulazione del dettato legislativo fuoriesce dai compiti della Corte, la quale deve limitarsi ad uno scrutinio di legittimità costituzionale delle norme […] ”. Infine, con la Sentenza n. 275 del 2003 la Corte è attivata in merito alla diversa applicazione dell’incompatibilità tra attività all’ingrosso e al dettaglio per le farmacie private (su cui illo tempore sussisteva) e pubbliche (per le quali illo tempore non era prevista). L’articolo 8, comma 1, lettera a), della Legge n. 362 del 1991 doveva prevedere, secondo la Corte, che la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali fosse incompatibile con qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco. La incompatibilità erga omnes tra vendita all’ingrosso e vendita al dettaglio è stata infatti subito dopo introdotta dal D.Lgs. n. 219 del 2006, poi a sua volta modificato dalla legge n. 248 del 2006 (cosiddetta riforma “Bersani-1”), che ha permesso al farmacista titolare di impegnarsi anche in attività di distribuzione all’ingrosso dei farmaci. Con la sentenza n. 275 del 2003 la Corte non entra in nessun modo nel merito della ratio dell’incompatibilità e della sua proporzionalità con gli scopi dichiarati dal Legislatore. Riconosciuto che l’incompatibilità è (era) attestata per le farmacie private, la Corte si limita a chiedere la rimozione della disparità di trattamento, con l’estensione del vincolo anche alle farmacie comunali. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 L’azione della Corte è tesa a rimuovere una disparità di trattamento tra cittadini e tra professionisti/lavoratori, con la richiesta che va nel verso che alla Corte appariva il più rispettoso delle intenzioni del Legislatore: se quella incompatibilità è (era) stata disposta in previsione di uno scopo meritorio, allora è (era) corretto che riguardasse tutte le farmacie, private e pubbliche senza distinguo. Riassumendo, dalla sentenze della Corte costituzionale non è possibile far discendere elementi con cui confutare le tesi sostenute dall’Antitrust. L’apparente contrasto che è emerso con riguardo al settore della distribuzione al dettaglio dei farmaci suggerisce, invece, la necessità di una maggior collaborazione istituzionale. Per il futuro, l’auspicio è quello di una convergenza e di un raccordo tra le due Istituzioni, prevedendo che l’Antitrust possa sia attivare la Corte Costituzionale su tematiche inerenti la concorrenza e il mercato, sia comparire tra le parti tecniche audite dalla Corte su queste stesse tematiche. 3. Commissione Europea e Corte di Giustizia Europea Le considerazioni appena svolte sul rapporto tra Antitrust e Corte Costituzionale sono di aiuto per comprendere quello che sta accadendo a livello europeo, dove Commissione Europea e Corte di Giustizia Europea appaiono, a prima vista, anch’esse disallineate nella valutazione sulla struttura e sulla regolazione del settore. Preliminarmente, occorre ribadire che struttura e regolazione del settore presentano tratti fondamentali simili in molti paesi europei, e soprattutto in quelli mediterranei e di diritto romano quali Francia, Italia, Portogallo, Spagna, ma non solo se si pensa ai casi del Belgio e della Germania. Questa condizione implica che dal confronto internazionale degli status quo è raro che possano giungere indicazioni dirimenti per l’agenda delle riforme, se non a patto di ampliare i casi Paese posti a confronto e di concentrarsi sugli aspetti migliori rinvenibili qui e lì. Se si analizzano gli interventi della Commissione Europea nell’arco degli ultimi cinque-sei anni, emerge una chiara condivisione di visione e di ragioni con l’Antitrust italiano. I principi dell’Unione Europea di libera circolazione di persone, professionisti e capitali, e di libertà di insediamento delle attività economiche e imprenditoriali (articoli 43-56 del trattato della comunità europee) spingono la Commissione a sollecitare i Partner a superare la pianta organica, la sovrapposizione proprietà/gestione, il divieto che la proprietà sia di società di capitali, il divieto di formazione di catene, i vincoli di coordinamento dei periodi di apertura, etc.. Per portare alcuni esempi, con l’IP/05/1665 (Infraction Procedure) del 21 Dicembre 2005, la Commissione ha ufficialmente chiesto all’Italia di rimuovere i vincoli sulla proprietà delle farmacie, che vanno al di là di quanto necessario per perseguire l’obiettivo della salute pubblica. Si legge: 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 “La Commissione crede che la restrizione vada al di là di quanto necessario per perseguire l’obiettivo della salute pubblica. Il problema del conflitto di interessi può, infatti, esser evitato con misure diverse dal divieto assoluto per le imprese impegnate nella distribuzione all’ingrosso di investire anche nella distribuzione al dettaglio. Come già osservato a proposito del divieto di detenere la proprietà di farmacie per soggetti non farmacisti abilitati e per persone giuridiche diverse da società di persone composte da soli farmacisti abilitati, l’obiettivo della salute pubblica rimarrebbe ugualmente garantito fissando il requisito che solo il farmacista abilitato può dispensare il farmaco al paziente-cliente e deve esser necessariamente presente in farmacia […] ”. Con l/IP/06/858 del 28 Giugno 2006, la Commissione ha deciso di chiedere alla Spagna di addurre giustificazioni per la pianta organica e i vincoli di accesso alla proprietà, aspetti simili a quelli italiani e valutati eccessivi e controproducenti. Si legge: “La scelta di limitare il numero di farmcie appare sproporizionato e addirittura controproducente rispetto all’obiettivo di assicurare un buon rifornimento di medicinali sul territorio […] ”. E ancora: “[I vincoli di accesso alla proprietà] sono restrizioni esagerate rispetto al requisito legittimo e necessario che i rapporti tra la farmacia e i pazienti-clienti si svolgano alla presentza e sotto la resposabilità di farmacisti abilitati. [Questi vincoli alla proprietà] non sono in alcun modo necessari a perseguire l’obiettivo della salute pubblica”. Nello stesso documento, speculari richieste sono state rivolte all’Austria. E sempre nello stesso documento è stato inserito il deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia Europea come proseguimento dell’iter avviato con l’IP/05/1665 (citato poco sopra). Con l’IP/08/1352 del 18 Settembre 2008, la Commissione ha formalmente richiesto alla Germania e al Portogallo di riformare la regolazione di settore. Per la prima, la richiesta ha riguardato l’eliminazione dei vincoli di accesso alla proprietà e di creazione di catene (“[anche queste limitazioni] non trovano giustificazione alcuna nell’obiettivo di perseguire la protezione della salute” ). Per il secondo, la richiesta ha riguardato il divieto per i grossisti di assumere la proprietà di farmacie, oltre che i vincoli alla formazione di catene di esercizi (“[…] sono vincoli sproporzionati rispetto al fine di garantire la pubblica salute e, per questo motivo, non compatibili con il principio comunitario della libertà di stabilimento di lavoratori, professionisti e attività imprenditoriali”). Infine, con l’IP/08/1785 del 27 Novembre 2008, la Commissione si è nuovamente rivolta all’Italia, chiedendo di eliminare il vincolo per il farmacista di possedere più di un esercizio, e quello per le società di farmacisti di possedere più di quattro esercizi, per giunta necessariamente ubicati all’interno della stessa provincia: “[…] I vincoli vanno al di là di quanto obiettivamente ne- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 cessario per perseguire quell’obiettivo di salute pubblica invocato dalle Autorità Italiane”. Se le posizioni della Commissione sono chiare e inequivocabili, da quando alcuni dei procedimenti avviati dalla Commissione sono approdati al vaglio finale della Corte di Giustizia, sono emerse delle divergenze tra le valutazioni delle due istituzioni. Tuttavia, ad una lettura attenta delle sentenze della Corte, si comprende come si stia ripresentando a livello europeo quel diverso “punto di vista” rilevabile in Italia tra l’Antitrust e la Corte Costituzionale. La Corte di Giustizia non può sostituirsi ai policy maker nazionali; né riconsiderare il corpus normativo e regolamentare esistente in una prospettiva di riorganizzazione, ristrutturazione e ammodernamento. Compito della Corte è accertare che non esistano punti di contrasto tra le legislazioni nazionali e il Trattato delle Comunità Europee. Nell’assolverlo, la Corte non può entrare nel merito specifico della scelta degli strumenti per perseguire le varie finalità a livello Paese. La salute pubblica e la libera intrapresa sono entrambi presenti nel Trattato delle Comunità Europee come lo sono nella Costituzione Italiana, e se un Legislatore nazionale afferma di aver posto dei vincoli alla concorrenza perché, nella sua valutazione, questi sono importanti per perseguire l’obiettivo di salute pubblica, la Corte di Giustizia non può sindacare sul “quantum”, ma si limita a riconoscere la coerenza interna del Legislatore nazionale, che ha agito senza ignorare le due finalità, e compiendo scelte precise sulla loro realizzazione coordinata. Alcuni esempi confermano questa lettura. Con la Sentenza della Grande Sezione del 1° giugno 2010 (procedimenti riuniti C-570/07 e C-571/07), la Corte, esprimendosi sulla pianta organica nella provincia spagnola delle Asturie, arriva sì a valutarla non in contrasto con il Trattato delle Comunità Europee, ma sottolineando come questa stessa valutazione valga solo in linea di principio, nella misura in cui la pianta organica è strumentale al perseguimento della salute pubblica. Si legge: “Nel valutare il rispetto dell’obbligo [di non introdurre ingiustificate restrizioni alla concorrenza e alla libertà di intrapresa], è necessario tenere conto del fatto che la salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato, e che spetta agli Stati Membri stabilire il livello al quale intendono garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui tale livello deve essere raggiunto. Poiché detto livello può variare da uno Stato all’altro. Si deve riconoscere agli Stati Membri un margine discrezionale”. E’ significativo che l’Avvocato Generale, nel presentare la causa alla Grande Sezione che doveva poi decidere, così concludeva la sua audizione: “[…] Spetta al giudice nazionale determinare se la distanza specifica imposta [tra farmacie] sia giustificata, tendo conto del livello di interferenza 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 con il diritto di stabilimento, della natura dell’interesse pubblico, nonché del livello di copertura universale che potrebbe essere raggiunto con sistemi meno restrittivi”. Resta, così, elusa e ancora aperta la questione della proporzionalità e dell’adeguatezza della regolamentazione settoriale. Proprio le due qualità che la Commissione Europea vede alla base di ogni valido assetto regolatorio. Infatti, con il “Report on competition in professional services” (COM(2004)83final del 9 Febbraio 2004), la Commissione Europea ha invitato i Partner a sorvegliare sull’applicazione di due principi base della regolamentazione: (a) la proporzionalità tra gli interventi e i benefici, attuali e concreti, generabili nell’intesse della collettività; e (b) il collegamento logico e diretto tra le misure restrittive del libero mercato e gli effetti positivi sul perseguimento dell’interesse generale di cittadini. Un altro esempio è dato dalla Sentenza della Grande Sezione dell’1 Maggio 2009 (procedimento C-531/06), riguardante direttamente l’Italia deferita dalla Commissione europea con la citata IP/06/858. Qui la Corte valuta non in contrasto con il Trattato delle Comunità Europee i vincoli di accesso alla proprietà. Alla base del dispositivo vi sono le medesime considerazioni appena sintetizzate: che spetta agli Stati Membri decidere il livello al quale vogliono garantire la salute pubblica e il modo in cui questo livello deve essere raggiunto; che la diversità dei sistemi di protezione sociale richiede che ciascun Paese possa esercitare discrezionalità nella scelta degli strumenti con cui perseguire la pubblica utilità; che, nello specifico, spetta al singolo Paese esprimersi sui rapporti di produzione (professionali, di lavoro, di compravendita) più idonei a perseguire l’obiettivo della salute pubblica. Su quest’ultimo punto, la Corte si “avventura” anche in alcune considerazioni opinabili e anche un po’ inopportune dato il livello istituzionale, circa la ricattabilità dei farmacisti stipendiati (alinea 64), o il rischio che la gestione dell’esercizio venga affidata a soggetti non abilitati alla professione (alinea 63). Da un lato, emerge la tentazione di valutazioni di tipo etico, confermate anche dal fatto che, si sostiene (alinea 61), “[... i farmacisti di professione gestiscono] la farmacia non in base ad un obiettivo meramente economico, ma altresì in un’ottica professionale. [L’interesse del farmacista], connesso alla finalità di lucro, viene quindi temperato dalla sua formazione, dalla sua esperienza professionale, e della responsabilità ad esso incombente, considerato che un’eventuale violazione delle disposizioni normative o deontologiche comprometterebbe non soltanto il valore del suo investimento, ma altresì la propria vita professionale”. Dall’altro lato, la Corte sembra cadere nell’errore di confondere proprietà e gestione, quest’ultima mai coinvolta, in Italia come negli altri Partner, in CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 discussioni che potessero non vederla appannaggio/responsabilità esclusiva di farmacisti abilitati. Per inciso, le argomentazioni qui utilizzate dalla Corte porterebbero ad una duplice conclusione. In primo luogo, se è lecito che i Paesi Membri mantengano vincoli all’accesso alla proprietà, non si intravedono ragioni per cui farmacisti abilitati (valutati in grado di esercitare la professione dai singoli ordinamenti nazionali) non possano liberamente avviare e gestire direttamente un loro esercizio (1). In secondo luogo, la confusione tra proprietà e gestione lascia intravedere le difficoltà che la Corte può incontrare nel giudicare su tematiche tecniche, sulle quali prospettiva del diritto e prospettiva dell’economia dovrebbe supportarsi a vicenda. Quella stessa conclusione in precedenza proposta per le relazioni istituzionali che auspicabilmente dovrebbero strutturarsi tra la Corte Costituzionale e l’Antitrust italiano. Considerazione di questo tenore possono esser ripetute anche per latri procedimenti in corso innanzi alla Corte di Giustizia. Le conclusioni dell’Avvocato generale sula causa C-393/08, per portare altri esempi, suggeriscono alla Corte di rigettare un ricorso avverso la pianificazione dei periodi di apertura (tra l’altro anche questo procedimento riguardante l’Italia). Le argomentazioni addotte sono varie, ma su di tutte si impone quella che il coordinamento dei periodi è un aspetto collaterale al contingentamento numerico, che a sua volta rientra un una pianificazione sistematica che, negli intenti del Legislatore, mira a garantire adeguatezza dell’offerta in quantità e qualità. Si legge: “[tanto più che, in presenza di un esercizio chiuso], chiunque può utilizzare le altre farmacie aperte o di guardia”. Si dà per assodato che le piante organica abbia virtù positive superabili e non eguagliabili da nessun altro assetto, perché il Legislatore nazionale l’ha posta alla base dell’organizzazione di settore. Come conseguenza, gli altri aspetti regolatori, che mirano alla stesse finalità della pianta organica e possono essere visti come collaterali alla stessa, trovano tout court ratio e giustificazione. Anche qui, come prima a proposto della Corte Costituzionale, non un giudizio di adeguatezza e proporzionalita dello strumento, ma un giudizio di coerenza interna del corpo normativo in vigore. 4. Conclusioni Al pari di quanto concluso per la Corte Costituzionale, non è possibile, dalle sentenze della Corte di Giustizia, far discendere elementi con cui confutare le argomentazioni e le richieste della Commissione Europea. Il contrasto è solo apparente e, piuttosto che far concludere che l’attuale assetto di settore non presenti problemi e non necessiti di interventi di riforma/rinnovamento, (1) In Italia, i farmacisti titolari sono circa 17mila (quanti gli esercizi farmaceutici, mentre gli iscritti complessivi agli Ordini Provinciali di tutto il Paese arrivano alle 55mila teste. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 esso rimanda all’esigenza di migliorare l’interazione e il supporto reciproco tra Istituzioni nazionali e internazionali che, con competenze e ruoli diversi, partecipano a decidere dell’evoluzione delle economie e della società europea. E’ importane che il dibattito si approfondisca subito e liberi il campo da convincimenti infondati e pretestuosi sui rapporti tra l’Antitrust, la Commissione Europea e le due Corti. Se questo punto di vista sbagliato viene propugnato e si concretizza sulla distribuzione del farmaco, è concreto il rischio che esso venga esteso anche ad altri settori sovraregolati e presidiati da lobby. Non è accettabile che equivoci istituzionali di questo tipo trasformino l’affermazione della legalità in un’azione di natura soltanto formale ed esteriore, non falsificabile, e strumentalizzabile per mantenere lo status-quo anche quando palesemente pervaso da storture corporativistiche. 17 febbraio 2011 Sulla recente ordinanza della Corte di Giustizia Europea in data 6 Ottobre 2010, causa C-563/08 Ancora una volta si tenta di utilizzare in maniera strumentale la Corte di Giustizia Europea per avvalorare lo status quo della distribuzione al dettaglio dei farmaci. Si vorrebbe far accettare la tesi secondo cui la Corte di Giustizia, con l’Ordinanza del 6 Ottobre 2010, ha sancito la giustezza e la correttezza della pianta organica delle farmacie, alla luce della necessità di portarne il servizio in maniera omogenea sul territorio e di garantirne l'universalità. L’Ordinanza della Corte del 6 Ottobre 2010, resa nota qualche settimana fa (1), si ricollega direttamente alla Sentenza del 1° Giugno del 2010, con la quale la stessa Corte si era pronunciata in merito alla pianta organica della Provincia Spagnola delle Asturie. Non si possono comprendere la ratio e l’ambito di applicazione di questa Sentenza, e di conseguenza dell’Ordinanza, se non a partire dalle attribuzioni della Corte e dalle sue funzioni istituzionali. La Corte di Giustizia non può sostituirsi ai policy maker nazionali; né riconsiderare il corpus normativo e regolamentare esistente in una prospettiva di riorganizzazione, ristrutturazione e ammodernamento. Compito della Corte è accertare che non esistano punti di contrasto tra le legislazioni nazionali e il Trattato delle Comunità Europee. Nell’assolvere questo compito, la Corte non può entrare nel merito specifico della scelta degli strumenti per perseguire le varie finalità a livello Paese. (1) Cfr. Official Journal of the European Union del 29 Gennaio 2011 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServLexUriServ. do?uri=OI:C:2011:030:0010:0011:EN:PDF). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 La salute pubblica e la libera intrapresa sono entrambi presenti nel Trattato delle Comunità Europee come lo sono nella Costituzione Italiana; e se un Legislatore nazionale afferma di aver posto dei vincoli alla concorrenza (la pianta organica) perché, nella sua sovrana valutazione, questi sono importanti per perseguire l’obiettivo di salute pubblica, la Corte di Giustizia non può sindacare sul “quantum”, ma si limita a riconoscere la coerenza interna del Legislatore nazionale, che ha agito senza ignorare le due finalità, e compiendo scelte precise sulla loro realizzazione coordinata. Il punto nevralgico è proprio qui: si può dare per assodato che quel che il Legislatore nazionale ha scelto illo tempore corrisponda nunc ed semper alla soluzione migliore? La sovranità del Legislatore non implica anche la sua insindacabilità, soprattutto nel tempo, di pari passo con il cambiare degli strumenti utilizzabili, delle soluzioni e dei vincoli. Così non fosse, il corpus normativo sarebbe fossilizzato e incapace di evolversi. Che cosa affermava la Sentenza del 1° Giugno del 2010, di cui la recente Ordinanza è una riattestazione? La sentenza (procedimenti riuniti C-570/07 e C-571/07) ha offerto un esempio specchiato dei caveat con cui va letta la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea sull’assetto della distribuzione al dettaglio del farmaco. Con quella sentenza, la Corte, è sì arrivata a valutare la pianta organica delle Asturie non in contrasto con il Trattato delle Comunità Europee, ma sottolineando come questa stessa valutazione valga solo in linea di principio, nella misura in cui la pianta organica è strumentale al perseguimento della salute pubblica. Siamo davvero sicuri che sia lo strumento migliore per perseguire la salute pubblica? E’ questa la domanda a cui la Corte non può rispondere, e a cui, invece, si deve dare risposta, senza presupporre che sia lo strumento migliore per il solo fatto che essa è già contemplata nell’attuale corpus normativo. Si legge (verbatim) nella sentenza: “Nel valutare il rispetto dell’obbligo [di non introdurre ingiustificate restrizioni alla concorrenza e alla libertà di intrapresa], è necessario tenere conto del fatto che la salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato, e che spetta agli Stati Membri stabilire il livello al quale intendono garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui tale livello deve essere raggiunto. Poiché detto livello può variare da uno Stato all’altro, si deve riconoscere agli Stati Membri un margine discrezionale”. Dove l’esercizio della discrezionalità non necessariamente deve corrispondere al mantenimento della pianta organica. E’ significativo che l’Avvocato Generale, nel presentare la causa alla Grande Sezione che doveva poi decidere, così concludeva la sua audizione: “[…] Spetta al Giudice nazionale determinare se la distanza specifica imposta [tra le farmacie] sia giustificata, tenendo conto del livello di interferenza con 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 il diritto di stabilimento, della natura dell’interesse pubblico, nonché del livello di copertura universale che potrebbe essere raggiunto con sistemi meno restrittivi”. L’Avvocato Generale citava espressamente una valutazione di congruità tra strumento (pianta organica) e obiettivo finale (adeguatezza della copertura), alla luce della possibilità di applicare sistemi meno restrittivi. Una tale valutazione non può giungere motu proprio dalla Corte di Giustizia, così come non può giungere, in ambito nazionale, dalla Corte Costituzionale. Le due Corti non sono competenti nel merito delle prescrizioni di politica economica, politica industriale, strutturazione del welfare system. Entrare nel merito di queste tematiche significherebbe dover esprimere delle preferenze e dei giudizi di valore, sovrapponendosi alla Politica e al Parlamento. Non sono le due Corti a poter valutare la robustezza della connessione causale che, nello specifico della realtà del Paese e nelle intenzioni del suo Legislatore, dovrebbe collegare, da un lato, i vari assetti utilizzabili per portare i farmaci sul territorio e, dall’altro, l’obiettivo finale di ottimizzare l’assitenza farmaceutica per i cittadini. Non sono le due Corti a poter immaginare soluzioni organizzative alternative con cui comparare lo status quo. Per queste ragioni, non possiamo aspettarci che la riforma della distribuzione al dettaglio la facciano la Corte di Giustizia Europea o la Corte Costituzionale, di loro iniziativa, e soprattutto quando chiamate a giudicare sulla coerenza tra i principi generali del Trattato o della Costituzione e le altrettanto generali dichiarazioni di intento che il Legislatore, nella sua sovrana autonomia, può porre a giustificazione del suo atto normativo. Nel momento in cui le due Corti rilevano, come nel caso in questione, una molteplicità di principi da rispettare e di finalità complesse da perseguire (concorrenza, libertà di circolazione dei professionisti e di capitali, libertà di intrapresa, omogeneità sul territorio del livello essenziale di assistenza farmaceutica, sicurezza della salute pubblica, etc.), Esse altro non possono fare che accettare la dichiarazione del Legislatore nazionale (implicita o esplicita che essa sia) di avere scelto la soluzione che, nella specifica realtà Paese, riteneva più opportuna. Il vero snodo è questo: ripensare la normativa nazionale sulle farmacie, rimettendola tutta in discussione. In un assetto così pervaso da aspetti anticoncorrenziali, è facile che, esaminando uno per uno i singoli aspetti, ognuno possa apparire irrinunciabile, nel quadro dei vincoli corporativistici di cui è tassello. Ma è logica complessiva che va cambiata. Se si abbandona la pianta organica, si eliminano il divieto di incorporation e il bundling di proprietà e gestione, e non si pongono limiti alla creazione di catene, le difficoltà di copertura adeguata e omogenea del territorio si ridimensionano immediatamente, perché aumenta la capacità di offerta, sia nel capitale umano (i farmacisti abilitati tenuti fuori dalla titolarità), sia nel capitale fisico e finanziario CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 (le risorse apportabili da soci terzi anche non farmacisti, sotto il vincolo che solo il farmacista può intermediare tra farmaco e paziente). Ed è sempre questo approccio di insieme che permette di tenere conto anche degli effetti positivi che l’apertura a concorrenza della distribuzione al dettaglio avrebbe sul funzionamento del reference pricing in fascia “A” e delle liste di trasparenza in fascia “C”; entrambi strumenti di regolazione che ottimizzerebbero la spesa pubblica e privata per farmaci, liberando risorse riversabili su obiettivi di salute e welfare. Oltretutto, nella prospettiva del multiservice che adesso si sta realizzando, le farmacie potranno diventare dei veri e propri presidi di salute sul territorio. Dalla loro più ampia sfera di attività potranno giungere sia occasioni di creare nuovo valore aggiunto e riceverne la giusta remunerazione, sia nuovi contributi alla copertura dei costi fissi di esercizio (negozio front-office, magazzino, retribuzioni degli assistenti, etc.). Si tratta di una sfida importante, che i professionisti dovrebbero accogliere con entusiasmo, per valorizzare appieno il loro capitale umano, soprattutto quello dei giovani, e rinnovare ruolo e figura del farmacista. Una sfida che porterà successo nella msura in cui le migliori risorse umane e capitali potranno liberamente impegnarsi nel settore. Né la Sentenza del 1° giugno del 2010 né l’Ordinanza del 6 Ottobre 2010 possono, in alcun modo, costituire una valutazione di adeguatezza e ottimalità della pianta organica. Per coinvolgere, su basi meno formalistiche, la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale sul tema dell’assetto della distribuzione al dettaglio dei farmaci, è necessario adire le due Corti, non sul singolo aspetto di un sistema in cui le contraddizioni si “puntellano” a vicenda, ma sollevando congiuntamente eccezioni di illegittimità per l’intero gruppo dei vincoli corporativistici: il groviglio di pianta organica, sovrapposizione di proprietà e gestione, chiusura agli investimenti di terzi, limitazioni forti alla creazione di catene di esercizi. Il giudizio delle due Corti va inoltre supportato e assistito con un quadro completo dei termini del contendere. Emergerebbero sì, allora, tutti i macroscopici contrasti con la nostra Costituzione e con il Trattato delle Comunità Europee. E’ il suggerimento che si indirizza al Tar Piemonte e al Consiglio di Stato, ad oggi impegnati in due rinvii pregiudiziali innanzi alla Corte di Giustizia in tema di pianta organica delle famacie (rispettivamente causa C-217/09 e causa C-315/08). E’, più in generale, la considerazione su cui si desidera richiamare l’attenzione della società civile, della Politica e del Legislatore. 17 Febbraio 2011 C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E Sull’istituto processuale del “legittimo impedimento” Brevi note a cura di Michele Dipace* La sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 13 gennaio 2011 sulla legittimità costituzionale della legge 51 del 7 aprile 2010 “disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza”, è intervenuta dopo un considerevole dibattito dottrinale in materia che ha avuto una grande e ripetuta esposizione mediatica. Le disposizioni contenute nella L. 51/2011 integravano l’art. 420 ter del c.p.p. individuando fattispecie di legittimo impedimento a comparire in udienza per le cariche governative (Presidente del Consiglio dei ministri e ministri), tenuto conto che, in precedenza, l’applicazione dell’art. 420 ter c.p.p. nei confronti di tali soggetti aveva dato adito ad incertezze e a decisioni a volte contraddittorie, proprio per la mancanza di una specifica disciplina. Poiché la legge 51 interveniva sull’istituto processuale del legittimo impedimento, regolato da una legge ordinaria, è sembrato legittimo che una disciplina integrativa fosse contenuta in una legge ordinaria. Le tre ordinanze del tribunale penale di Milano, con le quali sono state sollevate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 51, hanno affermato che le norme in questione, benché qualificate come legittimo impedimento, prevedevano una nuova prerogativa costituzionale, introdotta con legge ordinaria, connessa all’esercizio delle cariche istituzionali, attraverso la previsione di una causa di sospensione del processo. Prova ne era il fatto che la legge in questione prevedeva una presunzione assoluta di legittimo impedimento derivante dalla titolarità della carica e un rinvio automatico del processo senza che il giudice avesse la possibilità di valutare la sussistenza dell’impedimento e l’assolutezza dello stesso ai fini della indispo- (*) Vice Avvocato Generale dello Stato. 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 nibilità ad essere presente in udienza. Al riguardo si sosteneva che la legge 51 non fosse diversa nella sostanza dalle leggi 140/2003 (c.d. lodo Schifani) e 124/2008 (c.d. lodo Alfano) che furono dichiarate incostituzionali perché violative dell’art. 3 e 138 della Cost. dalle sentenze rispettivamente n. 24/2004 e 262/2009 della Corte. Sia nell’atto di intervento che nella memoria l’Avvocatura dello Stato, costituita per il Presidente del Consiglio dei ministri, contestava l’assunto delle ordinanze del Tribunale di Milano, sostenendo che la legge 51 attuava un intervento di natura processuale che non aveva la finalità di proteggere la funzione pubblica, quale prerogativa in sé considerata, creando un’immunità, ma era volta a tutelare il diritto di difesa dell’imputato individualmente considerato a partecipare al processo qualora non potesse essere presente per un proprio impegno istituzionale, non prorogabile (art. 24 c. 2 cost.), specificamente individuato in norme di carattere primario e regolamentari, senza che ciò comportasse una presunzione assoluta di legittimo impedimento, né imponesse alcun automatismo poiché prevedeva che il giudice potesse verificare se in concreto le attribuzioni governative indicate si svolgessero nello stesso giorno dell’udienza penale e che il fatto dedotto come impedimento rientrasse nelle ipotesi previste dalle norme richiamate nell’art. 1 c. 1 della L. 51. La Corte Costituzionale, a prescindere dal rigetto delle eccezioni di inammissibilità formulate anche sotto il profilo della rilevanza, ha ritenuto che la disciplina legislativa oggetto di censura “potrà essere ritenuta illegittima, se, e nella misura in cui, alteri i tratti essenziali del regime processuale comune”. In base ad esso “l’impedimento dell’imputato non può essere generico e il rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico”. In base a tale principio, con decisione interpretativa di rigetto, ha ritenuto compatibile con i tratti essenziali del diritto processuale comune le disposizioni dell‘art. 1 c. 1 della L. 51/2011 in quanto dirette a specificare, quale fatto di impedimento, i puntuali impegni dei membri del governo che possono essere qualificati in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo, che il giudice non potrà disconoscere, fermo restando il suo potere di valutare in concreto lo specifico impedimento addotto non solo con riguardo alla sussistenza in fatto dell’impedimento stesso, ma anche con riguardo al carattere assoluto e attuale dello stesso. In altri termini la Corte ammette quali concreti fatti di legittimo impedimento tutti quelli indicati nell’art. 1 c. 1 della L. 51 ivi comprese le attività preparatorie e consequenziali nonché ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo. E’ stato ritenuto altresì inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 2 della L. 51 che indica la finalità, che è poi la ratio, dell’art. 1 c. 1 diretta a “consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge”. CONTENZIOSO NAZIONALE 91 Ciò comporta che tale finalità: “sereno svolgimento delle funzioni di governo”, può giustificare una normativa specifica di tutela dei titolari di tali funzioni con riguardo all’esercizio del diritto di difesa purchè non preveda meccanismi di “automatismo generalizzato” (c. cost.. n. 24/2004). In altri termini la Corte ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’impianto generale della legge diretto ad individuare il legittimo impedimento “nelle attribuzioni che possono essere qualificate in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo” (“criterio che ha un effetto di chiarificazione della portata dell’art. 420 ter c.p.p.) e soprattutto ha ritenuto che tali funzioni (costituzionali) possono giustificare una deroga normativa con riguardo ad un interesse generale, quale è quello del sereno svolgimento delle attività governative. In coerenza con tali principi, l’art. 1 c. 3 è stato dichiarato legittimo a condizione che non sottragga al giudice i poteri di valutazione dell’impedimento addotto (sentenza additiva). Alla considerazione che, il giudice potrebbe incidere sul merito e sui tempi dell’esercizio dell’attività di governo, incidendo sul principio costituzionale della separazione dei poteri, la Corte ha affermato che “in tale ipotesi l’esercizio della funzione giurisdizionale ha un’incidenza indiretta sull’attività del titolare della carica governativa, incidenza che è obbligo del giudice ridurre al minimo possibile, tenendo conto del dovere dell’imputato di assolvere le funzioni pubbliche assegnatogli” e che “il principio della separazione dei poteri sarebbe violato, in tali casi, soltanto dal cattivo esercizio giurisdizionale da parte del giudice che deve rispondere al canone della leale collaborazione”. Al riguardo la valutazione del “delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato”, e cioè quello giurisdizionale dell’interesse alla speditezza del processo e l’assicurazione del sereno svolgimento delle funzioni governative che la corte ha ritenuto un interesse apprezzabile e che la 51/2011 ha inteso disciplinare con disposizioni di carattere processuale integrative dell’art. 420 ter c.p.p., è rimessa alla valutazione del giudice del processo e cioè ad uno dei soggetti dei poteri costituzionali interessati. In merito a tale principio la Corte peraltro precisa che l’esercizio del potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento deve rispondere al principio di leale collaborazione che ha carattere bidirezionale e deve esplicarsi mediante soluzioni procedimentali ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari in modo che si tenga conto oltre che della speditezza del processo anche degli impegni del P.C.M. in modo che le udienze debbono essere fissate compatibilmente con l’esercizio delle funzioni governative indicate dall’interessato. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Gli atti defensionali dell’Avvocatura CT. 18081/10 Avv. Dipace ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE ATTO di INTERVENTO del Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è ex lege domiciliato nel giudizio relativo alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1, 3 e 4 della legge 7 aprile 2010, n. 51 recante “Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza”, per violazione dell'art. 138 della Costituzione, promosso dal Tribunale di Milano – Sez. I Penale, con ordinanza, pronunciata in data 19 aprile 2010, con riferimento al procedimento penale n. 11776/06 ed altri R.G.T. nei confronti di Agrama Frank ed altri. FATTO e DIRITTO 1. Il Tribunale di Milano – Sez. I Penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge n. 51/10, limitatamente all'art, 1, commi 1, 3 e 4, evidenziando che “una disciplina... che, come quella in esame, non si limita a “differenziare la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico o generale” ma stabilisce a priori e in modo vincolante che la titolarità e l'esercizio di funzioni pubbliche costituiscono sempre legittimo impedimento per rilevanti periodi di tempo, prescindendo da qualsiasi valutazione del caso concreto, si traduce nella statuizione di una vera e propria prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelarne non già il diritto di difesa nel processo bensì lo status o la funzione”. Da quanto sopra, il Tribunale fa discendere la conclusione che l'art. 1 della legge n. 51/10 “realizza la medesima situazione già analizzata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 262/09 sul c.d. Lodo Alfano”, esponendosi, pertanto, alla medesima censura, sotto il profilo della violazione della Carta costituzionale, ovvero quella di violare l'art. 138 Cost., per essere stata introdotta, la nuova ipotesi di prerogativa, con legge ordinaria anziché con procedimento costituzionale. 2. La questione di costituzionalità deve ritenersi inammissibile oltre che, in ogni caso, del tutto infondata. 3. Il Tribunale di Milano, sulla base di un frettoloso sillogismo, afferma che la legge n. 51/10 introduce, nel sistema, una prerogativa o immunità in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri, che le prerogative o immunità, secondo la pacifica giurisprudenza di codesta Corte (cfr., da ultimo, la nota sentenza n. 262/09), debbono essere previste con legge costituzionale, e che, pertanto, poiché ciò non è avvenuto nel caso di specie, essendo, la legge n. 51/10, una legge ordinaria, la stessa è incostituzionale per violazione dell'art. 138 Cost.. Il predetto sillogismo è frutto di un palese fraintendimento delle disposizioni, contenute nell'art. 1 della legge n. 51/10. La norma in argomento, al comma 1, dispone che “Per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell'art. 420 ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, quale imputato, il concomitante esercizio di una o più attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli CONTENZIOSO NAZIONALE 93 articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303 e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e conseguenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo;” al comma terzo, la norma prevede che “il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza;” il quarto comma, infine, precisa che “Ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi”. Si deve, innanzi tutto, evidenziare che la legge impugnata è il risultato dell’unificazione di sette proposte di legge, tutte di iniziativa parlamentare, di vari schieramenti politici, che avevano l’intento di modificare l’art. 420 ter del codice di procedura penale, con la finalità di identificare normativamente le attività, esercitate da soggetti che rivestono cariche pubbliche di rilievo costituzionale, che costituiscono impedimento a comparire nelle udienze del procedimento penale nel quale risultano imputati. L’effetto di tutte le proposte di legge in materia era quello del rinvio dell’udienza penale per la durata dell’impedimento, con la fissazione di una nuova udienza. Tale finalità è stata sempre presente nella discussione parlamentare tanto da indurre il relatore del testo unificato al Senato (sen. Costa) a precisare che la normativa in esame non introduce una forma di immunità ma specifica la portata dell’istituto dell’impedimento a comparire già previsto dal codice di procedura penale (art. 420 ter), salva sempre la sospensione della decorrenza della prescrizione. Il legittimo impedimento rappresenta un istituto processuale che può essere disciplinato (integrato o modificato) nel senso che il legislatore ritiene opportuno con legge ordinaria nell’esercizio di quella discrezionalità che indubbiamente gli va riconosciuta. Le disposizioni, sopra riprodotte, pertanto, se correttamente intese, non fanno altro che integrare la previsione di cui all'art. 420 ter del codice di rito, andando a tipizzare gli atti, o meglio le attività di governo, che si traducono in altrettante fattispecie di legittimo impedimento, rispettivamente per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i Ministri, a comparire in un processo penale, quali imputati. Invero, la finalità della legge è appunto quella di identificare le fattispecie giuridiche di legittimo impedimento (per le cariche pubbliche ivi indicate) disciplinato dall’art. 420 ter c.p.c. che la legge espressamente richiama “in un contesto di leale collaborazione istituzionale tra autorità giudiziaria e autorità politica”. Punto di riferimento è stata la sentenza di codesta Corte n. 24 del 2004 che ha riconosciuto, come interesse apprezzabile, quello di assicurare un sereno svolgimento delle rilevanti funzioni delle alte cariche dello Stato, interesse di rango costituzionale che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, come il regolare esercizio della giurisdizione, esigenza anch’essa di rango costituzionale. L'intervento legislativo è stato reso necessario dal fatto che, nell'assenza di precedenti specifici di codesta Corte in ordine al legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri, con riferimento alla loro presenza nel processo quale imputati, sono emerse, in concreto, difficoltà nell'adattamento, in via interpretativa, alla predetta fattispecie delle soluzioni già offerte da codesta Corte per gli esponenti del Parlamento. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 A questo ultimo proposito, è noto che, a partire dalla sentenza del 4 luglio 2001, n. 225, codesta Corte ha statuito che “l’autorità giudiziaria, come ogni altro potere, allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze, deve tener conto non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni, e così, ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza. Pertanto il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda”. Nella medesima sentenza, codesta Corte ha anche rilevato che “ove l’imputato, come nel caso in esame, deduca di essere impedito ad intervenire all’udienza dovendo esercitare il suo diritto–dovere di partecipare ai lavori parlamentari – fra l’esigenza di speditezza dell’attività giurisdizionale e quella di tutela delle attribuzioni parlamentari, aventi entrambe fondamento costituzionale, si può determinare un’interferenza suscettibile di incidere sulle attribuzioni costituzionali di un soggetto estraneo al processo penale e, in particolare, sull’interesse della Camera di appartenenza a che ciascuno dei suoi componenti sia libero di regolare la propria partecipazione ai lavori parlamentari nel modo ritenuto più opportuno. Pertanto, il giudice non può limitarsi ad applicare le regole generali del processo in tema di onere della prova del legittimo impedimento dell’imputato, incongruamente coinvolgendo un soggetto costituzionale estraneo al processo stesso, ma ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari”. Orbene, non vi è chi non veda come le peculiarità dell’attività governativa rispetto a quella parlamentare impongono un opportuno adattamento dei richiamati principi e soprattutto della soluzione operativa, consigliata da codesta Corte. Le attività governative, infatti, si svolgono con modalità e cadenze temporali che, a differenza di quanto avviene per gli organi parlamentari, sono più eterogenee e non facilmente preventivabili; ed invero, a differenza dei lavori del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, le cui modalità di svolgimento ed il cui calendario sono, per così dire, standardizzati e raramente subiscono modifiche, l’attività del Governo è più soggetta a variazioni atteso che la stessa deve tenere conto di svariate evenienze. Da quanto sopra discende, come sopra già anticipato, la necessità, nell’ambito della soluzione operativa consigliata da codesta Corte, di rinvenire una diversa conciliazione fra l’esigenza di speditezza dell’attività giurisdizionale e quella di tutela delle attribuzioni del Governo. Un compito, quest'ultimo, che non poteva, peraltro, essere lasciato alla mera attività interpretativa del giudice penale; lo dimostra il fatto che proprio la Sezione I del Tribunale di Milano, con ordinanza, pronunciata in data 1 marzo 2010, aveva rigettato la richiesta di rinvio dell’udienza dibattimentale, prevista per la predetta data, come da calendario concordato tra tutti i soggetti processuali, formulata dalla difesa del Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Silvio Berlusconi, per legittimo impedimento di quest’ultimo in quanto impegnato, nella medesima data, nella presidenza della riunione del Consiglio dei Ministri, mentre la Sezione X dello stesso Tribunale accoglieva la domanda di rinvio dell’udienza per lo stesso motivo. E’ evidente che, nei casi in esame, le decisioni prese possono interferire con le modalità e la tempistica dello svolgimento dell'attività governativa, attribuzioni, di rango costituzionale, esclusive del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri. CONTENZIOSO NAZIONALE 95 Da qui, la scelta obbligata di attribuire, anche ai fini della certezza del diritto, al legislatore il compito, appunto, di andare a tipizzare (art. 1, comma 1, della legge n. 51/10) le ipotesi in cui lo svolgimento dell'attività governativa rende assolutamente impossibile, al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Ministri di comparire in un processo penale, in qualità di imputati. Ovviamente, il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento non è previsto in via automatica, come era stato disposto dalla L. n. 124 del 2008, ma consente all’imputato – Presidente del Consiglio o Ministro che intenda presenziare all’udienza – di ottenerne, volta per volta, il rinvio; ciò, in quanto la celebrazione di questa, e quindi la presenza fisica dell’imputato in aula, impedirebbe di certo lo svolgimento delle attività istituzionali che a lui fanno capo e che non sono delegabili. A tal fine, si deve precisare che le richiamate funzioni di governo non possono essere arbitrariamente indicate dall’interessato in occasione della richiesta di rinvio, ma – giusta art. 1, comma 1, legge n. 51/2010 – debbono trovare il proprio principale ed esplicito fondamento normativo in fonti di rango primario o secondario, o a queste direttamente collegate (come per le attività preparatorie, consequenziali o comunque coessenziali alle funzioni di governo). Il giudice penale potrà esaminare, pertanto, la sussistenza, in concreto, della situazione di fatto (motivo del rinvio) addotto dalla parte come legittimo impedimento, cioè se l’attività governativa, dedotta quale legittimo impedimento, rientri tra le ipotesi previste dalle disposizioni di cui alla legge n. 51/2010, ma, ovviamente, non potrà sindacare se le attività istituzionali, indicate nella legge n. 51/2010, siano, una volta provatane in fatto l’esistenza, causa di legittimo impedimento. A dire il vero, tale sindacato non poteva essere ammesso neanche prima della legge 51/2010, a meno di voler attribuire al giudice penale un inammissibile potere di valutare le ragioni (politiche) sottese all’esercizio, di volta in volta, delle attività istituzionali da parte degli organi in questione, con la prospettiva di un inammissibile confronto dibattimentale sulle stesse. La tipizzazione delle cause di legittimo impedimento di cui alla legge n. 51/2010, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di Milano, non può dirsi affetta da indeterminatezza e genericità, essendo state richiamate, nell'art. 1, comma 1, della legge cit., specifiche disposizioni della legge n. 400/88, del D.Lgs. n. 303/99 e del D.P.C.M. 10 novembre 1993; a ciò si aggiunga che l'espressione di chiusura, contenuta nella predetta norma, “attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo”, non è affatto ampia ed indeterminata, essendo, le predette attività, adeguatamente determinate e agevolmente individuabili atteso il loro carattere strettamente strumentale rispetto a quelle specificamente indicate con il richiamo delle rispettive fonti normative. Alla luce di quanto sopra, si appalesa in tutta la sua erroneità, la conclusione, cui perviene il Tribunale di Milano nella propria ordinanza di rimessione, ovvero che sarebbe stata introdotta “una presunzione assoluta di impedimento genericamente collegata allo svolgimento di funzioni governative da parte dei soggetti indicati”. Trattasi di conclusione, quest'ultima, del tutto inesatta che porterebbe ad applicare meccanicamente, con riferimento alla legge che ci occupa, le medesime conclusioni cui codesta Corte è pervenuta, nella nota sentenza n. 262/09, in relazione ad una legge, la n. 124/08, il cui contenuto era ben diverso rispetto a quello della legge n. 51/10. Nella predetta sentenza, codesta Corte ha, come noto, affermato che “le prerogative costituzionali (o immunità in senso lato, come sono spesso denominate) si inquadrano nel genus 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse. Esse si sostanziano – secondo una nozione su cui v'è costante e generale consenso nella tradizione dottrinale costituzionalistica e giurisprudenziale – in una specifica protezione delle persone munite di status costituzionali, tale da sottrarle all'applicazione delle regole ordinarie. Le indicate prerogative possono assumere, in concreto, varie forme e denominazioni (insindacabilità; scriminanti in genere o immunità sostanziali; inviolabilità; immunità meramente processuali, quali fori speciali, condizioni di procedibilità o altro meccanismo processuale di favore; deroghe alle formalità ordinarie) e possono riguardare sia gli atti propri della funzione (cosiddetti atti funzionali) sia gli atti ad essa estranei (cosiddetti atti extrafunzionali), ma in ogni caso presentano la duplice caratteristica di essere dirette a garantire l'esercizio della funzione di organi costituzionali e di derogare al regime giurisdizionale comune. Si tratta, dunque, di istituti che configurano particolari status protettivi dei componenti degli organi; istituti che sono, al tempo stesso, fisiologici al funzionamento dello Stato e derogatori rispetto al principio di uguaglianza tra cittadini. Il problema dell'individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall'altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi”. Nella medesima sentenza, codesta Corte ha, d'altro canto, recisamente escluso che l'istituto del legittimo impedimento possa qualificarsi alla stregua di una prerogativa, come tale necessitante di una copertura costituzionale, trattandosi di un istituto processuale, di portata generale; ammettendo, altresì, che l'istituto del legittimo impedimento possa essere opportunamente modulato, da un punto di vista normativo, quando lo stesso riguardi soggetti che, come nel caso di specie, svolgono funzioni pubbliche di rilievo costituzionale. Nella predetta sentenza, si legge, infatti, che “la deducibilità del legittimo impedimento a comparire nel processo penale, infatti, non costituisce prerogativa costituzionale, perché prescinde dalla natura dell'attività che legittima l'impedimento, è di generale applicazione e, perciò, non deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. Si tratta, dunque, di uno strumento processuale posto a tutela del diritto di difesa di qualsiasi imputato, come tale legittimamente previsto da una legge ordinaria come il codice di rito penale, anche se tale strumento, nella sua pratica applicazione, va modulato in considerazione dell'entità dell'impegno addotto dall'imputato”. Una modulazione, quest'ultima, che è stata dettata proprio con la legge n. 51/10. Ed invero, contrariamente a quanto si afferma nella ordinanza del Tribunale penale di Milano, la legge n. 51/2010 non disciplina né prevede casi di prerogative ministeriali per le quali sarebbe stata necessaria una legge costituzionale. Le prerogative a favore dei membri del Parlamento o di alte cariche dello Stato hanno l’effetto di creare, per essi, o l’immunità per certe attività (art. 68 della Cost.; 90 e 96 Cost.) che comporta una esenzione temporanea della giurisdizione penale, oppure l’inviolabilità del soggetto stesso che non può essere sottoposto ad atti del giudice penale senza preventiva autorizzazione. La legge 7 aprile 2010 n. 51, che prevede categorie di legittimo impedimento ex art. CONTENZIOSO NAZIONALE 97 420 ter c.p.c. per il Presidente del consiglio dei ministri e per i Ministri, non comporta esenzione dalla giurisdizione penale ma ha, quale unico effetto processuale, quello di un rinvio del processo ad altra udienza, su richiesta di parte. La necessità della richiesta della parte è collegata certamente ad una valutazione concreta del contenuto della funzione istituzionale che, di volta in volta, gli organi citati debbono esercitare e che può comportare anche la mancanza della richiesta di rinvio dell’udienza ove la presenza del soggetto non sia assolutamente necessaria all’esercizio di tale attività. E’ evidente che tale valutazione, come si è detto, non può essere rimessa al giudice trattandosi di sindacato di natura politica rientrante nella sfera delle attribuzioni del Presidente del consiglio e dei singoli Ministri (es. fissazione e direzione del Consiglio dei ministri da parte del Presidente del consiglio; partecipazione ai lavori parlamentari o a riunioni degli organismi internazionali ecc.), ma il giudice penale potrà accertare se l’ipotesi prospettata come causa di legittimo impedimento rientri tra le fattispecie previste nell’art. 1 della L. 51/2010, disponendo il rinvio dell’udienza dopo tale accertamento. In altri termini non è esatto che il giudice sarebbe privato, dalla legge in esame, di qualsivoglia potere di sindacato sul punto; è, invece, vero che deve rinviare il processo soltanto “quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti” (art. I c. 3 L. n. 51/2010). E’ ovvio che in tali casi deve essere tenuto in debito conto il principio di leale collaborazione “che deve, sempre, informare i rapporti tra le istituzioni, in una sintesi di reciproco rispetto del lavoro di ciascuno degli organi e poteri costituzionali” in coerenza con i criteri dettati da codesta Corte in materia di legittimo impedimento secondo i quali non si deve tener presente soltanto l’esigenza della speditezza del processo ma anche l’esercizio delle funzioni costituzionali del Presidente del consiglio e dei Ministri e la concreta possibilità di coordinare il proprio diritto di difesa con l’esercizio delle attività istituzionali. La legge n. 51/2010 mira a tali finalità: non prevede una sospensione generale e automatica del procedimento penale, ma soltanto il rinvio dell’udienza su richiesta della parteimputata e per determinate e concrete attività istituzionali; il rinvio del processo non ha una durata indeterminata, ma, ove l’impedimento sia continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni indicate dalla stessa legge, il rinvio opportunamente andrà fatto al periodo successivo a quello indicato, che non può essere superiore a 6 mesi; non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento, ma soltanto l’indicazione di categorie di attività istituzionali (situazioni di fatto) che possono comportare la richiesta del rinvio dell’udienza a tutela del diritto di difesa dell’imputato in coerenza con l’esercizio dei propri doveri costituzionali; contiene un ragionevole ed equo bilanciamento dei due valori costituzionali, quello dell’esercizio della giurisdizionale e quello dell’esercizio delle attività politico–istituzionali dei membri del Governo senza far prevalere l’uno sull’altro e soprattutto senza sacrificarne nessuno (cfr. Corte Cost., sent. n. 225/2001). A ciò si deve aggiungere che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di Milano, proprio la disposizione dell’art. 2 dalla legge n. 51/2010 esclude che l’art. 1 preveda una prerogativa costituzionale del Premier e dei Ministri in quanto tale disposizione rimanda la “disciplina organica delle prerogative del Presidente del consiglio dei ministri e dei ministri, nonché la disciplina attuativa della partecipazione degli stessi ai processi penali” ad una emananda legge costituzionale, in adesione al principio affermato da codesta Corte nella sentenza n. 262/2009. Detto richiamo, infatti, vuol significare soltanto che - correttamente - sarà una legge co- 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 stituzionale a disciplinare le vere prerogative dei membri del Governo, e che, fino ad allora, rimarranno in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come quella in esame) inerenti a specifici aspetti della materia che al concetto di prerogativa non sono certo riconducibili. Invero, è stato presentato il disegno di legge costituzionale (A.S. n. 2180) recante “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato” che ha la finalità di prevedere immunità per i titolari di cariche politiche nell’ambito delle garanzie costituzionali per il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche. Il disegno di legge costituzionale in questione, recependo i rilievi di codesta Corte sulla legge n. 124/2008 (sentenza n. 262/2009), prevede la non sottoposizione a processo penale delle alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del consiglio e Ministri) durante lo svolgimento della carica o delle funzioni, qualora il Parlamento decida di disporre tale sospensione del processo; riguarda i reati extrafunzionali; la sospensione non è automatica in quanto la decisione è rimessa al Parlamento; infine, in caso di sospensione del processo, è anche sospeso il corso della prescrizione dei reati. Come è facile notare, trattasi di un intervento legislativo ben diverso, nel contenuto, da quello in esame, in cui si dispone la sospensione della giurisdizione nei confronti delle alte cariche dello Stato al fine di fornire una obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla carica stessa. La legge n. 51/2010, invece, come si è detto, prevede norme in materia di impedimento a comparire in udienza per il Presidente del consiglio dei ministri e dei Ministri, nel procedimento penale quale imputati, in caso di concomitante esercizio di una o più attribuzioni previste dalle leggi e dai regolamenti per tali cariche. Non sospende l’esercizio della giurisdizione né crea un particolare status giuridico per tale carica ma ha, quale conseguenza processuale, quello di un rinvio dell’udienza con conseguente sospensione della prescrizione per l’intera durata del rinvio. A quanto sopra, si aggiunga che non coglie, neppure, nel segno il rilievo, formulato dal Tribunale di Milano, ovvero che le norme, oggetto del presente giudizio di costituzionalità, stabilirebbero “a priori e in modo vincolante che la titolarità e l'esercizio delle funzioni pubbliche costituiscono sempre legittimo impedimento per rilevanti periodi di tempo”. Con tale affermazione, il giudice a quo, si sforza, del tutto vanamente, di dimostrare che il riferimento delle disposizioni di cui all'art. 1 della legge n. 51/10, che prevedono concrete e tipizzate ipotesi di legittimo impedimento, è costituito dal soggetto, titolare della funzione governativa, in sé e per sé considerato (Presidente del Consiglio dei Ministri o Ministro); al contrario, le disposizioni in argomento si riferiscono non al soggetto bensì all'attività governativa, oggettivamente considerata e specificata con il richiamo puntuale alle fonti normative di riferimento; il che esclude, in radice, che possa parlarsi, in proposito, di prerogativa ovvero di immunità. Quanto, infine, alla circostanza, particolarmente stigmatizzata dal giudice a quo, ovvero che l'art. 1, comma 4, della legge n. 51/10 attribuisce alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il compito di attestare la continuatività e la correlazione con lo svolgimento delle funzioni governative dell'impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri, si deve evidenziare come la predetta scelta normativa trovi la propria giustificazione nella necessità ed opportunità di attribuire tale delicato compito ad un soggetto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, distinto rispetto al Presidente del Consiglio dei Ministri, coinvolto nel processo penale come imputato; sarebbe stata, infatti, irragionevole, una disposizione che avesse, invece, lasciato CONTENZIOSO NAZIONALE 99 allo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri-imputato il compito di autocertificare che l'impedimento presenta carattere continuativo. Tanto premesso in fatto ed in diritto, si rimettono le seguenti CONCLUSIONI “Voglia codesta Ecc.ma Corte Costituzionale, in accoglimento delle rappresentate deduzioni, ritenere e dichiarare la infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata con l’ordinanza, meglio indicata in epigrafe”. Roma, 6 luglio 2010. Michele Dipace VICE AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Maurizio Borgo AVVOCATO DELLO STATO CT 18081/10 – Avv. Dipace Ecc.ma Corte Costituzionale R.O. n. 173/10 - Ud. 14.12.2010 Memoria illustrativa per il Presidente del Consiglio dei Ministri, organicamente patrocinato dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è ex lege domiciliato PREMESSA E DIRITTO Con ordinanza (G.U. del 16 giugno 2010, n. 24), pronunciata in data 19 aprile 2010, con riferimento al procedimento penale n. 11776/06 ed altri R.G.T. nei confronti di Agrama Frank ed altri, il Tribunale di Milano – Sez. I Penale ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge n. 51/10, limitatamente all'art. 1, commi 1, 3 e 4, evidenziando che la predetta disciplina “realizza la medesima situazione già analizzata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 262/09 sul c.d. Lodo Alfano”, esponendosi, pertanto, alla medesima censura, sotto il profilo del mancato rispetto della Carta costituzionale, ovvero quella di violare l'art. 138 Cost., per essere stata introdotta, la nuova ipotesi di prerogativa, con legge ordinaria anziché con procedimento costituzionale. Nel giudizio interveniva il Presidente del Consiglio dei Ministri, formulando le proprie deduzioni e chiedendo a codesta Ecc.ma Corte di voler dichiarare l’inammissibilità e/o l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale de qua. Con la presente memoria, ribadendo in toto le ragioni dedotte con l’atto di intervento a sostegno dell’irrilevanza e/o dell’infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51/10, sollevati dal Tribunale a quo, si rassegnano le seguenti ulteriori considerazioni. 1. Sull’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale. La questione di legittimità costituzionale della legge n. 51/10 si appalesa manifestamente inammissibile per carenza assoluta di motivazione in punto di rilevanza della questione medesima. Innanzi tutto, l’ordinanza del Tribunale di Milano non precisa i fatti del processo né in- 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 dica i reati per i quali il processo viene celebrato di modo che non consente un’analisi compiuta della rilevanza della questione di costituzionalità (v. c.c. 202/09); al proposito, è principio pacifico che, sotto tale profilo, l’atto con il quale si solleva la questione di costituzionalità deve necessariamente avere una motivazione autosufficiente giacché il rimettente deve descrivere la fattispecie sottoposta al suo esame. L’orientamento della Corte pone l’accento sullo stretto legame intercorrente tra la rilevanza e i presupposti dell’azione in giudizio nel senso che i quesiti sulla incostituzionalità della norma evocata in giudizio debbano incidere sulla decisione che il remittente deve adottare. Il giudizio di rilevanza risulta, infatti, inscindibilmente connesso all’incidentalità ed alla concretezza del giudizio, perché costituisce un vero e proprio “filtro” alle questioni di legittimità costituzionale davanti alla Corte. La nozione di rilevanza, ormai ritenuta prevalente nella giurisprudenza costituzionale, deve essere intesa come capacità della decisione del giudice delle leggi di incidere sul giudizio a quo, nel senso che il giudice rimettente può sollevare una questione di costituzionalità solo qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della pregiudiziale costituzionale (cfr., tra le altre, Corte Cost., ordinanza n. 220/10). Orbene, nel caso che ci occupa, il Tribunale di Milano non ha fornito un’adeguata motivazione in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale di cui è giudizio, ovvero non ha spiegato perché non potesse decidere sulla richiesta di rinvio dell’udienza … …., formulata dalla difesa dell’imputato, Silvio Berlusconi, in quanto quest’ultimo era assolutamente impossibilitato a presenziare alla medesima udienza per legittimo impedimento concretantesi in impegni istituzionali specificamente indicati dall’attestazione del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e facilmente accertabili da parte del Tribunale indipendentemente dalla risoluzione della pregiudiziale costituzionale avente ad oggetto l'art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51/10; tanto più che, nella predetta attestazione, era indicato che il Presidente del Consiglio poteva essere presente alle udienze a partire dalla seconda metà di luglio. Più in particolare, il Tribunale di Milano non ha fornito alcuna giustificazione in relazione al fatto che l’istanza difensiva, più sopra menzionata, non potesse essere valutata e decisa alla stregua della disciplina di cui all’art. 420 ter c.p.p.. Non si riesce, infatti, a comprendere per quale ragione il giudice a quo non potesse pronunciarsi, in senso positivo o negativo, come peraltro aveva già fatto in altre udienze sulla medesima richiesta di rinvio, facendo applicazione della prefata disposizione del codice di rito che, come noto, prevede, quali cause che possono dare luogo ad assoluta impossibilità per l’imputato di comparire all’udienza, oltre al caso fortuito ed alla forza maggiore, appunto il legittimo impedimento, che, ovviamente, può anche sussistere per un determinato periodo di tempo, essendo correlato a situazioni di fatto che non devono essere necessariamente contingenti. Al proposito, non vi è chi possa dubitare che impegni istituzionali, in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, specificamente indicati dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (con allegato programma) potessero essere sussunti nell’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 420 ter c.p.p. previo eventuale accertamento del Tribunale stesso. Da quanto sopra, discende, all’evidenza, che il Tribunale di Milano ha, del tutto inammissibilmente, proposto la questione di legittimità costituzionale della legge n. 51/10, per così dire in via principale e non, come avrebbe invece dovuto, all’esito della necessaria verifica CONTENZIOSO NAZIONALE 101 della rilevanza della medesima questione che, per come evidenziato da codesta Corte, risulta inscindibilmente connessa alla incidentalità propria del nostro modello di giustizia costituzionale. Invero, come risulta evidente dalla motivazione della questione di costituzionalità prospettata, il giudice rimettente riconduce la censura di illegittimità costituzionale alla norma in sé dell’art. 1, c. 1 , 3 e 4 della legge 51/10 citata e alla pretesa ratio sottesa alla medesima legge e non in quanto applicabile al caso concreto. In altri termini, viene sollevata la questione di costituzionalità per sindacare la legittimità costituzionale di una norma di legge senza fornire la prova della incidenza della stessa in concreto sul processo in corso (cfr. Corte Cost. n. 38/2009). Alla luce di quanto sopra, si confida in una pronuncia con la quale codesta Corte voglia dichiarare l’inammissibilità della prospettata questione di legittimità costituzionale. 2. Sulla infondatezza della questione di legittimità costituzionale. Passando al merito della questione di costituzionalità che ci occupa, nel ribadire quanto già osservato nell’atto di intervento, si reputano necessarie alcune osservazioni che rendono ancor più evidente l’infondatezza delle questioni proposte. Secondo l’avviso del giudice rimettente, la disciplina, contenuta nell’art. 1 della legge n. 51/10, non sarebbe altro che la riproposizione, del c.d. “Lodo Alfano”, con la scontata conseguenza che sarebbero predicabili nei confronti della legge n. 51/10 le medesime censure formulate da codesta Corte in relazione al predetto Lodo; secondo l’assunto del Tribunale di Milano, la norma in questione realizza la stessa situazione già analizzata da codesta Corte nella sentenza n. 262/2009, quasi che il legittimo impedimento, disciplinato dalla legge n. 51/2010, violi la sentenza citata. Al riguardo, c’è la significativa risposta del Prof. Zanon: “No, sono due cose completamente diverse. La violazione della sentenza sul lodo Alfano si avrebbe in caso di riproposizione della norma dichiarata incostituzionale nella sostanza. Ora non c’è più una sospensione ex lege sia pure temporanea del processo per la durata del mandato, ma un legittimo impedimento che viene certificato e allegato. La stessa Corte, se ne venisse investita, la dovrebbe considerare come una questione nuova”. E di questione del tutto nuova rispetto a quella decisa con la pronuncia n. 262/09 di codesta Corte, in effetti, si tratta. La legge n. 51/10 non ha nulla a che vedere con la legge n. 124/08 (il c.d. Lodo Alfano, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 262/09 di codesta Corte) né tantomeno, come si è ampiamente dedotto nell’atto di intervento, con il disegno di legge costituzionale (A.S. n. 2180) recante “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato” che ha la finalità di prevedere immunità per i titolari di cariche politiche nell’ambito delle garanzie costituzionali per il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche. La normativa di cui al presente giudizio non introduce, infatti, alcuna forma di immunità ovvero di prerogativa ma specifica tipizzandola (e, peraltro, riducendola significativamente) la portata dell’istituto dell’impedimento a comparire, già previsto dal codice di procedura penale all’art. 420 ter, con riferimento alla posizione del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri allorché gli stessi siano coinvolti, come imputati, in un processo penale extrafunzionale. In altri termini la legge fissa categorie precise di impedimento da sottoporre all’accertamento del giudice per il rinvio all’udienza. Il legittimo impedimento, come già evidenziato nell’atto di intervento, rappresenta un 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 istituto processuale che può essere disciplinato (integrato o modificato) nel senso che il legislatore ritiene opportuno con legge ordinaria nell’esercizio di quella discrezionalità che indubbiamente gli va riconosciuta. Affermare il contrario significherebbe pervenire alla assurda conclusione che il legislatore, ove intenda integrare ovvero modificare la disciplina di un istituto giuridico, dettata da norme di rango ordinario, dovrebbe ricorrere, sempre e comunque, allo strumento della revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost. soltanto perché la disciplina potrebbe essere applicata ad organi pubblici previsti nella Carta Costituzionale. Non vi è chi non veda come la predetta conclusione si tradurrebbe nello stravolgimento del sistema di gerarchia delle fonti di produzione del diritto. La legge 51/2010 si è attenuta, sia pure in via transitoria, alle indicazioni della Corte contenute nelle note sentenze n. 24/2004 (sul c.d. “Lodo Schifani”) e n. 262/2009 (sul c.d. “Lodo Alfano”) per evitare, anche sotto il profilo della forma legislativa, le censure di incostituzionalità accolte nelle due sentenze. La Corte ha deciso che la legge n. 140/2003 sulla sospensione dei processi penali in corso per le alte cariche dello Stato era illegittima a) perché prevedeva l’automatismo generalizzato della sospensione dei processi che andava ad incidere sul diritto di difesa dell’imputato e della parte civile; b) perché prevedeva reiterate sospensioni dei processi per le cariche costituzionali ivi previste che comportava una durata indefinita e indeterminabile della sospensione; c) vi era una eterogeneità, sia per le funzioni svolte che per le fonti d’investitura delle cariche, accomunate dalla disciplina della sospensione, che rendevano la disciplina non ragionevole. Al riguardo, la legge n. 51/2010 non ha previsto una sospensione dei processi, generale e automatica soltanto perché l’imputato è investito di particolari funzioni, ma ha previsto esclusivamente il rinvio dell’udienza, previa attestazione dello svolgimento in contemporanea di una funzione prevista dalla legge, e, comunque, su richiesta dell’imputato che pertanto può anche non avvalersi di tale normativa. La legge di cui si discute ha previsto la possibilità che l’impedimento possa avere una durata determinata (non più di mesi sei) che è del tutto ragionevole anche a tutela del diritto di difesa delle altri parti del processo, ivi compresa la parte civile, ed ha limitato la tipizzazione del legittimo impedimento ai componenti del Governo. In altri termini, le disposizioni della legge n. 51/2010 non si discostano dalla logica dell’art. 420 ter c.p.p. di cui precisano soltanto alcune fattispecie di impedimento e pertanto non hanno la finalità di proteggere la funzione pubblica, in sé e per sé considerata, creando una prerogativa ovvero un’immunità per specifici imputati, ma sono volte a tutelare il diritto di difesa dell’imputato che in un determinato periodo di tempo (es. giorno dell’udienza) è impedito a partecipare al processo per un proprio impegno istituzionale non prorogabile. Come ha affermato codesta Corte nella sentenza 262/2009, più volte menzionata, lo strumento processuale del legittimo impedimento, previsto legittimamente da una legge ordinaria, quale è il codice di rito penale, nella sua pratica applicazione “va modulato in considerazione dell’entità dell’impegno dedotto”………. “differenziando la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario senza alcun meccanismo automatico e generale” (cfr. anche Corte Cost. 451/2005 e 391/2004). La finalità richiamata è soddisfatta non già prevedendo l’automatica sospensione del processo per l’intera durata della carica (come era stato disposto dalla legge 124/2008), ma CONTENZIOSO NAZIONALE 103 soltanto consentendo all’imputato (Presidente del Consiglio o Ministro) che intenda presenziare all’udienza di ottenere, volta per volta, il rinvio della stessa; ciò in quanto lo svolgimento dell’udienza, quindi la presenza fisica dell’imputato in aula, impedirebbe di certo lo svolgimento delle attività istituzionali che a lui fanno capo e che non sono delegabili. A tal fine, peraltro, precisando che le attribuzioni che “riempiono di contenuti” le richiamate funzioni di governo non possono essere arbitrariamente indicate dall’interessato in occasione della richiesta di rinvio, ma – giusta richiamato art. 1, comma 1, legge n. 51/2010 – debbono trovare il proprio principale ed esplicito fondamento normativo in fonti di rango primario o secondario. Qualora, poi, risultino già “calendarizzati” reiterati e continuativi impegni, comunque attinenti alle funzioni di Presidente del Consiglio, appare opportuna la previsione in forza della quale “il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi” (art. 1, comma 4, anch’esso oggetto di censura); ed invero, sarebbe palesemente contrario ad ogni logica di economia processuale – fissare una o più date di udienze, già sapendo che nelle stesse il Presidente del Consiglio non potrà presentarsi, perché impegnato in attività inerenti alle funzioni di governo. E’ evidente che non trattasi di una presunzione iuris e de iure secondo la quale la legge in esame avrebbe privato il giudice del potere di qualsiasi valutazione con riferimento al caso concreto. Al contrario, il giudice è tenuto ad accertare e valutare quando ricorrono le ipotesi previste dall’art. 1 c. 1 della legge e rinviare il processo solo accertati la sussistenza di tale casi. In conclusione, la legge n. 51/10 non può, in alcun modo, essere qualificata alla stregua di una mera riedizione del “lodo” dichiarato incostituzionale da codesta Corte con la sentenza n. 262/09; la predetta legge, infatti, presenta i caratteri della temporaneità e dell’efficacia limitata al tempo strettamente necessario all’entrata in vigore di una legge costituzionale dall’identico contenuto e comunque non oltre una scadenza predeterminata. La natura di prerogativa del meccanismo oggetto della questione non sembra potersi trarre, infine, neppure dall’art. 2 della medesima legge n. 51/2010, richiamato dal remittente sebbene non investito da dubbi di incostituzionalità. Ed invero, il riferimento ad una futura legge costituzionale, “recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali”, non pare potersi leggere come ammissione della necessità di una norma costituzionale anche in ordine alla materia di cui alla stessa legge n. 51/2010; detto richiamo, infatti, vuol significare soltanto che – correttamente – sarà una legge costituzionale a disciplinare le vere e proprie prerogative dei membri del governo, e che, fino ad allora, rimarranno in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come quella in esame), inerenti a specifici aspetti della materia che al concetto di prerogativa non sono certo riconducibili. Peraltro, giova ricordare che codesta Corte, in taluni casi, ha giustificato norme transitorie ordinarie e in attesa di una riforma di rango costituzionale o legislativo ordinario (cfr. i casi decisi con le sentenze nn. 272/2005, 1114/1988, 176/1996). In tali casi, la Corte ha posto l’accento sul fatto che l’esigenza, posta a base della scelta del legislatore, è quella di evitare che nel futuro sistema, risultante dalla riforma del settore, permangano irrazionali discrasie di disciplina o palesi iniquità. Alla luce delle superiori considerazioni, si chiede a codesta Corte di dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, prospettata dal Tribunale di Milano, non potendosi, 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 in alcun modo, mutuare, con riferimento alla legge n. 51/10, le conclusioni cui codesta Consulta è pervenuta nella sentenza n. 262/09. Tanto premesso in fatto ed in diritto, si rimettono le seguenti CONCLUSIONI “Voglia codesta Ecc.ma Corte Costituzionale, in accoglimento delle deduzioni svolte nella presente memoria in uno a quelle contenute nell’atto di intervento, da intendersi qui integralmente riprodotte, ritenere e dichiarare l’inammissibilità e/o l’infondatezza della questione di illegittimità costituzionale sollevata con l’ordinanza meglio indicata in premessa”. Roma, 10 novembre 2010 Michele Dipace VICE AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Maurizio Borgo AVVOCATO DELLO STATO Le decisioni della Consulta sulla legittimità costituzionale e ... SENTENZA N. 23 ANNO 2011 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Ugo DE SIERVO Presidente - Paolo MADDALENA Giudice - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " - Giuseppe FRIGO " - Alessandro CRISCUOLO " - Paolo GROSSI " - Giorgio LATTANZI " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza) promossi dal Tribunale di Mi- CONTENZIOSO NAZIONALE 105 lano, sezione I penale e sezione X penale, con ordinanze del 19 e del 16 aprile 2010 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con ordinanza del 24 giugno 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visti gli atti di costituzione di S.B. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica dell’11 gennaio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo per S.B. e gli avvocati dello Stato Michele Dipace e Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale di Milano, sezione I penale, con ordinanza del 19 aprile 2010 (reg. ord. n. 173 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1, 3 e 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza), per violazione dell’art. 138 della Costituzione. 1.1. – Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha dedotto e documentato, per l’udienza del 12 aprile 2010, un legittimo impedimento a comparire, consistente nell’impegno dell’imputato stesso a svolgere, nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei ministri, un viaggio di Stato. Il Tribunale riporta inoltre che, a fronte della richiesta di ulteriori date utili per la prosecuzione del giudizio, la difesa dell’imputato, ai sensi della disciplina censurata, ha formulato richiesta di rinvio al 21 luglio 2010, producendo attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di impedimento continuativo dell’imputato motivato mediante riferimento esemplificativo a plurime attività governative da svolgere nel periodo intercorrente fra il 9 aprile e il 21 luglio 2010. Il giudice a quo espone che il pubblico ministero si è opposto alla richiesta di rinvio, sulla base di una interpretazione logica e sistematica della disciplina censurata, tale da consentire al giudice di valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri. In particolare, secondo l’interpretazione proposta dal pubblico ministero, «la mera attestazione di un impegno continuativo e correlato all’esercizio delle funzioni» indicate dalla disciplina censurata «non precluderebbe al giudice l’accertamento della sussistenza in concreto dell’assoluto impedimento a comparire dell’imputato per il periodo indicato nell’attestazione» stessa. In subordine, secondo quanto riferisce il Tribunale rimettente, il pubblico ministero ha dedotto l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nell’ipotesi in cui essa dovesse intendersi come preclusiva di un sindacato del giudice in ordine alla sussistenza in concreto del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri. Ad avviso del giudice a quo, l’interpretazione del pubblico ministero non può essere condivisa, in quanto la disciplina censurata qualifica come legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di procedura penale, «non solo le varie attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti con riguardo alla funzione ministeriale», ma anche le relative «attività preparatorie e consequenziali», nonché ogni «attività comunque coessenziale alle funzioni di governo», imponendo, inoltre, il rinvio del processo ove la Presidenza del Consiglio dei ministri «attesti che l’impedimento è continuativo e correlato» allo svolgimento delle suddette funzioni. Alla luce di tali circostanze, il Tribunale rimettente ritiene che la disciplina censurata non si limiti «ad integrare la previsione di cui all’art. 420-ter del c.p.p.», introducendo «casi 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 ulteriori di legittimo impedimento legati a situazioni specificamente individuate» e tipizzando «taluni atti o attività di governo come integranti la fattispecie legale di impedimento», ma sostanzialmente identifichi l’intera attività di governo «(peraltro mediante un meccanismo di autocertificazione) con l’assoluta impossibilità a comparire». Ciò si traduce, ad avviso del giudice a quo, nella privazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento con riferimento ad uno specifico impegno correlato alla singola udienza. In altri termini – osserva ancora il collegio rimettente – la definizione di legittimo impedimento di cui alla disciplina censurata è talmente ampia e generica da risolversi in una «presunzione assoluta di impedimento», considerata quale situazione legata non già ad un «fatto contingente », ma ad uno «status permanente», con conseguente venir meno della possibilità del giudice di accertare la «sussistenza in concreto» dell’impedimento stesso. L’impossibilità di seguire l’interpretazione proposta dal pubblico ministero rende rilevante, ad avviso del Tribunale rimettente, la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata. Secondo il giudice a quo, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, dal momento che «le disposizioni in esame, introducendo una presunzione iuris et de iure di impedimento continuativo per un lungo periodo di tempo connessa alle funzioni di governo si sostanziano in una norma di status derogatoria dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una prerogativa che richiede una copertura costituzionale». Ad avviso del Tribunale rimettente, infatti, la disciplina censurata, stabilendo a priori e in modo vincolante che la titolarità e l’esercizio di funzioni pubbliche costituiscono sempre legittimo impedimento per rilevanti periodi di tempo, prescindendo da qualsiasi valutazione del caso concreto, si tradurrebbe nella «statuizione di una vera e propria prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelarne non già il diritto di difesa nel processo bensì lo status o la funzione», realizzandosi, in tal modo, «la medesima situazione già analizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del 2009». Inoltre, secondo il giudice a quo, la circostanza che la stessa legge censurata indichi espressamente la propria «funzione di legge ponte», in vista della successiva entrata in vigore di una organica disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ne renderebbe esplicita «la ratio di anticipazione di una disciplina innovativa in una materia che deve essere necessariamente introdotta con procedimento costituzionale» e confermerebbe, quindi, la violazione dell’art. 138 Cost. 1.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata. 1.2.1. – Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice a quo deduce l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata erroneamente presupponendo che essa introduca una prerogativa o immunità in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ciò che, per pacifica giurisprudenza costituzionale, potrebbe avvenire solo mediante legge costituzionale. In realtà, ad avviso della difesa dello Stato, la finalità delle disposizioni oggetto di censura, come emergerebbe anche dai lavori preparatori, sarebbe quella di «identificare normativamente le attività, esercitate da soggetti che rivestono cariche pubbliche di rilievo costituzionale, che costituiscono impedimento a comparire nelle udienze del procedimento penale nel quale risultano imputati». Tali disposizioni – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – sono quindi dirette ad integrare la disciplina generale contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen. e a «tipizzare gli atti, o meglio le attività di governo, che si traducono in altrettante fattispecie di legittimo impedimento». Simile tipizzazione legislativa si rivelerebbe necessaria, CONTENZIOSO NAZIONALE 107 secondo il punto di vista della difesa dello Stato, allo scopo di adattare le soluzioni indicate da questa Corte con riferimento all’impedimento a comparire dei membri del Parlamento (sentenza n. 225 del 2001, secondo cui in particolare il giudice «ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari») alla diversa fattispecie del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, le cui attività, rispetto a quelle dei parlamentari, «si svolgono con modalità e cadenze temporali […] più eterogenee e non facilmente preventivabili» e sono «più soggett[e] a variazioni, atteso che l[e] stess[e] dev[ono] tenere conto di svariate evenienze ». L’intervento legislativo della cui legittimità si dubita, secondo la difesa dello Stato, sarebbe dunque rivolto a tipizzare, anche a fini di certezza del diritto e allo scopo di evitare divergenti interpretazioni giurisprudenziali, «le ipotesi in cui lo svolgimento dell’attività governativa rende assolutamente impossibile, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri », la comparizione in giudizio, in quanto essa precluderebbe «lo svolgimento di attività istituzionali non delegabili». L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, inoltre, che la disciplina censurata, a differenza della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), non determini «in via automatica» la sospensione del processo. In primo luogo, essa si limiterebbe a consentire all’imputato di ottenere, «volta per volta», il rinvio dell’udienza. In secondo luogo, le funzioni di governo in grado di giustificare la richiesta di rinvio troverebbero un «esplicito fondamento normativo in fonti di rango primario o secondario» espressamente richiamate, o sarebbero comunque «adeguatamente determinate e agevolmente individuabili atteso il loro carattere strettamente strumentale rispetto a quelle specificamente indicate con il richiamo delle rispettive fonti normative» (attività preparatorie, consequenziali o comunque coessenziali alle funzioni di governo). Infine, il giudice non sarebbe privato del potere di accertare «la sussistenza in concreto» del legittimo impedimento, perché egli potrebbe comunque valutare «se l’attività governativa dedotta quale legittimo impedimento rientri fra le ipotesi previste dalle disposizioni» censurate. Al giudice, pertanto, resterebbe solo precluso il potere di «sindacare se le attività istituzionali indicate» da tali disposizioni siano, «una volta provatane in fatto l’esistenza, causa di legittimo impedimento »: se così non fosse, si avrebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, un inammissibile sindacato del giudice penale sulle ragioni politiche sottese all’esercizio delle attività istituzionali degli organi costituzionali. La difesa dello Stato esclude, quindi, che la disciplina censurata costituisca, come invece affermato dal giudice a quo, una prerogativa o immunità tale da richiedere copertura costituzionale. Si tratterebbe, invece, di un intervento legislativo di «modulazione» dell’istituto generale del legittimo impedimento, che, in definitiva: «non comporta esenzione dalla giurisdizione penale»; «non prevede una sospensione generale e automatica del procedimento penale»; «ha, quale unico effetto processuale, quello del rinvio del processo ad altra udienza su richiesta di parte»; prevede un rinvio che «non ha una durata indeterminata» e, nell’ipotesi di impedimento continuativo, comunque «non può essere superiore a sei mesi»; «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento, ma soltanto l’indicazione di categorie di attività istituzionali che possono comportare la richiesta del rinvio dell’udienza a tutela del diritto di difesa dell’imputato in coerenza con l’esercizio dei propri doveri costituzionali »; «contiene un ragionevole bilanciamento dei due valori costituzionali, quello dell’esercizio della giurisdizione e quello dell’esercizio delle attività politico-istituzionali dei membri del Governo, senza far prevalere l’uno sull’altro e soprattutto senza sacrificarne nessuno». 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Né può sostenersi, secondo la difesa dello Stato, che il rinvio effettuato dall’art. 2 della legge n. 51 del 2010 ad una successiva organica disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri dimostri il carattere di prerogativa di quanto disposto dalla disciplina censurata. Tale richiamo, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, «vuol significare soltanto che – correttamente – sarà una legge costituzionale a disciplinare le vere prerogative dei membri del Governo», mentre, fino a quel momento, «rimarranno in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come quella in esame) inerenti a specifici aspetti della materia che al concetto di prerogativa non sono certo riconducibili». Del resto, il disegno di legge costituzionale effettivamente presentato (A.S. n. 2180, recante «Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato»), costituisce, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, un intervento legislativo che ha un contenuto ben diverso rispetto a quello della disciplina censurata. Il disegno di legge, infatti, disporrebbe «la sospensione della giurisdizione nei confronti delle alte cariche dello Stato al fine di fornire una obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla carica stessa». La legge n. 51 del 2010, invece, prevederebbe un impedimento a comparire «in caso di concomitante esercizio di una o più attribuzioni previste dalle leggi e dai regolamenti» per le alte cariche, senza «sospende[re] l’esercizio della giurisdizione», né «crea[re] un particolare status giuridico per tale carica», ma limitandosi a disporre un «rinvio dell’udienza con conseguente sospensione della prescrizione per l’intera durata del rinvio». Infine, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la scelta normativa, «particolarmente stigmatizzata dal giudice a quo», di attribuire alla Presidenza del Consiglio dei ministri il compito di attestare la continuatività e la correlazione con lo svolgimento delle funzioni governative dell’impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, troverebbe invece giustificazione «nella necessità ed opportunità di attribuire tale delicato compito ad un soggetto […] distinto rispetto al Presidente del Consiglio dei Ministri coinvolto nel processo penale come imputato», mentre sarebbe stato «irragionevole» lasciare a quest’ultimo «il compito di autocertificare che l’impedimento presenta carattere continuativo». 1.2.2. – In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento e insistendo per l’inammissibilità e l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata. La difesa dello Stato deduce l’inammissibilità della questione sostenendo, in primo luogo, che l’ordinanza di rimessione non preciserebbe i fatti del processo a quo, né indicherebbe i reati per i quali esso viene celebrato, in tal modo non permettendo a questa Corte di valutare la rilevanza della questione, se non violando il principio di autosufficienza dell’atto di rimessione. Il giudice rimettente, in secondo luogo, ad avviso della difesa statale, non avrebbe «spiegato perché non potesse decidere sulla richiesta di rinvio dell’udienza, formulata dalla difesa dell’imputato […] in quanto quest’ultimo era assolutamente impossibilitato a presenziare alla medesima udienza per legittimo impedimento concretatesi in impegni istituzionali specificamente indicati dall’attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri e facilmente accertabili da parte del Tribunale indipendentemente dalla risoluzione della pregiudiziale costituzionale avente ad oggetto l’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, quindi, il giudice a quo non avrebbe fornito alcuna giustificazione in relazione al fatto che l’istanza difensiva non potesse essere valutata e decisa alla stregua della disciplina di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. La questione, pertanto, sarebbe stata proposta non all’esito della necessaria verifica della sua CONTENZIOSO NAZIONALE 109 rilevanza, bensì «per sindacare la legittimità costituzionale di una norma di legge senza fornire la prova della incidenza della stessa in concreto sul processo in corso». Nel merito, la difesa dello Stato ribadisce quanto dedotto nell’atto di intervento, rimarcando che le disposizioni della legge n. 51 del 2010 non si discosterebbero dalla logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., «di cui precisano soltanto alcune fattispecie di impedimento e pertanto non hanno la finalità di proteggere la funzione pubblica, in sé e per sé considerata, creando una prerogativa ovvero un’immunità per specifici imputati, ma sono volte a tutelare il diritto di difesa dell’imputato che in un determinato periodo di tempo (es. giorno dell’udienza) è impedito a partecipare al processo per un proprio impegno istituzionale non prorogabile». La normativa censurata, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, non introduce alcuna forma di immunità, ma «specifica, tipizzandola (e, peraltro, riducendola significativamente)» la portata dell’istituto dell’impedimento a comparire già previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Né potrebbe dirsi, sostiene la difesa dello Stato, che si sia dinanzi a una presunzione iuris et de iure, in base alla quale la legge n. 51 del 2010 avrebbe privato il giudice del potere di qualsiasi valutazione con riferimento al caso concreto, dal momento che «il giudice è tenuto ad accertare quando ricorrono le ipotesi previste dall’art. 1, comma 1, della legge e rinviare il processo solo accertata la sussistenza di tali casi». 1.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. 1.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. Egli nega che, in relazione alle norme processuali, risulti attenuato l’obbligo del giudice a quo di descrivere puntualmente la fattispecie sottoposta al suo esame e comunque ritiene che, ove pure si volesse aderire a tale tesi, la mancata descrizione della fattispecie sarebbe, nel caso in esame, così «drastica» da determinare comunque l’inammissibilità della questione. Sostiene la parte privata, infatti, che l’ordinanza di rimessione: non chiarisce a quali reati si riferisce l’imputazione, né dove e quando gli stessi sarebbero stati commessi, né se siano contestate ipotesi di concorso con altre persone; non fornisce una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione » della norma censurata; non indica lo stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza […] per comprendere l’impatto che l’applicazione» della disciplina censurata potrebbe avere sul giudizio principale, neppure potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo, o, addirittura, a fatti ritenuti notori». L’imputato nel giudizio principale, inoltre, deduce, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato, all’udienza del 12 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, rappresentato da un viaggio di Stato a Washington D.C., negli Stati Uniti d’America, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al successivo 21 luglio. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Alla luce di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 12 aprile 2010, dato dal viaggio di Stato a Washington». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata. In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe avuto quindi, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il giudice a quo – rileva la parte privata - «discetta in astratto di “rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento». Nel merito, l’imputato nel giudizio principale ritiene che il Tribunale rimettente abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata sulla base dell’erroneo presupposto che essa abbia introdotto un meccanismo che, «al di là dell’evocazione del nomen di legittimo impedimento, costituirebbe in realtà una prerogativa connessa alla carica costituzionale di Presidente del Consiglio dei ministri e richiederebbe pertanto una fonte di rango costituzionale». Innanzitutto, la circostanza su cui il Tribunale rimettente fonderebbe questo assunto, cioè l’asseritamente prevista sottrazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento, è negata dall’imputato nel giudizio principale. Questi infatti osserva come «nulla viet[i] al giudice, al quale venga esibita l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri» di cui alla disciplina censurata, «sia di controllare l’autenticità della stessa, sia di chiedere […] ulteriori precisazioni in merito all’attività di governo che deve essere compiuta », restandogli soltanto preclusa la possibilità «di sindacare il merito dell’attività di governo, giudicandola più o meno importante e necessaria», ciò che peraltro contrasterebbe anche con il principio di separazione dei poteri. Inoltre, la «facoltà del giudice di entrare nel merito della fondatezza del legittimo impedimento », ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, non sarebbe «così coessenziale alla natura stessa dell’istituto» da far escludere che possa rientrare nella categoria del legittimo impedimento (e non in quella della prerogativa costituzionale) anche «un’ipotesi di impedimento qualificato a monte come legittimo da una fonte di rango ordinario, rispetto al quale il giudice possa solo verificare se si versi o meno nei casi previsti dalla legge». Ragionando in via analogica, l’imputato nel giudizio principale ritiene che non potrebbe ritenersi preclusa al legislatore ordinario «la compilazione di un elenco di patologie invalidanti in presenza delle quali il giudice fosse costretto a riconoscere il legittimo impedimento dell’imputato che ne sia affetto», potendo «disporre accertamenti sulla veridicità del certificato», ma senza «sin- CONTENZIOSO NAZIONALE 111 dacare la ragionevolezza della scelta legislativa di inserire nell’elenco una patologia piuttosto che un’altra». Una simile disciplina, infatti, «non cancellerebbe la natura di legittimo impedimento » dell’imputato «affetto da una delle patologie legislativamente previste, per trasformare questa evenienza in una prerogativa per quel tipo di malati». Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, dunque, il Tribunale rimettente, nel negare che la disciplina censurata preveda una ipotesi di legittimo impedimento, muoverebbe da un presupposto giuridico errato e, di conseguenza, evocherebbe un parametro costituzionale (art. 138 Cost.) non pertinente, dal momento che «nessuno può seriamente dubitare che una tipizzazione da parte del legislatore di alcuni casi di legittimo impedimento debba e possa avvenire con legge ordinaria». Quest’ultima – osserva ancora l’imputato nel giudizio principale – deve realizzare un ragionevole bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco (diritto di difesa e obbligatorietà dell’azione penale e ragionevole durata del processo), che è oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale. Ma l’ordinanza di rimessione trascurerebbe completamente di considerare il profilo della «ragionevolezza del concreto bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata, rimanendo invece «ancorata al pregiudizio della “prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelare non già il diritto di difesa del processo bensì lo status e le funzioni”». La tesi che la disciplina censurata introduca una prerogativa costituzionale sarebbe ulteriormente contraddetta, ad avviso della parte privata, dal suo carattere temporaneo: una normativa destinata «a dispiegare i propri effetti nell’ordinamento al più per i diciotto mesi successivi alla sua pubblicazione», infatti, non potrebbe «integrare una prerogativa costituzionale, a meno di non voler pensare che le prerogative costituzionali possano avere una scadenza ». Né la tesi della prerogativa costituzionale potrebbe trarre conforto dalla circostanza che la disciplina censurata «preannuncia una riforma costituzionale» delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. Secondo l’imputato nel giudizio a quo, tale argomento, adoperato dal giudice rimettente, «equipara in modo del tutto arbitrario il contenuto» della normativa oggetto di censura con quello della futura disciplina costituzionale. Quest’ultima, secondo l’imputato nel giudizio principale, nel dettare una disciplina costituzionale organica delle prerogative dei membri del Governo potrà regolare «anche […] l’interazione fra le suddette prerogative e […] istituti previsti da leggi ordinarie […] quali il legittimo impedimento ». Ma ciò non significa che le disposizioni censurate intendano «anticipare a livello di legge ordinaria gli effetti di una riforma costituzionale». Esse, invece, secondo la parte privata, risponderebbero allo scopo di «regolare in modo estremamente equilibrato un lasso di tempo intermedio fra la mancanza assoluta di una disciplina che si occupi delle eventuali difficoltà che il Presidente del Consiglio dei ministri e i Ministri possono trovare a difendersi efficacemente in un processo penale che li veda imputati e l’approvazione di una legge costituzionale che ridefinisca lo status di queste cariche». Il carattere equilibrato del contemperamento di interessi realizzato dalla disciplina transitoria censurata sarebbe inoltre dimostrato, ad avviso dell’imputato nel giudizio a quo, dalle seguenti ulteriori circostanze. In primo luogo, la disciplina prevede la sospensione del decorso della prescrizione, con la conseguenza che per effetto del legittimo impedimento «la situazione processuale viene semplicemente congelata senza alcun effetto pregiudizievole sul piano sostanziale ». In secondo luogo, l’applicazione concreta di tale disciplina nel giudizio a quo permetterebbe presumibilmente di realizzare un equo bilanciamento degli interessi in gioco, atteso che l’imputato nel processo principale si è raramente avvalso dell’istituto del legittimo 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 impedimento, permettendo così la celebrazione di ben 83 udienze. Infine, il periodo massimo di differimento del processo, consentito dalle disposizioni oggetto di censura, è di appena sei mesi, che è intervallo di tempo assai più breve rispetto al periodo di sospensione che si determina per effetto della remissione alla Corte costituzionale della questione di legittimità sollevata dal giudice a quo. 1.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, ribadendo l’infondatezza della questione. Nella memoria, la parte privata illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio fino al giorno 19 aprile 2010, al dichiarato fine di consentire a questa Corte di «valutare la ragionevolezza di quanto deciso dal Tribunale di Milano a fronte di una richiesta di rinvio corredata anche dall’indicazione di possibili date per la celebrazione delle successive udienze». Dalle vicende del giudizio principale emergerebbe come «la difesa abbia rigorosamente interpretato quei canoni ermeneutici offerti» dalla Corte «per individuare il concetto di leale collaborazione processuale, concordando le date, non frapponendo impedimenti pretestuosi, consentendo la celebrazione delle udienze anche quando l’imputato era impedito, se la sua partecipazione non era oggettivamente necessaria». Con osservazioni estese anche ai giudizi di cui al reg. ord. nn. 180 e 304 del 2010, inoltre, la parte privata sostiene che i rinvii richiesti per legittimo impedimento sarebbero stati sempre limitati e rispettosi dell’attività giudiziaria e che le attestazioni fornite sono state sempre assai inferiori al termine massimo dei sei mesi. Sarebbe quindi stato sufficiente, conclude la difesa dell’imputato nel giudizio principale, applicare i canoni di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. per poter continuare i processi. 2. – Il Tribunale di Milano, sezione X penale, con ordinanza del 16 aprile 2010 (reg. ord. n. 180 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 51 del 2010, per violazione degli artt. 3 e 138 Cost. 2.1. – Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale, al quale è contestato il reato di cui agli artt. 110, 319, 319-ter e 321 del codice penale, ha anticipato via fax, in data 14 aprile 2010, una richiesta di rinvio dell’udienza del 16 aprile (data che era stata indicata dal Tribunale, nel corso della precedente udienza del 27 febbraio 2010, insieme a quelle, successive, del 30 aprile, 7 maggio, 12 maggio e 29 maggio del 2010), deducendo legittimo impedimento consistente nell’impegno a presiedere il Consiglio dei ministri convocato per lo stesso giorno. Il Tribunale rimettente espone che, nel corso dell’udienza del 16 aprile, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha prodotto copia dell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri (datato 14 aprile 2010) e ha esibito l’originale, producendo copia, «dell’attestazione del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa alla continuatività dell’impedimento correlato allo svolgimento delle funzioni di governo » ai sensi della legge censurata. Il giudice a quo riferisce, inoltre, che il pubblico ministero ha domandato il rigetto della richiesta di rinvio, negando il carattere assoluto dell’impedimento alla luce dei punti posti all’ordine del giorno della seduta del Consiglio dei ministri del 14 aprile 2010 e della circostanza per cui l’impedimento è intervenuto successivamente alla fissazione concordata del calendario del processo, mentre la difesa dell’imputato ha ribadito la rilevanza dei temi posti all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri e, dunque, il carattere assoluto dell’impedimento. Ad avviso del Tribunale rimettente, ai fini della decisione sulla richiesta di rinvio e della prosecuzione del dibattimento, è «imprescindibile» accertare preliminarmente se, in applicazione della disciplina legislativa censurata, il giudice «mantenga», conformemente alla natura CONTENZIOSO NAZIONALE 113 stessa dell’«istituto generale» del legittimo impedimento di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen., «il potere-dovere di verificare l’effettiva sussistenza dell’impedimento», mediante un «accertamento di fatto da effettuarsi caso per caso e in concreto». La disciplina censurata, secondo il collegio rimettente, sottrae al giudice tale potere di valutazione. Essa, infatti, non contiene una «disciplina[..] presuntiva[…]» dell’istituto «in relazione a specifiche situazioni di fatto» e «coerente[…] con il sistema delineato dall’art. 420-ter di applicazione generale». L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, ad avviso del giudice a quo, «stila[…] un elenco» di impedimenti legittimi che include anche le «attività preparatorie e consequenziali, nonché […] ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo». La «genericità» di tale formulazione limiterebbe la possibilità del giudice di apprezzare l’effettività dell’impedimento rispetto alla singola udienza, ciò che risulterebbe rafforzato dal dettato del comma 4 del medesimo art. 1, secondo cui «il giudice rinvia il processo a seguito di certificazione che attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni» di governo. Da tutto ciò il collegio rimettente conclude che, in base alla disciplina censurata, «il rinvio è imposto da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è previsto». Né può seguirsi, secondo il Tribunale rimettente, una diversa interpretazione della legge censurata, tale da «salvaguarda[re] il sindacato del giudice in ordine alla natura dell’impedimento e alla sua continuatività»: una simile interpretazione, infatti, «si risolverebbe in una sostanziale disapplicazione della nuova legge» e contrasterebbe con la volontà del legislatore, quale espressamente palesata dall’art. 2 della legge censurata, secondo il quale «le nuove disposizioni si applicano al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge». Alla luce di tali circostanze, il Tribunale rimettente ritiene che il meccanismo processuale previsto dalla disciplina censurata, sebbene qualificato come legittimo impedimento, rappresenti in realtà una «nuova prerogativa», «connessa all’esercizio delle cariche costituzionali di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ministro», e consistente in una «causa di sospensione del processo». Ma – osserva il giudice a quo – la previsione di una simile prerogativa, in quanto «derogatoria al principio di eguale sottoposizione alla legge e alla giurisdizione di tutti i cittadini», non può avvenire con legge ordinaria. Essa richiede necessariamente una fonte costituzionale, come affermato da questa Corte con la sentenza n. 262 del 2009 e come del resto riconosciuto dalla medesima disciplina censurata, che ha carattere temporaneo ed è rivolta ad anticipare gli effetti di una legge costituzionale recante una disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. 2.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari la questione di legittimità costituzionale sollevata inammissibile, in relazione all’art. 3 Cost., e comunque non fondata, in relazione al medesimo art. 3, nonché all’art. 138 Cost. 2.2.1. – Quanto all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce preliminarmente la manifesta inammissibilità della questione, per non avere «il Tribunale rimettente esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione». Nel merito, la difesa dello Stato ritiene che le disposizioni censurate prevedano un «trattamento differenziato per i titolari delle cariche ivi indicate del tutto conforme al richiesto requisito della ragionevolezza e proporzionalità», essendo tali disposizioni dirette a pervenire, con specifico riferimento alla fattispecie del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 imputato «ad un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale dell’organo costituzionale». Né può ritenersi, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, che la violazione dell’art. 3 Cost. dipenda da una illegittima differenziazione della posizione del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto a quella dei ministri, dal momento che la disciplina censurata si riferisce ad entrambe le cariche. Con riguardo, invece, alla lamentata violazione dell’art. 138 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza della censura sulla base di argomenti testualmente identici a quelli svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 2.2.2. – In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento a sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata. La difesa dello Stato formula ulteriori osservazioni in ordine alla manifesta inammissibilità e alla infondatezza della questione, sulla base di argomenti testualmente identici a quelli dedotti nella memoria riferita all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 2.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata. 2.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione conterrebbe, ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, una «laconica indicazione degli articoli del codice penale contestati all’imputato e delle coordinate spazio-temporali del capo di imputazione» e non fornirebbe una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione» della norma censurata, né dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza per potersi pronunciare», non potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori». L’imputato nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato, all’udienza del 16 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla concomitante riunione del Consiglio dei ministri, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 21 luglio 2010. Sulla base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sus- CONTENZIOSO NAZIONALE 115 sistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 16 aprile 2010, dato dalla concomitante riunione del Consiglio dei Ministri». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio 2010, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata. In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il giudice a quo «discetta in astratto di “rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento». Nel merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale rimettente in relazione all’art. 138 Cost., sia manifestamente infondata, per le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. Relativamente, invece, all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la parte privata osserva che «manca nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata. Sotto il primo profilo, viene rilevato che l’ordinanza di rimessione non chiarisce quali siano i soggetti rispetto ai quali la disciplina censurata «creerebbe sperequazioni: se rispetto al semplice cittadino, o ad altre cariche dello Stato, o a un Presidente del Consiglio dei Ministri e a dei Ministri tutelati da vere immunità costituzionali». Sotto il secondo profilo, si osserva come il giudice a quo si limiti ad affermare che il meccanismo processuale denunciato è «causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa», senza però impiegare alcuna altra argomentazione «per dare sostanza e contenuto all’asserita sproporzione» e, soprattutto, senza considerare il carattere temporaneo e transitorio della disciplina denunciata, suscettibile di influenzare significativamente il giudizio sulla ragionevolezza del bilanciamento di interessi da essa operato. 2.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata. La parte privata, in particolare, illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio, riproducendo le medesime argomentazioni svolte nella memoria riferita al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 3. – Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 giugno 2010 (reg. ord. n. 304 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, per violazione dell’art. 138 Cost. 3.1. – Il giudice rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 ha avanzato, ai sensi della disciplina censurata, istanza di differimento dell’udienza preliminare alla data del 27 luglio 2010, producendo una attestazione della Segreteria della Presidenza del Consiglio dei ministri in cui viene dato atto di un impedimento continuativo, fino alla suddetta data, correlato alle funzioni di governo che l’imputato stesso è chiamato a svolgere nella sua qualità di attuale Presidente del Consiglio dei ministri. Il giudice a quo espone, inoltre, che, a fronte di tale richiesta di differimento, il pubblico ministero ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i successivi mesi di settembre e ottobre e la difesa dell’imputato ha offerto la propria disponibilità, tuttavia precisando che «un’eventuale programmazione delle udienze dovrà comunque essere modulata sulla base dei futuri impegni istituzionali del proprio assistito, allo stato non individuabili». Il giudice rimettente ritiene che, ai fini della decisione sull’istanza di differimento dell’udienza preliminare, occorra preliminarmente stabilire se, alla luce della disposizione legislativa censurata, «il giudice conservi il potere, stabilito dall’art. 420-ter del codice di procedura penale, di sindacare caso per caso se l’impedimento legittimo possa ritenersi assoluto per tutto il periodo in cui viene rappresentato e, come tale, legittimare la richiesta di rinvio dell’udienza». A tal fine, ad avviso del giudice a quo, la legge censurata deve essere interpretata tenendo conto della «ratio» dalla medesima indicata all’art. 2, cioè quella di regolare «le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e degli stessi Ministri in vista del sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite […] in attesa di una legge di rango costituzionale che valga ad attuarne un’organica e definitiva regolamentazione». Alla luce di tale circostanza, il giudice rimettente ritiene che, «a fronte di una certificazione governativa in cui vengano indistintamente richiamati gli impegni istituzionali non rinviabili presenti nell’agenda del Presidente del Consiglio dei ministri per un determinato arco temporale, senza alcun preciso riferimento in ordine alla relativa natura, frequenza e durata, al giudice sia precluso ogni sindacato in merito al carattere assoluto dell’impedimento così rappresentato». Tuttavia, una simile qualificazione legislativa, vincolante per il giudice, di «legittimo impedimento continuativo correlato alle funzioni governo», si tradurrebbe in pratica, ad avviso del giudice rimettente, in una «sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico governativo viene ad essere ricoperto». Tale deroga al comune regime giurisdizionale costituirebbe una prerogativa in favore dei componenti di un organo costituzionale che, secondo quanto affermato da questa Corte, può essere introdotta solo con legge costituzionale. Del resto – osserva ancora il giudice a quo – lo stesso art. 2 della legge censurata, «nel rappresentarne il carattere temporaneo, pare essere consapevole della necessità che l’organico assetto delle prerogative dei componenti del Consiglio dei ministri sia attuato attraverso il meccanismo previsto dall’art. 138 Cost.». L’asserita violazione di quest’ultima disposizione costituzionale induce pertanto il giudice rimettente a sollevare d’ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, la quale, in quanto legge ordinaria, non potrebbe, «neppure per un periodo di tempo limitato, anticipare gli effetti di una legge di rango costituzionale». 3.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata. La difesa dello Stato eccepisce innanzitutto l’inammissibilità «per difetto di rilevanza in concreto della questione di costituzionalità dedotta». L’Avvocatura generale dello Stato osserva, infatti, che, come emerge della stessa ordinanza di rimessione, alla richiesta di differi- CONTENZIOSO NAZIONALE 117 mento dell’udienza preliminare per l’attestato impedimento dell’imputato, nessuna delle parti si è opposta, compreso il pubblico ministero, che ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i successivi mesi di settembre e ottobre. In tale contesto, ad avviso della difesa dello Stato, il giudice rimettente avrebbe dovuto preliminarmente valutare la richiesta di rinvio ai sensi della norma generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, verificare l’applicabilità della norma speciale censurata. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, invece, il giudice rimettente avrebbe proceduto, «in astratto» e «senza fornire alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della stessa con riferimento al processo in questione», a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, che si rivelerebbe, pertanto, inammissibile. Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza della questione sollevata sulla base di argomenti testualmente identici a quelli svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. La difesa dello Stato esclude, in particolare, che la disciplina censurata possa costituire una prerogativa costituzionale. Essa infatti sarebbe rivolta ad integrare la disciplina dell’istituto processuale generale del legittimo impedimento, il quale può ben essere regolato con legge ordinaria in quanto «prescinde dalla natura dell’attività che legittima l’impedimento medesimo, [è] di generale applicazione e pertanto non deroga al comune regime giurisdizionale». 3.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 26 ottobre 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata. 3.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione, ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, non indicherebbe i reati contestati e il luogo e tempo della loro commissione, né fornirebbe una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione» della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza per potersi pronunciare», non potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori». L’imputato nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente. Rileva al proposito la parte privata, integrando la descrizione asseritamente imprecisa contenuta nell’ordinanza di rimessione, che, nel caso in esame, la difesa dell’imputato, all’udienza del 24 giugno 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla concomitante riunione del Consiglio dei ministri e dalla successiva partenza per un vertice internazionale in Canada, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 27 luglio 2010. Sulla base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sus- 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 24 giugno 2010, dato dal Consiglio dei ministri e dal viaggio di Stato in Canada». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata. In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la produzione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta produzione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di un mese, ben inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè ad una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per poco più di un mese, mentre il giudice a quo «discetta in modo astratto ed impreciso di “una sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico governativo viene ad essere ricoperto”». Nel merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale rimettente sia manifestamente infondata per le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 3.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata. La parte privata illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio, riproducendo le medesime argomentazioni svolte nelle memorie riferite ai giudizi di cui al reg. ord. nn. 173 e 180 del 2010. Considerato in diritto 1. – Il Tribunale di Milano, con tre distinte ordinanze della sezione I penale (reg. ord. n. 173 del 2010), della sezione X penale (reg. ord. n. 180 del 2010) e del Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 304 del 2010), solleva questione di legittimità costituzionale della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza). In particolare, la sezione X ha censurato l’intero testo della legge n. 51 del 2010, mentre il Giudice per le indagini preliminari ha censurato il solo articolo 1 e la sezione I soltanto i commi 1, 3 e 4 di tale articolo. Tutte le ordinanze di rimessione sollevano questione di legittimità costituzionale della predetta disciplina in quanto essa introdurrebbe, con legge ordinaria, una prerogativa in favore dei titolari di cariche governative, in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e con l’art. 138 Cost. Tali disposizioni costituzionali sono entrambe esplicitamente indicate quali parametri violati nell’ordinanza di rimessione della sezione X e risultano implicitamente evocati, in congiunzione fra loro, anche nelle altre due ordinanze, benché queste ultime, testualmente, richiamino soltanto l’art. 138 Cost. La sezione X, inoltre, censura la legge n. 51 del 2010 anche in relazione all’art. 3 Cost., considerato autonomamente e sotto il profilo della ragionevolezza. CONTENZIOSO NAZIONALE 119 1.1. – La legge n. 51 del 2010 disciplina il legittimo impedimento a comparire in udienza, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di procedura penale, del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1) e dei ministri (art. 1, comma 2), in qualità di imputati. In particolare, in base all’art. 1, comma 3, di tale legge, il giudice, su richiesta di parte, rinvia il processo ad altra udienza quando ricorrono le ipotesi di impedimento a comparire individuate dal comma 1 (per il Presidente del Consiglio) e dal comma 2 (per i ministri) della medesima legge. In base a tale disciplina, costituisce legittimo impedimento «il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Inoltre, l’art. 1, comma 4, della medesima legge, dispone che «ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi». L’art. 1, comma 5, della legge n. 51 del 2010 chiarisce che «il corso della prescrizione rimane sospeso per l’intera durata del rinvio». Tale disciplina si applica «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della» medesima legge (art. 1, comma 6) e «fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque, non oltre diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti dall’articolo 96 della Costituzione, al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge» (art. 2). 1.2. – I giudici a quibus ritengono, in particolare, che la disciplina censurata individui con formule generiche e indeterminate le attività costituenti legittimo impedimento del titolare di una carica governativa e sottragga al giudice il potere di valutare in concreto l’impossibilità a comparire connessa allo specifico impegno addotto, soprattutto nell’ipotesi di impedimento continuativo, nella quale l’imputato potrebbe ottenere il rinvio mediante un «meccanismo di autocertificazione» di legittimo impedimento. Ciò costituirebbe, ad avviso dei rimettenti, una «presunzione assoluta di impedimento», collegata allo «status permanente» della titolarità della carica, o comunque una prerogativa o immunità del titolare, la quale, come ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 262 del 2009, non può essere introdotta con legge ordinaria. L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa dell’imputato nei giudizi principali escludono che la disciplina censurata sia costituzionalmente illegittima, osservando, in particolare, come essa sia diretta ad «integrare» la disciplina processuale comune, contenuta nell’art. 420- ter cod. proc. pen., mediante una «tipizzazione» delle attività di governo che costituiscono legittimo impedimento a comparire in udienza. 2. – In ragione della loro connessione oggettiva, i giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi con un’unica pronuncia. 3. – Devono essere preliminarmente esaminati i profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 3.1. – Vanno dichiarate inammissibili le censure prospettate dalla sezione X (reg. ord. n. 180 del 2010) e dal Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 304 del 2010) del Tribunale di Milano, nella parte in cui si riferiscono all’art. 1, commi 2, 5 e 6, nonché all’art. 2 della legge n. 51 del 2010. Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge censurata non assumono rilevanza nei giudizi a quibus, nei quali tale disposizione non può trovare applicazione, in quanto riferita esclusivamente ai ministri e non al Presidente del Consiglio dei ministri, cioè alla carica di cui è titolare l’imputato nei giudizi principali. Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 5 e 6, e dell’art. 2 della legge n. 51 del 2010 sono inammissibili, atteso che tali norme non risultano in alcun modo investite dalle censure svolte nelle motivazioni delle ordinanze di rimessione. 3.2. – Vanno disattese le eccezioni dell’Avvocatura generale dello Stato e della difesa della parte privata, con le quali si deduce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riferite all’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010. 3.2.1. – La difesa della parte privata e l’Avvocatura generale dello Stato eccepiscono, innanzitutto, relativamente a tutti e tre i giudizi, la insufficiente e lacunosa descrizione, compiuta dai giudici a quibus, delle fattispecie sottoposte al loro esame. Le denunciate carenze atterrebbero, in particolare, alla mancata indicazione del tipo di reati cui si riferisce l’imputazione, del luogo e data di commissione degli stessi, delle eventuali ipotesi di concorso con altre persone, della condizione soggettiva che legittima l’applicazione della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi ai giudici a quibus. L’eccezione non è fondata. In primo luogo, va rilevato che l’ordinanza di rimessione della sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010) contiene tutte le informazioni di cui si lamenta la mancanza. In secondo luogo, le altre due ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 173 e n. 304 del 2010) indicano quale sia la condizione soggettiva che legittima l’applicazione della disciplina censurata (cioè la carica di Presidente del Consiglio dei ministri rivestita dall’imputato) e chiariscono che la richiesta di rinvio si riferisce ad una «udienza» disposta nel corso di un processo penale. Infine, l’indicazione del tipo, luogo e data di commissione dei reati contestati non costituisce un elemento necessario per la valutazione della rilevanza della questione sollevata, atteso che la disciplina censurata dispone la propria applicabilità a tutti i processi penali, anche in corso, senza distinguere in base alle caratteristiche del reato commesso, salvo il caso, pacificamente escluso dai rimettenti e dalla stessa parte privata, di applicazione dell’art. 96 Cost. 3.2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, che i giudici rimettenti avrebbero dovuto preliminarmente valutare la richiesta di rinvio dell’udienza ai sensi della norma generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, essi avrebbero dovuto verificare l’applicabilità della norma speciale censurata. Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe, pertanto, irrilevante, perché il giudice avrebbe potuto risolverla a prescindere dalla norma censurata. L’eccezione non è fondata. Il giudice non avrebbe potuto, applicando soltanto l’art. 420-ter cod. proc. pen., ignorare la disciplina censurata, che regola la fattispecie sottoposta al suo esame. Alla luce del comune regime processuale, il giudice avrebbe potuto rinviare l’udienza, riconoscendo l’assoluta impossibilità a comparire dovuta allo specifico impegno istituzionale addotto, ma in tal caso il rinvio sarebbe stato comunque subordinato all’esito di un accertamento giudiziale, che i rimettenti ritengono di non poter compiere a causa della intervenuta disciplina speciale, che CONTENZIOSO NAZIONALE 121 proprio per tale ragione essi hanno censurato. 3.2.3. – La difesa della parte privata eccepisce, poi, l’inammissibilità per difetto di rilevanza in concreto della questione sollevata. Viene osservato, al riguardo, che nei giudizi a quibus il Presidente del Consiglio dei ministri ha addotto sia un impedimento puntuale per il giorno dell’udienza, sia un impedimento continuativo, attestato dalla Presidenza del Consiglio. Ad avviso della difesa dell’imputato nei giudizi principali, l’impedimento puntuale sarebbe stato prospettato per ottenere il rinvio dell’udienza specifica in relazione alla quale è stato presentato, mentre l’attestato di impedimento continuativo sarebbe stato prodotto solo ai fini della individuazione delle date utili per la prosecuzione del giudizio. Di conseguenza, ad avviso della parte privata, i giudici rimettenti avrebbero dovuto, prima, valutare l’impedimento puntuale ai fini del rinvio dell’udienza e, solo successivamente, «sindacare la fondatezza o meno della richiesta di rinvio per l’ulteriore periodo indicato con le modalità previste dalla legge in discussione». Al contrario, secondo la difesa dell’imputato, i giudici a quibus avrebbero sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata immediatamente e, pertanto, «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla medesima. L’eccezione non è fondata. In primo luogo, va osservato che il giudice non è chiamato ad applicare la disciplina censurata solo nel caso in cui venga addotto dall’imputato un impedimento continuativo, mediante l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, previsto dall’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, ma anche quando sia dedotto un impegno specifico e puntuale, che il giudice deve valutare sulla base dell’art. 1, commi 1 e 3, della medesima legge. Queste ultime, quindi, sono disposizioni in relazione alle quali la questione di legittimità costituzionale sollevata deve ritenersi comunque rilevante. Inoltre, l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, presentato nei giudizi a quibus, comprende in realtà anche il giorno dell’udienza cui si riferisce la richiesta di rinvio. Esso, pertanto, non rileva nei giudizi principali solo ai fini della programmazione delle udienze future, ma anche ai fini del rinvio della specifica udienza nel corso della quale è stato presentato. Ne deriva che, sotto il profilo considerato, è rilevante la questione di legittimità costituzionale sia dei commi 1 e 3 dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, sia del comma 4 del medesimo articolo. 3.2.4. – La difesa della parte privata eccepisce, ancora, l’inammissibilità delle questioni sollevate per difetto di rilevanza, asserendo che, nei giudizi a quibus, l’attestazione della Presidenza del Consiglio si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo inferiore al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Alla luce di ciò, secondo la difesa dell’imputato, la disciplina censurata avrebbe ricevuto una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere conseguentemente formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, determinando la sospensione del dibattimento per il tempo indicato in concreto nell’attestazione, e non per il tempo indicato in astratto dalla norma. Al contrario, la difesa dell’imputato lamenta che i giudici a quibus avrebbero «discett[ato] in astratto di “rilevanti periodi di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento». L’eccezione non è fondata. I giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della disciplina censurata in quanto consente all’imputato di dedurre un impedimento continuativo per un «rilevante periodo di tempo». Tale formula si adatta sia al tempo massimo di sei mesi previsto dalla norma in astratto, sia al tempo inferiore, ma comunque significativo, previsto dall’attestato che in 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 concreto è stato prodotto nei giudizi principali, in evidente applicazione, nel caso di specie, della norma censurata. 3.2.5. – Sia l’Avvocatura generale dello Stato, sia la difesa della parte privata, infine, eccepiscono l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, sollevata dalla sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010), in relazione all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. Viene lamentato, in particolare, che il giudice a quo non avrebbe «esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione» e che mancherebbe «nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata. L’eccezione non è fondata. In primo luogo, il giudice rimettente motiva la censura di irragionevolezza, osservando che «il rinvio [dell’udienza] è imposto da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è previsto». In secondo luogo, gli argomenti in base ai quali il rimettente afferma esservi lesione degli artt. 3 e 138 Cost., tra cui in particolare il carattere generale e automatico delle presunzioni di legittimo impedimento introdotte dalla disciplina censurata, sorreggono anche la prospettata irragionevolezza di quest’ultima. Né, in tale ultimo caso, si pone un problema di indicazione del tertium comparationis. 4. – Al fine di decidere nel merito le questioni sollevate dai giudici a quibus, è necessario, preliminarmente, inquadrare il problema generale del legittimo impedimento del titolare di un organo costituzionale, alla luce dei principi al riguardo affermati da questa Corte. 4.1. – Sotto tale profilo assumono rilievo, innanzitutto, le pronunce con le quali è stata valutata la legittimità costituzionale di norme sulla sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato (sentenze n. 262 del 2009 e n. 24 del 2004). Questa Corte ha stabilito che una presunzione assoluta di legittimo impedimento del titolare di una carica governativa, quale meccanismo generale e automatico introdotto con legge ordinaria, è costituzionalmente illegittima, in quanto rivolta a tutelare lo stesso mediante una deroga al regime processuale comune e, quindi, a creare una prerogativa, in violazione degli artt. 3 e 138 Cost. Una simile presunzione, secondo il ragionamento sviluppato nella sentenza n. 262 del 2009, costituisce deroga e non applicazione delle regole generali sul processo, le quali, in particolare, consentono di differenziare «la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale». Devono poi essere considerate le pronunce sui conflitti di attribuzione proposti dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità giudiziaria e riguardanti il mancato riconoscimento, da parte di quest’ultima, di legittimi impedimenti dell’imputato consistenti nella partecipazione ai lavori parlamentari (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). Questa Corte ha chiarito che la posizione dell’imputato parlamentare «non è assistita da speciali garanzie costituzionali» e nei suoi confronti trovano piena applicazione «le generali regole del processo» (sentenza n. 225 del 2001). Essa ha tuttavia anche affermato che, nell’applicazione di tali comuni regole processuali, il giudice deve esercitare il suo potere di «apprezzamento degli impedimenti invocati» dall’imputato parlamentare, «tene[ndo] conto non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri» (sentenza n. 225 del 2001), operando quindi un «ragionevole bilanciamento fra le due esigenze […] della speditezza del processo e della integrità CONTENZIOSO NAZIONALE 123 funzionale del Parlamento» (sentenza n. 263 del 2003), in particolare programmando «il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari» (sentenza n. 451 del 2005). Non vi può essere, dunque, applicazione di regole derogatorie, ma il diritto comune deve applicarsi secondo il principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. 4.2. – Alla luce di tali principi, è rilevante, ai fini della verifica della legittimità costituzionale della disciplina censurata, stabilire se quest’ultima, a prescindere dal suo carattere temporaneo, rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare quello previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Esso rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una prerogativa la cui disciplina è riservata alla Costituzione, violando il principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. La disciplina oggetto di censura sarà dunque da ritenersi illegittima se, e nella misura in cui, alteri i tratti essenziali del regime processuale comune. In base ad esso, l’impedimento dedotto dall’imputato non può essere generico e il rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico. Sotto il primo profilo, l’imputato ha l’onere di specificare l’impedimento, potendo egli addurre come tale un preciso e puntuale impegno e non già una parte della propria attività genericamente individuata o complessivamente considerata. Sotto il secondo profilo, il giudice deve valutare in concreto, ai fini del rinvio dell’udienza, lo specifico impedimento addotto. 5. – Per quanto le censure dei giudici a quibus si riferiscano alle disposizioni della legge n. 51 del 2010 considerate nel loro insieme, e sebbene tali disposizioni rispondano ad un comune motivo ispiratore, tuttavia la disciplina censurata non si presenta come unitaria sotto il profilo strutturale. Essa, infatti, si articola in più componenti, ciascuna delle quali è suscettibile di ricevere una autonoma qualificazione dal punto di vista della coerenza con la disciplina processuale comune e, quindi, anche una diversa valutazione dal punto di vista della verifica di legittimità costituzionale. Questa deve essere condotta separatamente, in relazione alle disposizioni contenute nei tre distinti commi dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, cui si riferiscono le censure dei giudici rimettenti: il comma 1, che indica le attribuzioni del Presidente del Consiglio dei ministri costituenti legittimo impedimento; il comma 3, che disciplina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, quando ricorrono le ipotesi previste dai precedenti commi; il comma 4, che regola l’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. 5.1. – L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 prevede quanto segue: «Per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell’articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, quale imputato, il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 quibus non sono fondate, nei termini di seguito precisati. Ad avviso dei rimettenti, la disciplina censurata, anziché identificare alcune ipotesi rigorosamente e tassativamente circoscritte di impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, contemplerebbe una presunzione assoluta di legittimo impedimento riferita ad una serie ampia e indeterminata di funzioni, in definitiva coincidenti con l’intera attività del titolare della carica governativa. Non vi è dubbio che, ove fosse in tal modo intesa, la disposizione in esame sarebbe illegittima, in quanto derogatoria rispetto al regime processuale comune e, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost., per le ragioni indicate da questa Corte nella sentenza n. 262 del 2009. Tuttavia, una disposizione legislativa può essere dichiarata illegittima solo quando non sia possibile attribuire ad essa un significato compatibile con la Costituzione, cioè, nella fattispecie in esame, ove non sia possibile ricondurla nel solco della disciplina comune, interpretandola in conformità con l’istituto processuale generale di cui è espressione l’art. 420-ter cod. proc. pen. Ciò è possibile in considerazione del fatto che l’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen., nonché del fatto che, con la disposizione censurata, il legislatore sembra aver voluto introdurre – come risulta dai lavori preparatori – una «mera norma interpretativa dell’ambito di applicazione di un istituto processuale » (relazione in aula, Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 25 gennaio 2010, e Senato della Repubblica, Assemblea, 347a seduta pubblica antimeridiana, martedì 9 marzo 2010). Come ha sostenuto la difesa dell’imputato, sia negli atti scritti, sia nel corso dell’udienza pubblica, la disposizione censurata «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento » e «non impone alcun automatismo». Essa introduce un criterio volto ad orientare il giudice nell’applicazione dell’art. 420-ter cod. proc. pen., e segnatamente del comma 1 di tale disposizione, mediante l’individuazione, in astratto, delle categorie di attribuzioni governative a tal fine rilevanti. Il legislatore, peraltro, sembra aver recepito al riguardo, sviluppandolo, un orientamento della Corte di cassazione, secondo cui costituiscono legittimo impedimento, in base all’art. 420-ter cod. proc. pen., le attività del titolare di una carica governativa che siano «coessenziali alla funzione tipica del Governo» (sentenza della Corte di cassazione, sez. sesta penale, 9 febbraio 2004 – 9 marzo 2004, n. 10773). Questa espressione è ripresa dall’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 e assurge ad elemento qualificativo di tutte le ipotesi di legittimo impedimento da tale disposizione previste, come è dimostrato dalla circostanza che le attività coessenziali alla funzione di governo sono poste a chiusura della formulazione normativa e che l’avverbio «comunque» introduce un collegamento fra il requisito della coessenzialità e le attribuzioni governative previste da leggi e regolamenti (genericamente e specificamente indicate). Deve pertanto ritenersi che, in base a questo criterio posto dal legislatore, le categorie di attività qualificate, in astratto, come legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo quelle coessenziali alle funzioni di Governo, che siano previste da leggi o regolamenti (e in particolare dalle fonti normative espressamente citate nella disposizione censurata), nonché quelle rispetto ad esse preparatorie (cioè specificamente preordinate) e consequenziali (cioè immediatamente successive e strettamente conseguenti). Simile criterio legislativo è compatibile con i tratti essenziali del regime processuale comune. La disposizione censurata non consente al Presidente del Consiglio dei ministri di addurre come impedimento il generico dovere di esercitare le attribuzioni da essa previste, CONTENZIOSO NAZIONALE 125 occorrendo sempre, secondo la logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., che l’imputato specifichi la natura dell’impedimento, adducendo un preciso e puntuale impegno riconducibile alle ipotesi indicate. Ciò naturalmente vale anche per le attività «preparatorie e consequenziali», a proposito delle quali deve ritenersi che l’onere di specificazione, sempre gravante sull’imputato, si riferisca sia all’impedimento principale (l’esercizio di attribuzione coessenziale), sia a quello accessorio (l’attività preparatoria o consequenziale). In altri termini, il Presidente del Consiglio dei ministri dovrà indicare un preciso e puntuale impegno, che abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo prevista dall’ordinamento. Né può ritenersi che il criterio posto dal legislatore sia irragionevole o sproporzionato, dal momento che esso è ancorato alla elaborazione giurisprudenziale e non copre l’intera attività del titolare della carica, ma solo le attribuzioni che possano essere qualificate in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo. Tale criterio legislativo, infine, rispetto alla disciplina già ricavabile dall’art. 420-ter cod. proc. pen., ha un effetto di chiarificazione della portata dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui esso debba trovare applicazione in riferimento ad impedimenti consistenti nell’esercizio di funzioni di governo. In termini negativi, il giudice non riconoscerà come impedimenti legittimi, in applicazione del criterio legislativo, impegni politici non qualificati, cioè non riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo, pur previste da leggi o regolamenti. In termini positivi, ove venga addotto un impedimento riconducibile a tale tipologia di attribuzioni, il giudice non potrà disconoscerne il rilievo in astratto, fermo restando il suo potere, non sottrattogli dalla disposizione in esame, di valutare in concreto lo specifico impedimento addotto. Deve dunque concludersi che non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. 5.2. – L’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza». Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate, nei termini di seguito precisati. L’art. 1, comma 3, della legge censurata regola i poteri del giudice in ordine all’accertamento del legittimo impedimento, ai fini del conseguente rinvio dell’udienza, in relazione alla quale tale impedimento è dedotto. Occorre stabilire se la disciplina dettata da tale disposizione sia conforme alla corrispondente regolamentazione contenuta nell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., secondo la quale il giudice rinvia l’udienza quando «risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento». La norma censurata deve considerarsi legittima, in altri termini, a condizione che essa non sottragga al giudice, in relazione alle specifiche ipotesi di impedimento del titolare di funzioni di governo, i poteri di valutazione dell’impedimento addotto, che al giudice stesso sono riconosciuti in base al comune regime processuale. L’Avvocatura generale dello Stato e la parte privata hanno sostenuto che la disciplina censurata non abbia privato il giudice del potere di valutazione dell’impedimento, previsto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Il giudice conserverebbe sia il potere di valutare 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 la prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, sia quello di accertare che tale impedimento «rientri fra le ipotesi previste» dalle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della legge censurata. Ulteriori poteri di controllo risulterebbero, invece, preclusi al giudice, indipendentemente dalla legge n. 51 del 2010. Sarebbe infatti il principio della separazione dei poteri ad impedire che il giudice possa «sindacare il merito dell’attività di governo», valutando «le ragioni politiche sottese all’esercizio» delle attività del Presidente del Consiglio dei ministri, carica cui sarebbe oltretutto da riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». Tali affermazioni ricostruiscono correttamente gli effetti della disposizione di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, ma non altrettanto correttamente colgono il significato e la portata dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri e del principio della separazione dei poteri. Va osservato che l’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, subordina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, esclusivamente ad un duplice riscontro. Nel verificare che «ricorr[ a]no le ipotesi di cui ai precedenti commi», il giudice dovrebbe infatti limitarsi ad accertare, da un lato, che l’impegno dedotto dall’imputato come impedimento sussista realmente in punto di fatto, e, dall’altro lato, che esso sia riconducibile ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo previste da leggi o regolamenti (o abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad esse). Ma tali accertamenti non esauriscono lo spettro dei poteri di valutazione dell’impedimento, che sono esercitati dal giudice in base alla disciplina generale di cui all’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Secondo tale disciplina, infatti, spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udienza, valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto e attuale dello stesso. Ciò implica in particolare, con riferimento alle ipotesi in esame, il potere del giudice di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo ai sensi della legge censurata, dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta (anche alla luce del necessario bilanciamento con l’interesse costituzionalmente rilevante a celebrare il processo) di comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con l’udienza di cui è chiesto il rinvio. Tale potere di apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale della disciplina comune del legittimo impedimento, non è però previsto dalla disposizione censurata, né esso è ricavabile in via interpretativa, atteso che la norma in questione non richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen. e detta una disciplina che, sul punto, sostituisce e non integra quella contenuta nella predetta norma del codice di rito. La mancanza di tale elemento, pertanto, attribuisce all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 un carattere derogatorio rispetto al diritto comune. Per i motivi già chiariti, ciò si traduce in un vizio di costituzionalità di tale disposizione, che deve essere pertanto dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede siffatto potere di valutazione in concreto dell’impedimento. Né può ritenersi che l’esercizio di un simile potere, nelle ipotesi in cui l’impedimento consista nello svolgimento di funzioni di governo, sia di per sé lesivo delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri, o si ponga in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Va detto, innanzitutto, che la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo. A prescindere da ciò, quando il giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del pro- CONTENZIOSO NAZIONALE 127 cesso, l’impedimento consistente nell’esercizio di funzioni governative, si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato. È vero, peraltro, che in simili ipotesi l’esercizio della funzione giurisdizionale ha una incidenza indiretta sull’attività del titolare della carica governativa, incidenza che è obbligo del giudice ridurre al minimo possibile, tenendo conto del dovere dell’imputato di assolvere le funzioni pubbliche assegnategli. Il principio della separazione dei poteri non è, dunque, violato dalla previsione del potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento, ma, eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere al canone della leale collaborazione. Quest’ultimo principio ha carattere bidirezionale, nel senso che esso riguarda anche il Presidente del Consiglio dei ministri, la programmazione dei cui impegni, in quanto essi si traducano in altrettante cause di legittimo impedimento, è suscettibile a sua volta di incidere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Trova pertanto applicazione, anche nel caso del titolare di funzione governativa, quanto questa Corte ha affermato con riferimento al legittimo impedimento di membri del Parlamento, tanto più che, a differenza di questi ultimi, il Presidente del Consiglio dei ministri ha il potere di programmare una quota significativa degli impegni che possono costituire legittimo impedimento (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). La leale collaborazione deve esplicarsi mediante soluzioni procedimentali, ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari. Per un verso, il giudice deve definire il calendario delle udienze tenendo conto degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto assolutamente indifferibili. Per altro verso, il Presidente del Consiglio dei ministri deve programmare i propri impegni, tenendo conto, nel rispetto della funzione giurisdizionale, dell’interesse alla speditezza del processo che lo riguarda e riservando a tale scopo spazio adeguato nella propria agenda. Deve, dunque, concludersi che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti, in quanto si riferiscono all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, sono fondate, nella parte in cui tale disposizione non prevede il potere del giudice di valutare in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto. 5.3. – L’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi». Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate. La norma in esame, a differenza di quelle di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 1, non opera un diretto rinvio all’art. 420-ter cod. proc. pen. e introduce nell’ordinamento una peculiare figura di legittimo impedimento consistente nell’esercizio di funzioni di governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e dalla attestazione di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tali elementi rappresentano tuttavia una alterazione, e non già una integrazione o applicazione, della disciplina dell’istituto generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una disposizione derogatoria del regime processuale comune, che introduce una prerogativa in favore del titolare della carica, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. In primo luogo, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, diversamente da quanto disposto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., prevede che l’imputato possa dedurre, 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 anziché un impedimento puntuale e riferito ad una specifica udienza, un impedimento continuativo riferito a tutte le udienze eventualmente programmate o programmabili entro un determinato intervallo di tempo, che non può essere superiore a sei mesi (ma la norma non vieta che alla scadenza possa essere rinnovato l’attestato di impedimento continuativo). In tal modo, la disposizione in esame esclude, almeno parzialmente, l’onere di specificazione dell’impedimento che, ai sensi dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., grava sull’imputato. Essa consente infatti a quest’ultimo di dedurre come impedimento il generico dovere di svolgere funzioni di governo in un determinato periodo di tempo. Ciò rende impossibile la verifica del giudice circa la sussistenza e consistenza di uno specifico e preciso impedimento. Né può ritenersi che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri debba specificare, giorno per giorno, tutti gli impegni che rendono assolutamente impossibile la presenza in udienza dell’imputato nel corso del periodo di tempo considerato. Una simile interpretazione della disposizione renderebbe inutile la previsione di una apposita figura di impedimento continuativo e, del resto, non è stata seguita, in sede applicativa, dalla Presidenza del Consiglio, le cui attestazioni, nelle fattispecie oggetto dei giudizi principali, hanno indicato succintamente e solo in via esemplificativa alcuni degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri compresi in un periodo di tempo considerato. In secondo luogo, va osservato che il tenore testuale della disposizione in esame ricollega l’effetto del rinvio del processo, per la durata dell’impedimento continuativo, alla attestazione della Presidenza del Consiglio. È previsto, infatti, che il giudice rinvia il processo non già quando «risulti», ma «ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti» che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di governo. In tal modo, il rinvio costituisce un effetto automatico dell’attestazione, venendo meno il filtro della valutazione del giudice e, più in generale, di una valutazione indipendente e imparziale, dal momento che l’attestazione risulta affidata ad una struttura organizzativa di cui si avvale, in ragione della propria carica, lo stesso soggetto che deduce l’impedimento in questione. Per tutte queste ragioni, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 produce effetti equivalenti a quelli di una temporanea sospensione del processo ricollegata al fatto della titolarità della carica, cioè di una prerogativa disposta in favore del titolare. Si tratta, pertanto, di una previsione normativa costituzionalmente illegittima. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza); dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2 della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, CONTENZIOSO NAZIONALE 129 dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2011. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2011. ... sull’ammissibilità del referendum popolare SENTENZA N. 29 ANNO 2011 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Ugo DE SIERVO Presidente - Paolo MADDALENA Giudice - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " - Giuseppe FRIGO " - Alessandro CRISCUOLO " - Paolo GROSSI " - Giorgio LATTANZI " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’articolo 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della legge 7 aprile 2010, n. 51, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 81 dell’8 aprile 2010, recante «Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza», giudizio iscritto al n. 154 del registro referendum. Vista l’ordinanza del 7 dicembre 2010 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta; udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l’avvocato Alessandro Pace per i presentatori Di Pietro Antonio, De Filio Gianluca, Maruccio Vincenzo e Parenti Benedetta e l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ordinanza pronunciata il 6 dicembre 2010, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare, promossa da diciotto cittadini italiani, sul seguente quesito (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 14 aprile 2010, serie generale, n. 86): «Volete voi che sia abrogata la legge 7 aprile 2010, n. 51, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 81 dell’8 aprile 2010, recante “Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza”?». 2. – L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il n. 6 e il seguente titolo: «Abrogazione della legge 7 aprile 2010, n. 51 in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale». 3. – Il Presidente di questa Corte, ricevuta comunicazione dell’ordinanza, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 12 gennaio 2011, dandone regolare comunicazione ai sensi dell’art. 33 della legge n. 352 del 1970. 4. – In data 3 gennaio 2011, i presentatori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, chiedendo che la richiesta stessa venga dichiarata ammissibile. Ad avviso dei promotori, tale richiesta «non urta contro alcuno dei divieti previsti dall’art. 75 Cost., nonché di quelli enucleati sulla base di esso dalla giurisprudenza» costituzionale. 5. – In data 7 gennaio 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato memoria, chiedendo che questa Corte dichiari inammissibile la richiesta referendaria. Ad avviso della difesa statale, la richiesta sarebbe inammissibile, in particolare, in quanto l’abrogazione della legge che ne forma oggetto farebbe venir meno «quel livello minimo di disciplina che, secondo l’autorevole avviso [della Corte Costituzionale…] deve sempre essere assicurato allorché la materia, oggetto di formazione, coinvolga interessi costituzionalmente rilevanti». Inoltre, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, è inammissibile un quesito referendario «avente ad oggetto l’abrogazione di una legge, la cui disciplina risulta, comunque, destinata a perdere efficacia quasi contemporaneamente alla conclusione del procedimento referendario». Considerato in diritto 1. – Questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo della legge 7 aprile 2010, n. 51, recante «Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza». La legge n. 51 del 2010 disciplina il legittimo impedimento a comparire in udienza, ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen., del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1) e dei ministri (art. 1, comma 2), in qualità di imputati. In particolare, in base all’art. 1, comma 3, di tale legge, il giudice, su richiesta di parte, rinvia il processo ad altra udienza quando ricorrono le ipotesi di impedimento a comparire individuate dal comma 1 (per il CONTENZIOSO NAZIONALE 131 Presidente del Consiglio) e dal comma 2 (per i ministri) della medesima legge. In base a tali disposizioni, costituisce legittimo impedimento «il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Inoltre, l’art. 1, comma 4, della medesima legge, dispone che «ove la Presidenza del Consiglio dei ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi». L’art. 1, comma 5, della legge n. 51 del 2010 chiarisce che «il corso della prescrizione rimane sospeso per l’intera durata del rinvio». Tale disciplina si applica «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della» medesima legge (art. 1, comma 6), e «fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque, non oltre diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti dall’articolo 96 della Costituzione, al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei ministri e ai ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge» (art. 2). 2. – La richiesta referendaria – dichiarata conforme a legge dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione – è ammissibile. 2.1. – L’oggetto del quesito referendario è rappresentato da disposizioni legislative che non rientrano nelle categorie per le quali l’art. 75 Cost. preclude il ricorso al referendum (leggi in materia tributaria e di bilancio, di amnistia ed indulto, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali), né possono considerarsi ad esse collegate. La legge n. 51 del 2010, inoltre, non è una legge costituzionale o di revisione costituzionale, né una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, né, infine, costituzionalmente necessaria. 2.2. – La formulazione del quesito presenta i requisiti di omogeneità, chiarezza ed univocità individuati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di ammissibilità del referendum. La domanda referendaria risponde ad una matrice razionalmente unitaria: l’elettore è posto dinanzi all’alternativa di eliminare, ovvero di conservare, una disciplina differenziata del legittimo impedimento a comparire in udienza, applicabile ai soli titolari di cariche governative. Il quesito è poi chiaro e univoco. Esso investe un’intera legge, che si compone di due soli articoli, e rivela chiaramente l’intento dei promotori di ripristinare l’applicabilità ai titolari di cariche governative della disciplina comune di cui all’art. 420-ter del codice di procedura penale, senza le integrazioni e specificazioni introdotte dalla disciplina che forma oggetto della richiesta referendaria. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza), dichia- 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 rata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione con ordinanza del 6 dicembre 2010. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2011. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 133 Incarichi dirigenziali a tempo determinato (* ) (Corte costituzionale, sentenza 12 novembre 2010, n. 324) Premessa Con la recentissima sentenza del 12 novembre 2010, n. 324, la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate in riferimento agli artt. 117, commi 2 e 3, e 119 della Costituzione - dell’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, il quale prevede l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 19, commi 6 e 6-bis, d.lgs. n. 165/2001(t.u.p.i.) in tema di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione nella parte in cui si applica anche alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 e, dunque, anche alle regioni e agli enti locali. Al fine di comprendere la portata della sentenza della Corte costituzionale 12 novembre 2010, n. 324 e, in particolare, le sue possibili implicazioni sui provvedimenti di conferimento di funzioni dirigenziali a tempo determinato a soggetti esterni adottati nei limiti di cui all’art. 10, l. reg. n. 31/2002, occorre procedere: 1.- preliminarmente, ad una ricognizione, sul piano metodologico, del riparto di potestà legislativa tra Stato e regioni in materia di pubblico impiego regionale (con particolare riguardo agli incarichi dirigenziali c.d. fiduciari), prendendo le mosse dall’interpretazione del testo dell’art. 117 Cost.; 2.- in seguito, ad analizzare i meccanismi di nomina dei dirigenti esterni alla luce della recente riforma del lavoro pubblico (d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150); 3.- infine, a vagliare la portata innovativa della pronuncia della Corte Costituzionale del 12 novembre 2010, n. 324 e le possibili conseguenze sulle fonti normative regionali in materia di incarichi dirigenziali a tempo determinato. Ciò posto, si rassegna di seguito il parere in oggetto. 1.- Incarichi dirigenziali a tempo determinato. Riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni. Analisi in chiave evolutiva della tematica Per comprendere la portata innovativa della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 324/2010, è utile, in limine, ripercorrere brevemente l’iter (*) Parere reso dal Comitato giuridico regionale alla Presidenza della Regione Calabria in ordine alla portata della sentenza in rassegna. Nello specifico sulle possibili implicazioni ai provvedimenti di conferimento di funzioni dirigenziali a tempo determinato a soggetti esterni adottati nei limiti di cui all’art. 10, comma 4, l. reg. n. 31/2002. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 evolutivo relativo al riparto di potestà legislativa tra Stato e regioni in materia di pubblico impiego regionale. L’assetto delle competenze legislative in materia di impiego pubblico regionale ha subìto significative modifiche a partire dalla entrata in vigore della l. cost. n. 3/2001, anche in seguito al noto processo legislativo di privatizzazione del pubblico impiego. Prima che l’art. 117 Cost. venisse riformato, alle regioni a statuto ordinario era attribuita potestà legislativa concorrente con lo Stato nella materia dell’“ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla regione”, da sempre considerata comprensiva della materia dell’“ordinamento del personale regionale”, che includeva, a sua volta, la disciplina del rapporto d’impiego (1). Pertanto, in materia, allo Stato competeva la individuazione dei principi fondamentali e alla regione l’emanazione delle norme di dettaglio, con l’ulteriore limite del rispetto dell’interesse nazionale, stante la connessione tra organizzazione pubblica e assetto del personale che ha caratterizzato l’impiego pubblico fino alla sua privatizzazione. L’impiego pubblico regionale, in base all’attuale formulazione dell’art. 117 Cost., va ricondotto, sulla scorta dei criteri di riparto delineati dalla giurisprudenza costituzionale (2): - in parte, all’“ordinamento civile” e, quindi, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l), Cost.) per i profili privatizzati del rapporto, in quanto appunto appartenenti al diritto civile, così che “la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico vincola anche le Regioni” (3); - ed, in parte, per i rimanenti profili “pubblicistico-organizzativi” del rapporto - sottratti dal legislatore statale alla privatizzazione, e di conseguenza ancora rientranti nel diritto pubblico - all’“ordinamento e organizzazione amministrativa regionale” (che è “comprensiva dell’incidenza della stessa sulla disciplina del relativo personale”(4)) e, quindi, alla potestà legislativa residuale della regione. Ciò, in applicazione della “clausola di residualità” del comma 4 dell’art. 117 Cost., non ritrovandosi tale ultima materia negli elenchi dei commi 2 e 3 dello stesso articolo ed, anzi, potendosi rinvenire, nella formulazione dell’art. 117, l’intenzione del legislatore costituzionale di escludere dalla competenza statale l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa (1) v. Corte cost., 10 luglio 1968, n. 93; id. 3 marzo 1972, n. 40; id. 14 luglio 1972, n. 147; id. 30 gennaio 1980, n. 10; id. 29 settembre 1983, n. 277; id. 29 settembre 1983, n. 278; id. 8 giugno 1987, n. 217; id. 27 ottobre 1988, n. 1001; id. 30 luglio 1993, n. 359. (2) v. Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 2, in Giurisprudenza Costituzionale, 2004, p. 9, con nota di F. GHERA, Il lavoro alle dipendenze delle Regioni alla luce del nuovo art. 117 Cost., pag. 44; Corte cost. 15 novembre 2004, n. 345; id. 14 dicembre 2004, n. 380; id. 16 giugno 2006, n. 233. (3) v. Corte cost. n. 3/2004 cit. (4) v. Corte cost. n. 233/2006 cit. CONTENZIOSO NAZIONALE 135 delle regioni, in quanto appunto nel comma 2 è inserita la materia dell’“ordinamento ed organizzazione amministrativa” soltanto dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g). Il legislatore statale è legittimato, quindi, dal nuovo art. 117 Cost., ad effettuare la ripartizione tra profili privatizzati e profili non privatizzati del rapporto di lavoro pubblico per tutte le pubbliche amministrazioni, e, dunque, anche per le regioni a statuto speciale (oltre che per quelle ordinarie), trattandosi pur sempre di esercizio della propria potestà esclusiva in materia di “ordinamento civile”. Ciò, in quanto le norme e i principi fissati dalla legge statale in materia, nell’intero settore del pubblico impiego, costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle regioni a statuto speciale. Di conseguenza, la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a ricondurre al diritto privato gli istituti del rapporto di impiego, costituisce un limite alla competenza regionale nella materia dell’organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti pubblici regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale, tanto delle regioni a statuto ordinario, quanto di quelle a statuto speciale. Pertanto, solo il legislatore statale sarebbe legittimato a ricondurre nuovamente, in tutto o in parte, il pubblico impiego nel diritto pubblico. Le regioni, dunque, non solo non possono disciplinare i profili privatizzati del rapporto, ma neppure mutarne il regime giuridico riportandoli nel diritto pubblico, né tantomeno cambiare, in senso pubblicistico, la natura degli atti di gestione del rapporto di lavoro relativi a tali profili, essendo appunto questa necessariamente privatistica come conseguenza della riconduzione del profilo all’interno della sfera del “diritto privato”. Prima di esaminare le innovazioni innervate dal d.lgs. n. 150/2009, in cui s’innesta la sentenza della Consulta n. 324/2010, occorre segnalare il precedente riparto di competenze delineato dal legislatore statale. Il legislatore statale ha ricondotto al diritto privato e alla competenza della contrattazione collettiva tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali (art. 2, comma 2 e 3, e art. 40, comma 1, d.lgs. n. 165/2001; v. anche art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59/1997); restano escluse le c.d. “sette materie”(5) elencate nell’art. 2, comma 1, lett. c), della legge delega n. 421/1992, vale a dire: (5) Corte cost. 14 dicembre 2004, n. 380; id. 24 gennaio 2005, n. 26; id. 11 aprile 2008, n. 95; id. 12 aprile 2005, n. 147; id. 23 febbraio 2007, n. 50; id. 15 novembre 2004, n. 345, nelle quali i giudici delle leggi hanno ricondotto all’“ordinamento e organizzazione amministrativa” della pubblica amministrazione (soltanto) istituti del rapporto di lavoro pubblico ricompresi appunto nell’elenco delle sette materie della l. n. 421/1992. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 - le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento di procedure amministrative; - gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; - i principi fondamentali di organizzazione degli uffici; - i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; - i ruoli e le dotazioni organiche nonché la loro consistenza complessiva; - la garanzia della libertà d’insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; - la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici. Ne discende che, in base a tale riparto costituzionale di competenze legislative, le regioni, sia quelle a statuto ordinario sia quelle a statuto speciale, possono esercitare la loro potestà legislativa (residuale, in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa”) solo per i menzionati sette aspetti del rapporto di lavoro pubblico sottratti dal legislatore statale alla privatizzazione ed elencati dalla l. n. 421/1992. Sicché per le citate materie la disciplina di cui al d.lgs. n. 165/2001 (t.u.p.i.) deve ritenersi riferita esclusivamente all’impiego statale e, dunque, non vincola le regioni, neppure limitatamente ai principi fondamentali, in quanto su questi la potestà legislativa regionale è piena. Ovviamente, deve ritenersi applicabile anche al pubblico impiego regionale la disciplina degli altri profili del rapporto di lavoro pubblico, dettata in via generale dallo stesso d.lgs. n. 165/2001 per tutte le amministrazioni pubbliche, in quanto appunto oggetto di “privatizzazione” e dunque rientrante nell’“ordinamento civile” di competenza esclusiva statale. Per quanto riguarda la dirigenza regionale va evidenziato che, secondo la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 165/2001, come modificato dalla l. n. 145/2002, è più esteso l’ambito di competenza legislativa residuale delle regioni, essendo maggiormente numerosi i profili del rapporto di lavoro dirigenziale riconducibili all’“ordinamento e organizzazione amministrativa”: si pensi, oltre al reclutamento e ai sistemi di accesso ai ruoli della dirigenza, alle dotazioni organiche e alle incompatibilità, anche alla disciplina del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quella della responsabilità dirigenziale e delle relative misure sanzionatorie. Dal che discende l’applicabilità alla dirigenza regionale della disciplina statale - contenuta, appunto, nel d.lgs. n. 165/2001 - solo in relazione a quei circoscritti aspetti privatizzati del rapporto, dovendosi ritenere, viceversa, per tutti i rimanenti profili (in quanto non privatizzati), inapplicabile alle regioni la regolamentazione del d.lgs. n. 165/2001, che vincola, dunque, esclusivamente la dirigenza dello Stato (6). CONTENZIOSO NAZIONALE 137 La Corte costituzionale (7) ha affermato, prima della recente pronuncia del 2010 qui in esame, che in materia di conferimento di incarichi dirigenziali, anche a carattere fiduciario (c.d. spoil system), le regioni non legiferano nella materia dell’“ordinamento civile”, poiché subiecta materia rientra nell’ambito dell’organizzazione amministrativa regionale. In realtà, sul punto - per come si vedrà a breve - innovativa è la recente sentenza n. 324/2010. 2.- Sui meccanismi di nomina dirigenziale c.d. fiduciaria da parte delle amministrazioni regionali. Limiti ed analisi delle innovazioni introdotte in materia dalla c.d. riforma Brunetta 2.1.- Come anticipato, la riforma del Titolo V della Costituzione con l. cost. n. 3/2001 ha consentito alle regioni, sulla base della nuova attribuzione della competenza legislativa residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa sub-statale, per come sancito dal combinato disposto dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 117 Cost., di disciplinare il settore della dirigenza pubblica regionale. Il legislatore regionale ha così introdotto meccanismi di spoil system, facendo seguito, da un punto di vista strettamente temporale, alla legislazione statale e, più specificamente, alla l. n. 145/2002 (la c.d. legge Frattini). Le regioni, attraverso la propria ordinaria attività legislativa, iniziano a darsi un’autonoma disciplina della propria dirigenza, intervenendo, in vario modo, sul conferimento, sulla revoca ed, indirettamente, sulla durata degli incarichi dirigenziali. In tale prospettiva si inserisce la positivizzazione, in varia forma, di meccanismi di spoil system regionale, ovvero la previsione di particolari meccanismi di nomina e revoca dei dirigenti che presuppongano un legame fiduciario tra questi ultimi e la Giunta e che, quindi, vincolano l’esercizio e la durata dell’incarico dirigenziale alla permanenza in carica e/o alla volontà della Giunta stessa. Il rapporto tra dirigenti pubblici ed organi di decisione politica, così come prefigurato dal sistema dello spoil system, sembra assumere una problematicità ancora più articolata, oltre che una valenza del tutto speciale, se considerato anche alla luce del più ampio processo di assimilazione dei modelli di organizzazione e di gestione delle attività pubbliche al paradigma aziendalistico, facendo riferimento, in particolare, all’affermazione dei cinque fattori che hanno progressivamente trasformato la tradizionale figura del dirigente pubblico in una sorta di manager, con l’obiettivo principale di rendere maggior- (6) v. Corte cost. n. 233/2006 cit. (7) Ibidem. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 mente efficiente l’attività di direzione dell’amministrazione, e cioè: la privatizzazione del pubblico impiego; la possibilità di assumere dirigenti esterni all’organico della pubblica amministrazione; l’introduzione del principio di temporaneità degli incarichi; la previsione di margini sempre più ampi di mobilità e flessibilità della dirigenza; la nomina dei dirigenti di livello apicale fondata, più o meno prevalentemente, sull’intuitu personae e sul conseguente rapporto diretto tra committente politico ed i dirigenti stessi. E’ noto, infatti, come la disciplina introdotta dallo spoil system costituisca, in generale, un ulteriore strumento volto a rendere maggiormente efficiente l’esercizio delle attività pubbliche sia rafforzando la contiguità o il vincolo fiduciario tra politici e tecnici analogamente a quanto avviene nelle aziende private relativamente al rapporto tra azionisti e managers, sia consentendo, nello stesso tempo, alla Giunta regionale di avvalersi di un’adeguata rete di dirigenti, ben radicata nell’apparato organizzativo del territorio (ovvero distribuita tra i vari enti pubblici, enti pubblici economici, aziende sanitarie ed ospedaliere, fondazioni, agenzie, consorzi, etc.) ed in grado di esercitare, in condizioni di relativa autonomia, tutte le normali funzioni di gestione, avendo riguardo (solo) per l’indirizzo politico-amministrativo generale fatto proprio dalla Giunta. Tuttavia, è parimenti noto come l’istituto dello spoil system, al di là delle sue possibili differenti declinazioni, sollevi molteplici problemi in ordine all’assetto istituzionale ed ordinamentale ad esso sotteso, sia sotto il profilo dell’organizzazione e dello svolgimento delle attività pubbliche, sia sotto quello del peso specifico assunto dalle autonomie territoriali nell’ambito dell’ordinamento repubblicano. La disciplina degli incarichi dirigenziali, infatti, tanto sotto l’aspetto delle modalità di conferimento e di revoca delle nomine, quanto sotto quello dell’esercizio delle funzioni, deve misurarsi, nel suo complesso, non solo (ex post) con i principi (costituzionalmente vincolanti) di “buon andamento” e di “imparzialità” della pubblica amministrazione, ma, in qualche modo, anche (ex ante) con l’obiettivo di assicurare una coerenza di fondo tra i progetti e le scelte generali di gestione e la volontà politica della maggioranza, senza che ciò alteri o infici la peculiare distinzione “strutturale”, sancita a monte, tra le funzioni degli organi di direzione tecnico-economica e quelle della Giunta regionale. Ed è proprio alla luce di ciò che appaiono del tutto evidenti i rischi di minare, attraverso la previsione di nomine fiduciarie o, anche solo, vincolate alle sorti dell’esecutivo, tanto la continuità e l’efficacia dell’attività tecnico-dirigenziale, con conseguente lesione del principio di buon andamento, quanto l’autonomia di siffatta attività rispetto ad altre finalità, diverse dagli obiettivi più strettamente tecnico-operativi assegnati ai dirigenti (8). Per tale motivo, numerose sono state le pronunce di incostituzionalità di leggi regionali in materia (9). La positivizzazione a livello regionale della disciplina dirigenziale pub- CONTENZIOSO NAZIONALE 139 blica ha innescato diversi profili problematici, soprattutto in relazione alla garanzia costituzionale dei principi di imparzialità e buon andamento della p.a.. Si è, infatti, sostenuto (10) che l’attrazione di una parte più o meno consistente della dirigenza pubblica nell’ambito di influenza diretta e determinante dell’esecutivo regionale comporta una profonda alterazione del corretto funzionamento dell’attività della P.A., giacché sembrano essersi profilati, in tal modo, per un verso, un penetrante condizionamento politico dell’attività tecnico-dirigenziale, da cui discenderebbe, inevitabilmente, anche un indebolimento della funzione dei controlli sui risultati e, per l’altro, una surrettizia trasformazione della responsabilità dei dirigenti stessi, in una sorta di ambigua responsabilità “ibrida” e “diffusa”, ovvero declinata in chiave né propriamente tecnica, né propriamente politica, genericamente condivisa tra la dirigenza stessa ed il governo regionale. Ed è proprio alla luce di quanto appena osservato che la Corte Costituzionale (11) ha ritenuto che ogni regione dovesse adottare la propria normativa in materia di dirigenza, ispirandosi alla normativa statale. La Consulta, seguendo un iter logico-giuridico piuttosto articolato, fa notare che l’art. 1, d.lgs. n. 165/2001 (t.u.p.i.) recante “finalità e ambito di applicazione” del testo unico prevede che le disposizioni in esso sancite disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche in tutti i livelli istituzionali, ivi comprese regioni e province. Peraltro, la direttiva n. 1/2007 emanata dall’allora Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella p.a., recante “misure di trasparenza e legalità in materia di conferimento degli incarichi dirigenziali, di amministrazione e consulenza e in generale di gestione”, contiene delle prescrizioni che confermano ed avvalorano la tesi sostenuta dai giudici delle leggi, secondo cui le regioni devono conformarsi, in materia dirigenziale, alla normativa statale. Del resto, l’art. 27, d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che: “le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai princìpi dell’articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità”. Ed è proprio sulla scorta di un’interpretazione sistematica del cennato art. 27 e dell’art. 19, comma 6, d.lgs 165/2001 che la Commissione (8) In dottrina, per queste osservazioni, si rinvia a F. MERLONI, Primi incerti tentativi di arginare lo spoils system nelle Regioni, in www.forumcostituzionale.it. (9) Cfr. M. LUCCA, Spoil system e compatibilità costituzionale, in www.lexitalia.it. (10) D. BOLOGNINO, Nuove ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale: alcune riflessioni sulle “estensioni” legislative dello spoil system e sulla valutazione del personale con incarico dirigenziale, in Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2008, pag. 58 ss. (11) Corte cost., 23 marzo 2007, n. 104. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Speciale per il pubblico impiego del Consiglio di Stato (12) ha ritenuto che la normativa regionale in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’ente, dovesse adeguarsi ai limiti percentuali previsti dall’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165/2001. Su quest’ultimo aspetto si coglie l’occasione per evidenziare che la Regione Calabria pare essersi conformata a quanto previsto dall’ art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165/2001, con l. reg. 17 agosto 2005, n. 13, che ha modificato l’art. 10, l. reg. 7 agosto 2002, n. 31, in particolare, riscrivendo il comma 4, nonché inserendo il comma 4-bis e 4-ter . La predetta disciplina regionale, pertanto, si pone(va) in linea con l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165/2001 che prevedeva, prima della novella del 2009, il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato a soggetti aventi i requisiti indicati nel comma medesimo “entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all’art. 23 e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato” e che “tali incarichi sono conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro, maturate, anche presso amministrazioni statali, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Per il periodo di durata dell’incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio”. 2.2.- Come accennato, l’art. 40, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (c.d. decreto Brunetta) ha modificato, in parte, il comma 6 dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001 ed inserito, sempre all’art. 19, i commi 6-bis e 6-ter. In particolare, è ora previsto dal novellato comma 6 dell’art. 19, d.lgs. n. 165/2001 che gli incarichi dirigenziali a tempo determinato “sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione” e (12) Cons. St., Comm. Spec. p.i., parere n. 514/2003. CONTENZIOSO NAZIONALE 141 che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale rinvenibile anche “da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio”. Il comma 6-bis prevede, invece, che il quoziente derivante dall’applicazione della percentuale prevista al comma 6 (10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all’art. 23 e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia), è arrotondato all’unità inferiore, se il primo decimale è inferiore a cinque, o all'unità superiore, se esso è uguale o superiore a cinque. Il comma 6-ter prevede, infine, che “Il comma 6 ed il comma 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2” e, quindi, alle regioni e agli enti locali. Sotto quest’ultimo aspetto (applicazione dei limiti previsti dal comma 6 e 6-bis anche alle regioni ed enti locali) si collocano, appunto, le questioni di legittimità costituzionale avanzate, nei confronti dell’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche, oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale del 12 novembre 2010, n. 324 qui in esame. 2.3.- Ancor prima di vagliare la portata innovativa della sentenza n. 324/2010 della Corte Costituzionale, giova analizzare le innovazioni apportate dal legislatore della riforma del 2009, soffermandosi in particolar modo sulla ridefinizione del rapporto di lavoro pubblico tra profili “privatizzati” e profili “non privatizzati”, aspetto che costituisce indubbiamente uno dei punti nodali della riforma, attese le ovvie implicazioni in tema di riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni in ordine all’impiego regionale. Al riguardo, valore decisivo sembra assumere l’art. 2, comma 4, della legge delega n. 15/2009, che conferisce ai decreti legislativi l’individuazione delle “disposizioni rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, co. 2, Cost., e quelle contenenti principi generali dell’ordinamento giuridico, ai quali devono adeguarsi le Regioni (e gli Enti locali) negli ambiti di rispettiva competenza”. Tale delega è stata realizzata nella parte finale del d.lgs. n. 150/2009, mediante l’art. 74 che, nonostante sia l’ultimo articolo del decreto, assume una certa rilevanza al fine di sciogliere il nodo della distinzione tra profili privatizzati e profili non privatizzati del rapporto di lavoro pubblico regionale. In esso il legislatore ha elencato, da una parte, le disposizioni del decreto emanate nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva statale in materia di “ordinamento civile” e di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l) ed m), Cost.; e dall’altra, quelle recanti norme di diretta attuazione dell’art. 97 Cost. e costituenti “principi generali dell’ordinamento”, col conseguente obbligo di adeguamento per le regioni (e per gli enti locali), negli ambiti di rispettiva competenza, che concernono, ovviamente, profili del rap- 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 porto non privatizzati, ovvero “pubblicistico-organizzativi”. Il fatto stesso che il legislatore abbia ritenuto necessario indicare, per questo secondo gruppo di istituti, l’esistenza di principi generali dell’ordinamento e specificarne la vincolatività anche per le regioni, conferma implicitamente e a contrario che, per il resto, le regioni non sono obbligate ad osservarne la disciplina statale. In particolare, viene dal legislatore espressamente qualificata come “privatizzata”, in quanto ricondotta all’“ordinamento civile”, la disciplina dei seguenti aspetti: - le fonti di regolamentazione del rapporto – legislazione sul lavoro subordinato nell’impresa, contratto collettivo e contratto individuale – individuate dall’art. 2, comma 2 e 3, d.lgs. n. 165/2001 (art. 33); - le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, inclusi i poteri dirigenziali di gestione delle risorse umane (art. 34); - il documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale (art. 35); - la partecipazione sindacale, rimessa ai contratti collettivi nazionali (art. 36); - soggetti, livelli, procedimenti, contenuti, limiti, ecc. della contrattazione collettiva nazionale e integrativa (artt. 54, 64, 65 e 66); - l’interpretazione autentica dei contratti collettivi (art. 61); - il trattamento economico (art. 57); - l’inquadramento e il mutamento di mansioni (art. 62, comma 1); - le sanzioni disciplinari e la responsabilità dei dipendenti pubblici, compresi il procedimento disciplinare, i controlli sulle assenze per malattia, la risoluzione per permanente inidoneità psico-fisica al servizio e l’identificazione del personale a contatto con il pubblico (artt. 68, 69 e 73, comma 1 e 3); Altri aspetti privatizzati del rapporto di lavoro pubblico si ricavano dall’art. 40, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, come novellato dall’art. 54, comma 1, d.lgs. n. 150/2009 (richiamato dall’art. 74, comma 1, cit.), essendo questi riservati dalla norma alla competenza della contrattazione collettiva, ossia: - i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro; - le materie relative alle relazioni sindacali; le sanzioni disciplinari; - la valutazione delle prestazioni, anche ai fini della corresponsione del trattamento accessorio; - la mobilità; - le progressioni economiche. Si aggiungono poi le norme recanti livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., e cioè: - quelle che enunciano il principio della c.d. “trasparenza della perfor- CONTENZIOSO NAZIONALE 143 mance”, che deve essere garantita da ogni amministrazione in misura massima in ogni fase del ciclo di gestione della performance (art. 11, comma 1 e 3); - quelle in materia di qualità dei servizi pubblici e di tutela degli utenti (art. 28); - l’inderogabilità dalla contrattazione collettiva e l’automatico inserimento nei contratti collettivi delle disposizioni del Titolo III del decreto, in materia di “merito e premi” (art. 29); - infine, la disciplina transitoria relativa alla prima costituzione della Commissione nazionale per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 13, e degli Organismi indipendenti di valutazione della performance, di cui all’art. 14 (art. 30). Le suddette discipline si applicano, quindi, anche alle regioni, essendo appunto emanate nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva dello Stato. I profili pubblicistico-organizzativi, per i quali il legislatore ha individuato i “principi generali dell’ordinamento” cui devono ispirarsi le regioni nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia, riguardano invece: - la misurazione, valutazione e trasparenza della performance (artt. 3 e 4; art. 5, comma 2; artt. 7 e 9; art. 15, comma 1); - la valorizzazione del merito e l’incentivazione delle performance mediante premi (art. 17, comma 2; art. 18); - le progressioni verticali di carriera (art. 24, commi 1 e 2; art. 62, commi 1-bis e 1-ter) (36); - le progressioni economiche orizzontali (art. 23, commi 1 e 2); - l’assegnazione di incarichi e responsabilità ai dipendenti pubblici (art. 25); - l’accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale dei dipendenti (art. 26); - il premio di efficienza (art. 27, comma 1). Tuttavia, sono molti gli aspetti non espressamente ricompresi nell’art. 74, per i quali persistono non pochi dubbi circa la loro natura, di talché la loro riconducibilità al diritto privato o al diritto pubblico è tutt’altro che semplice ed univoca. È, appunto, il caso dell’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 150/2009 (che, come detto, ha modificato l’art. 19, d.lgs. n. 165/2001 in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato). Al riguardo si pone, infatti, la questione del titolo di competenza, ossia se il legislatore statale abbia dettato una disciplina (di principio) con valore vincolante anche per le regioni, o piuttosto abbia attribuito natura pubblicisticoorganizzativa alle norme in materia. Tale nodo interpretativo, relativamente all’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 150/2009, è stato definitivamente sciolto dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 324/2010. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 3.- Portata della sentenza della Corte cost. 12 novembre 2010, n. 324 ed implicazioni sulle fonti regionali 3.1.- La Consulta, con la più volte citata sentenza 12 novembre 2010, n. 324, si pronuncia in merito alle questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni del d.lgs. n. 150/2009, cd. riforma Brunetta (artt. 40, comma 1, lett. f), e 49, comma 1), che prevedono limiti agli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione, nonché l’obbligo del previo esperimento della mobilità volontaria prima dell’indizione di concorsi pubblici, nella parte in cui si applicano anche alle regioni ed agli enti locali territoriali. Con specifico riguardo al vaglio di costituzionalità dell’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 150/2009 - in ordine ai limiti nel conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato - la Corte costituzionale è estremamente chiara: l’art. 19, comma 6-ter, d.lgs. n. 165/2001 è costituzionalmente legittimo ed estende la sua portata precettiva sia all’ordinamento delle regioni, sia a quello degli enti locali. Secondo l’interpretazione fornita dai giudici delle leggi nella sentenza n. 324/2010, l’espressa estensione agli ordinamenti locali e regionali della disciplina contenuta nell’art. 19, comma 6 e 6-bis, d.lgs. n. 165/2001 non vìola la Costituzione, perché il legislatore statale ha correttamente esercitato la propria potestà legislativa, trattandosi di una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile (13). Infatti, spiega la Consulta, il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni si determina attraverso “la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile”. La Consulta osserva, in proposito, che l’art. 19, comma 6, d.lgs. 165/2001 non riguarda né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico. Sicché, non c’è violazione degli artt. 117, commi 3 e 4, e 119, Cost., proprio perché la norma impugnata dalle regioni non attiene a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) o residuale regionale (organizzazione delle regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti locali). I giudici delle leggi proseguono affermando che l’art. 19, comma 6, non contiene alcuna specifica disposizione sull’organizzazione o sul reclutamento dei dirigenti a contratto, ma si limita “alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui (13) V. punto sub 1 sent. n. 324/2010. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 conferisce l’incarico dirigenziale”. Per tale ragione, si tratta di una disposizione riconducibile all’ordinamento del diritto civile e non alla disciplina pubblicistica del rapporto di lavoro e, specificamente, alle procedure di reclutamento, da un lato, e all’organizzazione, dall’altro, sicchè è costituzionale anche l’estensione a regioni ed enti locali della definizione della “percentuale massima di incarichi conferibili a soggetti esterni”. La sentenza della Consulta n. 324/2010 contiene, quindi, un vaglio espresso di costituzionalità dell’art. 19, comma 6-ter, con chiaro riferimento oltre che alle regioni, anche agli enti locali, di talché tale norma non può che sovrapporsi, con effetti disapplicativi, alle normative speciali in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato. Ciò in quanto tale disciplina, afferma la Corte, ha carattere generale ed è di competenza esclusiva dello Stato, in quanto si verte nella materia dell’ordinamento civile. Non vi sono, pertanto, argomentazioni che in modo soddisfacente possano contrastare con l’inevitabile conclusione della disapplicazione delle normative speciali in subiecta materia (quale appunto l’art. 10, l. reg. n. 31/2002), che devono intendersi (implicitamente) abrogate. Infatti, nel momento in cui il legislatore statale interviene in una materia rientrante nella sua competenza esclusiva, le norme regionali con esse confliggenti non possono che ritenersi illegittime in quanto eccedenti la potestà legislativa regionale, sicché devono ritenersi disapplicate e, quindi, (tacitamente) abrogate. 3.2.- Resta, a questo punto, da esaminare la questione centrale posta nella richiesta di parere in oggetto, ovverosia se gli effetti dei provvedimenti di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato adottati prima della pronuncia della Corte Costituzionale e con le limitazioni previste dalle norme regionali, siano o meno da ritenersi salvi. Il punto, per la sua evidente delicatezza (anche sul piano extra-giuridico) merita un attento approfondimento, in quanto la materia del conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato è ora, per espressa ed ineludibile affermazione della Corte Costituzionale, riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato. A tal proposito, si osserva che l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione e, più in generale, il passaggio della disciplina di una materia dalla potestà legislativa statale a quella regionale o viceversa, ha posto (e pone) delicati problemi di diritto transitorio, anche in ragione dell’assenza di norme transitorie ad hoc (come nel caso che ci occupa). In via di sintesi, è utile richiamare in proposito l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale (14), secondo cui a fronte di un rinnovato riparto (14) Corte cost., 7-18 ottobre 2002, n. 422. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 di competenze legislative tra Stato e regioni deve prevalere il principio di continuità dell’ordinamento giuridico. I giudici delle leggi, pertanto, hanno voluto salvaguardare il diritto vigente contro pericolosi vuoti normativi e contro facili operazioni demolitorie che potrebbero “pregiudicare ogni esigenza, pur minima, di certezza del diritto costituzionale e di funzionalità dell'istituto regionale” (15). Inoltre, la Consulta già in quella che è considerata la prima sentenza (16) sul novellato Titolo V, nel rilevare la più netta distinzione fra la competenza regionale e la competenza statale, non ritiene che i principi fondamentali delle materie concorrenti possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo, bensì che, specie nella fase della transizione, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore. Pertanto, Stato e Regioni non devono far altro che legiferare nelle materie di loro spettanza; fino ad allora resta ferma la vecchia normativa anche se emanata da un soggetto che attualmente non ha più titolo (17). Tra l’altro, il principio della piena continuità dell’ordinamento, pur nella necessità di un suo sostanziale adeguamento, è stato codificato dalla l. n. 131/2003 (c.d. legge “La Loggia”) di attuazione del Titolo V della Costituzione. Del resto, la presenza di una modificazione così rilevante del quadro costituzionale in materia di conferimento di incarichi dirigenziali fiduciari sembra imporre il ricorso al principio della continuità normativa. La Corte costituzionale, peraltro, va oltre il principio di continuità normativa e giunge a far applicazione di un principio di continuità istituzionale o di continuità nelle funzioni amministrative (18). In particolare la Consulta afferma che il principio di continuità, nell’avvicendamento delle competenze statali e regionali, deve essere ampliato “per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa ma istituzionale, giacché soprattutto nello Stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali”. A tal proposito, poiché indubbio è il ruolo fondamentale svolto dalla dirigenza regionale, l’applicazione ragionevole (anche) del principio di continuità delle funzioni amministrative consentirebbe di escludere il venir meno degli effetti prodotti dai provvedimenti di conferimento di incarichi dirigen- (15) A. RUGGERI, La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione e al piano dei controlli, in www.associazionedeicostituzionalisti. it; G. VIRGA, La riforma del Titolo V della Costituzione e la legislazione preesistente, in www.giust.it (ora www.lexitalia.it). (16) Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282. (17) B. CARAVITA, Coordinate e limiti della potestà legislativa: costituzione, vicoli comunitari, obblighi internazionali. il controllo giurisdizionale, in www.csm.it. (18) Corte cost., 17 gennaio 2004, n. 13. CONTENZIOSO NAZIONALE 147 ziali a tempo determinato già adottati in base alla normativa regionale (ora da intendere tacitamente abrogata per effetto della sent. n. 324/2010 della Corte costituzionale) e, quindi, prima che la competenza in materia fosse ricondotta dalla Consulta alla potestà legislativa statale. Ad ogni buon fine, è utile richiamare il principio del tempus regit actum secondo cui la legge applicabile è quella del momento in cui sorge il diritto. Dunque, secondo il principio della irretroattività, che costituisce regola generale dell’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 11 disp. prel. c.c., ciascun atto o fatto deve essere assoggettato alla normativa vigente al momento in cui esso si è verificato, sempreché la legge non si qualifichi espressamente come retroattiva, il ché non pare riguardare il caso di specie. * * * * Orbene, alla stregua dei suesposti principi, nel fornire risposta al quesito in oggetto, è consentito concludere nel senso che i provvedimenti di conferimento di funzioni dirigenziali a tempo determinato a soggetti esterni già adottati dalla Giunta regionale nei limiti di cui all’art. 10, l. reg. n. 31/2002 continuano ad essere efficaci (nei limiti temporali dagli stessi previsti, in conformità alle disposizioni di cui al combinato disposto dell’art. 10, comma 2, lett. a) e comma 4, l. reg. n. 31/2002). Occorre, comunque, precisare che dal giorno di pubblicazione della sentenza della Corte cost. 12 novembre 2010, n. 324, le norme regionali che disciplinano la materia del conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato dovranno ritenersi abrogate, sicché - fermi restando quelli già adottati - ogni successivo provvedimento che venisse emanato attenendosi alle previsioni compendiate nell’art. 10, l. reg. n. 31/2002 non potrà che essere illegittimo e, dunque, incostituzionale. Va, infine, puntualizzato che nelle materie di legislazione statale esclusiva, oppure nel caso in cui legislatore statale inserisca nell’ordinamento una norma dal contenuto precettivo del tutto puntuale, le regioni non hanno alcuno spazio d’intervento (in quella materia) (19). Diversamente - nel caso di potestà legislativa concorrente - spetta al legislatore statale dettare una norma di principio alla quale le regioni devono conformarsi. Ciò posto, nel caso di specie, la Corte Costituzionale, con la pronuncia qui in esame, affermando la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, ha di fatto inibito alle regioni (per quanto qui rileva) una normazione dai contenuti anche parzialmente differenti. Consegue, da quanto detto, che il legislatore regionale non è tenuto ad apportare alcuna modifica alle fonti regionali nella materia de qua, in quanto, per visto sopra, l’art. 10, l. reg. n. 31/2002 deve in- (19) Corte cost., 19-23 novembre 2007, n. 401. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 tendersi tacitamente abrogato. Dunque, dal momento in cui la sentenza della Consulta n. 324/2010 spiegherà i propri effetti, in conseguenza della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, le regioni, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, non potranno che far riferimento all’art. 19, comma 6 e 6-bis, d.lgs. n. 165/2001, così come modificato dall’art. 40, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 150/2009, fonte normativa (esclusiva) ritenuta dalla Consulta applicabile alle regioni ed autonomie dalla Consulta, in luogo delle discipline regionali prima in vigore. Con il che si fornisce risposta alla seconda parte del quesito posto con la nota suindicata. In tal senso è il parere di questo Comitato giuridico. Catanzaro, 6 dicembre 2010. Il componente relatore del Comitato giuridico regionale avvocato dello Stato Alfonso Mezzotero Corte costituzionale, sentenza 12 novembre 2010 n. 324 - Pres. Amirante, Red. Mazzella - Giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 40, comma 1, lettera f), e 49, comma 1, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), promossi dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche. Avv.ti Mario Eugenio Comba per la Regione Piemonte, Lucia Bora per la Regione Toscana, Stefano Grassi per la Regione Marche e l’avv. Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. (Omissis) Considerato in diritto 1. – Le Regioni Piemonte, Toscana e Marche impugnano l’art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui ha introdotto nell’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il comma 6-ter, secondo il quale i precedenti commi 6 (disciplinante le condizioni per l’affidamento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione conferente) e 6-bis (in tema di calcolo delle percentuali di incarichi attribuibili agli esterni) del citato art. 19 si applicano anche alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, dunque, anche alle Regioni e agli enti locali, deducendo la violazione degli artt. 76, 117, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione. Le Regioni Toscana e Marche sostengono che la disposizione impugnata contrasterebbe anche con l’art. 76 Cost., perché non è stata oggetto di intesa o di parere in sede di Conferenza uni- CONTENZIOSO NAZIONALE 149 ficata, come richiesto dall’art. 2, comma 2, della legge delega 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti). La Regione Marche aggiunge che la disposizione censurata, recando una disciplina concernente i limiti e le modalità di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto, esorbiterebbe dall’ambito oggettivo della delega, circoscritto alla disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Ad avviso delle ricorrenti, la norma, poi, violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché attiene alla materia, di competenza residuale regionale, dell’organizzazione delle Regioni e degli enti pubblici regionali. La Regione Marche aggiunge che il predetto precetto costituzionale sarebbe leso anche perché la norma, nella parte in cui si riferisce agli enti locali, sarebbe riconducibile alla materia dell’organizzazione amministrativa e ordinamento del personale degli enti locali, anch’essa di competenza residuale delle Regioni. In via subordinata, ritenendo la norma attinente alla materia del coordinamento della finanza pubblica, le Regioni Toscana e Marche deducono la lesione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., poiché essa pone un vincolo puntuale all’autonomia finanziaria delle Regioni e non è idonea a realizzare l’effetto di contenimento della spesa pubblica. 1.1. – La Regione Toscana impugna anche l’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, il quale sostituisce l’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che ora prevede che tutte le amministrazioni, e dunque anche le Regioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali necessarie per coprire posti vacanti, debbano «rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta» e che «il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato». Ad avviso della ricorrente, il predetto art. 49 violerebbe l’art. 97 Cost., perché limita il reclutamento del personale mediante il concorso pubblico, nonché l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché incide sull’autonomia organizzativa delle Regioni, introducendo un impegnativo onere per l’amministrazione e limitando la sua possibilità di ricercare, scegliere ed assumere il personale più preparato. 2. – In ragione della parziale connessione oggettiva, i giudizi debbono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia. 3. – Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 150 del 2009, sollevate in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., non sono fondate. 3.1. – La norma impugnata dispone l’applicabilità a tutte le amministrazioni pubbliche della disciplina dettata dall’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione. Si tratta di una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile. In particolare, l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 contiene una pluralità di precetti re- 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 lativi alla qualificazione professionale ed alle precedenti esperienze lavorative del soggetto esterno, alla durata massima dell’incarico (e, dunque, anche del relativo contratto di lavoro), all’indennità che – a integrazione del trattamento economico – può essere attribuita al privato, alle conseguenze del conferimento dell’incarico su un eventuale preesistente rapporto di impiego pubblico e, infine, alla percentuale massima di incarichi conferibili a soggetti esterni (il successivo comma 6-bis contiene semplicemente una prescrizione in tema di modalità di calcolo di quella percentuale). Tale disciplina non riguarda, pertanto, né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico. Essa, valutata nel suo complesso, attiene ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato, alla durata massima del rapporto, ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce l’incarico dirigenziale. Non sussiste, dunque, violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., appunto perché la norma impugnata non attiene a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) o residuale regionale (organizzazione delle Regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti locali), bensì alla materia dell’ordinamento civile di competenza esclusiva statale. 3.2. – La stessa questione, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., è, invece, inammissibile. Dato che nella fattispecie, come si è visto sub 3.1, non si verte in materia di organizzazione degli uffici regionali, bensì in materia di disciplina di contratti di diritto privato, rispetto alla quale sussiste esclusivamente competenza dello Stato, la pretesa violazione del parametro costituzionale invocato non comporterebbe lesione di alcuna attribuzione regionale. Da qui l’inammissibilità della censura. 4. – Passando alle questioni sollevate dalla Regione Toscana sull’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, quella promossa in riferimento all’art. 97 Cost. è inammissibile. La Regione deduce la violazione di un precetto costituzionale diverso da quelli attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni e, nella fattispecie, il preteso contrasto con l’art. 97 Cost. non ridonda nella compressione di sfere di attribuzione costituzionalmente garantite alle Regioni. 4.2. – La questione sollevata in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., invece, non è fondata. La norma impugnata non appartiene ad ambiti materiali di competenza regionale, bensì alla materia dell’ordinamento civile. L’istituto della mobilità volontaria altro non è che una fattispecie di cessione del contratto; a sua volta, la cessione del contratto è un negozio tipico disciplinato dal codice civile (artt. 1406-1410). Si è, pertanto, in materia di rapporti di diritto privato e gli oneri imposti alla pubblica amministrazione dalle nuove disposizioni introdotte dall’art. 49 del d.lgs. n. 150 del 2009 rispondono semplicemente alla necessità di rispettare l’art. 97 Cost., e, precisamente, i principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera CONTENZIOSO NAZIONALE 151 f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), promosse, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo e terzo comma, e 119 della Costituzione, dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 promossa, in riferimento all’art. 97 della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 promossa, in riferimento all’art. 117, quarto comma, della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Il termine di comparizione e di costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo Mutamento giurisprudenziale operato dalla Corte di Cassazione (*) (Cassazione civile, Sez. Un., sentenza del 9 settembre 2010 n. 19246; Tribunale di Napoli, ordinanza del 15 ottobre 2010 n. 42582/09 R.G.) 1. Introduzione Con la sentenza in rassegna, le SS.UU. della Corte di Cassazione intervengono – innovandolo radicalmente – sul consolidato orientamento giurisprudenziale, peraltro non perfettamente coerente con il quadro normativo di riferimento, relativo ai termini di comparizione e costituzione nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo. 2. Normativa di riferimento Dalla piana lettura della normativa disciplinatrice della materia – prescindendo dalla interpretazione giurisprudenziale – è dato evincere quanto segue. L’art. 645 comma 2 cpc nella versione attualmente vigente recita : “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”. In virtù di tale precetto la disciplina ordinaria regolatrice del giudizio di opposizione a D.I. è quella del giudizio a cognizione ordinaria (aa. 163 – 310 cpc) dinanzi al Tribunale, tranne che per quei punti – disciplina speciale – espressamente e puntualmente disciplinati negli aa. 645 2° comma, II periodo, 647, 648, 649, 650, 652, 653, 654, 655 e 656 cpc; ciò per il principio secondo cui la norma speciale prevale su quella ordinaria. Orbene, per la fase introduttiva del giudizio di opposizione a D.I. vale la regola che i termini di comparizione sono ridotti alla metà; ossia, l’opponente deve concedere all’opposto un termine dilatorio a comparire di almeno 45 gg. liberi. Nella disciplina speciale, contenuta nelle norme sopraindicate, non vi è (*) Comunicazione e-mail ai Colleghi dell’avv. A. Mezzotero: “Con la recentissima ordinanza del 22 marzo 2011 n. 6514 la sez. III della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione concernente l'interpretazione dell'art. 645, comma 2, c.p.c. circa il dimezzamento di costituzione in giudizio dell'opponente a monitorio, escludendo espressamente l'applicabilità ai giudizi in corso del principio espresso da Cass. civ., sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246 (pag. 7 dell'ordinanza)”. CONTENZIOSO NAZIONALE 153 anche la regolazione della costituzione in giudizio; sicchè si applica la disciplina ordinaria in virtù della quale l’opponente deve costituirsi entro 10 gg. dalla notifica dell’opposizione a D.I. (aa. 645 2° comma 1^ parte e 165 cpc); l’abbreviazione del termine di costituzione a 5 gg. è operativa – nel difetto di disciplina speciale – solo ove siano stati abbreviati i termini a comparire su richiesta dell’opponente (aa. 163 bis comma 2 e 165 1° comma cpc). Discorso analogo vale – mutatis mutandis – nel procedimento di opposizione dinanzi al Giudice di Pace (aa. 311 – 321 cpc). Quanto ricostruito è il portato della normativa interpretata alla luce dell’art. 12 delle preleggi, tenendo conto della lettera della legge e delle connessioni sistematiche. 3. Innovazione delle S.U. e, precedente, interpretazione consolidata Di recente si è ritenuto che invariabilmente il termine di costituzione nel giudizio di opposizione a D.I. dinanzi al Tribunale è di 5 gg.; ciò è stato sostenuto dalla Cassazione S.U. 9 settembre 2010 n. 19246 che precisa : “ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 cpc prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis 3° comma”. Con tale interpretazione delle S.U. viene radicalmente innovato il quadro interpretativo sui termini a comparire e di costituzione nel caso di opposizione a D.I. Sinora l’opinione dominante fino alle recenti S.U., era nel senso che: a) la riduzione dei termini a comparire prevista dall’art. 645 cpc sarebbe puramente facoltativa, nel senso che l’opponente sarebbe pienamente libero di valersi o no del termine abbreviato restando fermo, nell’ipotesi negativa, il termine ordinario; b) la riduzione alla metà dei termini di costituzione si verifica solo quando l’opponente si sia avvalso in concreto della facoltà di abbreviare fino alla metà il termine di comparizione. L’opinione or indicata è descritta nei “Motivi della decisione” delle S.U. n. 19246/10, oltrecchè: in E. GARBAGNATI, Il procedimento di ingiunzione, Giuffrè ed., Milano 1991 pp. 151 e ss., e 169 e ss.; in C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Giappichelli ed. XX Torino 2009, III, pp. 42 – 43; in F. CARPI, 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 M. TARUFFO, Commentario Breve al Codice di Procedura Civile, Cedam ed., Padova, V ed., 2006, pp. 1846 – 1847; in A. RONCO, Struttura e disciplina del rito monitorio, Giappichelli ed., Torino, 2000, pp. 388 e ss. e 403 e ss.; G. COLLA, Il decreto ingiuntivo (il procedimento di opposizione e il giudizio di opposizione), Cedam ed., Padova, 2003 pp. 367 e ss.; P. LEANZA , E. PARATORE, Il procedimento per decreto ingiuntivo, Utet ed., Torino, 2003 pp. 225 e ss.; A. TEBOLDI, C. MERLO in Il procedimento d’ingiunzione (opera diretta da B. Capponi), Zanichelli ed., Bologna, 2005, pp. 401 e ss.; G. FRANCO, Guida al procedimento di ingiunzione, Giuffrè ed., Milano, 2001, III Ed., tomo I°, pp. 413 e ss. Nell’operare il revinement la Cassazione, su ambedue le problematiche sopra evidenziate, segue - anche nello snodo argomentativo - l’opinione del più autorevole autore sulla materia (ossia E. Garbagnati nei luoghi sopracitati). 4. Osservazioni all’innovazione delle S.U. Orbene, sulla prima problematica, ossia la riduzione automatica dei termini di comparizione, la novità delle S.U. è condivisibile perché conforme alla formula legislativa. Diversamente l’interpretazione, la lettura delle S.U. non è accoglibile sulla problematica della necessaria riduzione a 5 gg. del termine di costituzione. Ciò per varie ragioni. Difatti: A) tale lettura si pone in palese contrasto con la normativa disciplinatrice della materia; è una interpretazione abrogante della citata normativa. Le S.U. così argomentano sul punto : “Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del ‘42, l’art. 645 2° comma prevedeva la riduzione a metà dei termini di “costituzione”, mentre nell’attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di “comparizione”, dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa”. Tale ragionamento non è condivisibile. Nella formulazione originaria del codice del ’42, come rileva la Corte, vi è la puntuale previsione della riduzione a metà dei termini di costituzione. Tale disciplina è stata innovata: vi è la necessità, quindi, di interpretare la norma risultante dalla “novella” del ’50 alla luce di tale novità. Orbene, non si possono mantenere le conseguenze della disciplina previgente sul punto. Così operando ci si sostituisce al legislatore. E’ noto - ad es. - che spesso i referendum abrogativi hanno ad oggetto parole nel corpo di un articolo con l’ obiettivo di pervenire ad una norma avente - evidentemente - un CONTENZIOSO NAZIONALE 155 significato diverso da quello originario. Sicchè, ove si seguisse l’orientamento delle S.U. sul punto - continuando nell’esemplificazione del referendum - si renderebbero superflui gli esiti dei referendum, atteso che nonostante qualsivoglia manipolazione si manterrebbe il significato e la disciplina originaria. B) Tale lettura - il giudicante enuncia che dall’art. 165 comma 1 c.p.c. è enunciabile una regola “che stabilisce un legame tra i termini di comparizione e i termini di costituzione” - pone un collegamento (inesistente) tra termine di comparizione e termine di costituzione: come visto la normativa speciale di cui all’art. 645 comma 2° parte 2^ regola solo i termini a comparire. Peraltro, diversa è la disciplina dell’abbreviazione dei termini a comparire ex art. 163 comma 2 cpc ad istanza di parte ed ex art. 645 comma 2 II^ parte cpc ope legis. Nell’opposizione a D.I. il termine a comparire è di 45 gg. liberi; nel giudizio ordinario dinanzi al Tribunale il termine a comparire è riducibile fino alla metà, ossia da 89 a 45 gg. liberi, il che - intuitivamente - è diverso dal caso del monitorio. C) Estende la disciplina del dimezzamento dei termini di costituzione ex aa. 165 co. 1 e 163 bis co. 2 c.p.c. (norma speciale - rispetto al normale termine di costituzione di 10 gg. previsto nel procedimento ordinario ex aa. 163 e ss. cpc - inerente alla disciplina della parte che chiede la riduzione dei termini a comparire) ad un caso non previsto. Ma così operando si incorre in un doppio errore: a) viene operata una interpretazione analogica in un caso in cui non ve ne era necessità, atteso che il termine di costituzione dell’opponente è disciplinato dal raccordo ex aa. 645 comma 2 1^ parte e 165 cpc; b) peraltro, anche ad ammettere – cosa che non è – che vi sia una lacuna da colmare con l’interpretazione analogica, è stata operata nel caso di specie una applicazione comunque non consentita; difatti, per i principi in materia di interpretazione è vietata l’applicazione analogica delle norme speciali (art. 14 preleggi). E la norma secondo cui il termine di costituzione è dimezzato nel caso che venga chiesto dalla parte l’abbreviazione dei termini a comparire è – come detto – una norma speciale. Tale norma, infatti, deroga alla norma generale secondo cui il termine di costituzione è di 10 gg. In conclusione, quindi, l’interpretazione delle S.U. non è accoglibile. 5. Innovazione delle S.U. e giudizi pendenti Nel nostro ordinamento giuridico, ricordando nozioni note, non è operativa la regola della forza vincolante del precedente, al cd. stare decisis, come nei sistemi di common law. Le statuizioni delle S.U. della Cassazione, ossia del massimo organo giurisdizionale dello Stato Italiano, sono osservate dai giudici 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 del merito sostanzialmente per due ragioni: a) intrinseca persuasività degli argomenti, del ragionamento giuridico; b) influenza indiretta, atteso che la Cassazione è il giudice eventualmente competente per il riesame del giudizio in sede di impugnazione (così C. MANDRIOLI, op. cit,. vol. 1 pag. 108 nota 33). Si è visto sopra che l’innovazione delle S.U. non è persuasiva; tuttavia, per le ragioni or descritte sub b), essa innovazione potrebbe essere seguita dai giudici di merito. In questa seconda evenienza, tuttavia, deve ritenersi che alcuna incidenza l’innovazione delle S.U. debba avere nei giudizi pendenti. Ciò perché il principio di affidamento verrebbe violato. Due sono le strade ermeneutiche per predicare l’ininfluenza della novella sui giudizi in corso. A) La novella interpretazione non è applicabile ai giudizi in corso, in ossequio al principio di irretroattività. Sul punto si è già pronunciato il Tribunale di Varese con la sentenza dell’8 ottobre 2010 (in Il caso.It, documento 2388/2010 pubblicato il 9 ottobre 2010)) il quale ha enunciato: “in caso di cd. overruling – e cioè allorchè si assista ad un mutamento, ad opera della Corte di Cassazione a SS.UU., di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo – la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa. Ciò vuol dire che, per non incorrere in violazione delle norme costituzionali, internazionali e comunitarie che garantiscono il diritto ad un Giusto Processo, il giudice di merito deve escludere la retroattività del principio di nuovo conio (nel caso di specie viene esclusa la retroattività del principio di diritto enunciato da Cass. Civ. SS.UU. 9 settembre 2010 n. 19246 in materia di costituzione dell’opponente nel giudizio di opposizione a D.I.”. B) Rimessione in termini (ex aa. 184 bis e/o 153 comma 2 cpc). All’evidenza la - eventuale (e contestata) improcedibilità - è il frutto di un nuovo orientamento giurisprudenziale in consapevole contrasto con un diverso orientamento giurisprudenziale consolidato nel tempo secondo il quale - nella situazione data in cui l’opponente non si è avvalso della facoltà di dimezzare i termini a comparire - il termine di costituzione è di 10 gg. dalla notifica dell’atto di opposizione. Va evidenziato che in giurisprudenza si è sostenuto che l’opponente può essere rimesso in termini di costituzione ove provi di essere incorso nella decadenza per fatto non imputabile (Trib. Genova 4 gennaio 1996 in Giur. It. 1998, 2087, n. BALBI). Ciò è ammesso perché l’istituto della remissione in termini opera con riguardo a fatti e poteri processuali sottoposti a decadenza nel corso del giudizio CONTENZIOSO NAZIONALE 157 (sul punto F. CARPI, M. TARUFFO, op.cit., pp. 575 – 576; C. MANDRIOLI, op. cit., vol. I, p. 463 nota 59). Tale rimedio, nella materia de qua, è stato utilizzato dal Tribunale di Torino con l’ordinanza dell’11 ottobre 2010 che ha così enunciato: “Alla luce del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), l'errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, non può avere rilevanza preclusiva, sussistendo i presupposti per la rimessione in termini (art. 153 c.p.c. nel testo in vigore dal 4 luglio 2009), alla cui applicazione non osta la mancanza dell'istanza di parte, essendo conosciuta, per le ragioni evidenziate, la causa non imputabile (così, Cass., sez. II, ordinanze interlocutorie nn. 14627/2010, 15811/2010 depositate il 17 giugno 2010 ed il 2 luglio 2010). Pertanto, la tardiva costituzione dell'opponente e la decadenza che ne è derivata sono riconducibili ad un causa non imputabile all'opponente stesso, con la conseguente sussistenza dei presupposti per rimettere in termini l'opponente, di guisa che la sua costituzione, effettuata oltre il suddetto termine dimidiato ma entro quello ordinario di dieci giorni, deve essere ritenuta tempestiva, e che quindi non occorre assegnare un ulteriore termine per provvedervi, trattandosi di attività già compiuta (nel caso di specie viene esclusa la retroattività del principio di diritto enunciato da Cass. civ. SS.UU. 9 settembre 2010 n. 19246 in materia di costituzione dell'opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ricorrendo allo strumento della remissione in termini)”. Il rimedio della rimessione in termini è stato utilizzato anche dal Tribunale di Napoli con il provvedimento del 15 ottobre 2010 – in rassegna. Avv. Michele Gerardo* Cassazione civile, Sez. Un., sentenza 9 settembre 2010 n. 19246 - Pres. Carbone, Rel. Salmè, P.M. Pivetti - C.G. (avv. Amorosi) c. Bancapulia S.p.A. (avv. Guglielmo). Sent. n. 377/03 C. app. Lecce. (Omissis) Svolgimento del processo Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 15 giugno 2000, ha dichiarato improcedibile l'opposizione proposta da C.G. avverso un decreto ingiuntivo emesso in favore di Bancapulia s.p.a., in quanto l'opponente, pur avendo assegnato all'opposto un termine a comparire inferiore ai 60 giorni, si è costituito oltre il termine di cinque giorni dalla notifica della citazione. (*) Avvocato dello Stato. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 La Corte d'appello di Lecce, con sentenza del 1 luglio 2003, ha confermato la decisione di primo grado richiamando l'orientamento espresso da questa corte, tra l'altro, con sentenza n. 37521 del 2001, secondo il quale l'abbreviazione dei termini di costituzione per l'opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all'opposto di un termine di comparizione inferiore a sessanta giorni, risultando del tutto irrilevante che la concessione dello stesso sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo. Il C. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, al quale ha resistito, con controricorso, la Bancapulia s.p.a.. Con ordinanza del 12 novembre 2008, la prima sezione ritenendo che il consolidato orientamento della corte presenti aspetti problematici ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione a queste sezioni unite. La prima sezione ha invero ritenuto che non risponde alla sistematica del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni controllo da parte del giudice. Irrilevante sarebbe il richiamo all'art. 645 c.p.c., comma 2, nel quale manca un'espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione che, infatti, viene fatto discendere dall'applicazione degli artt. 165 e 166 c.p.c., i quali tuttavia prevedono la riduzione dei termini di costituzione quale conseguenza della riduzione dei termini di comparizione operata dal giudice a richiesta dell'attore nella ricorrenza dei presupposti indicati nell'art. 163 bis c.p.c.. Peraltro, se fosse vero l'assunto della esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione la riduzione dei termini di costituzione dovrebbe operare sempre e comunque nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, perchè la formulazione del dell'art. 645 c.p.c., comma 2, non consentirebbe alcuna discrezionalità. In realtà se la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del giudizio di opposizione, la riduzione alla meta dei termini di costituzione non è coerente con tale finalità, posto che il termine di costituzione del creditore opposto decorre non già dalla costituzione dell'opponente, ma dalla data dell'udienza di comparizione, che, tra l'altro, per effetto della modifica dell'art. 163 bis c.p.c., introdotta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2 è ampliato da sessanta a novanta giorni per l'Italia e da centoventi a centocinquanta giorni se il luogo della notificazione si trova all'estero. Pertanto, senza un'apprezzabile utilità per la sollecita definizione del giudizio di opposizione, si finisce per introdurre un onere particolarmente gravoso a carico dell'opponente, che solo formalmente verrebbe bilanciato da analogo onere imposto al creditore opposto, il quale non può in alcun modo essere equiparato al convenuto in un giudizio ordinario, avendo egli, anzi, la qualità di attore in senso sostanziale. In tale situazione, ove si ritenga operante la riduzione del termine di costituzione per effetto automatico dell'attribuzione al creditore opposto di un termine inferiore a quarantacinque giorni sarebbe evidente l'irragionevolezza giacchè, a fronte di un termine di costituzione per l'opponente di soli cinque giorni, l'opposto dovrebbe costituirsi nel termine di dieci giorni prima dell'udienza di comparizione, venendo così a godere di ben 35 giorni per provvedere alla propria difesa. La pressione che in tal modo grava sull'opponente, mentre non vale ad abbreviare i termini di durata del processo di opposizione risulterebbe ingiustificata tenendo conto che l'opponente è attore solo in senso formale, ma sostanzialmente è convenuto, e che la necessità di intraprendere la causa non è frutto di una meditata scelta in un lasso di tempo discrezionale, ma necessitata dalla notifica dell'ingiunzione, laddove l'opposto dispone di tempi ben più ampi per la costituzione, anche se, attore in senso sostanziale, ha fruito di ampia disponibilità temporale nella decisione di presentare ricorso per decreto ingiuntivo. CONTENZIOSO NAZIONALE 159 Motivi della decisione 1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l'omessa e/o insufficiente motivazione circa punti decisivi, in riferimento agli art. 645 c.p.c., comma 2 e art. 647 c.p.c., sostenendo che la corte d'appello si sarebbe acriticamente adagiata sull'orientamento della giurisprudenza di legittimità, senza considerare il rilievo, formulato nell'atto di gravame, secondo cui perchè possa operare l'abbreviazione dei termini di comparizione assegnati al creditore opposto è necessaria una consapevole manifestazione di volontà dell'opponente di avvalersi della facoltà prevista dalla legge, formulata in modo esplicito o desunta da elementi concludenti. Nella specie non sarebbero state adeguatamente valutate le circostanze che il termine di comparizione assegnato era di soli sette giorni inferiore a quello minimo e che la costituzione era avvenuta il nono giorno, il che doveva far propendere per un mero errore materiale nel calcolo del termine di comparizione. A ritenere irrilevante l'errore si introdurrebbe una presunzione assoluta di esercizio della facoltà di abbreviazione dei termini da parte dell'opponente non prevista dalla legge, trasformando la facoltà in un obbligo. Inoltre, il ricorrente afferma che la previsione della rinnovazione della citazione (art. 164 c.p.c.) nel caso di assegnazione di un termine inferiore a quello di legge dovrebbe trovare applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione, essendo insufficiente il riferimento alla specialità del rito per giustificare l'applicazione di una sanzione, quale quella della improcedibilità. Con il secondo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione dell'art. 645 c.p.c., comma 2, con riferimento all'art. 647 c.p.c., si sostiene che al giudizio di opposizione, come previsto dall'art. 645 c.p.c., deve applicarsi la disciplina del procedimento ordinario e pertanto in caso di costituzione in giudizio, non omessa, ma semplicemente ritardata, non sarebbe giustificata la sanzione processuale dell'improcedibilità, prevista soltanto per il giudizio di appello dall'art. 348 c.p.c., come modificato dalla L. n. 353 del 1990. Viene anche denunciata l'incoerenza consistente nel ritenere inapplicabile, per la specialità del rito, l'art. 164 c.p.c. facendo allo stesso tempo applicazione del disposto degli artt. 165 e 163 bis c.p.c.. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce errata o falsa applicazione dell'art. 645 c.p.c., comma 2, in quanto non sarebbe corretta l'estensione della riduzione del termine di costituzione previsto dall'art. 165, per il caso in cui il giudice abbia autorizzato la riduzione del termine minimo a comparire, all'ipotesi in cui la riduzione del termine di comparizione sia conseguenza di una mera scelta di parte. 2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell'ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come sarà in seguito precisato, è opportuno procedere a una puntualizzazione. A parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte è stata costante nell'affermare che quando l'opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell'atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (principio affermato, nei vigore dell'art. 645, come modificato con il D.P.R. n. 597 del 1950, art. 13 a cominciare da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006). Più recentemente, nell'ambito di tale orientamento, si è ulteriormente precisato che l'abbreviazione del termine di costituzione per l'opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all'opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009). Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l'orientamento ora richiamato non è privo della necessaria base normativa. Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del '42, l'art. 645, comma 2 prevedeva la riduzione a metà dei termini di "costituzione", mentre nell'attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di "comparizione", dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa. Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l'opposta opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall'art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l'espresso richiamo nell'art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua. Nè appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all'art. 163 bis c.p.c., comma 2, nella quale l'abbreviazione dei termini è conseguenza dell'accertamento da parte del giudice della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall'attore, e di quella di cui all'art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento è compiuto (non dalla parte, come sostiene l'ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall'altro, nell'opportunità di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell'attore. Essendo pacifica la sussistenza dell'esigenza di sollecita trattazione dell'opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che sussiste anche l'esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarità del giudizio di opposizione che, come è noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della opposizione il completo esame de rapporto giuridico controverso, e non il semplice controllo della legittimità della pronuncia del decreto d'ingiunzione. E' anche pacifico che, a differenza dalle qualità formali, le posizioni dell'opponente e dell'opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e di attore in senso sostanziale. Ora, se è vero che l'opposto ha avuto tutto il tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove, prodotte o richieste, dall'opponente, l'opposto ha necessità di valutarle per apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l'esigenza di avere a disposizione i documenti sui quali si fonda l'opposizione nel più breve tempo possibile, per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio. Ciò che è indubbio è che certamente la necessità di sollecita trattazione dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla riduzione a metà dei termini di co- CONTENZIOSO NAZIONALE 161 stituzione dell'opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell'opposto, che invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell'opposizione e cioè dieci giorni prima dell'udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell'art. 166 c.p.c.), ma tale opportunità di assecondare "l'euritmia del sistema" (corte cost. n. 18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei termini di costituzione dell'opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento. 3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall'ordinanza della prima sezione civile, ha osservato che la lettera dell'art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell'opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell'opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall'art. 163 bis c.p.c.. In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilità dell'opposizione, ha già portato a introdurre nell'orientamento tradizionale, basato sulla facoltatività della concessione da parte dell'opponente di un termine a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall'affermazione dell'irrilevanza della volontà dell'opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore. Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell'opponente e dell'opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all'opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l'opposizione sia sfata proposta, in quanto l'art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l'opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell'opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l'anticipazione dell'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 163 bis, comma 3. D'altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell'opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all'art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell'art. 163 bis, comma 3. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008). Nè potrebbe indurre a diverse conclusioni l'osservazione che, se si ritiene irrilevante la volontà dell'opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell'art. 24 Cost., come potrebbe desumersi da corte cost. n. 38/2008. Infatti, l'effetto legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell'opponente, dipendente sia solo fatto della proposizione dell'opposizione, è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non può non conoscere quali sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa. Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell'opponente rispetto a quelli dell'opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell'atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l'opposto non è chiamato semplicemente a ribadire 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall'opponente per formulare la propria risposta. 4. E' consolidato orientamento di questa Corte che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell'opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l'improcedibilità dell'opposizione (Cass. n. 9684/1992, 2707/1990, 1375/1980; 652/1978, 3286/1971, 3030/1969, 3231/1963, 3417/1962, 2636/1962, 761/1960, 2862/1958, 2488/1957, 3128/1956). E' innegabile infatti, da una parte, che la specialità della norma di cui all'art. 647 c.p.c. impedisce l'applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall'altra, che la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge. Il ricorrente non ha prospettato ragioni decisive che possano indurre la Corte a discostarsi da tale orientamento. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi, in relazione al dibattito esistente sulle questioni oggetto del presente giudizio, per compensare le spese. P.Q.M. LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese. Tribunale di Napoli, ordinanza allegata al verbale d'udienza del 15 ottobre 2010 N. 42582/09 del Ruolo gen. aff. cont. - Ministero della Giustizia c. Società GETET. “Il giudice ritenuto che in ossequio all'orientamento della Suprema Corte, secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184-bis cod. proc. civ., "ratione temporis" applicabile, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione dovuta alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso (Cass. civ. Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14627); ritenuto il principio applicabile anche nella specie, attesa l'evidente identità di ratio; ritenuto che non ricorrono le condizioni per la declaratoria di cui all'art. 648 c.p.c.; P.Q.M. Visto l'art. 184-bis c.p.c. rimette l'opponente nei termini allo stesso assegnati per provvedere ad iscrizione della causa a ruolo, ai sensi di quanto previsto dall'art. 645 c.p.c., stante il consolidato orientamento della Suprema Corte - antecedente all'intervento delle Sezioni Unite - secondo cui "nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, la riduzione alla metà dei termini di comparizione, prevista dall'art. 645, comma secondo, cod. proc. civ., è rimessa alla facoltà dell'opponente e, nel (solo) caso in cui questi se ne sia effettivamente avvalso, risultano conseguentemente ridotti alla metà anche i termini di costituzione ..." (Cass. civ., Sez. I, 1 settembre 2006, n. 18942). Rimette, pertanto, la decisione della questione pregiudiziale sollevata da parte opposta unitamente al merito. Lette le richieste formulate dai difensori delle parti e visto l'art. 183 sesto comma c.p.c. assegna i seguenti termini perentori: (….)”. CONTENZIOSO NAZIONALE 163 Comportamento antisindacale: cognizione del giudice ordinario (Cassazione, Sez. Un., ordinanza 24 settembre 2010 n. 20161) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con l’ordinanza in esame ha posto fine al contrasto giurisprudenziale esistente in merito alla individuazione del giudice dotato di giurisdizione in ordine al ricorso ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, proposto da una O.S. con riferimento ad un rapporto di lavoro non contrattualizzato e con il quale si chieda anche la rimozione del provvedimento lesivo della posizione individuale di un lavoratore. La Corte ha affermato il seguente principio: “Ove la condotta antisindacale dell’Amministrazione pubblica, patita dal sindacato, incida sulle prerogative dell’associazione sindacale e sulle situazioni individuali dei dipendenti pubblici il cui rapporto di impiego non sia stato contrattualizzato (quale quello intercorrente, nella specie, tra la Banca d’Italia e i suoi dipendenti), non sussiste un’esigenza costituzionale per derogare alla regola della giurisdizione del giudice ordinario”. M.B. Corte di cassazione, Sez. Un., ordinanza del 24 settembre 2010 n. 20161 - Pres. Carbone, Rel. Amoroso, P.M. Sepe - Federazione italiana lavoratori bancari (FIBA CISL) - Sindacato territoriale di Roma (avv.ti Patrizi e Arrigo) c. Banca d’Italia (avv.ti Perassi, Capolino, Vallebona) (Omissis)* 9. Nel merito del ricorso per regolamento preventivo, deve dichiararsi che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere della controversia pendente tra le parti. 10. La questione di diritto che pone il presente regolamento preventivo di giurisdizione è se la giurisdizione del giudice ordinario - cui sono devolute sia tutte le controversie in materia di lavoro pubblico contrattualizzato (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1), sia le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'art. 28 Stat. lav. e le controversie relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40 (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3, cit.) - sussista, o no, anche in riferimento ad una controversia promossa da un'associazione sindacale ed avente ad oggetto la repressione di un asserito comportamento antisindacale (ex art. 28 Stat. Lav.) di un ente pubblico non economico (la Banca d'Italia) in riferimento al rapporto di impiego dei suoi dipendenti che, in via di eccezione, si sottrae alla generale disciplina del lavoro pubblico "contrattualizzato" o "privatizzato" (ex art. 68, comma 4, in riferimento al D.Lgs. n. 29 del (*) La parte omessa della ordinanza tratta preliminarmente questioni procedurali. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 1993, art. 2, comma 4, ora trasfusi rispettivamente nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 4, e art. 3, comma 1) ed è rimasto regolato dalle normativa di settore come pubblico impiego (tali sono i dipendenti della Banca d'Italia perchè questa svolge la sua attività nelle materie concernenti la tutela del risparmio, l'esercizio della funzione creditizia e la valuta ex D.Lgs.C.P.S. 17 luglio 1947, n. 691, richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3, comma 1, che individua il personale a regime pubblico: cfr. Cass., sez. un.. 24 ottobre 2005, n. 20475; id, 1 ottobre 2003, n. 14667). 11. La questione va collocata nel complessivo quadro normativo di riferimento evolutosi nel tempo, che ha visto un articolato sviluppo della giurisprudenza delle sezioni unite di questa corte, nonchè plurime pronunce della Corte costituzionale. Giova partire dal testo originario la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28, che, per la repressione della condotta antisindacale, ha introdotto uno speciale procedimento bifasico, prima a cognizione sommaria quale procedura di tipo cautelare ed anticipatorio, poi a cognizione piena quale ordinario giudizio di primo grado, senza però contenere alcun riferimento nè alcuna disposizione speciale per l'impiego statale ed in generale per il pubblico impiego. Operava quindi la norma di raccordo a carattere generale contenuta nel successivo art. 37 che prevedeva - e prevede tuttora - che le disposizioni della L. n. 300 del 1970, e quindi anche il suo cit. art. 28, si applicano altresì ai rapporti d'impiego dei dipendenti degli "altri" enti pubblici (ossia diversi da quelli che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica), salvo che la materia sia diversamente regolata da norme speciali. La risalente giurisprudenza di questa corte (fin da Cass., sez. un., 6 maggio 1972, n. 1380; conf. Cass., sez. un., 27 novembre 1974, n. 3872; id., 27 marzo 1975, n. 1158; id., 8 aprile 1975, n. 1267; id., 18 dicembre 1975, n. 4163) ha però ritenuto che l'art. 37 non consentisse in radice l'applicazione dell'art. 28 Stat. lav. all'impiego statale; e neppure tale disposizione era applicabile al rapporto di impiego degli altri enti pubblici non economici laddove fosse rinvenibile una disciplina speciale di tutela del rapporto di pubblico impiego e delle prerogative sindacali (Cass., sez. un., 9 novembre 1974, n. 3477; conf. Cass., sez. un., 22 aprile 1975, n. 1558). 12. Le questioni di costituzionalità che all'epoca furono sollevate, anche ripetutamente da queste sezioni unite (per tutte v. Cass., sez. un., ord., 11 gennaio 1977, n. 6: id. 21 giugno 1979, n. 302; id., 11 settembre 1979, n. 412; id., 22 dicembre 1981, n. 638). non furono accolte dalla Corte costituzionale. Con sentenza n. 118 del 1976 la Corte costituzionale negò il lamentato contrasto dell'art. 37 Stat. lav. con gli artt. 3 e 24 Cost. e soprattutto con il principio di eguaglianza, essendo l'inapplicabilità all'impiego statale della normativa contenuta nella L. n. 300 del 1970 razionalmente giustificata in ragione della minuziosa e completa disciplina che regolava quest'ultimo e la sostanziale diversità di posizioni. Con la successiva sentenza n. 68 del 1980 la Corte costituzionale - dopo aver ribadito che l'esclusione dell'impiego statale dall'area in cui operava il congegno di raccordo normativo dell'art. 37 Stat. lav. si fondava su consistenti ragioni di ordine testuale, sistematico e sostanziale, ragioni che si prestavano ad essere ulteriormente specificate a proposito dell'art. 28 Stat. lav. ha negato che il principio di eguaglianza, sancito nell'art. 3 Cost., comma 1, esigesse l'estensione pura e semplice della disciplina dell'art. 28 Stat. lav. alle associazioni sindacali dei dipendenti dello Stato, affermando in particolare che tale libertà sindacali sono tutelatali, nel settore del pubblico impiego, come avevano ritenuto le sezioni unite fin dal 1974, in qualità di situazioni di diritto soggettivo proprie ed esclusive del sindacato, attraverso i procedimenti CONTENZIOSO NAZIONALE 165 ordinari promossi innanzi al giudice civile; id est al di fuori del quadro dell'art. 28". Investita ancora da queste sezioni unite con plurime ordinanze di rimessione la Corte costituzionale, con sentenza n. 169 del 1982, ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate, arrestandosi in sostanza di fronte all'impasse interpretativo, che quella Corte ha affermato ridondare nel ritenuto carattere ancipite delle questioni di costituzionalità sollevate da questa corte (e da ciò la pronuncia di inammissibilità) ed in ragione del quale l'art. 28 Stat. lav. si esponeva alla duplice, ma alternativa, censura di violazione del principio di eguaglianza, se si riteneva la sua inapplicabilità ai sindacati dei dipendenti degli enti pubblici non economici, e di violazione del principio di ragionevolezza, se all'opposto si riteneva tale disposizione applicabile anche a tali sindacati, per il possibile contrasto di giudicati tra la pronuncia del giudice ordinario ex art. 28 Stat. lav. e quella del giudice amministrativo che all'epoca aveva giurisdizione esclusiva sul rapporto di pubblico impiego. 13. Intanto il legislatore era intervenuto, con normativa primaria (L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 10) e subprimaria (D.P.R. 26 maggio 1976, n. 411, art. 54), per estendere l'applicabilità di alcune disposizioni dello Statuto dei lavoratori, tra cui il cit. art. 28, ai dipendenti del cd. parastato, con conseguente affermazione da parte di queste sezioni unite della giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie proposte alle associazioni sindacali per la repressione delle condotte antisindacali di tali enti pubblici non economici (Cass., sez. un., 5 luglio 1979, n. 3820). Parimenti era stata ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario per analoghe controversie ex art. 28 Stat. lav. promosse da associazioni sindacali nei confronti imprese di pubblico trasporto in regime di concessione (Cass., sez. un., 24 febbraio 1982, n. 1149). 14. Ma in generale la questione interpretativa tino ad allora dibattuta trovava una soluzione di carattere generale, di li a poco, in una serie di pronunce di queste sezioni unite (Cass., sez. un., 26 luglio 1984, nn. 4401, 4402, 4399, 4386, 4387, 4390, 4391 e 4395) le quali hanno affermato, come seguente principio di diritto, che a fronte di un comportamento antisindacale dell'amministrazione pubblica, datrice di lavoro, che impedisca o limiti l'esercizio della libertà e dell'attività delle organizzazioni sindacali, l'individuazione dei rimedi giurisdizionali di cui tali organizzazioni possono avvalersi, a tutela delle loro posizioni (aventi natura e consistenza di diritti soggettivi), va effettuata distinguendo il caso nel quale detto comportamento leda interessi propri ed esclusivi del sindacato (cd. diritti sindacali in senso stretto), dal caso nel quale presenti carattere plurioffensivo, in quanto, direttamente incidendo sulle posizioni del singolo dipendente, venga ad interferire anche nella sfera giuridica del sindacato, con lesione di suoi interessi strettamente collegati a quelli del dipendente (c.d. diritti sindacali connessi o correlati). Nella prima ipotesi, la tutela è esperibile davanti all'autorità giudiziaria ordinaria, nella normale sede contenziosa, quando si tratti di dipendenti delle amministrazioni dello Stato, cui non si applica lo Statuto dei lavoratori, ovvero nella sede e nei modi previsti dall'art. 28 Stat. Lav., quando si tratti di dipendenti di enti pubblici non economici, cui tale disposizione si applica a norma del successivo art. 37 Stat. lav. ed in mancanza di apposita normativa speciale. Nella seconda ipotesi, sia che si tratti di dipendenti statali ovvero di dipendenti di altri enti pubblici non economici, tale tutela del sindacato spetta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, in ragione del fatto che riguarda diritti che attengono oggettivamente al rapporto di pubblico impiego; tutela questa che deve ritenersi esperibile non in via eventuale ed indiretta, tramite intervento adesivo nel giudizio che promuova il dipendente, in quanto ciò implicherebbe la possibilità 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 di carenza di difesa giurisdizionale per i diritti del sindacato, ma bensì in via autonoma ed indipendente, mediante l'instaurazione di apposito giudizio innanzi al giudice amministrativo. E' il regime del doppio binario che vede la concorrenza della giurisdizione del giudice ordinario - per le controversie aventi ad oggetto le prerogative delle associazioni sindacali, fatte valere sia con giudizio ordinario di cognizione (quanto alle Amministrazioni statali) sia con la procedura di cui all'art. 28 Stat. lav. (per gli altri enti pubblici non economici in mancanza di una disciplina specifica: cfr. in particolare Cass.. sez. un., 26 luglio 1984, n. 4410, cit.) - e del giudice amministrativo, quanto alle controversie che, pur riguardando anche diritti del sindacato, tocchino però direttamente la posizione del dipendente pubblico, ciò in ragione del c.d. comportamento plurioftensivo tenuto dall'ente pubblico non economico. Quindi - ha affermato Cass., sez. un.. 3 giugno 1985, n. 3288 - la giurisdizione del giudice ordinario sussiste nell'ipotesi nella quale venga denunciata una condotta che leda direttamente e soltanto diritti propri del sindacato. Invece - ha precisato Cass., scz. un., 4 luglio 1985, n. 4043 in caso di comportamenti antisindacali di un ente pubblico non economico, qualora si verifichi la lesione non di diritti sindacali in senso stretto, cioè propri ed esclusivi delle associazioni sindacali, bensì di diritti sindacali connessi o correlati, il cui pregiudizio sia configurabile soltanto in stretto collegamento con la lesione di diritti de dipendente, in quanto derivante da provvedimenti adottati a carico del dipendente stesso nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, la tutela giurisdizionale delle predette associazioni sindacali esula delle attribuzioni del giudice ordinario, nella sede e nei modi previsti dall'art. 28 Stat. lav., e spetta al giudice amministrativo in via esclusiva, dato che investe posizioni oggettivamente attinenti al rapporto di pubblico impiego. 15. L'arresto giurisprudenziale del 1984 ha univocamente orientato la giurisprudenza degli anni successivi. Cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4154, che ha ribadito che occorre distinguere a seconda che i comportamenti antisindacali ledano soltanto diritti sindacali in senso stretto, cioè propri ed esclusivi di quelle organizzazioni, ovvero presentino un carattere plurioffensivo, in quanto, incidendo direttamente sulle posizioni soggettive del singolo dipendente, vengano anche a pregiudicare diritti sindacali connessi o correlati a tali posizioni individuali. Ciò comportava un'asimmetria negli strumenti di tutela e nella conseguente regolamentazione della giurisdizione, affermandosi la giurisdizione ordinaria nel caso di associazioni sindacali che agivano per la tutela di prerogative sindacali proprie non incidenti sul rapporto di impiego dei dipendenti pubblici (nella normale sede contenziosa, in caso di amministrazioni dello Stato, stante l'inapplicabilità dello statuto dei lavoratori, oppure nella sede e nei modi previsti dall'art. 28 Stat. lav., ove si trattasse di enti pubblici non economici, ai quali lo statuto dei lavoratori era applicabile in mancanza di una disciplina specifica). Si riteneva invece la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la condotta antisindacale dell'amministrazione pubblica investisse altresì diritti oggettivamente attinenti al rapporto di pubblico impiego. In tale evenienza, come sussisteva la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie di pubblico impiego, parimenti tale giurisdizione doveva essere affermata sulle controversie promosse dalle associazioni sindacali per la tutela di prerogative sindacali che incidevano anche sul rapporto di impiego, la cui violazione quindi non poteva che avere carattere plurioffensivo (cfr. altresì Cass., sez., un., 28 novembre 1990, n. 11461). Insomma era l'eventuale carattere plurioffensivo della condotta antisindacale la chiave di volta del canone regolatore della giurisdizione. Era questo che - come ha più volte ripetuto la giu- CONTENZIOSO NAZIONALE 167 risprudenza di questa corte negli anni successivi (Cass., sez. un., 25 marzo 1986, n. 2099: id., 9 aprile 1986, n. 2468; id., 9 aprile 1986, n. 2467; id., 21 maggio 1986, n. 3371; sez., 13 luglio 1987, n. 6092; id., 17 ottobre 1988, n. 5635; id., 17 marzo 1989. n. 1354; id, 20 luglio 1989, n. 3405; id, 12 dicembre 1989, n. 5524; 19 marzo 1990, n. 2292; id., 7 settembre 1990, n. 9236; 28 dicembre 1990, n. 12202; id, 5 febbraio 1991, n. 1084) - attraeva la controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo, ossia allo stesso giudice che all'epoca aveva la giurisdizione esclusiva sul rapporto di pubblico impiego. Invece per posizioni di diritto soggettivo proprie ed esclusive del sindacato sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario (Cass., sez. un., 21 maggio 1986, n. 3372; id, 7 settembre 1990, n. 9238; id, 15 novembre 1990, n. 11025; id, 11 dicembre 1990, n. 11778). 16. Su questo assetto giurisprudenziale, che scontava la difficoltà di scriminare in termini netti e chiari la condotta antisindacale plurioffensiva da quella lesiva solo delle prerogative del sindacato, interviene una prima modifica normativa. La L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, comma 1, (recante norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali) innesta nell'art. 28 Stat. lav. due ulteriori commi: il sesto ("Se il comportamento di cui al comma 1 è posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico, l'azione quella ex art. 28 Stat. lav. è proposta con ricorso davanti al pretore competente per territorio") ed il comma 7 ("Qualora il comportamento antisindacale sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego, le organizzazioni sindacali di cui al comma 1, ove intendano ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni, propongono il ricorso davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio, che provvede in via di urgenza con le modalità di cui al comma 1. Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti allo stesso tribunale, che decide con sentenza immediatamente esecutiva"). Viene quindi meno (con l'art. 28, nuovo comma 6) l'asimmetria tra lavoro pubblico e lavoro privato secondo una linea evolutiva della materia che già era emersa nella disciplina di settore per i dipendenti del cd. parastato (cfr. la normativa sopra cit.) e che poi, nel corso dello stesso decennio, si svilupperà ulteriormente con la cd. contrattualizzazione del lavoro pubblico sino al D.Lgs. n. 80 del 1998 (come ora si dirà): il particolare procedimento di repressione della condotta antisindacale è esteso a tutto campo perchè può avere ad oggetto il comportamento diretto ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonchè del diritto di sciopero, posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico. La giurisdizione è quella del giudice ordinario; la competenza funzionale è quella (all'epoca) del pretore quale giudice del lavoro. Ma nell'art. 28, nuovo comma 7 si riproduce in parte quella riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo che era stata in precedenza ritenuta dalla sopra richiamata giurisprudenza di queste sezioni unite. Il concetto su cui ruota la disposizione è ancora quel carattere di plurioffensività della condotta antisindacale, che in precedenza valeva a scriminare tra giurisdizione del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo e che ora opera però come condizione concorrente, non più esclusiva. Infatti l'art. 28, nuovo comma 7 riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, promosse dalle associazioni sindacali legittimate ex art. 28, comma 1, che hanno ad oggetto un comportamento sì antisindacale ossia diretto ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonchè del diritto di sciopero, posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico -ma che sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 di impiego (cd. plurioffensività), sempre che l'associazione sindacale ricorrente intenda ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni. C'è quindi nella nuova normativa, quanto al riparto di giurisdizione, un rapporto di regola ad eccezione. La regola è la giurisdizione del giudice ordinano quale che sia l'amministrazione pubblica (anche statale) che abbia posto in essere il comportamento antisindacale; l'eccezione è la giurisdizione del giudice amministrativo ove sussistano due condizioni: a) che la condotta antisindacale sia plurioffensiva nel senso che lesiva anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego (per il quale all'epoca c'era ancora la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo); b) che, in tal caso, l'associazione sindacale ricorrente non chieda anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni. 17. Il quadro normativo, che emerge dalla novella del 1990, risulta così più chiaro e definito; ed anche la riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è ben circoscritta, come eccezione alla regola, ed è più agevolmente identificabile sulla base del petitum sostanziale: se, in presenza di una condotta antisindacale plurioffensiva, l'associazione sindacale ricorrente non chiedeva la rimozione del provvedimento lesivo non scattava, come eccezione alla regola, la giurisdizione del giudice amministrativo. Particolarmente significativa, in proposito, del carattere circoscritto e residuale della giurisdizione del giudice amministrativo in materia è una pronuncia di questa corte (Cass., sez. un., 28 novembre 1997, n. 12042) che ha affermato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinano anche nel caso in cui, pur essendo riscontrabile una condotta antisindacale plurioffensiva, il sindacato ricorrente, che inizialmente abbia chiesto anche la rimozione del provvedimento lesivo della posizione del pubblico dipendente, poi abbia abbandonato tale domanda insistendo solo in quella diretta alla cessazione del comportamento antisindacale. La giurisprudenza delle sezioni unite di questa corte si è adeguata al nuovo corso normativo regolando la giurisdizione in materia sulla base del criterio introdotto dalla cit. L. n. 146 del 1990, art. 6, comma 1. In particolare Cass., sez. un., 17 febbraio 1992, n. 1911, ha enunciato un "nuovo" principio di diritto, regolatore della giurisdizione, affermando che la L. n. 146 del 1990, cit. art. 6, oltre ad estendere il procedimento previsto dall'art. 28 alla repressione della condotta antisindacale posta in essere da un'amministrazione statale in violazione di interessi propri ed esclusivi del sindacalo ed a prevedere anche davanti al giudice amministrativo, adito per la repressione della condotta antisindacale di carattere plurioffensivo (in quanto incidente anche sulla posizione del singolo dipendente pubblico), una fase sommaria ed urgente del procedimento, aveva modificato i precedenti criteri di riparto della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, limitando quest'ultima ai soli casi in cui veniva richiesta dalle organizzazioni sindacali la rimozione dei provvedimenti lesivi di situazioni soggettive inerenti al rapporto d'impiego. Il corso successivo della giurisprudenza è in linea con questo nuovo arresto (Cass., sez., un., 29 ottobre 1992, n. 11783; id., 5 febbraio 1993, n. 1449; id, 5 febbraio 1993, n. 1450; id., 12 marzo 1993, n. 3019; id, 17 luglio 1993, n. 7955; id, 13 dicembre 1993, n. 12261; id, 13 dicembre 1993, n. 12261; id, 17 marzo 1995, n. 3104; id., 22 marzo 1995, n. 3320; id., 10 maggio 1995, n. 5117; id., 20 gennaio 1996, n. 445; id., 6 febbraio 1997, n. 1136; id., 14 febbraio 1997, n. 1398; id, 28 novembre 1997, n. 12042, cit.; id, 22 luglio 1998, n. 7179; id, 27 luglio 1998, n. 7349; id, 7 agosto 1998, n. 7754: id., 24 agosto 1999, n. 592; id., 29 febbraio 2000, n. 49). In particolare Cass., sez. un., 5 febbraio 1993, n. 1450, cit., ha precisato che per effetto della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, ai fini della giurisdizione del giudice amministrativo in CONTENZIOSO NAZIONALE 169 ordine alla denuncia del comportamento antisindacale di un ente pubblico non economico, non è sufficiente il carattere plurioffensivo (cioè lesivo sia di situazioni soggettive proprie ed esclusive del sindacato sia di situazioni soggettive del lavoratore inerenti al rapporto di pubblico impiego) del comportamento denunciato, sussistendo detta giurisdizione solo nell'ipotesi in cui il sindacato non si limiti a chiedere la declaratoria d'illegittimità della condotta denunciata e la cessazione dei suoi effetti, ma richieda anche l'eliminazione del provvedimento lesivo delle suindicate situazioni soggettive dei pubblici dipendenti. E simmetricamente, ove invece manchi il carattere plurioffensivo della condotta sindacale, perchè lesiva solo di prerogative del sindacato e non già del pubblico dipendente, la domanda del sindacato ricorrente, diretta ad ottenere anche la rimozione del provvedimento lesivo, radica in ogni caso la giurisdizione del giudice ordinario. Cfr. Cass., sez. un., 22 luglio 1998, n. 7179, cit., che, nell'affermare la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia ex art. 28 Stat. lav. promossa da un sindacato escluso dalle trattative svolte dall'ARAN ai fini di un rinnovo contrattuale, ha precisato che nel procedimento per la repressione della condotta antisindacale non vige il divieto per il giudice ordinario di annullamento di atti amministrativi. 18. Dopo la citata L. n. 146 del 1990 si inaugura la stagione della cd. privatizzazione (o meglio, contrattualizzazione) del lavoro pubblico: dal D.Lgs. n. 29 del 1993, al D.Lgs. n. 80 del 1990, fino al testo unico recato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 (recentemente novellato in parte dal D.Lgs. n. 150 del 2009). Già il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 8 prevedeva il trasferimento alla giurisdizione ordinaria delle controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche con esclusione di alcune materie. L'art. 68 veniva riformulato dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33 con l'espressa previsione della devoluzione al giudice ordinario delle controversie, attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di diritti sindacali, comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale, nonchè del diritto di sciopero e violazioni di clausole concernenti i diritti e l'attività del sindacato contenute nei contratti collettivi. La disposizione viene riscritta ancora dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 29 nella formulazione che poi, salva un'ulteriore modifica apportata dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18 (non rilevante nella specie), sarà trasfusa nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63; il successivo art. 69, comma 7, fissa poi lo spartiacque temporale (30 giugno 1998) del passaggio della giurisdizione dal giudice amministrativo al giudice ordinario. In particolare il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 69, ripetutamente novellato, ed il D.Lgs. n. 165 del 2001, corrispondente art. 63 prevedono una duplice devoluzione di giurisdizione al giudice ordinario. Il comma 1 (di entrambe le disposizioni) devolve al giudice ordinario tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro non "contrattualizzati". Il comma 3 devolve al giudice ordinario le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'art. 28 Stat. lav. (ed altre controversie collettive). Il comma 4 poi pone l'eccezione alla regola del comma 1 - che infatti richiama sicchè si stabilisce un aggancio testuale tra questi due commi - prevedendo due fattispecie che, residualmente, continuava a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo: una relativa alle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (interpretata estensivamente dalla giurisprudenza delle sezioni unite di 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 questa corte fino a comprendere anche alcune ipotesi di concorsi interni); l'altra attinente alle controversie relative ai rapporti di lavoro sottratti alla privatizzazione (o contrattualizzazionc). Entrambe riguardano il rapporto di impiego - sicchè consistono in controversie tra l'amministrazione pubblica datrice di lavoro ed il dipendente pubblico - e non già il rapporto sindacale e quindi non riguardano le controversie tra il sindacato e l'amministrazione pubblica di cui all'art. 63 cit., comma 3. 19. Nella fattispecie ora in esame è soprattutto la disposizione di questo art. 63 cit., comma 3 (e dell'art. 69 cit. che lo ha preceduto) che rileva al fine della decisione del presente ricorso per regolamento di giurisdizione. Ciò che in particolare va osservato è che la devoluzione al giudice ordinano delle controversie relative ai comportamenti antisindacali è fatta testualmente - nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3 - con riferimento ai comportamenti delle "pubbliche amministrazioni ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28"; disposizione quest'ultima che, dopo essere stata novellata dalla L. n. 146 del 1990, art. 6, cit., riguardava toni court - nel suo comma 6 - i comportamenti di tutte le amministrazioni pubbliche, comprese quelle statali, e quindi a prescindere dal fatto che il rapporto di lavoro con i rispettivi dipendenti fosse, o meno, "contrattualizzato". Ossia manca nell'art. 63, comma 3 - nè può ricavarsi dal comma 4 che riguarda il rapporto di impiego e non già il rapporto sindacale e che, anche testualmente, è richiamalo solo dal comma 1 e non anche dal comma 3 - la clausola di esclusione che invece testualmente compare al comma 1 delle medesime disposizioni. E' solo quest'ultimo (il comma 1) che appunto, tra le controversie relative ai rapporti di lavoro, eccettua dalla devoluzione alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui al comma 4 (ossia i rapporti di pubblico impiego non contrattualizzato, qual è appunto quello alle dipendenze della Banca d'Italia). La mancata riproduzione, nell'art. 69 e art. 63 cit., comma 3, di tale clausola di esclusione non può essere letta altrimenti che come espressiva della regola generale della devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario di tutte le controversie promosse dalle associazioni sindacali ex art. 28 Stat. lav. a prescindere dalla "contrattualizzazione", o meno, del rapporto di impiego. Ciò peraltro era in sintonia con quanto già la richiamata giurisprudenza di queste sezioni unite aveva affermato interpretando il comma 6 del novellato art. 28 Stat. lav. che - si ripete - già aveva generalizzato - con l'eccezione di cui al successivo comma 7 (di cui si viene ora a dire) - l'accesso alla procedura di cui all'art. 28 Stat. Lav. alle associazioni sindacali in riferimento ai comportamenti antisindacali di tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dalla contrattualizzazione, o meno, del rapporto di impiego con i dipendenti. In fondo il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3 è riproduttivo del canone già posto dalla L. n. 146 del 1990, art. 1 nell'aggiungere il comma 6 all'art. 28 Stat. lav.. 20. Se però il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3 (da ultimo, e prima ancora il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 69, comma 3, come novellato nel 1998) non prevedeva - e non prevede tuttora - come eccezione alla regola generale della devoluzione al giudice ordinario delle controversie aventi ad oggetto i comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni con dipendenti in regime di lavoro non contrattualizzato, operava ancora, pur all'indomani della menzionata data del 30 giugno 1998 di trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario, il comma 7 dell'art. 28 Stat. lav.; disposizione questa sì che - in quanto non (ancora) abrogata (per un'applicazione di tale disposizione dopo il D.Lgs. n. 80 del 1998, che aveva formulato il nuovo D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 3, v. Cass., sez. un., 29 febbraio 2000, n. 49) - continuava a prevedere un'eccezione alla giurisdizione del giudice ordinario, la quale però CONTENZIOSO NAZIONALE 171 doveva essere ricollocata nel nuovo contesto normativo. Se essa originariamente prevedeva, in via di eccezione, la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di controversie ex art. 28 Stat. lav. in cui un'associazione sindacale, in possesso dei requisiti di legittimazione previsti da tale disposizione - chiedeva anche la rimozione del provvedimento amministrativo riguardante la posizione del singolo lavoratore, il cui rapporto radicava all'epoca la giurisdizione del giudice amministrativo, si aveva che, dopo il massiccio trasferimento di giurisdizione al giudice ordinario delle controversie di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, commi 1 e 3 (conseguente alla riformulazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, cit. art. 69 ad opera del D.Lgs. n. 80 del 1998), occorreva ritagliare un ben più limitato campo di operatività al comma 7 dell'art. 28 Stat. lav., circoscrivendolo appunto all'ipotesi in cui l'associazione sindacale ricorrente, lamentando una condotta antisindacale plurioffensiva, richiedesse la rimozione di un provvedimento lesivo della posizione di un singolo pubblico dipendente in regime di lavoro pubblico non contrattualizzato. Per la persistente operatività di tale eccezionale fattispecie residuale di giurisdizione del giudice amministrativo v. anche - ma in obiter dictum - Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 16430, che peraltro ha ritenuto sussistere in quel caso di specie la giurisdizione del giudice ordinario, pur ipotizzando in vero, ma sempre solo in obiter dictum, non rilevante in causa, l'operatività dell'eccezione anche dopo l'abrogazione del sesto e comma 7 dell'art. 28. E' questa in sostanza la tesi della difesa della Banca resistente che però ritiene che questa situazione normativa si sia protratta fino ad oggi. 21. Ma cosi non è. L'eccezione alla regola generale della giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie promosse dalle associazioni sindacali per la repressione della condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni non poteva trovare fondamento nell'art. 63 cit., comma 3 che non ne contemplava alcuna nè, a differenza del comma 1, richiamava l'eccezione del comma 4, ma aveva il suo riferimento normativo nell'ancora vigente comma 7 dell'art. 28 Stat. lav. limitatamente all'ipotesi in cui, in presenza di condotta antisindacale plurioffensiva, la richiesta del sindacato ricorrente di rimozione del provvedimento a contenuto antisindacale (o affetto da motivo antisindacale) riguardasse un rapporto di impiego non contrattualizzato, la cui gestione quindi era fatta dall'amministrazione pubblica con provvedimenti amministrativi e non già "con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro" secondo il D.Lgs. n. 165 del 2001, dettato art. 5, comma 2, come nel caso di lavoro pubblico contrattualizzato. Quindi all'indomani del generalizzato trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario, di cui all'art. 63, commi 1 e 3, cit., residuava sì questa eccezione in favore della giurisdizione del giudice amministrativo, ma si fondava sulla persistente vigenza del comma 7 dell'art. 28 Stat. lav.. 22. Questo quadro normativo muta ancora una volta con la L. 11 aprile 2000, n. 83, art. 4 (recante modifiche ed integrazioni della normativa in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali), che ha espressamente previsto che la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28, commi 6 e 7, introdotti dalla L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, comma 1, sono abrogati. Con tale abrogazione espressa il legislatore ordinario ha "fatto pulizia", esprimendo la volontà che la regola della giurisdizione in materia di controversie promosse da sindacati ed aventi ad oggetto condotte antisindacali di pubbliche amministrazioni sia solo quella - netta e chiara - del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3, senza più l'interferenza data dalla particolare ipotesi in cui l'associazione sindacale chieda la rimozione di un provvedimento che incida su 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 posizioni individuali di dipendenti pubblici regolate ancora con atti amministrativi e non già con atti di gestione di diritto privato; ossia senza più quell'eccezione (in favore della giurisdizione del giudice amministrativo) che residuava rispetto a quella che la giurisprudenza di queste sezioni unite degli anni novanta (sopra richiamata) aveva predicato in termini più ampi e nel diverso contesto normativo sopra indicato. Se invece il legislatore avesse voluto far venir meno non già proprio tutte le fattispecie previste dal comma 7 dell'art. 28 Stat. lav., ma "quasi" tutte, lasciandone alcune, avrebbe riformulato il comma 7, ridimensionandolo e prevedendo l'ipotesi in cui il sindacato ricorrente, in caso di condotta sindacale plurioffensiva, chieda la rimozione dei provvedimenti lesivi di situazioni soggettive inerenti a rapporti di impiego gestiti dall'amministrazione pubblica datrice di lavoro con provvedimenti amministrativi, per essere il rapporto di impiego "non contrattualizzato", e non già "con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro", tipica del rapporto di impiego "contrattualizzato". Il novum quindi nel criterio di regolamentazione della giurisdizione, per quanto rileva nel presente giudizio, è - a ben vedere - riferibile essenzialmente alla L. 11 aprile 2000, n. 83, art. 4, che esprime una legittima, quanto ampia, discrezionalità del legislatore ordinario; laddove la determinazione del legislatore delegato espressa nel D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 69, comma 3, riformulato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 29, proprio perchè non si accompagnava all'abrogazione del sesto e del comma 7 dell'art. 28 Stat. lav., non innovava al di là di quanto non fosse coerente con la scelta del legislatore ordinario delegante di privatizzazione del pubblico impiego, sicchè non possono sorgere in proposito dubbi di violazione della delega legislativa. 23. La giurisprudenza di queste sezioni unite del resto, quando, in epoca recente, e stata chiamata a decidere sulla giurisdizione in materia di controversie promosse dal sindacato per la repressione di condotta antisindacale di una pubblica amministrazione, tenendo ormai conto della sopravvenuta abrogazione dei commi 6 e 7 dell'art. 28 Stat. lav. ad opera della L. 11 aprile 2000, n. 83, art. 4, e pur pronunciandosi in controversie in cui venivano in rilievo fattispecie di lavoro pubblico contrattualizzato, ha affermato in termini assolutamente generali la giurisdizione del giudice ordinario, senza riserve o eccezioni di sorta. Cass., sez. un., 13 luglio 2001, n. 9541, ha richiamato la precedente giurisprudenza degli anni novanta (sulla rilevanza, in termini di giurisdizione, della condotta antisindacale plurioffensiva); ma ha aggiunto: "Questo quadro normativo è stato tuttavia modificato con l'introduzione del nuovo sistema delineato dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29 e ulteriormente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 18, che ha attribuito al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, una cognizione incondizionata in materia di condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni; la L. 11 aprile 2000, n. 83, art. 4 ha quindi provveduto alla abrogazione della L. n. 300 del 1970, art. 28, commi 6 e 7 aggiunti dal legislatore del 1990". Quindi, dopo il trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 69, comma 3, come novellato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 29, e poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3, e dopo l'abrogazione dei commi 6 e 7, dell'art. 28 Stat. lav. ad opera della L. n. 83 del 2000, art. 4, la giurisdizione del giudice ordinario costituisce una "cognizione incondizionata", ossia senza che ci sia più l'eccezione della giurisdizione del giudice amministrativo nelle ipotesi in cui, nel previgente quadro normativo, tale eccezione era predicabile e - può aggiungersi - senza che residui neppure quell'eccezione che era predicabile nel periodo di tempo in cui è stato ancora vigente il comma 7 dell'art. 28 Stat. CONTENZIOSO NAZIONALE 173 lav. nel contesto dell'intervenuto trasferimento alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni. Questo principio è stato espressamente confermato da Cass., sez. un., 7 febbraio 2002, n. 1761; parimenti di "cognizione incondizionata" del giudice ordinario in questa materia parla anche Cass., sez. un., 24 gennaio 2003, n. 1127. Analogamente Cass., sez. un., 2 maggio 2005, n. 10064, ha affermato che "la L. n. 83 del 2000, già citato art. 4 ha eliminato ogni dubbio sulla individuazione della giurisdizione, con il definitivo passaggio della giurisdizione per ogni forma di condotta antisindacale al giudice ordinario che diventa, pertanto, giudice esclusivo per materia". Quanto alla giurisprudenza amministrativa Cons. Stato, sez. 1^, parere, 12 giugno 2002, n. 1647/02, ha affermato che appartengono alla cognizione del giudice ordinario le controversie riguardanti il comportamento antisindacale del datore di lavoro pubblico, anche con riferimento alle categorie di pubblici dipendenti - quale, nella specie, le forze di polizia - escluse dalla privatizzazione, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3. 24. La generalizzazione della giurisdizione del giudice ordinario, conseguente alla devoluzione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3, senza l'eccezione predicata dalla difesa della Banca resistente, e all'abrogazione tout court dei commi 6 e 7, dell'art. 28 Stat. lav. ad opera della L. n. 83 del 2000, art. 4, che fondavano l'individuazione di eccezioni alla giurisdizione del giudice ordinario, conducono all'affermazione che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario anche nell'ipotesi in cui il comportamento antisindacale dell'amministrazione pubblica incida non solo sulle prerogative dell'associazione sindacale ricorrente ex art. 28 Stat. lav., ma altresì su situazioni individuali di dipendenti pubblici il cui rapporto di impiego non sia stato "contrattualizzato". E' vero - come è stato notato in chiave problematica - che è possibile che in questa fattispecie vi siano due controversie in qualche misura connesse: quella promossa, innanzi al giudice ordinario ex art. 28 Stat. lav., dal sindacato per la repressione del comportamento antisindacale dell'amministrazione pubblica, e quella promossa, innanzi al giudice amministrativo, dal dipendente non "privatizzato", perchè ancora in regime di lavoro pubblico, per contestare la legittimità di un provvedimento, incidente sul suo rapporto di impiego, affetto, in ipotesi, da un motivo di discriminazione sindacale. Questa situazione è stata allegata come indicativa della possibile violazione, sul piano costituzionale, del principio di ragionevolezza (oltre che dell'ari. 25 Cost.). Ma la Corte costituzionale (C. cost., ord., n. 143 del 2003) da una parte ha avallato come praticabile la soluzione interpretativa - qui accolta - secondo cui "l'abrogazione della L. n. 146 del 1990, citato art. 6, comma 1, comporterebbe in ogni caso la devoluzione al giudice ordinario dell'azione ex art. 28 Stat. lav. promossa dall'organizzazione sindacale, anche se tale azione incidesse, attraverso la richiesta di rimozione degli effetti del comportamento antisindacale, su rapporti di lavoro non "privatizzati", mentre il pubblico dipendente potrebbe far valere la sua situazione soggettiva individuale davanti al giudice amministrativo ex art. 63, comma 4, citato". D'altra parte ha aggiunto che tale soluzione interpretativa "implica o b1) una prevenzione del paventato conflitto di giudicati, attraverso il coordinamento, ex art. 295 c.p.c., dell'azione individuale con quella promossa dal sindacato, ovvero b2) la radicale negazione di ogni possibilità di conflitto pratico di giudicati, riconoscendo la totale autonomia delle due azioni in quanto volte a tutelare distinte situazioni sostanziali". E pertanto - ha concluso la Corte - "del tutto insussistente è la violazione dell'art. 25 Cost., così come insussistente è la lamentata irragionevolezza della disciplina (ex art. 3 Cost.)". Non c'è quindi sulla scorta di tale specifico precedente della Corte - un'esigenza costituzionale 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 per cui, ove la condotta antisindacale patita dal sindacato incida anche su un rapporto di impiego non "contrattualizzato", debba derogarsi alla regola, posta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 3, della giurisdizione del giudice ordinario. 25. In conclusione sussiste - nella controversia pendente tra le parti, di opposizione a decreto emesso ex art. 28 Stat. lav. - la giurisdizione del giudice ordinario pur se la denunciata condotta antisindacale, oggetto di tale giudizio promosso dalle associazioni sindacali opponenti nei confronti della Banca resistente, afferisca ad un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato qual è quello intercorrente tra la Banca ed i suoi dipendenti. 26. Alla soccombenza consegue la condanna della Banca d'Italia resistente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo con distrazione in favore dell'avv. Giovanni Patrizi dichiaratosi antistatario. P.Q.M. La Corte, a Sezioni Unite, pronunciandosi sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; condanna la resistente Banca d'Italia al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 200,00 (duecento) oltre Euro 3.500,00 (tremilacinquecento) per onorario d'avvocato ed oltre IVA, CPA e spese generali, con distrazione in favore dell'avv. Giovanni Patrizi antistatario. CONTENZIOSO NAZIONALE 175 Non deducibilità reddituale, per le società di capitali, dei compensi pagati ai propri amministratori Estensione del precedente oppure clamorosa svista? (Cassazione, Sez. V Civ., ordinanza 13 agosto 2010 n. 18702) SOMMARIO: 1. Il caso deciso. - 2. La questione. - 3. La risposta di Cass., sez. trib., ord. 13 agosto 2010, n. 18702. - 4. Nota esplicativa. - 5. Precedenti giurisprudenziali. - 6. Spunti bibliografici. 1. Il caso deciso Il sub judice può essere sintetizzato come segue. Una società a responsabilità limitata, relativamente a un periodo d’imposta anteriore al 2004 - dunque nella vigenza del d.p.r. n. 917/1986 (T.U.I.R.) ante IRES -, riceveva in notifica dall’Agenzia delle Entrate un avviso di accertamento, il quale disconosceva la operata deduzione, ai fini impositivo-reddituali, dei compensi corrisposti ai propri amministratori. La medesima società contribuente si vedeva dipoi respingere il proprio ricorso dinnanzi al giudice tributario di prime cure, con un successivo ribaltamento del dispositivo, e sentenza in favore della società stessa, da parte della Commissione Tributaria Regionale di Genova. A fronte di ciò l’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura Generale dello Stato, ricorreva per la cassazione della pronuncia di seconde cure. La tesi della Commissione Tributaria Regionale era quella per cui, in una con quanto sosteneva (in conformità con il proprio operato) la società ricorrente, i compensi erogati ai propri amministratori da una società di capitali possono bensì essere dedotti da quest’ultima nella determinazione del proprio reddito imponibile, ma non già nell’esercizio individuato “per cassa” e invece soltanto nell’esercizio all’interno del quale si colloca (anche successivamente a quello della erogazione di detti compensi) la delibera assembleare ex art. 2389 c.c. I Giudici della Sezione Tributaria di piazza Cavour, con l’ordinanza annotata ed emessa ex art. 375 n. 5 c.p.c., affermano anzitutto, sul piano del rito, che la non-deducibilità tout court dei compensi in parola era stata rilevata nell’avviso di accertamento, sebbene non in atti processuali; il che basta, per la Corte stessa, ai fini del contraddittorio e dell’oggetto del processo. Tale assunto deriva dal fatto che – come da ultimo chiarito da Cass. Sez. Un. n. 30055/2008 (citata dall’ordinanza in rassegna) – se è vero che il giudizio tributario vede per sua natura la P.A. attrice con il proprio atto impositivo poi impugnato dal contribuente, è altresì vero che il processo nascente dall’impu- 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 gnazione dell’atto autoritativo d’imposizione è limitato da quest’ultimo proprio nel senso che l’entità della pretesa tributaria non può, nel processo, avere una portata diversa da quella risultante dall’atto medesimo: con il che, secondo il Supremo Collegio, nel caso di specie sempre di diniego della deduzione dei compensi agli amministratori si trattava, sia che tale tesi fosse supportata dal richiamo al criterio di cassa anziché di competenza, sia che alla base della tesi del diniego di deducibilità vi fosse invece una negazione aprioristica e valevole in ogni caso, stante il contenuto della deduzione medesima. La causa, quindi, è decisa con ordinanza anziché con sentenza, e senza pubblica udienza, anche perché sussiste, ad avviso della Sezione Tributaria della Suprema Corte, una manifesta fondatezza basata su precedenti. La causa è decisa, quanto al merito, nel senso che - come anticipato - i compensi corrisposti da una società di capitali ai membri del proprio consiglio di amministrazione non sono deducibili, nella determinazione del reddito imponibile ad IRPEG della società amministrata; e ciò in base all’art. 62 T.U.I.R., quale vigeva ante riforma introduttiva dell’IRES (in vigore il 1° gennaio 2004). 2. La questione Concentrandoci, in questa sede, sulla questione di merito (e tralasciando - per economia della presente nota - quella strettamente processual-tributaria), il quesito di diritto, cui la pronuncia in rassegna risponde, è il seguente: sono deducibili, nella determinazione del reddito imponibile di una società di capitali, i compensi da questa erogati ai membri del proprio consiglio di amministrazione? 3. La risposta di Cass., sez. trib., ord. 13 agosto 2010, n. 18702 Il Supremo Collegio, basandosi sul precedente di Cass. n. 24188 del 2006, interpreta e applica l’art. 62 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (tale qual era fino alla riforma del 2003, in vigore dall’inizio del 2004), desumendone la non deducibilità, in quanto tali, dei compensi erogati da società di capitali ai propri amministratori, membri dell’organo collegiale di gestione. Tale assunto di diritto si basa apertis verbis sul precedente della pronuncia del 2006 testé richiamata, laddove era stato affermato che i compensi in parola vanno equiparati a quelli corrisposti all’imprenditore [da sé medesimo], visto che l’amministratore, al pari dell’imprenditore, svolge per l’ente amministrato un’attività priva dei requisiti propri della subordinazione. Ed il fatto che detto precedente si riferisse al caso particolare dell’amministratore unico di società di capitali, mentre il caso sub judice è quello di un membro del consiglio di amministrazione, costituisce, secondo l’ordinanza di cui trattasi, un dato dif- CONTENZIOSO NAZIONALE 177 ferenziale irrilevante, stante l’univocità au fond di un’asserita identità di ratio. 4. Nota esplicativa 4.1. In tema di reddito d’impresa, l’art. 62, comma 1, T.U.I.R. - ante d.lgs. n. 344 del 2003 (in vigore dal 1° gennaio 2004) - dispone, in via generale, che “le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto del comma 1 dell’art. 65”. Il comma 2 dell’articolo medesimo, per parte sua, così recita: “Non sono ammesse deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore, dal coniuge, dai figli affidati o affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e degli ascendenti, nonché dei familiari partecipanti all’impresa di cui al comma 4 dell’art 5 ”. Aggiunge, da ultimo, il comma in parola quanto segue: “I compensi non ammessi in deduzione non concorrono a formare il reddito complessivo dei percipienti”. Il successivo comma 3 dell’articolo stesso stabilisce a sua volta che “i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome collettivo e in accomandita semplice sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili sono deducibili anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite”. In ordine al primo comma, si osserva in dottrina che trattasi di disposizione pleonastica, poiché la deducibilità delle spese per retribuire personale dipendente discende dal concetto stesso di reddito d’impresa, siccome derivante dalle risultanze del conto economico – e pur fatte salve le variazioni in aumento o in diminuzione contemplate dalle norme tributarie. Da qui, non a caso, dipende il fatto che l’art. 62 contempla, nel suo prosieguo, taluni casilimite, meritevoli di apposita disciplina ai fini della determinazione del reddito imponibile dell’impresa erogante. Laddove, al suo comma 2°, la norma prevede infatti la non deducibilità dei compensi di lavoro per l’opera svolta dallo “imprenditore”, essa è, per i più, da leggersi nel senso di riferirsi all’attività prestata dall’imprenditore erogante medesimo. Nel caso, cioè, della impresa individuale, a fini antievasivosimulatori la disciplina tributaria impedisce di portare in deduzione, nella determinazione del reddito imponibile, eventuali auto-compensi (c.d. “salari figurativi”), a se stesso corrisposti dall’imprenditore per l’attività da sé prestata nella sfera dell’impresa. Che questa sia la corretta lettura del comma 2° su citato, è desumibile dal fatto che il prosieguo del comma medesimo – in chiara omologia di ratio antievasivo-simulatoria – stabilisce la indeducibilità di compensi erogati, sempre per attività di lavoro prestate all’impresa, ai più stretti congiunti dell’imprenditore individuale beneficiario del lavoro stesso. D’altronde, il su riportato comma 3° dell’art. 62 T.U.I.R., costituente la 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 norma specificamente dedicata alle spese sostenute dall’imprenditore, non già individuale bensì collettivo, per compensare i suoi amministratori, stabilisce semplicemente una eccezione alla regola generale sul criterio di competenza nel reddito d’impresa, prevedendo la deduzione dei compensi agli amministratori secondo una regola (eccezionale appunto) di cassa. Ciò ancora una volta con finalità di accertamento, e senza contemplare limiti alla deduzione in parola, nemmeno a proposito dei compensi agli amministratori-soci (a differenza di quanto accadeva, prima del T.U.I.R., nella vigenza del d.p.r. n. 597 del 1973 istitutivo dell’IRPEF). Per evitare, poi, fenomeni di doppia imposizione, l’ultimo periodo del comma 2° dell’art. 62 opportunamente precisa che quei compensi di lavoro, corrisposti dall’imprenditore a sé medesimo e/o ai suoi familiari più stretti, senza possibilità di deduzione ai fini reddituali, non concorrono alla formazione del reddito imponibile in capo ai percettori. Ciò detto, rimane da spiegare in rapida esegesi la ratio del riferimento, contenuto nel comma 3° dell’art. 62 su riportato, agli amministratori delle sole società di persone e non a quelli di società di capitali. Tale ratio va semplicemente reperita nell’assetto strutturale del T.U.I.R. ante IRES, nel senso che segue. L’art. 62 ivi si colloca nell’ambito delle disposizioni relative al reddito d’impresa nell’imposta sul reddito delle persone fisiche (artt. 49-80), laddove sono contemplate, oltre all’imprenditore individuale, le - redditualmente “trasparenti” - società in nome collettivo e in accomandita semplice (e ciò, per vero, nel preconcetto del divieto di partecipazione di società di capitali in società di persone, che in allora era già criticato dalla dottrina ma coonestato dalla giurisprudenza di legittimità, non ancora superata dalla riforma societaria). Per quel che riguardava infatti le società di capitali, bisogna(va) mettere mano ai successivi artt. 86 e seguenti dello stesso T.U.I.R., dedicati all’imposta sul reddito delle persone giuridiche. Ed invero, per ciò che riguarda le società di capitali soggette all’allora vigente IRPEG (imposta sul reddito delle persone giuridiche), in punto di esborsi a titolo di compensi per gli amministratori viene in considerazione il combinato disposto di cui agli artt. 89 e 95, T.U.I.R. (sempre versione ante 2004), ai sensi del quale la base imponibile si determina semplicemente secondo le disposizioni di cui agli artt. 52-87 T.U.I.R., dettati in tema di reddito d’impresa soggetto ad IRPEF. Talché, in mancanza di norma derogatoria sul punto, i compensi corrisposti da una società di capitali ai propri amministratori dovevano reputarsi deducibili nella determinazione del reddito IRPEG della società erogante, visto il rinvio di cui all’art. 95 (tale da equiparare società di persone e società di capitali). Questo, dunque, è il quadro delle norme rilevanti nella ordinanza in rassegna, in una con una sua linea significante. 4.2. L’ordinanza in commento - come anticipato supra ai par. 1-3 -, oc- CONTENZIOSO NAZIONALE 179 cupandosi di un caso ante 2004 (al quale si applica il T.U.I.R. nella sua versione che precede l’IRES), esclude, in capo a una società di capitali - una s.r.l. in ispecie - l'ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l'opera svolta dall'imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone. Per l’effetto, reputando secondaria nella fattispecie la questione della deducibilità per cassa ovvero per competenza, il Collegio Supremo non consente di dedurre dall'imponibile il compenso all'amministratore di società di capitali, argomentando nel senso che la posizione di quest'ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, poiché non è individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorre quindi quell'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione – così come statuito dal precedente, reputato dall’Alta Corte decisivo, di cui a Cass., sent. n. 24188 del 2006. Sol che si scorra tale ultima pronuncia, ci si avvede del fatto che essa inerisce a un caso in cui al centro del dibattito stava la questione della compatibilità o meno, in prospettiva impositivo-reddituale, della simultanea qualità di amministratore unico di società di capitali e di lavoratore subordinato. Ad avviso della ulteriormente pregressa giurisprudenza, per lo più lavoristica, nel caso di “soci amministratori” si concretizza un rapporto di lavoro dipendente compatibile con la carica gestionale, quando l’attività espletata non rientra nel mandato ed è in forma subordinata, ossia sotto la direzione del consiglio di amministrazione: sì ché, “per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali e la società stessa, è necessario l’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso, nonostante la suddetta qualità di membro del consiglio di amministrazione” (Cass., sent. n. 6819 del 2000). Le due qualifiche - si diceva, cioè, in sede lavoristica già prima del precedente tributario di Cass. n. 24188/2006 - non possono coesistere in quanto, se così non fosse, l’amministratore unico sarebbe subordinato a se stesso, il che costituisce una evidente contraddizione in termini. Sì che, in questa prospettiva d’identicità tra impresa e amministratore unico in ottica sia laburistica sia tributaria, il compenso erogato a quegli diventa simile al c.d. salario figurativo (o auto-compenso), che l’imprenditore individuale eroga a se stesso senza possibilità di deduzione ai fini impositivoreddituali (v., supra, par. 4.1). Ed infatti, alla luce della equiparazione laburistica tra l’attività gestoria svolta dall’amministratore unico di società e quella svolta dall’imprenditore, la Sezione Tributaria della Corte nel 2006 ha ritenuto che non è ammessa in 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 deduzione la spesa sostenuta a titolo di compenso per il lavoro prestato e per l’opera svolta dall’amministratore unico di una società di capitali, trovando ciò conferma negli artt. 60 e 95 TUIR ante IRES, i quali escludono espressamente la deducibilità del compenso per l’opera prestata o per il lavoro svolto dall’imprenditore, e non essendo configurabile - si disse apertis verbis in quella sentenza quattro anni or sono - il salario cosiddetto figurativo (cioè a dire un compenso di lavoro che l’impresa collettiva finisce col pagare a se stessa). 4.3. Soltanto alla luce di un quadro quale quello fin qui tratteggiato - comprensivo per un verso di talune norme vigenti ante 2004 e per altro verso di un certo filone giurisprudenziale -, è possibile comprendere il dictum della ordinanza sopra riportata. La Corte conclude ritenendo che la sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la deducibilità dei compensi agli amministratori membri di C.d.A., è ispirata a un erroneo principio di diritto, non tanto perché i compensi degli amministratori di società di capitali siano deducibili per cassa anziché per competenza, ma piuttosto, prioritariamente, perché essi non sono affatto deducibili siccome tali. Non sono deducibili poiché – dice la Corte – il Supremo Collegio ha già avuto modo di statuire che l’amministratore di società di capitali, per il ruolo e l’attività funzionale che svolge in seno ad essa, non può essere considerato lavoratore dipendente, ma deve piuttosto essere assimilato allo “imprenditore” di cui all’art. 62, comma 2 secondo periodo, T.U.I.R. Va ribadito che, così argomentando, la S. C. va oltre il precedente che essa stessa asserisce essere dirimente nel caso di specie (cioè a dire Cass., sez. trib., n. 24188 del 2006), ed estende l’assunto ivi formulato – id est non deducibilità dei compensi ad amministratori di società di capitali per assimilazione ai compensi pagati a imprenditori – anche ai casi degli amministratori (di società di capitali) non unici: e ciò in quanto che, secondo i Giudici della Sezione Tributaria di piazza Cavour, sussisterebbe (e lo si dice apertamente in ordinanza) una identità di ratio situazionale. 4.4. Arduo è il revocare in dubbio che l’art. 62, comma 3°, del “vecchio” TUIR, seppure riferito alla deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori della società in nome collettivo e in accomandita semplice, debba essere riferito anche ai soggetti IRPEG - e ciò in dipendenza del rinvio operato dall’art. 95 dello stesso TUIR. Ed invece gli è che, a leggere con attenzione la breve motivazione della ordinanza in rassegna - segnatamente laddove essa riprende la relazione scritta del Giudice Relatore -, ci si avvede del fatto che ivi si è inteso negare - proprio sulla scorta dell’art. 62, comma 2 - la deducibilità di qualsivoglia compenso CONTENZIOSO NAZIONALE 181 erogato da società di capitali, anziché di persone, ai propri amministratori. Qui, in effetto, l’argomento dei Giudici di piazza Cavour lascia un poco perplessi. Tuttavia - lo si osserva a scanso di equivoci in termini di asserito “errore” o “svista” giudiziale -, pur adottando una lettura ermeneutica estensiva dell’art. 287 c.p.c., capace di includere nello “errore materiale” anche la svista del Giudice - nel senso della erronea percezione del reale inclusivo dei codici -, nel caso di specie resta difficile il sussumere, nella sfera di applicazione di detta norma, l’ordinanza de qua, se è vero come è vero che il rinvio di cui all’art. 95 T.U.I.R. non può dirsi testualmente riferito al sintagma “s.n.c. e s.a.s.”, contenuto nell’art. 62 comma 3, nel senso di sostituire immediatamente - e non mediatamente - a esso il sintagma “società di capitali”. Sì che l’ipotetico “errore” della ordinanza in commento - sul punto “società di persone/di capitali” - si colloca nella sfera cognitiva, e non già percettiva, del giudice: dunque al di fuori del “correggibile” ai sensi del codice di rito, ancorché si pensi alla rettificabilità degli errori e delle omissioni in una prospettiva che vada oltre il mero dato scritturale. Sotto questo aspetto, quei primi commentatori i quali divisano, nella ordinanza de qua, un “increscioso incidente” della Sezione Tributaria dell’Alta Corte (individuandone la causa efficiente in un’eccessività della mole di contenzioso fiscale da sbrigare in sede nomofilattica), lasciano piuttosto indifferenti. Appare, cioè, inane lo “strapparsi le vesti” (sebbene in senso figurato, ovviamente) come se si fosse al cospetto di uno “scandalo”, dacché lo scandaglio delle cose oltre la superficie mena all’essenza della interpretazione giuridica in quanto tale: un’essenza per cui il diritto è fatto di norme, le quali a loro volta sono fatte di parole, soggette in quanto tali all’ermeneutica e al suo (gadameriano) “circolo” aperto. 4.5. E’ opportuno in conclusione ricordare che, con risoluzione (su interpello) n. 158 del 27 maggio 2002, l’Agenzia delle Entrate aveva precisato che l’art. 62, comma 2, “vecchio” T.U.I.R., laddove in termini d’indeducibilità fa menzione dei compensi corrisposti all’imprenditore, deve essere letto come facente riferimento all’imprenditore individuale persona fisica, visto nel suo essere destinatario del compenso e nel contempo soggetto erogante. Trattasi del c.d. salario figurativo, od auto-compenso che dir si voglia, già (supra) menzionato. La Pubblica Amministrazione, cioè, aveva - in prassi del 2002 - letto quella norma nel senso più acconcio, che ritroviamo nel precedente di Cassazione del 2006. La visuale è quella di una ratio antievasiva dell’art. 62, comma 3 - laddove allo “imprenditore” fa riferimento -, similmente a quanto ivi previsto per i compensi da lavoro erogati, dallo stesso imprenditore individuale, agli stretti congiunti. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Tutto ciò evidenzia, ancora una volta, che il “problema” della ordinanza in rassegna non scaturisce dal nulla ex novo, bensì risale addietro nel tempo lungo il filone dei dicta del Giudice di Legittimità, se è vero come è vero che già nel 2006 (sulla scorta di quanto già detto prima, se pure in altra Sezione) la Suprema Corte aveva ragionato in termini di amministratore unico di società di capitali assimilabile allo “imprenditore” nell’alveo dell’art. 62, comma 3°, “vecchio” T.U.I.R. La qual cosa, per essere messa in discussione, dev’esserlo “storicamente” ab imis, senza per ciò la necessità di divisare – adesso - sviste infortunistiche in capo all’Alta Corte, bensì concentrandosi sulla nuova estensione concettuale del pregresso assunto, fino a comprendervi gli amministratori (di società di capitali) non unici ma consiliari. Una estensione concettuale - quest’ultima - che può essere in effetto stridente, laddove essa sposti anche l’asse del discorso dall’idea dell’auto-compenso, o “salario figurativo”, a quella di compenso erogato a un terzo imprenditore. Anche qui, comunque, siamo nell’ambito della sfera cognitiva, e non già meramente percettiva, del Giudice in ordinanza. 5. Precedenti giurisprudenziali Cass., Sez. trib., 12 novembre 2006, n. 24188; Cass., Sez. lavoro, 24 maggio 2000, n. 6819. 6. Spunti bibliografici F. M. GIULIANI, La simulazione dal diritto civile all’imposizione sui redditi, Cedam, 2009; F. M. GIULIANI, Essenza dell’interpretazione, in Contratto e impresa, 2002, p. 1362 ss.; F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Dike, 2009; F. CARINGELLA, Compendio di diritto amministrativo, Dike, 2010; Ag. Entrate, ris. n. 158 /E del 27 maggio 2002, a http://www.finanzaefisco. it/agenziaentrate/cir_ris_2002/ris158-02.htm Avv. Federico Maria Giuliani, LL.M.* (*) Avvocato del libero foro di Milano, Master of Laws, già Professore a contratto nella Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. CONTENZIOSO NAZIONALE 183 Corte di cassazione, Sez. Tributaria, ordinanza 13 agosto 2010 n. 18702 - Pres. Lupi, Rel. D’Alessandro, P.M. Iannelli - Agenzia delle Entrate (avv. gen. Stato) c. Donato & C. s.r.l. (avv.ti Manzi e Glendi). Sent. Comm. Trib. Reg. Liguria, Sez. 4, n. 78/07. (Omissis) FATTO E DIRITTO Considerato che il Consigliere relatore, nominato ai sensi dell'art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione scritta prevista dall'art. 380-ter, nei termini che di seguito si trascrivono: "L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria che, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto il ricorso della società contribuente contro un avviso di accertamento per IRPEG, IVA E IRAP. La società resiste con controricorso. Il ricorso contiene due motivi. Può essere trattato in camera di consiglio (art. 375 c.p.c., n. 5) ed accolto, per manifesta fondatezza del primo motivo, assorbito il secondo, alla stregua delle considerazioni che seguono: Si controverte esclusivamente in ordine alla deducibilità del compensi agli amministratori di società di capitali. Il giudice tributario - accogliendo la tesi della società - ha affermato che detti compensi sono deducibili nell'anno, pur successivo a quello di erogazione, in cui sia intervenuta la delibera ex art. 2389 c.c. mentre l'Agenzia, in base al disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 62, sostiene che essi non siano nella specie deducibili. Il mezzo è manifestamente fondato, pur se per motivi non coincidenti con quelli sviluppati dalla ricorrente. Questa Corte ha infatti affermato che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62, il quale esclude l'ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l'opera svolta dall'imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall'imponibile il compenso per il lavoro prestato e l'opera svolta dall'amministratore di società di capitali: la posizione di quest'ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il re quisito tipico della subordinazione (Cass. 24188/06). La sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la deducibilità del relativo costo, è dunque ispirata ad un erroneo principio di diritto, non perchè i compensi degli amministratori di società di capitali siano deducibili nel solo anno in cui sono corrisposti, ma perchè non sono affatto deducibili"; che la controricorrente ha depositato una memoria, contestando la possibilità di decidere la causa sulla base di una questione non dedotta e comunque censurando, nel merito, il contenuto della relazione; che il collegio condivide la proposta del relatore; che, quanto alla ritenuta novità dell'interpretazione, su cui la relazione si fonda, è decisivo il rilievo che essa non si basa su una quaestio facti non esaminata nei gradi di merito, bensì sull'interpretazione della norma della cui applicazione pacificamente si controverte m giudizio, cosicchè deve escludersi che si tratti di questione rilevata d'ufficio; che, d'altro canto, la circostanza che tale interpretazione non sia stata mai dedotta dall'Ufficio, 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 segnatamente in sede di accertamento, non appare vincolante per questo Giudice, alla luce di quanto dedotto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 30055/08, secondo cui "affermare, infatti, che nel giudizio tributario l'amministrazione finanziaria (e, adesso, l'Agenzia delle Entrate) è attore e che la sua pretesa è quella risultante dall'atto impugnato vuoi dire riconoscere che l'erario aziona una specifica pretesa impositiva - e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il pagamento - e che il processo che nasce dall'impugnativa dell'atto autoritativo è, si, delimitato nei suoi confini, quanto a petitum e causa petendi, dalla pretesa tributaria, ma solo nel senso che il fondamento e l'entità di questa non possono avere latitudine diversa da quanto dedotto nell'atto impositivo"; che, sotto tale profilo, la relazione appare coerente con l'atto impositivo, contenente la ripresa a tassazione dei costi dedotti per i compensi agli amministratori; che, nel mento, appare irrilevante la circostanza che, nella sentenza citata nella relazione, si trattasse del compenso all'amministratore unico e non (come nella specie) ai componenti del consiglio di amministrazione, identica essendo nei due casi la problematica di fondo; che pertanto, accolto il primo motivo e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata; che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo; che, attese le ragioni della decisione, appare equo disporre l'integrale compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. la Corte accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo; compensa le spese dell'intero giudizio CONTENZIOSO NAZIONALE 185 Nota di presentazione I due contributi di seguito pubblicati sono stati proposti dall’avvocato dello Stato Stefano Pizzorno della Distrettuale di Firenze ed erano stati realizzati in vista della ripresa della pubblicazione della Relazione quinquennale dell’Avvocatura dello Stato. Il progetto di relazione è stato per ora accontonato, ma i due contributi restano e testimoniano la capacità dell’Avvocatura dello Stato di trattare in modo imparziale temi sui quali il dibattito nella società civile è particolarmente vivace. Patti di convivenza e riconoscimento giuridico dei medesimi nell’ordinameno italiano Un cittadino neozelandese e un cittadino italiano del medesimo sesso ottenevano in Nuova Zelanda il riconoscimento giuridico della propria situazione di partner di fatto secondo quanto consentito dalla legislazione di quel Paese. In seguito, dopo essersi stabiliti in Italia (il cittadino neozelandese in virtù di un permesso di soggiorno della durata di un anno per motivi di studio) il cittadino neozelandese chiedeva il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari sulla base dell’art. 29 d.lgs 286/1998 che tra i soggetti aventi diritto elenca, oltre ai figli minori e, a determinate condizioni, i figli maggiorenni e i genitori, anche il coniuge. La Questura dichiarava irricevibile la richiesta e lo straniero ricorreva allora al Tribunale di Firenze. Il Tribunale accoglieva la domanda. Secondo il Giudice adito infatti alla legge neozelandese doveva attribuirsi riconoscimento anche nel nostro ordinamento in forza sia dell’art. 65 l. 218/1995 in tema di riconoscimento di provvedimenti stranieri sia in forza dell’art. 24 della medesima legge secondo cui i diritti che derivano da un rapporto di famiglia sono regolati dalla legge applicabile a tale rapporto. D’altro canto, secondo il giudice, l’art. 30 lett. C del T.U. sull’immigrazione doveva essere interpretato, secondo una lettura costituzionalmente orientata, allorché fa riferimento al familiare, nel senso di ricomprendere anche il convivente, pena la violazione dell’art. 2 della Costituzione che tutela i diritti dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ivi ricompreso il rapporto di coppia. Il Tribunale si basava sulla circostanza che nel nostro ordinamento la coppia di fatto, sia essa omo o etero sessuale, da un lato ha rilevanza sociale, dall'altro avrebbe ottenuto specifico riconoscimento giuridico nel nostro ordinamento. Inoltre essendo i rapporti di famiglia, in base all'art. 24 l. 218/1995, regolati dalla legge applicabile a quel rapporto e trattandosi di qualificazione di rapporto di convivenza riconosciuto dalla legge neozelandese, tale riconoscimento di convivenza doveva essere efficace in virtù dell'art. 65 della legge sopracitata, secondo cui hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi all'esistenza di rapporti di famiglia. D'altro canto non potevano 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 esserci dubbi, secondo il Tribunale, sulla circostanza che il convivente fosse un familiare, essendo propriamente un familiare di fatto (la ricomprensione del concetto di convivente nel concetto di familiare è riassunto nella dizione “famiglia di fatto”, così testualmente il Tribunale di Firenze). Ne conseguiva che l'art. 30 lett. C del d.lgs 286/1998 doveva essere inteso nel senso che il permesso di soggiorno doveva essere riconosciuto anche al convivente, familiare di fatto del cittadino italiano. Tale risultato era del resto imposto da una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2 della Costituzione che tutela i diritti dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, tra le quali rientrerebbe anche il rapporto di coppia. Infine, il Tribunale poneva a sostegno della propria decisione di accoglimento della domanda la direttiva CE 29 giugno 2004 n. 38. Secondo il Giudice fiorentino, tale direttiva, determinava il diritto di soggiorno nel territorio degli Stati membri al partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (art. 3, comma 2 lett b) con conseguente diritto al rilascio della carta di soggiorno. E' vero che non era ancora scaduto il termine per il recepimento della direttiva; peraltro, secondo il Tribunale, contenendo la medesima disposizioni precise e determinate ed appartenendo quindi al tipo autoesecutivo, la mancata scadenza del termine non era ostativa all'immediata ricezione da parte del giudice nazionale. L'Avvocatura Distrettuale di Firenze, a cui veniva immediatamente notificata la decisione, nei termini brevi previsti per l'impugnazione in questo tipo di contenziosi (art. 739 c.p.c.) proponeva immediatamente reclamo, censurando punto per punto le motivazioni del Tribunale. In primo luogo denunciava il ricorso alla cosiddetta interpretazione costituzionalmente orientata (secondo cui nel dubbio, tra più interpretazioni in astratto possibili, la norma deve essere interpretata nel senso conforme a Costituzione, secondo l'orientamento della Corte Costituzionale) della quale talvolta i tribunali abusano per far dire alle norme quello che in alcun modo potrebbero dire, in tal modo operando non una legittima interpretazione estensiva ma un vero e proprio stravolgimento del dettato normativo. L'Avvocatura sottolineava come attraverso tale prassi si invadesse il campo in realtà spettante al Giudice delle leggi. In particolare osservava come più correttamente altro giudice avesse sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti della norma che vieta le espulsioni del familiare convivente con cittadino italiano nella parte in cui il divieto non si estende anche all'espulsione del convivente familiare di fatto. Al riguardo l'Avvocato estensore del reclamo ricordava come in quel caso la Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione sollevata, aveva ribadito che la convivenza era un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza nonché della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono pro- CONTENZIOSO NAZIONALE 187 pri della famiglia legittima (ord. 11 luglio 2000 n. 313). L'interpretazione operata dal Tribunale di Firenze era da considerarsi pertanto in contrasto con la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale. Infine l'Avvocatura censurava la decisione del Tribunale anche nel punto in cui essa aveva fatto riferimento alla direttiva CE 38/2004. Si osservava che la direttiva in linea di principio avrebbe potuto trovare applicazione solo dopo la scadenza del termine previsto per la sua attuazione, non esistendo obbligo per l'autorità amministrativa, prima di tale termine, di eseguirne le disposizioni. Il principio per cui le norme direttamente applicabili trovano esecuzione, in caso di mancata attuazione della direttiva, vale infatti solo dopo la scadenza del termine non prima. Ma sopratutto l'Avvocatura osservava come il tribunale non avesse tenuto conto dei considerando che costituivano parte integrante della direttiva. In questi infatti si poteva leggere che, ai fini della direttiva, la definizione di familiare avrebbe dovuto certo includere altresì il partner che aveva contratto un'unione registrata, ma solo qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio. Inoltre per preservare l'unità della famiglia, la situazione delle persone che non rientravano nella definizione di familiari ai sensi della direttiva e che pertanto non godevano di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante avrebbe dovuto essere esaminata sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l'ingresso e il soggiorno potevano essere loro concessi (considerando 5 e 6). Quindi il legislatore comunitario non aveva affatto imposto, come aveva inteso il tribunale, la parificazione del convivente al familiare ma aveva salvato la specificità dei vari diritti nazionali. Dopo la proposta impugnazione, il contenuto della decisione del tribunale si diffondeva sui media; per essere esatti, mentre in un primo momento il caso era rimasto all'interno del mondo giudiziario, dopo diverso tempo e quindi in deroga alle regole usuali del mondo giornalistico che impongono di dare risalto solo alla stretta attualità, la stampa ne dava notizia. Iniziava il Foglio, seguito immediatamente da Repubblica (21 novembre 2006), da Libero (23 novembre 2006) e dal Giornale (24 novembre 2006). Il Giornale della Toscana un anno dopo ricordava ancora la vicenda (23 dicembre 2007). Seguivano le dichiarazioni di vari esponenti del mondo politico che si schieravano a favore o contro secondo i propri principi ideologici e alcune interrogazioni parlamentari. La notizia si diffondeva ancora più largamente in numerosi siti web. Inutile dire che la decisione veniva di volta in volta considerata come pericolosa e inconcepibile ovvero come manifestazione di grande apertura e civiltà. Altrettanto inutile dire che attraverso l'impugnazione l' avvocato dello Stato non manifestava alcun giudizio sulla legittimità morale di tali unioni e neppure sull'opportunità che di esse si procedesse o meno a un riconoscimento giuridico da parte del legislatore; riteneva solo che la decisione del tribunale non fosse con- 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 forme alla legge e pertanto costituisse dovere del suo ufficio proporre gravame contro di essa. Nel frattempo giungeva la decisione della Corte d'Appello di Firenze che accoglieva completamente l'impostazione dell'Avvocatura, revocando il decreto del tribunale. La decisione della Corte veniva allora a sua volta impugnata con ricorso per Cassazione che infine poneva la parola fine sulla vicenda con sentenza 6441/09, depositata in data 17 marzo 2009, rigettando il ricorso e confermando quanto statuito dalla Corte d'Appello. Stato di rifugiato e asilo politico La presente relazione non ha ad oggetto un singolo caso ma, si può dire, un’intera materia in cui il contributo dell’Avvocatura dello Stato è stato decisivo. Si tratta del contenzioso relativo allo stato di rifugiato, previsto dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, la quale stabilisce come requisito essenziale di accesso il fondato timore di essere perseguitato, occorrendo quindi una obiettiva persecuzione che deve essere personale e diretta nei confronti dell’individuo. Al riguardo occorre fare un passo indietro, a qualche anno fa, al momento in cui nel nostro Paese si registra un notevolissimo incremento del contenzioso in materia di rifugio politico. Tra le cause di tale aumento si possono annoverare varie cause: una stretta nel rilascio di provvedimenti di riconoscimento ad opera dell’allora Commissione Nazionale per lo stato di rifugiato; l’accesso al gratuito patrocinio per gli stranieri; infine, da non sottovalutare, il passaggio della giurisdizione amministrativa a quella del giudice ordinario che è giudice di più facile accesso. Come è noto infatti, a seguito dell’abrogazione dell’ art. 5 del d.l. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito nella l. 39/90, ad opera dell’art. 46 l. 40/98, la Cassazione (S.U. 17 dicembre 1999 n. 907) si era espressa nel senso che la materia ricadeva nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario dovendosi provvedere solo al riconoscimento di uno status in relazione al quale pertanto la Commissione emetteva provvedimenti a carattere non costitutivo ma dichiarativo. Il Consiglio di Stato aveva tentato di contrastare questa impostazione con numerose decisioni in cui si sosteneva che la posizione del richiedente era pur sempre di interesse legittimo godendo l’Amministrazione comunque di un potere discrezionale nell’apprezzamento dei fatti rilevanti al fine di procedere al riconoscimento dello status di rifugiato. Tale tesi era stata in qualche caso sporadico fatta propria anche dal giudice ordinario (ad esempio Corte d’Appello di Firenze 7 marzo 2003) ma in linea di massima i giudici dei diritti avevano pacificamente riconosciuto la propria giurisdizione, confermata poi CONTENZIOSO NAZIONALE 189 dalla legge c.d. Bossi-Fini (189/2002) e dal successivo regolamento di attuazione (dpr 16 settembre 2004 n. 303). Attualmente la materia è regolata dal d.lgs. 19 novembre 2007 n. 252 che ha attuato la direttiva 2004/83/CE e dal d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 di attuazione della direttiva 2005/85/CE. Il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria comportava talune conseguenze, legate alla diversa natura dei poteri dei due giudici. La giurisdizione amministrativa in materia di stato di rifugiato era infatti sempre stata considerata giurisdizione generale di legittimità con la conseguenza che il giudice amministrativo, accertata la presenza di un vizio anche solo formale dell’atto con cui si respingeva la domanda diretta ad ottenere lo stato di rifugio, lo annullava ma la palla ritornava nel campo dell’Amministrazione che poteva ancora emettere un nuovo provvedimento negativo, emendato del vizio formale che aveva causato il precedente annullamento. Il giudice ordinario invece doveva entrare necessariamente nel merito del rapporto, concludendo il proprio esame con una decisione di riconoscimento dello stato di rifugiato o di rigetto della domanda. Ma ciò comportava che i vizi formali compiuti, per esempio nell’istruttoria o nella motivazione, diventavano irrilevanti. Così se l’atto di diniego era in ipotesi gravemente viziato sotto il profilo della motivazione o per la circostanza che il richiedente non era stato convocato per l’audizione, il giudice ordinario comunque non avrebbe potuto per ciò solo dichiarare che l’interessato era un rifugiato politico. Comunque si doveva (e deve) procedere al fine di accertare se effettivamente il soggetto era stato o meno perseguitato. Quindi la deduzione di vizi formali compiuti dall’autorità diventava inutile. In linea di principio i giudici ordinari se la sono sempre cavata respingendo le deduzioni degli avvocati fondate su vizi formali dell’atto; in molti casi emerge però in maniera esplicita la consapevolezza che il giudice ordinario è giudice non dell’atto ma del rapporto con le conseguenze che ne derivano. In secondo luogo mutava l’apprezzamento del requisito della persecuzione personale e diretta previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Un conto infatti era limitarsi a sindacare, da parte del giudice amministrativo, il corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione nel valutare l’esistenza della persecuzione, un altro invece accertare direttamente quella stessa persecuzione indipendentemente dalle valutazioni operate dalla Commissione. Il giudice ordinario si veniva quindi a trovare dinanzi al problema della prova della persecuzione e come risultato del diverso approccio emergeva in maniera netta un principio che in giurisprudenza veniva definito dell’onere probatorio attenuato. Si diceva infatti che chi fugge da un Paese in circostanze drammatiche ben difficilmente può essere in grado di fornire una piena prova delle persecuzioni subite; pertanto il rigoroso principio previsto dall’art. 2697 c.p.c, secondo il quale chi deduce un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, doveva necessariamente subire un’atte- 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 nuazione. Il fondamento normativo di questo principio veniva ravvisato nell’art. 1 comma 5 del dl. 416/89 convertito nella legge 39/90 che stabiliva che lo straniero che intendeva entrare nel territorio dello Stato per essere riconosciuto rifugiato doveva rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata all’ufficio di polizia di frontiera. Da tale inciso “in quanto possibile documentata”, relativo alla domanda di rifugio, si deduceva che l’onere della prova a carico del richiedente risultava, nella materia di cui si tratta, stemperato, cioè meno rigoroso. Così mentre la giurisprudenza amministrativa, salvo talune eccezioni, si esprimeva in generale nel senso dell’onere per lo straniero di fornire tutte le prove necessarie a legittimare il riconoscimento dello status di rifugiato (Tar Lombardia Milano sez. I 17 luglio 2003 n. 3617) nella giurisprudenza ordinaria trovava ampio riconoscimento il diverso principio dell’attenuazione dell’onere probatorio. Sull’esatta portata del principio, cioè fino a che punto si poteva estendere l’ attenuazione, sorgevano però divergenze. Infatti parte della giurisprudenza giungeva all’attribuzione dello stato di rifugiato, prendendo in considerazione da un lato le dichiarazioni del richiedente, dall’altro la generale situazione politica del Paese di provenienza basandosi su documenti di organizzazioni internazionali quali ad esempio Amnesty International. In particolare si sosteneva (in una pronuncia ripresa da gran parte della giurisprudenza) che “se il racconto del richiedente appare credibile, anche in base alla notorietà di fatti ed avvenimenti non strettamente personali, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio a meno di valide ragioni in contrario (Corte d’Appello di Catania decreto 1/22 marzo 2002). Tale impostazione veniva contestata dall’Avvocatura dello Stato la quale in sede di impugnativa delle decisioni di primo grado dei tribunali poneva le basi per l’affermazione di un orientamento diverso secondo il quale, pur confermandosi il principio dell’attenuazione dell’onere probatorio, si richiedeva quantomeno la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti per ritenere sussistente la persecuzione. Secondo questa nuova impostazione per quanto sia vero che, in siffatte situazioni, l’onere probatorio debba necessariamente atteggiarsi al ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove, … rimane il fatto che un minimo di prova, che vada oltre il mero stato di verosimiglianza dell’assunto, è di per sé richiesto dalla legge (Corte d’Appello di Firenze 13 aprile 2004). Tale orientamento trovava l’avvallo della Suprema Corte che, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva negato rilevanza alle sole dichiarazioni del ricorrente in relazione alla situazione del Paese, osservava che in tal modo la Corte di merito non avrebbe imposto una diabolica prova rigorosa della persecuzione e che correttamente si era escluso il ricorso al “fatto notorio” in quanto lo status di rifugiato potrebbe spettare solo a colui che versi nel fondato timore di essere personalmente perseguitato (Cass. 2 febbraio 2005 n. 2091 confermativa di App. Firenze 12 giugno 2003). Allo stesso modo Cass. 2 dicembre 2005 CONTENZIOSO NAZIONALE 191 n. 26277 (confermativa di App. Firenze del 13 aprile 2004) affermava che, pur potendosi ammettere che l’onere della prova dei requisiti dello stato di rifugiato fosse da valutarsi con rigore minore, non erano però sufficienti le dichiarazioni dell’interessato, le attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio, il riferimento a situazioni politico-economiche di dissesto del paese di origine o a persecuzioni nei confronti di non specificate etnie di appartenenza o il richiamo al fatto notorio, non accompagnato dall’indicazione di specifiche circostanze riguardanti direttamente il richiedente. Di fronte alle difficoltà di ordine probatorio, la giurisprudenza più favorevole al riconoscimento dello stato di rifugiato cambiava strada, ricorrendo in modo massiccio alla figura dell’asilo politico cd. costituzionale, previsto dall’art. 10, 3° comma Cost. che stabilisce che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Questa giurisprudenza a partire da un certo momento cominciava a respingere la domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato, fondata sugli stessi presupposti sui quali in precedenza si esprimeva in senso favorevole, accogliendo invece la domanda subordinata di concessione dell’asilo politico ex art. 10 Cost.. Così mentre Trib. Firenze 10 giugno 2003 n. 27 dichiarava lo stato di rifugiato di un eritreo, osservando che il richiedente risultava essere membro del Peoples Democratic Front for the Liberation of Eritrea e che dal rapporto 2002 di Amnesty International emergeva una situazione in Eritrea di non perfetto rispetto dei diritti umani, Trib. Firenze 17 dicembre 2003 n. 47 in un caso esattamente identico respingeva viceversa la domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato per mancanza di idonei elementi di prova ma accoglieva la richiesta di asilo politico in quanto l’Eritrea non aveva ancora dato attuazione al principio del rispetto delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Allo stesso modo veniva accolta la domanda di asilo politico di un cittadino moldavo sulla base che nella Repubblica di Moldova secondo il rapporto annuale di Amnesty International vengono sottolineate violazioni all’esercizio del diritto di difesa, maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine, trattamenti disumani nei confronti dei detenuti, utilizzo di mezzi illegali nella ricerca delle prove (Trib. Torino 15 ottobre 2003 n. 7070); veniva respinta la domanda di riconoscimento di stato di rifugiato da parte di un sudanese, venendogli però concesso l’asilo politico in quanto dal rapporto di Amnesty International risultavano gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle parti in conflitto nei confronti dei civili che vivono nelle zone petrolifere del Sudan (Trib. Milano 9 marzo 2004 n. 3252); lo stesso accadeva nei riguardi di un palestinese residente in Cisgiordania di cui, respinta la domanda di rifugio, veniva dichiarato il diritto all’asilo politico sulla base del presupposto che l’occupazione israeliana di quelle aree avrebbe comportato una limitazione all’esercizio dei diritti fondamentali dei residenti palestinesi sotto molteplici 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 profili in cui tali libertà si estrinsecano, quale ad esempio la libertà di circolazione, talvolta inibita con la imposizione di coprifuoco ed il blocco di villaggi e città (Trib. Firenze 16 novembre 2004 n. 36). Di fronte al nuovo indirizzo giurisprudenziale, in astratto applicabile a qualunque soggetto che vivesse in un ordinamento privo delle garanzie democratiche del nostro anche se egli in ipotesi non avesse nulla da temere dal Paese di provenienza, l’Avvocatura reagiva, ottenendo una serie di decisioni della Corte di Appello di Firenze (che trovavano anche ampio spazio sulla stampa non specializzata come ad esempio il Sole 24 Ore del 28 maggio 2004), che si pronunciava nel senso della non precettività dell’art. 10 3° comma Cost., rispolverando un orientamento che ormai si riteneva decisamente superato. Infatti, dopo alcune decisioni degli anni 50 del Consiglio di Stato (v. 208/52), che negavano la precettività della norma, a partire da una decisione della Corte d’Appello di Milano (27 novembre 1964), si era affermata l’opinione che la disposizione fosse immediatamente applicabile. Malgrado qualche decisione discordante (Trib. Roma 13 febbraio 1997) il problema sembrava definitivamente risolto da Cass. Sez. un. 4674/97 secondo cui la disposizione costituzionale affermava con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie del diritto d’asilo indipendentemente da una normativa di attuazione. Si riteneva che con tale decisione la Suprema Corte si fosse pronunciata chiaramente e definitivamente nel senso della precettività dell’art. 10 3° comma Cost.; essa veniva citata in tutte le sentenze della giurisprudenza in tema di asilo politico al fine di sostenere che la Costituzione attribuiva un diritto perfetto all’asilo allo straniero che si trovasse nelle condizioni previste dall’art. 10, cioè gli fosse impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, per cui una legge ordinaria che stabilisse le condizioni per l’esercizio di quel diritto non era condizione di esistenza dello stesso ma solo fonte di un’eventuale disciplina di dettaglio. Anche la dottrina era del resto da tempo su questa posizione. L’orientamento della Corte d’Appello fiorentina che si poneva nel senso di negare la natura precettiva dell’art. 10 3° comma Cost. andava quindi contro giurisprudenza e dottrina pacifiche. Secondo la Corte non si vede come si possa seriamente fare prontezza di ospitare nel nostro striminzito e già stipato territorio tutti i popoli della terra viventi sotto sistemi democraticamente più restrittivi del nostro e che, ad occhio e croce, dovrebbero assommare a non meno di due o tre miliardi di potenziali ospiti (Corte Appello Firenze 16 agosto 2004). Per i giudici fiorentini del resto la Suprema Corte nella citata decisione 4674/97 non avrebbe affatto sostenuto integralmente il carattere precettivo della disposizione costituzionale; infatti avendo la Cassazione affermato che, in mancanza di una legge di attuazione del precetto di cui all’art. 10 comma 3 Cost., allo straniero che chiedeva il diritto d’asilo veniva garantito solo l’ingresso nello Stato, a differenza del rifugiato politico a cui spetterebbe, in base CONTENZIOSO NAZIONALE 193 alla Convenzione di Ginevra, uno status di particolare favore, la Corte fiorentina ne deduceva che la Suprema Corte avrebbe affermato il carattere precettivo della norma solo per quanto riguardava il diritto dello straniero ad entrare in Italia per chiarire le proprie ragioni mentre avrebbe escluso tale carattere in relazione al diritto di restare una volta chiarita la sua provenienza da un regime meno libertario del nostro. Ne derivava, secondo la Corte, che la figurazione di un diritto di asilo consistente nella facoltà di entrare, ma non in quella di restare, sembra essere un giuoco di parole per far capire, senza dirlo, che in realtà il diritto di asilo democratico, come lo pensava il costituente, in Italia non c’è (App. Firenze 13 aprile 2004, App. Firenze 9 maggio 2005). Restava da vedere cosa avrebbe detto la Suprema Corte. Ebbene la Corte di Cassazione, pur discostandosi formalmente dall’impostazione dei giudici fiorentini, che si erano espressi nel senso di negare natura precettiva all’art. 10 comma 3 Cost., arrivava sostanzialmente alle stesse conclusioni, giungendo a negare la possibilità di invocare l’art. 10 Cost. come norma attributiva di un diritto a sé stante diverso dal rifugio politico. Secondo la Suprema Corte infatti l’art. 10 Cost. avrebbe trovato attuazione attraverso l’emanazione di leggi i cui destinatari sono i richiedenti l’asilo politico, che viene conferito con la formula del “rifugio politico”. D’altro canto dire che il diritto d’asilo comporta solo il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per la durata della procedura volta al riconoscimento dello stato di rifugiato, significa negargli totalmente qualunque contenuto, visto che il rilascio di tale permesso è già previsto dalla normativa sullo stato di rifugio. In altre termini apparentemente la Suprema Corte richiamava se stessa e le decisioni sulla precettività e immediata applicabililità dell’art. 10, 3° comma Cost., per poi pervenire comunque alle medesime conclusioni della Corte di Firenze che aveva negato tali attributi alla norma costituzionale. A questo punto viene meno ogni distinzione tra stato di rifugio e asilo politico e quindi l’unico presupposto valido per ottenere protezione dal nostro ordinamento è esclusivamente la persecuzione personale e diretta del richiedente. Questa posizione veniva espressa da Cass. 25 novembre 2005 n. 25028 (resa su App. Firenze 17 febbraio 2004), da Cass. 23 agosto 2006 n. 18353 (su App. Firenze 16 agosto 2004), da Cass. 25 agosto 2006 n. 18549 (su App. Firenze 11 febbraio 2005). Dopo il 2006 non risultano altre pronunce, essendosi la giurisprudenza di merito adeguata alla Suprema Corte. Avv. Stefano Pizzorno* (*) Avvocato dello Stato. I P A R E R I D E L C O M I TAT O C O N S U LT I V O A.G.S. - Parere del 22 ottobre 2010 prot. 324202 - avv. Fabrizio Fedeli, AL 6158/10. «Incarico di consulenza legale in via breve conferito ad avvocato dello Stato. Applicabilità art. 17, comma 30, D.L. 1° luglio 2009 n. 78, convertito in Legge 3 agosto 2009 n. 102» Codesta Avvocatura Distrettuale ha domandato l’avviso della Scrivente in merito alla necessità che gli incarichi conferiti dalle Università degli Studi agli avvocati dello Stato siano sottoposti al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. I commi 30 e 30 bis dell’art. 17 del D.L. n. 78 del 1° luglio 2009, convertito con modificazioni in legge n. 102/2009, hanno rispettivamente modificato il comma 1 dell’art. 3 e introdotto il comma 1 bis dello stesso art. 3 della Legge 14 gennaio 1994, n. 20. La prima modifica ha inserito: - alla lett. f) bis del citato art. 3 comma 1 il controllo sugli atti e contratti riguardanti incarichi individuali di cui all’art. 7 comma 6 del D.Lgs. n. 165/2001, conferiti mediante “contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria”; - alla lett. f) ter il controllo su incarichi di studio, consulenza e ricerca, conferiti a soggetti estranei alle pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 1 comma 9 della Legge 23 dicembre 2005, n. 266. La seconda modifica ha poi previsto, al citato art. 3 comma 1 bis della L. n. 20/1994, per le due ipotesi suddette, la competenza al controllo “in ogni caso della Sezione centrale del controllo di legittimità”. La deliberazione n. 20/2009 della Sezione centrale del controllo aveva escluso che il comma 30 dell’art. 17 potesse riferirsi agli enti locali territoriali e alle loro varie articolazioni, nonostante la norma menzionasse genericamente 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 le “pubbliche amministrazioni” di cui all’art. 1, 2° comma, del D.Lgs. n. 165/2001; con la successiva deliberazione n. 24/2009, la medesima Sezione ha ritenuto che il controllo preventivo di legittimità previsto dall’art. 17, commi 30 e 30-bis, del D.L. n. 78/2009 debba invece essere esercitato nei confronti degli atti e contratti riguardanti le collaborazioni coordinate e continuative e gli incarichi di consulenza, studio e ricerca, delle Università e degli altri enti di ricerca scientifica e tecnologica di cui alla Legge 9 maggio 1989, n. 168. La questione interpretativa sottoposta alla Scrivente consiste nello stabilire se il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sugli incarichi di studio e consulenza conferiti a soggetti estranei alle pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 9 comma 1 della Legge 23 dicembre 2005, n. 266, sia obbligatorio solo qualora il soggetto incaricato non si trovi in rapporti di pubblico impiego con alcuna amministrazione pubblica, oppure sia richiesto nei casi in cui il destinatario dell’incarico, pur essendo un pubblico dipendente, non sia legato da rapporto di impiego con l’Amministrazione presso la quale è stato conferito l'incarico. Ad avviso della Scrivente anche gli incarichi conferiti a dipendenti di Amministrazioni diverse da quella che li conferisce devono essere sottoposti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. In tal senso depone la circostanza che l’articolo 1, comma 9, della Legge 23 dicembre 2005, n. 266, è stato modificato prima dall'art. 27, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e poi dal comma 2 dell'art. 61, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come sostituito dalla relativa legge di conversione (L. 6 agosto 2008 n. 133) e con la decorrenza indicata nel comma 3 dello stesso articolo 61, “Al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, riducendo ulteriormente la spesa per studi e consulenze” così da aggiungere nella parte finale della norma il seguente periodo: <>. A seguito dell’aggiunta apportata all’articolo 1, comma 9, della Legge 23 dicembre 2005, n. 266 e della ratio dichiarata dal legislatore “di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, riducendo ulteriormente la spesa per studi e consulenze” (art. 61 comma 2 D.L. 112/2008), non sembra potersi escludere che le consulenze che rientrano nella sfera di applicazione della norma e che debbano essere sottoposte al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti siano anche quelle conferite a pubblici dipendenti di amministrazioni diverse da quella che conferisce l’incarico, ivi compresi, quindi, gli incarichi di consulenza conferiti agli avvocati dello Stato. Si segnala, per quanto occorrer possa, che la Corte costituzionale con la sentenza n. 172/2010, nell'affrontare la questione dell'ampliamento del sistema del controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti agli atti e contratti I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 di cui all'art. 7, comma 6 del D.Lgs. 165/2001, nonché ad atti e contratti concernenti studi e consulenze di cui all'art. 1, comma 9 della Legge 266/2005, nella sua nuova formulazione introdotta dall'art. 17, commi 30 e 30-bis, del Decreto-Legge 1° luglio 2009, n. 78 convertito in Legge 3 agosto 2009, n. 102, ha affermato che l'ambito soggettivo delle disposizioni contenute nelle lettere f) bis e f) ter dell'art. 3, comma 1, della Legge n. 20 del 1994 vede come destinatari esclusivamente lo Stato o le Amministrazioni centrali, palesando un indirizzo interpretativo diverso da quello della Sezione del controllo della Corte dei conti che, con deliberazione n. 24/2009, ha invece ritenuto che il controllo preventivo di legittimità previsto dall’art. 17, commi 30 e 30-bis del D.L. n. 78/2009 si eserciti nei confronti degli atti e contratti riguardanti le collaborazioni coordinate e continuative e gli incarichi di consulenza, studio e ricerca, delle Università e degli altri enti di ricerca scientifica e tecnologica di cui alla legge 9 maggio 1989 n. 168. La Corte costituzionale è stata chiamata a pronunziarsi in materia dalla Regione Veneto, che aveva proposto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 30 e 30-bis in esame, con riferimento agli artt. 3, 97, 100, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione, nell’assunto che le nuove norme dovessero intendersi come direttamente applicabili anche alle Regioni. Orbene, il Giudice delle leggi ha dichiarato inammissibile la questione sollevata, escludendo che l’assunto della Regione potesse essere condiviso. La Corte Costituzionale ha ritenuto, in particolare, che con l’inserimento nell’art. 3 comma 1 della L. n. 20/1994 delle lettere f-bis) e f-ter) il Legislatore non avrebbe inteso modificare l’ambito soggettivo delle amministrazioni i cui atti sono da sottoporre a controllo considerato, tra l’altro, che le due previsioni aggiuntive costituiscono un’ulteriore articolazione della lettera f), la quale si riferisce ad atti delle sole amministrazioni statali. Una diversa interpretazione, sempre secondo il Giudice delle leggi, risulterebbe contraddittoria con una lettura sistematica dell’impianto normativo in materia. Pertanto, nell’inviare l’atto al controllo, l’Università - ove lo ritenesse - potrebbe sollevare la questione pregiudiziale della competenza della Sezione richiamando il recente pronunciamento della Consulta. Sulla questione oggetto del presente parere è stato sentito l’avviso del Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 A.G.S. - Parere del 25 ottobre 2010 prot. 325776 - avv. Stefano Varone, AL 33977/10. «Collocamento a riposo del personale dirigenziale. Parere in ordine all’art. 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 come modificato dall’art. 17 comma 35 novies della l. 102/2009» Si riscontra la nota in oggetto con la quale viene richiesto parere in merito ai provvedimenti giudiziali che hanno disposto la reintegra di personale dirigenziale collocato a riposo ai sensi dell’art. 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 6 agosto 2008, n. 133). In particolare codesta Amministrazione, premesso che alcune ordinanze, rese in sede cautelare, hanno disposto il reintegro in servizio di alcuni dirigenti, ha evidenziato: a) che gli stessi hanno comunque già incassato la liquidazione e percepito la pensione; b) che l’eventuale reintegro comporterebbe una palese discriminazione con i lavoratori che si sono visti negare, in sede giudiziale, lo stesso diritto; c) che l’esame del merito è previsto per il prossimo mese di novembre; d) che all’Amministrazione è stato notificato un atto di diffida ad adempiere entro trenta giorni. Si chiede pertanto parere “in merito alla linea di condotta che l’Amministrazione deve seguire al fine di evitare una disparità di trattamento tra lavoratori nella medesima situazione e quali eventuali profili di responsabilità penale, amministrativa e contabile possano profilarsi qualora l’Amministrazione dovesse attendere l’esito del merito dei giudizi definiti in fase cautelare”. Ritiene la scrivente che, per verificare i possibili comportamenti da adottare in seguito ai provvedimenti giudiziali, risulta opportuna una ricognizione della normativa regolante la fattispecie, anche al fine di valutare, in via prognostica, il possibile esito delle cause in sede di merito. Al riguardo il comma 11 dell’ articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, successivamente modificato dall’art. 17 comma 35 novies della l. 102/2009 prevede che «Per gli anni 2009, 2010 e 2011, le pubbliche amministrazioni di cui all’ articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, possono, a decorrere dal compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni del personale dipendente, nell’esercizio dei poteri di cui all’ articolo 5 del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro e il contratto individuale, anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici. Con appositi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, pre- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 via deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze, dell’interno, della difesa e degli affari esteri, sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei princìpi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza, difesa ed esteri, tenendo conto delle rispettive peculiarità ordinamentali. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche nei confronti dei soggetti che abbiano beneficiato dell’ articolo 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano ai magistrati, ai professori universitari e ai dirigenti medici responsabili di struttura complessa». Premesso che non paiono residuare dubbi in ordine alla devoluzione al giudice del lavoro delle eventuali controversie correlate all’applicazione della norma in riferimento ai dipendenti pubblici in regime contrattuale, (trattandosi di questioni relative al rapporto di lavoro in relazione alle quali l’amministrazione agisce con poteri di natura analoga a quelli riconosciuti ai datori di lavoro privati), occorre prendere atto della circostanza che finora la giurisprudenza (anche al di fuori del foro romano) ha fornito divergenti letture in ordine ai criteri applicativi della disposizione. Secondo alcune pronunce (fra le quali si può citare Tribunale di Firenze, ord. 18 dicembre 2009) la facoltà di risoluzione deve essere esercitata dalla pubblica amministrazione nei limiti generali della correttezza e buona fede che presidiano l’esecuzione di qualsiasi contratto, nonché nell’ambito dei principi costituzionali di imparzialità e correttezza dell’azione amministrativa imposti dall’art. 97 cost. Ne conseguirebbe che nell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro di un dirigente con incarico in corso “l’amministrazione dovrebbe esporre le motivate ragioni organizzative e gestionali in relazione ai processi di riorganizzazione generale in atto, come previsto dalle circolari e dagli atti di indirizzo ministeriali, che costituiscono specificazione - cui la stessa amministrazione si autovincola - dei criteri generali che devono presiedere all’esercizio di una facoltà discrezionale” (analogamente Trib. Reggio Emilia, ord. 12 gennaio 2009). Tale tesi potrebbe trovare conforto nell’assimilazione della fattispecie all’istituto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il che consentirebbe un controllo giudiziale, sia pure estrinseco, sulle ragioni dell’interruzione del rapporto. Altre pronunce hanno invece privilegiato una diversa e più ampia lettura della disposizione. In tal senso si è affermato che la facoltà di collocamento a riposo non è limitata dalle ragioni organizzative e gestionali necessarie per procedere alla revoca degli incarichi dirigenziali secondo la disciplina del contratto collettivo (Tribunale Potenza, 9 ottobre 2009; nello stesso senso Trib. Roma, ord. 14 settembre 2009), conferendo pertanto ampia libertà alle amministrazioni. 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Dato atto del contrasto giurisprudenziale, a parere della scrivente occorre considerare che la facoltà risolutoria non va a concretizzare l’esercizio di discrezionalità amministrativa, bensì dei poteri del privato datore di lavoro. Se quindi è da escludere la legittimità di un controllo diretto ed intrinseco del giudice sull’esercizio delle scelte organizzatorie dell’amministrazione esercitate “a monte” (in primis la determinazione degli organici), la circostanza che i poteri del datore di lavoro debbano essere esercitati nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede (ex plurimis Cass., sez. un., ord. 23 gennaio 2004 n. 1252), oltre che di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost., legittima un controllo di coerenza fra le scelte di macro-organizzazione e l’adozione dei provvedimenti attuativi, ivi compreso l’esercizio della facoltà risolutoria in questione. In tal senso si è d’altronde pronunciata anche la circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 10/208 la quale ha ritenuto “auspicabile che ciascuna Amministrazione, prima di procedere all’applicazione della disciplina, adotti dei criteri generali, calibrati a seconda delle proprie esigenze, in modo da seguire una linea di condotta coerente e da evitare comportamenti che conducano a scelte contraddittorie. Analogamente a quanto detto a proposito dei trattenimenti in servizio, tali criteri si configurano quale atto di indirizzo generale e quindi dovrebbero essere contenuti nell’atto di programmazione dei fabbisogni professionali o comunque adottati dall’autorità politica”. Le linee generali di condotta poste in essere da codesta Amministrazione sono state d’altronde dettate con circolari 18 novembre 2008 e 14 settembre 2009, ove si è espressamente fatto riferimento ad esigenze di riduzione degli organici nella misura indicata dalla normativa primaria. Per il futuro appare pertanto quantomeno auspicabile che gli atti organizzatori precedano cronologicamente gli atti di risoluzione dei rapporti lavorativi in quanto, se è vero che nell’ambito degli artt. 72 e 74 del d.l. n. 112/2008 la scansione temporale fra ridefinizione delle piante organiche e provvedimenti di collocamento a riposo non è espressamente contemplata, tuttavia la norma prevede espressamente che la stessa sia effettuata nell’esercizio dei poteri di cui all’articolo 5 del decreto legislativo n. 165 del 2001; visto anche il rinvio ivi operato all’art. 2 comma 1 del medesimo decreto legislativo, parrebbe pertanto avvalorata la tesi della previa necessaria adozione degli atti di rideterminazione degli organici. Va aggiunto che il collocamento a riposo, qualora non se ne dimostri l’oggettiva ed indiscriminata applicazione a tutti i dipendenti che si trovino nella medesima situazione, potrebbe essere ritenuta in contrasto con i principi di garanzia della posizione dirigenziale più volte enfatizzati dalla Corte costituzionale, la quale ha sottolineato la diretta strumentalità all’art. 97 Cost. della stabilità del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici (ex plurimis Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103 e 24 ottobre 2008, n. 351). I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 Ciò si traduce, per quanto attiene alla gestione del contenzioso in essere, in primo luogo nella necessità di comprovare, anche in sede di merito, quanto affermato a pag. 3 della richiesta di parere, ovverosia che tutto il personale dirigenziale in possesso dell’anzianità contributiva prevista è stato collocato a riposo, fornendo ampio supporto probatorio a tale dato. In secondo luogo risulterà necessario fornire in giudizio, indipendentemente dall’intervenuta adozione della previa motivazione dell’atto di recesso, la prova della coerenza dell’atto di risoluzione con le scelte organizzatorie in tema di riduzione degli organici, anche tramite la produzione di degli atti formali successivamente adottati in tema di piante organiche. Per quanto attiene ai provvedimenti cautelari sfavorevoli per l’Amministrazione, in ordine ai quali sia esaurita la fase di reclamo (o la stessa non sia stata attivata nei termini), andrà verificato, caso per caso, se ricorrano i presupposti per poter formulare una richiesta di revoca o modifica del provvedimento cautelare sulla base di nuove circostanze; queste ultime possono essere rappresentate dall’adozione degli atti di rideterminazione della pianta organica, da produrre in ogni caso in giudizio al fine di dimostrare la coerenza fra le determinazioni assunte dall’amministrazione all’atto del collocamento a riposo e l’attuazione dei piani di riduzione del personale. In tale sede potrebbero anche essere allegate, “ad colorandum” le circostanze sottolineate da codesta amministrazione in merito al fatto che la reintegra riguarderebbe comunque soggetti, che hanno comunque già percepito il trattamento di fine servizio e iniziato a percepire il trattamento pensionistico. Si tratta infatti di profili che non potrebbero rilevare autonomamente quali requisiti ostativi all’esecuzione dei provvedimenti giudiziali, anche in ragione del fatto che una differente regolamentazione di analoghe situazione a seguito di pronunce giurisprudenziali difformi è un evento fisiologico del sistema, peraltro ben noto al legislatore che, non a caso, ha più volte provveduto a vietare l’estensione a soggetti non ricorrenti del giudicato su questioni favorevoli ai lavoratori. Tuttavia la deduzione degli stessi potrebbe indurre il giudicante, valutate le sopra delineate sopravvenienze, a più favorevoli determinazioni. Sempre in merito all’esecuzione dei provvedimenti cautelari, qualora l’ordine del giudice espressamente preveda la reintegra nel medesimo incarico, una possibile strada potrebbe essere quella di promuovere un incidente di esecuzione ex art. 669 duodecies cpc, nell’ambito del quale dedurre l’incidenza del provvedimento sui poteri organizzatori dell’amministrazione, sottolineando pertanto la necessità che lo stesso debba essere comunque eseguito non già tramite assegnazione del soggetto alle precedenti mansioni, bensì a mansioni equivalenti. Ciò in considerazione del fatto che alcune disposizioni della contrattazione collettiva sembrano escludere un obbligo di conferimento del medesimo incarico. Si fa riferimento all’art. 18 del CCNL della Presidenza, area dirigenziale, del 4 agosto 2010, il quale, nel quadro del capo dedicato alle 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sanzioni disciplinari, prevede che “La Presidenza, a domanda, reintegra in servizio il dirigente illegittimamente o ingiustificatamente licenziato dalla data della sentenza che ne ha dichiarato l’illegittimità o la ingiustificatezza, anche in soprannumero nella medesima sede o in altra su sua richiesta, con il conferimento allo stesso di un incarico di valore equivalente a quello posseduto all’atto del licenziamento. Al dirigente spetta, inoltre, il trattamento economico che sarebbe stato corrisposto nel periodo di licenziamento, anche con riferimento alla retribuzione di posizione in godimento all’atto del licenziamento”. Passando ad esaminare le possibili conseguenze in ordine alla mancata ottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra, non si ritiene di poter addivenire a soluzioni univoche in merito ai possibili rilievi penali della vicenda. È vero infatti che la Cassazione, con la sentenza 27 gennaio 2005, n. 2603, ha escluso il ricorrere della fattispecie di cui all’art. 650 cp (Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) “nel comportamento del datore di lavoro, destinatario di un ordine di reintegrazione emesso dal giudice civile in base all’art. 18 St. lav. ovvero ex art. 700 c.p.c., che ometta di reintegrare immediatamente il lavoratore nel posto di lavoro”, richiamando altresì l’analogo precedente di cui alla Cassazione, Sez. 3°, 23 giugno 1975. Si tratta di precedenti che potrebbero essere valorizzati nell’ambito di ipotetici giudizi, ma, trattandosi di profili interpretativi non è da escludere che la giurisprudenza possa addivenire a differenti e più sfavorevoli letture delle norme di riferimento. Le medesime conclusioni possono valere in relazione al possibile inquadramento della fattispecie nell’ambito dell’art. 388 c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) lì dove, al secondo comma, individua la condotta penalmente rilevante nell’elusione della “esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che … prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”. L’inottemperanza penalmente sanzionata, giusto il principio di tassatività, e il riferimento alle misure a difesa della proprietà, del possesso o del credito, sembrerebbe escludere l’applicazione al caso di specie, così come un comportamento meramente omissivo non dovrebbe essere sufficiente ad integrare la fattispecie, (in tal senso Cass. Sez. VI, sent. n. 879 del 6 giugno 1981: “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 388 cod. pen., è sempre necessario un comportamento attivo o commissivo diretto a frustrare o quanto meno a rendere difficile l’esenzione del provvedimento giudiziale, non essendo sufficiente un comportamento meramente omissivo” nella specie, è stato ritenuto proprio che l’inottemperanza dell’imprenditore alla sentenza di reintegra di un dipendente nel posto di lavoro non rientra nella previsione dell’art. 388 cod. pen. Anche in tal caso tuttavia non è possibile giungere a conclusioni univoche, trattandosi di profili interpretativi delle norme di riferimento, ed il ragionamento potrebbe essere esteso in relazione alla fattispecie del rifiuto od I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 omissione di atti d'ufficio di cui all’art. 328 c.p. (in ordine al quale non sembrano sussistere precedenti giurisprudenziali riferibili a casi analoghi a quello ora in esame). Per quanto attiene al piano prettamente civilistico, occorre considerare che la mancata esecuzione del provvedimento può legittimare l’interessato a formulare istanze risarcitorie. Va tuttavia precisato che il riconoscimento del diritto sarebbe comunque subordinato all’accoglimento nel merito del ricorso e che andrebbe in ogni caso detratto l’aliunde perceptum (nel caso di specie rappresentato dal trattamento pensionistico). Sempre in caso di esito sfavorevole (per l’amministrazione) non si può tuttavia escludere a priori la richiesta di ulteriori poste risarcitorie, anche a titolo di danno non patrimoniale, la cui eventuale condanna a carico dell’amministrazione potrebbe concretizzare un danno erariale. Il presente parere è stato adottato su delibera del comitato consultivo nell’adunanza del 15 ottobre 2010. A.G.S. - Parere del 10 novembre 2010 prot. 343835 - dott. Carmela Pluchino, AL 28881/10. «Parere in merito alla possibilità: 1) per la società consortile costituita ai sensi dell’art. 96 del D.P.R. 554/1999 di sottoscrivere un contratto di subappalto; 2) per il Consorzio stabile capogruppo dell’ATI aggiudicataria di non partecipare alla società consortile, costituita soltanto dalla mandante e da due consorziate designate in via esclusiva dal Consorzio medesimo per l’esecuzione dei lavori» Codesta Società ha sottoposto alla Scrivente due quesiti, coinvolgenti diversi profili, dettati dalla necessità di assicurare una uniformità di condotta a livello nazionale e di evitare interpretazioni della normativa di riferimento che possano incidere in senso riduttivo sul regime della responsabilità e delle garanzie dell’aggiudicataria nei confronti della Stazione appaltante. 1) Con il primo quesito si chiede se sia ammessa la possibilità per la società consortile costituita per l’esecuzione unitaria dei lavori dall’ATI aggiudicataria, ai sensi dell’art. 96 del D.P.R. n. 554/99, di stipulare contratti di subappalto. In caso di risposta affermativa, con quali modalità debba essere richiesta l’autorizzazione al subappalto alla Stazione appaltante e quali cautele debbano essere adottate con riferimento ai possibili inadempimenti della società consortile. La Scrivente, per le considerazioni che di seguito si espongono, ritiene che: 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 a) la società consortile costituita per l’esecuzione unitaria dei lavori appaltati sia legittimata a stipulare contratti di subappalto; b) l’autorizzazione al subappalto debba comunque essere richiesta dall’ATI aggiudicataria; c) la Stazione appaltante, autorizzando l’ATI aggiudicataria, continua ad essere garantita dalla stessa nel caso di eventuali inadempienze della società consortile. Va preliminarmente affermato che non appare condivisibile la tesi secondo la quale, una volta costituita la società consortile per l’esecuzione totale (o anche solo parziale) del contratto (dei lavori), questa non possa a sua volta affidare a terzi subappaltatori detta esecuzione, opponendosi a tale possibilità il principio che vuole che “nemo in alium transferre potest plus iuris quem ipse habet”. Una volta infatti affidata alla società consortile l’esecuzione dei lavori, ancorchè detta società non divenga titolare del contratto d’appalto, è proprio la titolarità della situazione fattuale di obbligata alla esecuzione dei lavori che legittima l’adozione di tutti gli strumenti idonei a realizzare il compito affidatele. 1.a) Giova innanzitutto distinguere, da un lato, il rapporto intercorrente tra la Stazione appaltante e l’ATI aggiudicataria e, dall’altro, il rapporto tra quest’ultima e la società consortile costituita per l’esecuzione unitaria dei lavori. Le associazioni o raggruppamenti temporanei di imprese rappresentano uno strumento di collaborazione temporanea ed occasionale tra imprese per la partecipazione congiunta alle procedure riguardanti gli appalti pubblici, soprattutto laddove è richiesto l’apporto di capacità tecniche specialistiche, agevolando anche in tal modo l’accesso ad imprese di minori dimensioni. Ciascuna impresa collabora all’esecuzione dell’appalto mantenendo la propria autonomia organizzativa nell’esecuzione della quota assegnata e conservando la propria soggettività giuridica, anche per ciò che concerne gli adempimenti fiscali. Poiché la caratteristica dell’associazione temporanea è quella di non dar luogo ad un nuovo soggetto giuridico o nuovo centro di imputazione, è normativamente richiesto il conferimento di apposito “mandato collettivo” speciale con rappresentanza irrevocabile all’impresa capogruppo, che esprime l’offerta in nome e per conto proprio e dei mandanti ed assume la piena ed esclusiva rappresentanza (processuale e sostanziale) di tutte le imprese nei confronti della Stazione appaltante, per tutti gli atti concernenti l’appalto fino all’estinzione del rapporto, compresa la riscossione del corrispettivo dovuto. Mentre nei confronti della Committente l’associazione si pone come soggetto unitario, nei confronti dei terzi permane l’individualità della singola impresa e quindi può ipotizzarsi una limitata soggettività relativa del I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 raggruppamento (cfr. Corte di Cassazione, 22 ottobre 2003 n. 15807). Una volta costituito il rapporto dunque l’impresa capogruppo, in virtù del mandato suindicato, rimane il solo interlocutore dell’Amministrazione appaltante ed è titolare di tutti i crediti nascenti dall’appalto, con obbligo di versamento alle imprese associate delle rispettive quote. L’art. 23 bis della legge 8 agosto 1977 n. 584, aggiunto con l’art. 12 della Legge 8 ottobre 1984 n. 687, ha consentito alle imprese riunite di costituire tra loro una società anche consortile, che subentra nell’esecuzione unitaria, totale o parziale, dei lavori. Previsione dello stesso tenore è contenuta nell’attuale Regolamento in materia di lavori pubblici. Ed invero, ai sensi dell’art. 96 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554 “Le imprese riunite dopo l’aggiudicazione possono costituire tra loro una società anche consortile, ai sensi del libro V del Titolo V, capi 3 e seguenti del codice civile, per l’esecuzione unitaria, totale o parziale, dei lavori. La società subentra, senza che ciò costituisca ad alcun effetto subappalto o cessione di contratto e senza necessità di autorizzazione o di approvazione, nell’esecuzione totale o parziale del contratto, ferme restando le responsabilità delle imprese riunite ai sensi della Legge. Il subentro ha effetto dalla data di notificazione dell’atto costitutivo alla stazione appaltante, e subordinatamente alla iscrizione della società nel registro delle imprese. Tutte le imprese riunite devono far parte della società, la quale non può conseguire la qualificazione. Nel caso di esecuzione parziale dei lavori, la società può essere costituita anche dalle sole imprese interessate all’esecuzione parziale. Ai soli fini della qualificazione, i lavori eseguiti dalla società sono riferiti alle singole imprese associate, secondo le rispettive quote di partecipazione alla società stessa”. Il “subentro” della società consortile opera limitatamente all’esecuzione dei lavori e non produce alcuna modificazione soggettiva del contratto, non assumendo la società subentrante la veste di parte contrattuale né quella di appaltatore; ne è conferma l’obbligo di tutte le imprese associate di far parte della società medesima, salva l’ipotesi di esecuzione parziale. Con riguardo alla responsabilità è espressamente prevista la responsabilità solidale ed illimitata delle imprese riunite, che mira ad evitare l’attenuazione di responsabilità, limitata al patrimonio, tipica delle società di capitali. Si evidenzia che il rinvio del comma 2 dell’art. 96 alla “legge”, ai fini della individuazione delle responsabilità delle imprese riunite, è attualmente alla previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 37 del Codice dei contratti pubblici (in precedenza l’art. 13, co. 2 dell’abrogata L. n. 109/94 e s.m.i.) che dispone: “L’offerta dei concorrenti associati o dei consorziati determina la 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 loro responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore e dei fornitori”. Le peculiarità sopra individuate comportano che nella fattispecie in esame interlocutore unico, esclusivo e costante della Stazione appaltante rimane l’impresa mandataria alla quale dovranno intestarsi, con effetto liberatorio, i pagamenti dovuti (cfr. Corte dei Conti, sez. contr. 30 maggio 1990, n. 32) ed alla quale spetta, tra l’altro, l’obbligo di dichiarare di aver preso visione dello stato dei luoghi. La giurisprudenza in materia ha chiarito che il passaggio dall’ATI alla società consortile, ossia da una forma associativa ad una società di capitali, comporta all’interno una scelta strutturale che si sovrappone alla forma associativa di cooperazione con mandato senza però successione nel rapporto d’appalto dal momento che la società consortile viene impiegata come strumento di attuazione di una volontà diversa, specificatamente riconosciuta e regolamentata dalla legge (cfr. Corte di Cassazione, sentenza 4 gennaio 2001 n. 77). A tale riguardo nella pronuncia da ultimo indicata si legge che la società consortile mira a “consentire alle imprese riunite di realizzare le opere appaltate, nella forma più semplificata, efficiente ed organica possibile, attraverso uno strumento operativo utile ad assicurare unitarietà alla attività delle consorziate… rafforza ancor più il rapporto associativo che il consorzio di per sé comporta, in conformità allo schema degli artt. 2602 e ss. c.c., e la comunione di scopo corrispondente alla struttura organizzativa adottata assicura la stabilità necessaria a realizzare un autonomo centro di imputazione delle attività svolte, che nell’ATI difetta totalmente e si propone nel consorzio con attività esterna (Cass. 10956/1996; 441/1989) sia pure in forma semplificata e originale rispetto al fenomeno associativo in genere e a quello societario in particolare…”. La norma di cui all’art. 96 succitato lascia infatti immutate le strutture dei due istituti (ATI e società consortile) e separate le loro aree di operatività, conservando - lo si ribadisce - alla capogruppo dell’ATI il ruolo di mandataria nei rapporti con l’Amministrazione appaltante ed attribuendo alla società consortile quello di mera sostituzione nell’attività richiesta per l’esecuzione dei lavori, con le conseguenti obbligazioni per le consorziate beneficiarie di essa, disciplinate dalle norme statutarie. Per le considerazioni sopra espresse e tenuto conto della configurazione giuridica degli istituti di cui si discute, la Scrivente ritiene che la società consortile, in quanto deputata – per espressa previsione normativa – all’esecuzione dei lavori e quindi alla cura di tutti i rapporti giuridici con i terzi che siano connessi all’esecuzione stessa, sia legittimata a stipulare anche contratti di subappalto, rientrando gli stessi nei rapporti posti in essere dalla società di gestione con i soggetti terzi. Quanto affermato trova conferma, oltre che nella prassi, nella giurispru- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 denza in materia dal cui esame emergono frequenti casi di azioni monitorie ed esecutive esperite dai subappaltatori per conseguire il soddisfacimento dei propri crediti, nei confronti delle società consortili, la cui legittimazione passiva non risulta essere posta in discussione. A ciò aggiungasi che anche il quadro normativo di riferimento depone nel senso suindicato, se solo si considera il disposto dell’art. 37, comma 5, del Codice dei contratti che prevede la responsabilità solidale dei concorrenti raggruppati o consorziati, oltre che nei confronti della stazione appaltante, anche “nei confronti del subappaltatore e dei fornitori”: una tale previsione si giustifica soltanto riconoscendo in capo alla società consortile la titolarità a stipulare i contratti in questione; altrimenti non sarebbe stata necessaria la specificazione suddetta. 1.b) D’altra parte, pur riconoscendosi la legittimazione a sottoscrivere i contratti di subappalto, non può non condividersi quanto ritenuto da codesta Amministrazione in ordine all’ autorizzazione alla relativa stipula. Ed infatti la richiesta di autorizzazione al subappalto rimane di esclusiva competenza dell’ATI aggiudicataria, unico interlocutore della Stazione appaltante, anche dopo la costituzione della società consortile, costituente mero strumento operativo cui è affidata l’esecuzione unitaria dei lavori nell’interesse delle imprese riunite (cfr. Corte di Cassazione, 18 giugno 2008 n.16410). 1.c) Per ciò che concerne la richiesta di indicazione delle cautele da adottare con riferimento ai possibili inadempimenti della società consortile, per quanto sopra evidenziato la Stazione appaltante, autorizzando l’ATI aggiudicataria, continua ad essere garantita dalla stessa nel caso di eventuali inadempienze della società consortile, che – come ribadito – quale mero strumento operativo non ha alcun rapporto diretto con la Committente. Ed invero la norma dell’art. 96 suindicato espressamente – come già evidenziato – fa salve “le responsabilità delle imprese riunite ai sensi della legge”. Pertanto, la configurazione giuridica sopra prospettata non pregiudica in alcun modo il regime della responsabilità diretta dell’aggiudicataria per eventuali inadempimenti nei confronti della Stazione appaltante. 2) Il secondo quesito sottoposto alla Scrivente concerne la necessità o meno della partecipazione del Consorzio stabile, capogruppo dell’ATI aggiudicataria, alla società consortile di cui al succitato art. 96, costituita nel caso di specie soltanto dalla mandante e da due consorziate designate in via esclusiva per l’esecuzione dei lavori dal Consorzio stesso (che in sede di gara ha dichiarato di concorrere per quattro consorziate). Si richiede poi di rappresentare le eventuali implicazioni in punto di qualificazione delle imprese consorziate indicate per l’esecuzione ove il consorzio concorrente non esegua poi concretamente, come nel caso di specie, i lavori. La Scrivente ritiene che: 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 a) nel caso di Consorzio stabile che concorre per una o più imprese consorziate è consentita la partecipazione alla società consortile costituita dall’ATI aggiudicataria (di cui il Consorzio fa parte con qualifica di capogruppo) delle sole imprese consorziate individuate quali esecutrici in via esclusiva dei lavori; b) se si fa riferimento alla qualificazione ai fini della partecipazione alla gara, la stessa è disciplinata dalle specifiche norme in materia. Se invece ci si riferisce all’acquisizione della qualificazione per le imprese consorziate indicate in esclusiva come esecutrici dei lavori, a seguito dell’espletamento dei lavori stessi, sembrerebbe logico ritenere che la relativa qualificazione sia limitata alle stesse. 2.a) Al fine di rispondere al primo punto del secondo quesito giova richiamare i referenti normativi in materia, ossia, per quanto concerne la disciplina dei “Consorzi stabili”, l’art. 36 del Codice dei contratti e gli artt. 96 e 97 dell’attuale Regolamento. A tale riguardo il comma 4 dell’art. 96 del Regolamento attualmente in vigore prevede che “Tutte le imprese riunite devono far parte della società, la quale non può conseguire la qualificazione. Nel caso di esecuzione parziale dei lavori, la società può essere costituita anche dalle sole imprese interessate all’esecuzione parziale”. Il dettato normativo non esclude però delle differenziazioni determinate dalle peculiarità della fattispecie in esame. Ed infatti per il Consorzio stabile che ha dichiarato di concorrere per quattro consorziate, delle quali due soltanto poi indicate come esecutrici in via esclusiva dei lavori appaltati, si ritiene legittima la partecipazione alla società consortile (costituita dall’ATI aggiudicataria) delle sole consorziate esecutrici, per le ragioni che di seguito si espongono. Innanzitutto in linea generale si può ritenere, per quanto riguarda la partecipazione dei Consorzi alle gare, che solo a quelli di cui alle lettere b) e c) dell’art.10 della Legge quadro (ora art. 34 del Codice dei contratti), rispettivamente i Consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro e i Consorzi stabili, è consentito indicare per quali consorziati concorrere; mentre per gli altri, caratterizzati da minore consistenza organizzativa, non è ipotizzabile una partecipazione parziale che farebbe venir meno il vincolo della organizzazione comune e conseguentemente quello della responsabilità solidale. Ciò anche in considerazione del fatto che il Consorzio stabile si caratterizza per la maggiore stabilità dell’organizzazione assunta statutariamente e per una struttura più complessa e duratura che vede la partecipazione in molti casi di una pluralità di imprese consorziate, di cui alcune soltanto deputate alla fase esecutiva dei lavori. Diversamente, le associazioni o raggruppamenti temporanei di imprese rappresentano uno strumento di collaborazione temporanea ed occasionale tra I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 imprese per la partecipazione congiunta alle procedure degli appalti pubblici. Conseguentemente, tenuto conto che la società consortile, per espressa previsione normativa, viene costituita esclusivamente “per l’esecuzione unitaria, totale o parziale dei lavori”, (limitatamente all’ipotesi di partecipazione all’ATI di Consorzio stabile) è da ritenersi legittimo che ne facciano parte soltanto le consorziate deputate in via esclusiva all’esecuzione delle prestazioni contrattuali. Più specificatamente, dal combinato disposto dell’art. 97 del Regolamento e dell’art. 36, co. 2 del Codice emerge che, nell’ipotesi in cui i lavori vengano eseguiti in proprio da parte del Consorzio stabile, questo sarà direttamente responsabile, mentre nella diversa ipotesi dell’esecuzione dei lavori per il tramite dei singoli consorziati, anche questi ultimi saranno responsabili in solido per mezzo del fondo consortile. Pertanto, nel caso in cui il Consorzio aggiudicatario esegua i lavori per il tramite di singole imprese consorziate, il regime delle responsabilità non viene pregiudicato, quanto addirittura rafforzato. Sotto altro profilo, con riferimento alle garanzie per i subappaltatori, le medesime non sono intaccate dalla mancata partecipazione alla società consortile del Consorzio in quanto tale, poiché detto Consorzio quale componente dell’ATI aggiudicataria, a norma dell’art. 37 co. 5 del Codice dei contratti, è solidalmente responsabile “nei confronti della stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore e dei fornitori”. Tanto premesso, con riferimento al caso di specie, si ritiene legittima la partecipazione alla società consortile, oltre che della mandante, delle due sole consorziate indicate come esecutrici in via esclusiva dei lavori appaltati. 2.b) Infine codesta Amministrazione chiede alla Scrivente “di rappresentare le eventuali implicazioni in punto di qualificazione delle imprese consorziate indicate per l’esecuzione ove il consorzio concorrente non esegua poi concretamente, come nel caso di specie, i lavori”. Il quesito come formulato non è chiaro. Se si fa riferimento alla qualificazione ai fini della partecipazione alla gara, la stessa è disciplinata dettagliatamente dalle norme di cui agli artt. 36 del Codice dei contratti e 97 dell’attuale Regolamento. Se invece ci si riferisce all’acquisizione della qualificazione per le imprese consorziate indicate in esclusiva come esecutrici dei lavori, a seguito dell’espletamento dei lavori stessi, sembrerebbe logico ritenere che la relativa qualificazione sia limitata alle stesse. Riassumendo, si ritiene dunque, con riferimento al primo quesito, che: a) la società consortile costituita ai sensi dell’art. 96 del D.P.R. 554/99 per l’esecuzione unitaria dei lavori appaltati sia legittimata a stipulare contratti di subappalto; b) l’autorizzazione al subappalto debba comunque essere richiesta dal- 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 l’ATI aggiudicataria; c) la Stazione appaltante, autorizzando l’ATI aggiudicataria, continua ad essere garantita dalla stessa nel caso di eventuali inadempienze della società consortile. Con riferimento al secondo quesito, che: a) nel caso di Consorzio stabile che concorre per una o più imprese consorziate è consentita la partecipazione alla società consortile costituita dall’ATI aggiudicataria (di cui il Consorzio fa parte con qualifica di capogruppo) delle sole imprese consorziate individuate quali esecutrici in via esclusiva dei lavori; b) la qualificazione ai fini della partecipazione alla gara è disciplinata dalle norme sopra richiamate. L’acquisizione della qualificazione per le imprese consorziate indicate in esclusiva come esecutrici dei lavori, a seguito dell’espletamento dei lavori stessi, è da ritenersi limitata alle stesse. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere del 20 novembre 2010 prot. 358596/599/600 e Parere del 21 febbraio 2011 prot. 61323/40, avv. Marina Russo, AL 7530/06. «Rivalutazione indennità integrativa speciale ex art. 2 comma 2 Legge 25 febbraio 1992 n. 210» L’Amministrazione in indirizzo ha sottoposto alla Scrivente un quesito avente ad oggetto le modalità di esecuzione delle sentenze (si intende, ormai definitive, in quanto a suo tempo non impugnate per le note ragioni di economicità) che – nel riconoscere il diritto alla corresponsione della rivalutazione della componente dell’indennizzo in oggetto commisurata all’IIS – utilizzino formule tali da lasciare adito alla possibilità che il giudicato si estenda anche a periodi successivi alla data di deposito della sentenza. A tale riguardo, si espongono le seguenti considerazioni. Occorre prendere le mosse dalla norma di cui all’art. 11, commi 13 e 14, del D.L. 78 del 31 maggio 2010 conv. in L. 30 luglio 2010 n. 122 con la quale il legislatore – adeguandosi all’interpretazione resa dalla più recente giurisprudenza di legittimità (sent. 22112/09) – ha stabilito: “13. Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la somma corrispondente all'importo dell'indennità integrativa speciale non è rivalutata secondo il tasso d'inflazione. 14 Fermo restando gli effetti esplicati da sentenze passate in giudicato, per i periodi da esse definiti, a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto cessa l'efficacia di provvedimenti emanati al fine di rivalutare la somma di cui al I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 comma 13, in forza di un titolo esecutivo. Sono fatti salvi gli effetti prodottisi fino alla data di entrata in vigore del presente decreto”. I “provvedimenti” cui la norma stessa fa riferimento sono - evidentemente - quelli, adottati dall’Amministrazione in esecuzione della Direttiva Ministeriale dell’8 aprile 2008, in base ai quali la stessa non solo ha disposto la rivalutazione dell’IIS, ma ne ha anche esteso la corresponsione oltre i limiti temporali dei periodi coperti dalle sentenze a sé sfavorevoli in materia, al solo fine di evitare la proliferazione di contenziosi ripetitivi dall’esito certamente sfavorevole ed il conseguente aggravio di spese. Nel parere del 29 dicembre 2009 (*) - reso dalla Scrivente sulla scorta del révirement giurisprudenziale di cui alla richiamata sentenza n. 22112/09 (quindi ancor prima dell’entrata in vigore dell’art. 11 cit.) - si invitava l’Amministrazione in indirizzo a limitare sin da subito l’esecuzione dei giudicati “al solo periodo espressamente coperto dalla sentenza”, raccomandandole di desistere dalla prassi applicativa consolidatasi sul fondamento della suddetta Direttiva. L’Amministrazione comunque, dal canto suo, ha recentemente assicurato per le vie brevi di aver disposto, a partire dalla data di entrata in vigore del D.L. 78/10, anche la sospensione degli adeguamenti disposti in esecuzione di decisioni il cui tenore sia tale da renderle potenzialmente idonee a produrre effetti estesi al tempo successivo alla relativa pronuncia. Si tratta, ora, di individuare quale sia la condotta da tenere a fronte di pronunzie in cui vengano utilizzate espressioni quali quelle esemplificate nella nota in riferimento (“… a far data dal …” “ratei maturandi”, “ratei futuri”, “per i periodi a seguire”, “a vita”), le quali suggeriscono un’ultrattività del giudicato, estesa - cioè - a periodi successivi alla data di proposizione della domanda giudiziale. Ciò, al fine di valutare in quali situazioni debba ritenersi cessata l’efficacia dei provvedimenti amministrativi che accordano l’adeguamento dell’IIS sulla base di un titolo esecutivo. Al riguardo, appare prima di tutto opportuno affrontare, nell’ambito della casistica segnalata, la fattispecie della condanna alla corresponsione dell’adeguamento sui ratei “a far data dal...” (o simili, ad esempio “a decorrere dal …”) nella quale – cioè – sia stabilito solo il dies a quo del diritto, e non anche un dies ad quem, oltre il quale il giudicato non potrebbe, comunque, estendere i propri effetti. Per un’eventualità del genere, in linea di massima sembra potersi ragionevolmente sostenere – tanto in sede amministrativa quanto, se del caso, giurisdizionale (segnatamente, di opposizione all’esecuzione) – che il giudicato (*) V. Rass., 2010, I, 210-213. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sia da intendere nel senso che i suoi effetti, in difetto di esplicita statuizione di segno contrario, non possano estendersi al di là del periodo che, di norma, si presume sottoposto all’attenzione del giudice. Tale periodo è, di regola, quello anteriore alla presentazione della domanda, (“La pronuncia giurisdizionale di condanna del convenuto a un fare o un dare, anche se riferibile a rapporti c.d. <>, produce, di norma, i suoi effetti per le prestazioni anteriori al periodo di presentazione della domanda e non per quelle relative al periodo successivo, pur non potendosi escludere che una pronuncia giurisdizionale, emanata in conformità della domanda proposta dalla parte quando ciò sia ammesso dall'ordinamento, possa statuire in relazione allo svolgimento del rapporto fino alla data della pronuncia ovvero anche alla situazione ulteriore…” Sez. L, Sentenza n. 7487 del 5 giugno 2000). Se la regola è che il giudice conosce del solo periodo antecedente la domanda, e solo in via eccezionale di quello successivo (cioè fino al deposito della sentenza o addirittura oltre), allora se ne può ragionevolmente desumere che – in mancanza di diversa espressa statuizione – la sentenza si debba interpretare in accordo con il suddetto principio: pertanto, se sia indicata solo la decorrenza (dies a quo) del diritto, ma non anche il dies ad quem, deve ritenersi che il giudice abbia inteso limitare la sua pronuncia solo al tempo anteriore alla proposizione della domanda. Ne discende che i provvedimenti amministrativi che, sulla base di sentenze del descritto tenore, abbiano disposto l’adeguamento dell’IIS sine die, potranno - in base all’art. 11 comma 14 cit. - essere considerati inefficaci sin dalla data di entrata in vigore del D.L. 78/10. Nei casi in cui la sentenza si riferisca apparentemente, mediante formule del tipo “ratei maturandi”, “ratei futuri”, “per i periodi a seguire”, “a vita” anche ad un tempo successivo alla data della domanda giudiziale che, come detto, rappresenta di regola il confine temporale del periodo conosciuto dal giudice, si osserva quanto segue. L’interpretazione che ritenesse preclusa al Legislatore la possibilità di disporre del diritto in presenza di una condanna in futuro apparirebbe di dubbia costituzionalità, anche nell’ottica di un corretto riparto di competenze tra i poteri dello Stato. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità, in tema di diritti nascenti da rapporti di durata, chiarisce che il giudicato ha come presupposto il principio rebus sic stantibus, (“In ordine ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscono il contenuto, sui quali il giudice pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale pertanto esplica la I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento” (ex multis, Cass. Lav. 15931/04); con specifico riferimento alle obbligazioni di durata aventi ad oggetto un dare o un fare periodico: “La pronuncia giurisdizionale di condanna del convenuto a un fare o un dare, anche se riferibile a rapporti c.d. <>, produce, di norma, i suoi effetti per le prestazioni anteriori al periodo di presentazione della domanda e non per quelle relative al periodo successivo, pur non potendosi escludere che una pronuncia giurisdizionale, emanata in conformità della domanda proposta dalla parte quando ciò sia ammesso dall'ordinamento, possa statuire in relazione allo svolgimento del rapporto fino alla data della pronuncia ovvero anche alla situazione ulteriore. Pertanto … non è configurabile un unico rapporto giuridico fondamentale che colleghi i debiti relativi dei diversi periodi, onde la diversità dei periodi, pur nella identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a far configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti; sicché il giudice del primo giudizio non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro l'obbligo contributivo si atteggia in un determinato modo, giacché per questa parte egli giudicherebbe di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti, e pertanto in assenza di un interesse delle parti alla relativa pronunzia” (Cass. lav. n. 7487/00). In considerazione di quanto sopra, si ritiene che le formule “ratei maturandi”, “ratei futuri”, “per i periodi a seguire”, “a vita” e simili devono essere univocamente interpretate, escludendo l’ultrattività del giudicato rispetto allo ius superveniens. Si dovrà quindi sostenere, fino all’eventuale consolidarsi di un diverso orientamento giurisprudenziale, che in questi casi, a prescindere dalla formula adottata nel giudicato, a far data dall’entrata in vigore del D.L. 78/10, conv. in l. 122/10, la rivalutazione della IIS sui ratei di pensione ex L. n.210/92 non è più dovuta. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. *********** Con nota in data 24 gennaio 2011 n. 2576, il Ministero della Salute ha richiesto il parere della Scrivente in merito ad una questione sorta a seguito dell’entrata in vigore della norma di cui all’art. 11, commi 13 e 14, del D.L. 78 del 31 maggio 2010 conv. in L. 30 luglio 2010 n. 122, con il quale il legislatore – adeguandosi all’interpretazione resa dalla più recente giurisprudenza di legittimità (sent. 22112/09) – ha stabilito: “13. Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la somma corrispondente all'importo dell’indennità integrativa speciale non è rivalutata secondo il tasso d’inflazione. 14. Fermo restando 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 gli effetti esplicati da sentenze passate in giudicato, per i periodi da esse definiti, a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto cessa l'efficacia di provvedimenti emanati al fine di rivalutare la somma di cui al comma 13, in forza di un titolo esecutivo. Sono fatti salvi gli effetti prodottisi fino alla data di entrata in vigore del presente decreto”. In particolare, secondo il Ministero dell’Economia e Finanze – Dipartimento dell’Amministrazione generale del personale e dei Servizi, ai soggetti che abbiano ottenuto sentenze favorevoli, recanti il riconoscimento del diritto alla rivalutazione dell’IIS, dovrebbe continuare a corrispondersi l’indennizzo comprensivo dell’adeguamento dell’IIS maturato al 31 maggio 2010, senza tuttavia ulteriormente rivalutare – dopo tale data – la suddetta IIS: in definitiva, si escluderebbe la spettanza di adeguamenti in futuro, ma si darebbe per acquisito una volta per tutte il diritto alla rivalutazione maturata al 31 maggio 2010. Ad avviso del Ministero della Salute, invece, i ratei di indennizzo maturati dopo la data del 31 maggio 2010 devono essere corrisposti senza alcun adeguamento dell’IIS, nel senso che essi devono essere ricondotti all’importo originario, analogo a quello corrisposto alla generalità dei titolari di indennizzo, che non abbiano mai ottenuto sentenze favorevoli. La Scrivente, richiamando il contenuto dei precedenti pareri nn. 358600 del 20 novembre 2010 e 391864 del 29 dicembre 2009 indirizzati a codesto Ministero dell’Economia e Finanze – Dip.to Ragioneria Generale dello Stato ed allegati per comodità, ritiene che la soluzione corretta sia quella prospettata dal Ministero della Salute, per i motivi qui di seguito esposti. La norma di cui all’art. 11 cit. ha natura interpretativa. Ciò sta a significare che, mediante la stessa, il legislatore ha inteso esplicitare il significato fin dall’inizio insito nella norma interpretata. Ne consegue che – fatti salvi, per espressa previsione normativa (comma 14 dell’art. 11 cit.), gli effetti “esplicati da sentenze passate in giudicato, per i periodi da esse definiti” – (vale a dire gli adeguamenti corrisposti in passato, limitatamente ai periodi interessati da sentenza), per il futuro l’indennizzo dovrà essere quantificato avendo riguardo al significato della norma vigente, così come esplicitato dalla legge di interpretazione, tornando – quindi – inevitabilmente all’importo originario, del quale non si dovranno più effettuare adeguamenti. Diversamente, si finirebbe con l’attribuire alle sentenze favorevoli ai percettori di indennizzo (peraltro rese sulla base di un’interpretazione normativa la cui esattezza è stata smentita dal legislatore del D.L. 78/10) un’ultrattività non contemplata dalla norma di cui all’art. 11 comma 14 che, infatti, fa salvi unicamente gli effetti “esplicati”- evidentemente per il pregresso - “da sentenze passate in giudicato per i periodi da esse definiti”; si continuerebbe - insomma - a corrispondere un incremento che non ha più titolo né nella sentenza (i cui effetti sono fatti salvi limitatamente ai periodi da essa definiti), né I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215 nella legge interpretata autenticamente; si violerebbe altresì la norma di cui allo stesso comma 14, che prevede la cessazione dell’ “… efficacia di provvedimenti emanati al fine di rivalutare la somma di cui al comma 13, in forza di un titolo esecutivo”, estendendone gli effetti anche ad epoca successiva all’entrata in vigore del D.L. 78/10; si introdurrebbe - infine - una disparità di trattamento, non voluta dal legislatore, fra quanti abbiano beneficiato in passato di sentenze favorevoli (i cui effetti peraltro non valgono a coprire anche il futuro, come illustrato nel precedente parere della Scrivente di cui alla nota prot. 358596, approvato dal Comitato Consultivo in data 20 novembre 2010), rispetto a quanti non abbiano ottenuto analoghe pronunce e percepiscano pertanto, oggi, l’indennizzo senza adeguamento dell’IIS. Deve pertanto cessare la corresponsione dell’adeguamento maturato al 31 maggio 2010. Quanto, poi, alle somme indebitamente erogate a far data dal 31 maggio 2010 all’attualità, si ritiene che le stesse costituiscano indebito oggettivo, da ripetersi mediante ritenuta periodica. Peraltro, considerata l’attuale pendenza di tre distinti giudizi di legittimità costituzionale (ct 49976/10, 4100/11 e 5098/11, avv. Marina Russo) aventi ad oggetto l’art. 11 D.L. 78/10, si consiglia, per evidenti ragioni di opportunità, di soprassedere allo stato alla ripetizione dell’indebito, fino all’esito dei suddetti giudizi. I tempi di definizione di questi ultimi, peraltro, sono prevedibilmente contenuti, sicché nelle more non dovrebbero verosimilmente maturare i termini della prescrizione. Tuttavia, ad abundantiam, si raccomanda fin d’ora di curare l’interruzione dei suddetti termini nella non creduta ipotesi in cui la questione - contrariamente a quanto oggi pare - dovesse protrarsi a lungo. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere dell’11 dicembre 2010 prot. 382915/16 - avv. Giuseppe Albenzio, AL 33906/10. «Controlli sulle restituzioni all’esportazione dei prodotti agricoli. Art. 11 Reg. CE 485/2008» Codesta Agenzia delle Dogane chiede parere in merito alla ripartizione delle competenze con l’AGEA, istituita come “servizio specifico” ai sensi dell’art. 11 Reg. CE 4045/1989 (confermato dall’art. 11 Reg. CE 485/2008), e in particolare sulla competenza di quest’ultima ad effettuare valutazioni sulle 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 richieste di Mutua assistenza amministrativa rivolte dall’Agenzia delle Dogane agli altri Stati membri, ai sensi dell’art. 7, par. 4, Reg. 485/2008. Questa Avvocatura Generale, sentita l’Agenzia delle Dogane e l’AGEA, ritiene quanto segue. Il citato art. 11 Reg. CE dispone: “1. In ciascuno Stato membro, un servizio specifico è incaricato di seguire l’applicazione del presente regolamento e a) l’esecuzione dei controlli previsti da parte di agenti alle dirette dipendenze di tale servizio, o b) il coordinamento dei controlli effettuati da agenti che dipendono da altri servizi. Gli Stati membri possono altresì prevedere che i controlli da effettuare in applicazione del presente regolamento siano ripartiti fra il servizio specifico e altri servizi nazionali, sempreché il primo ne assicuri il coordinamento. 2. Il servizio o i servizi incaricati dell’applicazione del presente regolamento devono essere organizzati in modo da essere indipendenti dai servizi o da sezioni di essi incaricati dei pagamenti e dei controlli che li precedono. 3. Per garantire la corretta applicazione del presente regolamento, il servizio specifico di cui al paragrafo 1 prende tutte le iniziative e le disposizioni necessarie. 4. Il servizio specifico vigila inoltre: a) alla formazione degli agenti nazionali incaricati dei controlli di cui al presente regolamento, affinché acquisiscano le nozioni necessarie all’espletamento dei loro compiti; b) alla gestione delle relazioni di controllo e di tutta la documentazione in rapporto con i controlli effettuati e previsti in applicazione del presente regolamento; c) alla redazione e alla comunicazione dei rapporti di cui all’articolo 9, paragrafo 1, come anche dei programmi di cui all’articolo 10 ”. In attuazione, sono stati adottati: - il d.m. 1 aprile 1996, il quale all’art. 1, dispone che: “1. I controlli da effettuare a norma del regolamento CEE n. 4045/89 sono espletati dal: Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali avvalendosi del personale della Direzione generale delle politiche comunitarie e internazionali e del Corpo forestale dello Stato, per quanto concerne gli interventi di mercato; Ministero delle finanze avvalendosi del personale del Dipartimento delle dogane e imposte indirette - Direzione centrale servizi doganali, e delle direzioni compartimentali delle dogane e imposte indirette, per quanto concerne le restituzioni all'esportazione” all’art. 2, comma 2, che: “1. Il Servizio specifico di cui all'art. 11 del regolamento CEE n. 4045/89 è istituito presso il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali - Direzione generale delle politiche comunitarie e inter- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217 nazionali. 2. Nello svolgimento dei compiti previsti dall'art. 11 del regolamento 4045/89 il Servizio di cui al comma 1 agisce d'intesa con gli uffici del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali di cui all'art. 1, e con il Dipartimento delle dogane e imposte indirette - Direzione centrale dei servizi doganali”. - il d.m. 23 marzo 2006, il quale all’art. 1, comma 1, prevede che: “1. I controlli di competenza del Ministero delle politiche agricole e forestali, da effettuare ai sensi del regolamento CEE n. 4045/1989 - ferma restando la competenza in materia di restituzioni alle esportazioni dell'Agenzia delle dogane - sono espletati, per quanto concerne le operazioni finanziate dal Feoga sezione garanzia, dal Corpo forestale dello Stato e dall'Ispettorato centrale repressione frodi con le modalità indicate nel presente decreto”. È, poi, intervenuta la legge finanziaria 2007 che, all’art. 1, comma 1048, ha previsto, per quel che riguarda la questione in esame, che: “…i compiti di cui all’art. 11 del regolamento (Cee) n. 4045/89, a decorrere dal 1° luglio 2007 sono demandati all’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea)…”. Dal complesso normativo sopra riportato si può dedurre che: a) i controlli previsti dal Reg. CE possono essere ripartiti dagli Stati membri fra il servizio specifico ex art. 11 e altri servizi nazionali; b) il servizio specifico esegue direttamente i controlli di competenza dei propri agenti e coordina i controlli effettuati da agenti dipendenti di altri servizi; c) il servizio specifico ha la competenza esclusiva del coordinamento fra i vari agenti incaricati del controllo e deve agire d’intesa con gli uffici dei quali i Ministeri competenti sono autorizzati ad avvalersi (nella specie, l’Agenzia delle Dogane, già Dipartimento delle dogane e imposte indirette, per le restituzioni all’esportazione); d) l’AGEA è subentrata nelle funzioni del servizio specifico istituito presso il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali - Direzione generale delle politiche comunitarie e internazionali. Il Legislatore nazionale, quindi, si è avvalso sin dalla prima applicazione delle disposizioni dei Regg. CE 4045/1989 e 485/2008 della facoltà di distribuire fra più uffici i compiti di controllo connessi a quei regolamenti, distinguendo chiaramente le relative competenze fra il Ministero delle risorse agricole e quello delle Finanze, disponendo che quest’ultimo si avvalga dell’Agenzia delle Dogane (già Dipartimento) per quanto concerne le restituzioni all'esportazione; gli interventi che si sono succeduti nel tempo non hanno mai modificato questa originaria ripartizione di competenze, limitandosi a disporre la successione nelle funzioni del servizio specifico dell’AGEA (significativa in tal senso è la salvaguardia posta dall’art. 1, comma 1, d.m. 23 marzo 2006: - ferma restando la competenza in materia di restituzioni alle esportazioni del- 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 l'Agenzia delle dogane -). Sui controlli di competenza dell’Agenzia delle Dogane, l’AGEA esercita le sue funzioni di coordinamento già attribuite, ex art. 11 Reg. CE, al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali - Direzione generale delle politiche comunitarie e internazionali e, nell’esercizio di questa potestà, agisce d'intesa con …il Dipartimento delle dogane e imposte indirette - Direzione centrale dei servizi doganali (ora Agenzia delle Dogane). Così esattamente ricostruito il quadro normativo nella materia (per quanto concerne le restituzioni all’esportazione), appare chiaro che l’AGEA non ha competenza ad effettuare valutazioni di merito sulle richieste di Mutua assistenza amministrativa rivolte dall’Agenzia delle Dogane agli altri Stati membri ai sensi dell’art. 7, par. 4, Reg. 485/2008, trattandosi di attività di controllo demandata alla detta Agenzia delle Dogane dal Legislatore nazionale, sulla quale può e deve essere effettuata solo attività di coordinamento, d’intesa con gli uffici della stessa Agenzia delle Dogane. La detta attività di coordinamento comporta, fra l’altro, che le richieste di Mutua assistenza debbano essere preventivamente comunicate all’AGEA, a fini di coordinamento, ma possano essere inoltrate direttamente dall’Agenzia delle Dogane (come confermato dalla Commissione Europea nella nota 20 agosto 2010 n. 563298 in risposta a specifica richiesta dell’AGEA), salvo diverse intese fra le due Agenzie. Il presente parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo di questa Avvocatura che si è espresso in conformità nella seduta dell’1 dicembre 2010. A.G.S. - Parere del 13 dicembre 2010 prot. 383514/19 - avv. Marco Stigliani Messuti, AL 33778/10. «Sulle attribuzioni di titolarità delle procedure delle pratiche finalizzate all'acquisizione del certificato di prevenzione incendi (CPI) degli edifici scolastici » Con la nota che si riscontra codesta Avvocatura ha chiesto una pronunzia di questo GU sulla questione suindicata, ritenuta di massima ed avente ad oggetto il riparto di competenze tra Enti Locali e Dirigenti Scolastici con riferimento alla domanda di rilascio del certificato di prevenzione incendi (CPI), nonché in merito ai regimi di responsabilità connnessi all' omessa attivazione del procedimento. Nello specifico, l'Ufficio Scolastico Piemontese ha sottoposto n. 6 quesiti: 1) "Se in relazione all'omessa richiesta di rilascio del CPI e di tutte le azioni ad esso connesse, in attesa del nuovo DPR, da emanare a norma del- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 219 l'art. 17, co. 1, l. 13 agosto 1988, n. 400, l'illecito penale si configura solo per le attività elencate nel DPR n. 689/1959 e non per quelle elencate dal DM del 16 febbraio 1982 e quindi se al momento non esisa l'obbligo del CPI per le scuole. (Riferimenti normativi: sentenza n. 282 del 1990 della Corte Costituzionale che dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 1, co. 1, e 5, co. 1, l. 7 dicembre 1984, n. 818 - D.Lgs 8 marzo 2006, n. 139, con particolare riferimento all'art. 16, co. 1 - D.Lgs 81/2008, come modificato dal D.Lgs 106/2009)". Concordemente all'avviso espresso dall'Avvocatura di Torino, appare senza dubbio condivisibile ricondurre l'ambito di applicazione della sentenza della Corte Costituzionale 11 giugno 1990, n. 282, alla mera declaratoria di incostituzionalità dell'art. 1, L. 818/1994 per violazione dell' art. 25, co. 2, Cost. Ne deriva che l'illecito penale possa configurarsi solo per le attività elencate nel DPR 689/1959 e non pure per quelle listate dal DM 16 febbraio 1982. Difatti, la cogenza del DM Istruzione 16 febbraio 1982 non è stata in alcun modo messa in discussione dalla Consulta nella succitata sentenza; al contrario, è stata censurata la legge n. 818/1994 esclusivamente in quanto rinviava, nella forma di una norma penale in bianco, ad un precedente regolamento - il DM 16 febbraio 1982 - per l'individuazione dei soggetti del reato, il tutto in violazione della riserva di legge codificata a livello costituzionale. Discende da ciò: a) che è esclusa qualsiasi forma di responsabilità penale per la mancata attivazione del procedimento finalizzato al rilascio del CPI (cfr. Cass. pen., sez. III, 27 aprile 1992); b) che, dichiarata illegittima la norma di rinvio (la L. 818/1994) e non il rinvio stesso (il DM 16 febbraio 1982), sussiste ancora l'obbligo del CPI per le scuole, così come un regime di responsabilità, civile e amministrativo, per la violazione del medesimo. 2) "Se vi siano, nell'ambito dell'applicazione della normativa antincendio, strumenti giuridico/normativi per distinguere la titolarità dell'attività scolastica, che attiene alla gestione delle condizioni di esercizio, dalla titolarità del procedimento per l'ottenimento del certificato di prevenzione incendi e quali siano le conseguenti attribuzioni di responsabilità". Preliminarmente, occorre distinguere l'ipotesi in cui gli immobili destinati ad uso scuola siano di proprietà degli Enti territoriali (punto a) ovvero di soggetti privati che li abbiano locati alle Amministrazioni comunali o provinciali (punto b). a) Diversamente da quanto prospettato dall'Avvocatura di Torino e a parere di questo GU, il riparto di competenze tra Enti Locali (Provincia e Comune) e Dirigenti Scolastici non vede questi ultimi tenuti a chiedere il CPI ai Vigili del Fuoco per gli immobili di cui le amministrazioni territoriali abbiano 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 la proprietà, il tutto ai sensi del D.Lgs 8 marzo 2006, n. 139, art. 16, co. 2, e del DPR 12 gennaio 1998, n. 37, art. 1. Secondo codesta Avvocatura, i Dirigenti Scolastici, individuati "titolari dell'attività" e "datori di lavoro" ai sensi dell'art. 3 D.Lgs 81/2008, ottempererebbero ai requisiti di cui all' art. 16, co. 2, D.Lgs 139/06, laddove è chi è "responsabile dell'attività" a dover ottenere il rilascio del certificato suddetto. Invero, nonostante possa essere l'effettivo "gestore" dell'attività a dover richiedere il CPI, nondimeno, nel caso delle scuole, la specificità della situazione vuole che sussista un riparto di competenze operato a livello legislativo, il quale individua a monte le attribuzioni del Dirigente Scolastico, con riferimento al concreto esercizio dell'attività scolastica, ovvero degli Enti Locali, gravati della manutenzione ordinaria, straordinaria e impiantistica degli edifici adibiti a scuola (art. 3, co. 1, l. 11 gennaio 1996, n. 23). Ne discende che la disciplina generale - la quale vede in chi esercita l'attività il soggetto legittimato a chiedere il CPI - risulterebbe essere derogata dalla suddivisione normativa di competenze tra Amministrazioni territoriali e scuole, donde la necessità che le prime debbano provvedere al conseguimento del CPI. Infatti, sebbene la Corte di Cassazione abbia più volte affermato che sono attribuite agli Enti Locali le "spese generali […] che occorrano per rendere effettiva la destinazione di determinati locali a sede di scuole, senza alcuna possibilità di comprendere oneri derivanti dal concreto espletamento dell’attività scolastica", quali ad esempio "quelli inerenti alla rimozione dei rifiuti" (Cass., sez. trib., 18 aprile 2000, n. 4944; cfr. anche Cass. 1 settembre 2004, n. 17617), non risulta che il CPI rappresenti una certificazione attinente al concreto esercizio dell'attività scolastica. Piuttosto, esso pare strettamente connesso all'idoneità dell'immobile rispetto all'uso-scuola. Così l'art. 16, co. 1, D.Lgs 139/06 asserisce che il "certificato di prevenzione incendi attesta il rispetto delle prescrizioni previste dalla normativa di prevenzione incendi e la sussistenza dei requisiti di sicurezza antincendio nei locali, attività, impianti ed industrie pericolose". A ciò si aggiunge che il DM 16 febbraio 1982, rinviato dall'art. 22 DPR 29 luglio 1982, n. 577, nel listare le attività soggette a prevenzione incendi, configura queste ultime, non tanto come lo svolgimento concreto di un esercizio, bensì come quei complessi organizzativo-strumentali, che possono anche essere siti all'aperto, ma dove i mezzi a servizio dei lavoratori devono essere idonei a garantire la sicurezza dal rischio incendi. Il CPI fa dunque fede delle qualità dell'immobile rispetto alla vigente normativa antincendio, dovendosi peraltro includere nella domanda per il rilascio del primo (cfr. All. al DM 22 febbraio 2006, att. art. 1, co. 5, DPR 12 gennaio 1998, n. 37) ogni informativa relativa agli impianti, alle strutture - la cui predisposizione spetta all'Ente Locale - ed ai piani di prevenzione antincendio di I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 221 cui al D.Lgs 9 aprile 2008, n. 81, e succ. modificazioni, i quali sono affidati in via del tutto eccezionale alle cure dei Dirigenti Scolastici ex articoli 17 e 18 D.Lgs 81/08 (cfr. anche Circolare Ministeriale 29 aprile 1999, n. 119). Ne deriva che, argomentando in base agli indirizzi sorti nella giurisprudenza di legittimità in tema di riparto di competenze tra Ente Locale e istituti scolastici, spetterebbe al primo, in via esclusiva, fare istanza di rilascio del CPI, mentre sui Dirigenti scolastici graverebbe il mero obbligo di predisporre e poi trasferire la documentazione ex D.Lgs 81/08. b) Quanto ai cespiti locati da privati ed adibiti a scuola, viceversa, la disciplina generale sulla titolarità dell'attività è derogata da quella, regionale e territoriale, sulla destinazione d'uso degli immobili. Secondo tale normativa, gli Enti Locali prendono in locazione solo gli edifici che risultano idonei rispetto all'uso cui sono destinati, nel caso di specie a scuola/ufficio. Vale a titolo di esempio il bando del 30 luglio 2010 (allegato), con cui il Ministero della Giustizia, ricercando un immobile da locare in Bergamo, ha imposto, tra le specifiche tecniche, che il predetto bene: a) fosse destinato "ad uso ufficio pubblico secondo standard di classe A"; b) fosse conforme "con la Regola Tecnica di Prevenzioni Incendi approvata con Decreto del Ministero dell'Interno del 22 febbraio 2006". Da qui l'obbligo, a carico del titolare, di adeguare l'immobile che intende locare rispetto alla recente normativa antincendio e dunque a munire il medesimo dell'idonea certificazione richiesta ex D.Lgs 139/06 e DPR 577/1982. 3) "Quali strumenti giuridici di tutela della propria posizione giuridica di responsabilità, il Dirigente Scolastico può adottare in caso di inerzia dell'Ente Locale a fronte di messa a norma dell'edificio scolastico per l'ottenimento del CPI, tenendo presente che il Dirigente Scolastico deve garantire la continuità del servizio scolastico". Come ben sottolineato dall'Avvocatura di Torino e stante però la competenza degli Enti Locali quanto alla richiesta del CPI, appare condivisibile il riferimento all’art. 5 DM 29 settembre 1998, n. 382, laddove il Dirigente Scolastico, riscontrata una deficienza nelle strutture adibite a scuola, ivi compresa la mancanza della certificazione antincendio, è esonerato da qualsiasi forma di responsabilità a seguito della segnalazione all'Ente citato, salvo le precisazioni di cui infra. 4) "Se in assenza di un certificato di prevenzione incendi in corso di validità, i Vigili del Fuoco possano far ricadere l'esercizio dell'attività nell'ambito della responsabilità esclusiva e diretta del Dirigente Scolastico, senza formalmente definire e distinguere gli obblighi di competenza di quest'ultimo, responsabile della gestione dell'attività, dagli obblighi dei soggetti responsabili delle strutture e della documentazione tecnica degli edifici". Per quanto attiene alla responsabilità del Dirigente Scolastico, si ravvisa 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 anzitutto la perentorietà del CPI, come d'altronde rimarcato dal TAR Lazio, sez. III, 30 settembre 2003, n. 7861, secondo cui “è legittima la sanzione disciplinare irrogata al dirigente che ha chiesto l’adozione di un ordine scritto al trasferimento di pellicole cinematografiche in struttura precaria e provvisoria, sprovvista di certificato di prevenzione incendi, considerata l’obbligatorietà di detta certificazione ai sensi dell’art. 13 e 15 d.p.r. 29 luglio 1982 n. 577, a nulla rilevando il carattere definitivo o temporaneo della struttura del caso”. Tuttavia, se il CPI manca, i Dirigenti Scolastici non possono ritenersi responsabili, vuoi sotto il profilo penale, vuoi sotto quello amministrativo e civile. In primo luogo, infatti, non vi è alcuna responsabilità penale per la mancanza della certificazione antincendio: ciò a seguito della sentenza della C. Cost. 282/1990 (Cass. pen., sez. III, 27 aprile 1992). Per di più, considerate l'esenzione di cui all'art 5 DM 29 settembre 1998, n. 382 (cfr. punto 4), nonché la disponibilità della chiusura degli edifici scolastici in capo al solo Sindaco (art. 54 D.Lgs 18 agosto 2000, n. 267), sembra svanire qualsivoglia ipotesi di responsabilità amministrativa ovvero civile dei Dirigenti Scolastici. 5) "Se nei casi in cui in un edificio vengano allocate diverse scuole con a capo differenti dirigenti e quindi nell'edificio si trovino più gestori, ogni Dirigente Scolastico risulti responsabile della gestione dei soli locali e dell'area di pertinenza della sua scuola, mentre la responsabilità della rispondenza dell'intero edificio alla normativa vigente in materia di agibilità e sicurezza sia dell'Ente locale individuato dalla normativa Ente obbligato alla manutenzione e messa a norma dell'edificio". In relazione ai plessi scolastici con più istituti all'interno, si ribadisce la competenza unica dell'Ente Locale o dei diversi Enti Locali competente/i a chiedere il CPI, a seconda che, ad es., l'edificio ospiti due scuole primarie, la cui manutenzione ordinaria e straordinaria spetta al Comune, oppure una scuola primaria ed una scuola secondaria superiore, la cui manutenzione spetta invece rispettivamente a Comune e Provincia. Viceversa, per quanto attiene agli immobili locati adibiti a scuola, nulla quaestio sorge: è il titolare dell'immobile che, dovendo garantire la destinazione d'uso, provvederà a fare istanza di rilascio del CPI. 6) "Se, in assenza di CPI valido, una dichiarazione congiunta, preso atto dei disposti di cui all'art. 5 del DPR 37/98, che distingua obblighi e responsabilità sottoscritta dall'Ente Locale e dal Dirigente Scolastico, possa essere sufficiente per garantire il regolare esercizio dell'attività scolastica, esonerando il Dirigente Scolastico da ogni responsabilità diretta". Si conferma la portata non esimente di eventuali dichiarazioni congiunte tra Enti Locali e Istituti Scolastici, volte a definire gli ambiti di rispettiva at- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 223 tribuzione in assenza di un CPI valido. La presenza di tale certificato è in effetti "perentoria" e nessun accordo può modificare le aree di rispettiva responsabilità individuate dalla legge tra Ente Locale e Scuola. *** Tanto premesso, occorre chiarire come, in concreto, il Dirigente Scolastico debba adoperarsi, laddove riscontri la mancanza del CPI con riferimento all'istituto scolastico cui è preposto. Al riguardo - e fermo restando che i Dirigenti Scolastici non sono gravati da alcuna forma di responsabilità in merito alla richiesta o meno, del CPI nelle scuole, per le considerazioni suesposte, - si osserva quanto segue: a) L'art. 3, Decr. Min. Interno 29 dicembre 2005 (G.U. 1 febbraio 2006) ha fatto decadere "i nulla osta [provvisori] rilasciati dai Comandi Provinciali dei Vigili del Fuoco", ai sensi dell'art. 2 l. 7 dicembre 1984, n. 818 e dunque dell'art. 7 D.P.R. 37/1998: per cui "la prosecuzione dell'esercizio delle attività, ai fini antincendio, è consentita solo se gli interessati abbiano ottenuto […] il certificato di prevenzione incendi ovvero abbiano provveduto alla presentazione della dichiarazione di cui all'art. 3, co. 5, D.P.R 37/98 che costituisce, ai soli fini antincendio, autorizzazione provvisoria all'esercizio dell'attività" (art. 3 Decr. Min. Interno 29 dicembre 2005). b) Dovendosi fare una distinzione tra immobili di nuova e vecchia costruzione, nel primo caso nulla quaestio sorge in ordine alla assenza o meno del CPI, nonché con riferimento al regime di responsabilità connesso alla mancata richiesta dello stesso. Infatti: (i) nell'ipotesi di nuovi edifici, di proprietà degli Enti Locali ed adibiti a scuola, la consegna dell'immobile all'amministrazione scolastica impone la presenza di tutte le caratteristiche tecniche, ivi incluso il CPI, che possano rendere il manufatto idoneo all'esercizio dell'attività scolara; (ii) nell'ipotesi, invece, di nuovi edifici, presi in locazione da privati ed adibiti a scuola, l'idoneità tecnica, anche con riferimento al CPI, dell'immobile all'uso scolastico è imposta dalla normativa, regionale e locale, sulla destinazione d'uso degli immobili. c) Risulta senza dubbio opportuno che i Dirigenti Scolastici, laddove ravvisino la mancanza del CPI, chiedano e, se del caso, diffidino l'Ente Locale ad attivarsi per ottenere il rilascio del CPI da parte dei Vigili del Fuoco. Vieppiù, si riscontra l'opportunità che i Vigili del Fuoco - ai sensi dell'art. 1 D.Lgs. 139/2006, istituiti per assicurare il "servizio di soccorso pubblico e di prevenzione ed estinzione degli incendi" - provvedano, su segnalazione dei Dirigenti Scolastici, a verificare l'esistenza di pericoli imminenti, ai fini antincendio con riferimento all'edificio adibito a scuola. d) Gli Enti Locali, quando i progetti antincendio da essi stessi presentati ai Vigili del Fuoco siano stati approvati ai sensi dell'art. 2 D.P.R. 37/1998, possono presentare una dichiarazione di idoneità delle strutture rispetto alla nor- 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 mativa antincendio (art. 3, co. 5, D.P.R. 37/98): ed in tal modo, nelle more che i Vigili del Fuoco procedano al sopralluogo di cui all'art. 3, co. 1, D.P.R 37/1998, l'attività scolastica potrà regolarmente svolgersi. Così, anche TAR Campania 19 maggio 2010, n. 7140, ha ribadito che è ammessa un'autorizzazione all' esercizio provvisorio nel solo caso in cui il progetto antincendio sia stato approvato dai Vigili del Fuoco e stia decorrendo il termine di novanta giorni per effettuare il sopralluogo di cui all'art. 3, co. 1, D.P.R. 37/98. e) In presenza di ritardi nel rilascio del CPI, è opportuno che i Dirigenti Scolastici diffidino tutte le Amministrazioni coinvolte nella relativa procedura - dai Vigili del Fuoco all'Ente Locale competente - ed in particolare il Sindaco, il quale, come specificato in precedenza, è l'unico soggetto legittimato a chiudere gli istituti scolastici (art. 54 D.Lgs 18 agosto 2000, n. 267). E' altresì evidente che, in presenza di una situazione di pericolo, l'attività scolastica non può che essere sospesa anche a prescindere dal provvedimento del Sindaco riguardante la chisura o meno dell'immobile. Sul presente parere, il Comitato consultivo nella seduta dell'1 dicembre 2010, si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere del 29 gennaio 2011 prot. 324558 - avv. Ettore Figliolia, AL 45757/10. «Disciplina in materia di rimborso spese legali ex d.l. n. 67/97, convertito in l. n. 135/97» Relativamente alla richiesta di parere di cui alla nota del 5 novembre u.s., alla stregua delle integrazioni documentali di cui alla successiva nota del 30 novembre u.s., si osserva quanto segue. Preliminarmente va rilevata la condivisibilità, in linea legale, della iniziativa di cui trattasi a parte di codesto Ateneo onde assicurare adeguata disciplina ad una materia, quale quella del rimborso delle spese legali affrontate dai dipendenti per fatti inerenti all’esercizio delle funzioni istituzionali, rispetto a cui è quantomeno dubbia l’estensibilità agli Atenei della previsione normativa di cui all’art. 28 del D.L. n. 67/1997, stante l’espressa limitazione recata da tale disposizione ai “dipendenti statali” ed in relazione all’autonomia agli Atenei stessi riconosciuta dal vigente ordinamento. Del tutto opportunamente poi, nel deliberato sottoposto alla consultazione di questo G.U., si richiama la più parte dei molteplici principi statuiti dalla giurisprudenza nell’ambito della attività interpretativa del citato art. 18, al fine evidentemente di garantire un’omogeneità di disciplina a posizioni analoghe I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 225 di dipendenti pubblici con riferimento alla materia in trattazione, uniformando, per quanto possibile stanti le specificità universitarie, detta disciplina a quella dei dipendenti statali. Ciò premesso, in particolare, per quanto attiene alla previsione dell’art. 1 inerente al personale in servizio presso le Aziende ed altre strutture ivi menzionate, parrebbe opportuno specificare che l’applicazione del regolamento è condizionata al presupposto che si tratti di servizio svolto nell’interesse dell’Ateneo, che ha appunto previamente autorizzato il servizio stesso, per il perseguimento delle specifiche finalità universitarie. Relativamente alla previsione dell’art. 4 comma 1, si suggerisce di integrare la disposizione con la seguente proposizione “e sempreché sulla base della valutazione degli atti e degli elementi in possesso dell’Amministrazione possa pronosticarsi un esito assolutorio del giudizio stesso”. Con riferimento al contenuto dell’art. 7 comma 4 potrebbe essere utile aggiungere dopo “sotto il profilo della veridicità ed attendibilità” la proposizione “anche in termini di proporzionalità rispetto alla consistenza della imputazione”. Per quanto concerne la norma transitoria di cui all’art. 13 è opportuno che codesto Ateneo approfondisca la possibilità di mantenere il precedente regime rispetto ai reati già oggetto di contestazione, applicando, se del caso, la nuova disciplina di cui al presente regolamento ai procedimenti penali successivamente instaurati: ed infatti, non sembra potersi escludere che eventuali interessati già sottoposti a procedimenti penali pendenti rispetto a cui non abbiano ancora attivato procedure di rimborso o di anticipazione, potrebbero aver assunto a suo tempo determinazioni sul patrocinio sul presupposto della disciplina vigente all’epoca. Nei sensi suesposti è la presente consultazione rimanendo a disposizione per quant’altro dovesse occorre. A.G.S. - Parere reso in via ordinaria del 2 febbraio 2011 prot. 36945 - avv. Paolo Marchini, AL 42110/10. «Compensabilità tra crediti per indebiti aiuti di Stato per la ricapitalizzazione delle cooperative di pesca con debiti a titolo di premio per arresto temporaneo e definitivo natante» In merito alla richiesta di parere in oggetto presentata dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, questa Avvocatura osserva quanto segue. §1. La fattispecie concreta e la compensazione legale in genere La questione è relativa a due vicende creditorie distinte: il credito vantato 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 dall’Amministrazione nei confronti della Società cooperativa (...) relativo alla restituzione di contributi erogati indebitamente in quanto dichiarati dalla Commissione Europea, con Decisione n. 7988 del 28 luglio 1999, incompatibili con il mercato comune; il debito dell’amministrazione nei confronti della cooperativa (...) sia con riferimento all’erogazione del premio per l’arresto definitivo del natante (...) che per quello relativo all’arresto obbligatorio della pesca del tonno rosso. Il primo quesito interpretativo riguarda la legittimità dell’azione amministrativa diretta a compensare il credito vantato dall’Amministrazione nei confronti della Cooperativa (...) con i crediti vantati dalla suddetta cooperativa nei confronti dell’Amministrazione. La compensazione è l’elisione, per la parte concorrente, dei crediti reciproci sussistenti tra due soggetti, dei quali l’uno sia creditore e debitore dell’altro nell’ambito di diversi rapporti contemporaneamente pendenti. Tanto osservato con riferimento ai principi generali che governano l’operatività dell’istituto, deve precisarsi che il requisito della reciprocità dei crediti non è ex se sufficiente a determinare l’estinzione per compensazione, occorrendo che detti crediti siano omogenei, liquidi ed esigibili. L’art. 1243 c.c., primo comma, dispone, infatti, che “la compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili”. Dunque, ai fini dell’operatività della compensazione come fattispecie dalla quale deriva l’effetto estintivo dell’obbligazione, ciò che rileva è l’omogeneità delle obbligazioni, la liquidità ed esigibilità dei crediti e l’esistenza per ciascun credito di un titolo diverso. In particolare, i crediti reciproci sono omogenei le volte che abbiano ad oggetto la consegna di cose fungibili dello stesso genere. I crediti sono liquidi quando siano determinati nel loro ammontare o la relativa quantificazione sia operabile mediante il ricorso a parametri predeterminati ed al compimento di mere operazioni di calcolo. La giurisprudenza prevalente si orienta nel senso di ritenere implicito nel requisito della liquidità quello della certezza dei crediti soggetti a compensazione, consistente nell’insuscettibilità di contestazione, così si ritiene privo del requisito di certezza il credito che sia oggetto di sentenza di accertamento non passata in giudicato. Meno problematica la definizione del requisito dell’esigibilità sussistente ogni qual volta il creditore sia legittimato a pretendere immediatamente l’adempimento. Nel caso di specie il credito vantato dall’amministrazione è un credito liquido in quanto è esattamente determinato nel suo ammontare; la relativa quantificazione, infatti, è operabile mediante il ricorso a parametri determinati e al compimento di mere operazioni di calcolo. Il credito richiesto è pari a 259.510,38 euro comprensivo degli interessi legali maturati nel corso del tempo. Il dubbio riguarda la certezza di detto credito dell’amministrazione vista la pendenza innanzi al Tribunale di Salerno di un ricorso in opposizione I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 227 avverso la cartella esattoriale riferita a detto importo, con istanza di sospensiva e con richiesta in riconvenzionale di condanna dell’amministrazione al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Giova, a tal proposito, ripercorrere la vicenda relativa a detto credito. L’amministrazione aveva a suo tempo concesso, con decreto n. 11 del 10 ottobre 1997, il contributo finalizzato alla ricapitalizzazione delle cooperative di pesca ai sensi della L. 665/1994. La Commissione europea dichiarava, con decisione n. 7988 del 28 luglio del 1999, l’illegittimità degli aiuti concessi alle cooperative e ai loro consorzi vista l’incompatibilità con il mercato comune e, per l’effetto, imponeva l’obbligo di recuperare i contributi indebitamente erogati. Motivo per cui l’amministrazione richiedente disponeva, con D.M. n. 231 del 30 luglio 2003, la revoca del contributo e l’annullamento del decreto di concessione e impegno richiedendo la restituzione dell’importo erogato maggiorato degli interessi legali e di quelli maturati per effetto della rivalutazione monetaria. La società (...) presentava ricorso al TAR Lazio chiedendo l’annullamento, previa sospensione, del D.M. n. 231 citato o, in subordine, l’annullamento del provvedimento limitatamente alla parte in cui veniva stabilito di maggiorare gli importi anche alla rivalutazione monetaria. Con sentenza n. 1646 del 3 marzo 2005 il TAR Lazio accoglieva il ricorso limitatamente alla parte in cui il D.M. impugnato disponeva la restituzione del contributo maggiorato degli importi maturati per effetto della rivalutazione monetaria. Decorso il termine per proporre appello, detto provvedimento ha acquistato efficacia di cosa giudicata. Pertanto, la (...) era tenuta a restituire il contributo ricevuto maggiorato degli interessi legali maturati fino a quella data. In mancanza di appello avverso la sentenza pronunciata dal TAR Lazio si era formata cosa giudicata sull’importo dovuto dalla cooperativa e certezza del credito vantato dall’amministrazione. Contestualmente, in sede legislativa, si otteneva un provvedimento che autorizzava l’Amministrazione a procedere al recupero degli aiuti indebitamente erogati per la ricapitalizzazione, in forma rateizzata, come disposto dall’art. 46 quater del D.L. n. 159/2007, convertito in legge n. 222 del 29 novembre 2007. Successivamente la Cooperativa (...) presentava istanza di rateizzazione in 14 rate annuali delle somme percepite per la ricapitalizzazione e, con nota n. 10173 del 17 aprile 2008, le veniva comunicato il piano per la restituzione con le relative modalità attuative. A causa del mancato pagamento della prima rata prevista dal piano di restituzione, l’amministrazione attivava il procedimento di riscossione coatta dell’importo maggiorato degli interessi, pari ad euro 259.510, 38. Era espressamente previsto nel decreto dirett. 1 febbraio 2008 che il mancato pagamento della prima rata avrebbe comportato la decadenza dal beneficio della rateizzazione. Visto il mancato pagamento l’ammi- 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 nistrazione provvedeva alla notificazione, in data 24 marzo 2010, tramite Equitalia della cartella esattoriale per il recupero coattivo dei crediti. La cooperativa presentava innanzi al Tar Salerno ricorso in opposizione a cartella esattoriale lamentando l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo per erronea applicazione del D.P.R. 600/1973. Si lamentava il ricorso, nel caso di specie, all’ipotesi di riscossione a mezzo di concessionario cosi come disciplinata dal D.P.R. 600/1973 e ss. Il contributo revocato non può configurarsi né quale tributo né quale imposta ma come “entrata patrimoniale dello Stato” e, pertanto, il recupero coattivo avrebbe dovuto essere eventualmente azionato con ingiunzione di pagamento così come previsto e disciplinato dal Regio decreto n. 639 del 14 aprile 1910. La società, dunque, con l’opposizione a cartella contestava l’illegittima iscrizione a ruolo operata dal MPPAAF per il recupero coattivo di un’entrata patrimoniale non soggetta alla disciplina della riscossione a mezzo ruoli, chiedendo la dichiarazione di nullità della cartella esattoriale impugnata. Veniva contestata, dunque, la regolarità del procedimento di recupero dei crediti vantati dall’amministrazione e non la fondatezza del credito vantato dalla stessa. In data 11 ottobre 2010, la cooperativa (...) ha trasmesso, con nota n. 15491 del 19/07 (v. allegato 7), l’istanza di rateizzazione di tutte le somme iscritte a ruolo ivi compresa la cartella esattoriale relativa alla restituzione delle somme percepite per la ricapitalizzazione della scrivente società. È fuor di dubbio, dunque, la certezza del credito dell’amministrazione nonostante sia pendente il ricorso avverso la cartella esattoriale che contesta solo formalmente le modalità della riscossione e non l’esistenza del debito. La pretesa creditoria, infatti, è stata riconosciuta dalla sentenza del Tar Lazio passata in res iudicata. Altrettanto indiscutibile è l’esigibilità dello stesso credito; l’amministrazione è legittimata a pretenderne immediatamente l’adempimento, per essere la cooperativa decaduta dal beneficio di rateizzazione in conseguenza del mancato pagamento della prima rata prevista dal piano di restituzione. In merito al credito vantato dalla cooperativa, invece, si osserva quanto segue. La cooperativa ha presentato domanda per ottenere il contributo per l’arresto temporaneo obbligatorio della pesca del tonno rosso e per l’arresto definitivo del natante (...). Tuttavia, l’Amministrazione, prima di concedere i suddetti contributi, si è riservata di porre in essere tutti gli adempimenti di legge per la tutela delle ragioni erariali, ivi compreso l’istituto del fermo amministrativo, ex art. 69 del R.D. 2440/1923. Il fermo amministrativo è un provvedimento di natura cautelare diretto alla tutela delle ragioni di credito delle Amministrazioni statali verso i terzi e ha carattere provvisorio. Ha lo scopo di legittimare la sospensione del pagamento di un debito da parte di un’amministrazione dello Stato, a salvaguardia di un’eventuale compensazione di esso, con un credito, anche I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 229 se non attualmente liquido ed esigibile, che la stessa o altra amministrazione pretenda di avere nei confronti del suo creditore (v. Cass. Sez. Unite del 21 maggio 2003, n. 7945). L’amministrazione ha legittimamente adottato questa misura cautelare vista la sussistenza dei requisiti previsti dalla circolare del Ministero del Tesoro n. 21 del 29 marzo 1999 (pubblicata nella G.U. n. 82 del 9 aprile 1999). Il credito vantato dall’amministrazione verso i creditori deve avere una ragionevole apparenza di fondatezza tale cioè da poterlo classificare fra i crediti certi, requisito senza il quale si avrebbe “un comportamento senza potere” eventualmente causativo di danno risarcibile. Inoltre, il credito colpito deve appartenere all’amministrazione statale che dispone il fermo. Secondo quanto previsto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, come è noto, il fermo amministrativo è uno strumento di natura eccezionale, funzionale alla peculiarità soggettiva del creditore Stato che, articolato, pur nell’unicità della persona, in più amministrazioni e quindi gestioni contabili e di cassa trova in esso un mezzo per agevolare la realizzazione della compensazione fra debiti e crediti (v. C. Stato, 20 gennaio 1997, n.1420). Nel caso di specie l’amministrazione ha ragionevolmente posto in essere questo strumento cautelativo, visto che si è riservata di effettuare ulteriori indagini affidate alla Prefettura di Salerno, in merito alla cooperativa (come risulta dall’allegato 10 in atti). Nel caso in cui questi adempimenti abbiano esito positivo, dovrà essere corrisposto all’impresa di pesca un aiuto pubblico pari ad euro 141.246,00, per l’arresto temporaneo obbligatorio della pesca del tonno e di euro 1.166.470,00, per l’arresto definitivo dell’unità da pesca (...), determinati secondo le modalità indicate nel piano di adeguamento della flotta tonniera approvato con decreto direttoriale n. 28 del 27 aprile 2010. La cooperativa contesta la compensabilità dei crediti in esame evidenziando la presunta natura assistenziale ed alimentare del contributo per l’arresto temporaneo obbligatorio e definitivo, causa escludente l’applicabilità dell’istituto della compensazione alla stregua di quanto disposto dall’art. 1246 c.c. Secondo la disposizione di quest’articolo tra le altre ipotesi in cui la compensazione non si verifica sono ricompresi i casi in cui i crediti siano impignorabili, ex art. 545 c.p.c. e i casi in cui vi sia un divieto stabilito dalla legge. Si rileva, che non possono considerarsi di natura assistenziale i contributi erogati in attuazione dell’arresto temporaneo obbligatorio del tonno rosso e dell’arresto definitivo dell’unità di pesca. Il piano di adeguamento dello sforzo di pesca a circuizione autorizzata alla pesca del tonno rosso è redatto allo scopo di ridurre la capacità di pesca impegnata nello sfruttamento dello stock di tonno rosso. La riduzione rapida, permanente e consistente dello sforzo di pesca a circuizione autorizzata alla pesca del tonno rosso nel 2010 rappresenta un impegno considerevole assunto dall’Amministrazione italiana nel quadro della programmazione del Fondo Europeo della Pesca allo scopo di partecipare all’azione di ricostituzione dello stock di tonno rosso e creare migliori condi- 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 zioni economiche per gli operatori del settore sostenibili nel tempo. Il Piano prevede l’adozione di stringenti misure di controllo con l’obiettivo di ridurre la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. Ciò anche in esecuzione delle previsioni introdotte con il Reg. (CE) 302/2009 e di quanto disposto con regolamento (CE) n. 1224/2009 del Consiglio del 20 novembre 2009 che istituisce un regime di controllo comunitario per garantire il rispetto delle norme della politica della pesca. Gli interventi del Fondo europeo per la pesca sono finalizzati a sostenere la politica comune della pesca per assicurare lo sfruttamento delle risorse acquatiche viventi ai fini della sostenibilità dal punto di vista economico, ambientale e sociale; a promuovere un equilibrio sostenibile tra le risorse e le capacità di pesca della flotta da pesca comunitaria, promuovere uno sviluppo sostenibile della pesca nelle acque interne e favorire lo sviluppo sostenibile e il miglioramento delle qualità della vita nelle zone in cui si svolgono attività nel settore della pesca. I suddetti contributi per l’arresto della pesca del tonno rosso non possono considerarsi di natura assistenziale perché manca loro la funzione di solidarietà sociale ex art. 2 e 38 della Costituzione. I contributi assistenziali, infatti, sono somme di denaro destinate a finanziare le prestazioni pensionistiche e tutte le altre prestazioni previdenziali ed assistenziali in caso di malattia, infortuni sul lavoro, maternità, disoccupazione, ecc. a cui tutti i lavoratori hanno diritto. Non possono nemmeno rientrare tra gli aiuti di carattere alimentare. L'aiuto alimentare e le azioni di sostegno alla sicurezza alimentare costituiscono un importante strumento della politica di assistenza allo sviluppo. Obiettivi principali di questa politica sono la lotta contro la povertà ed uno stretto coordinamento tra Stati membri e Comunità, con altre organizzazioni internazionali (come l'Organizzazione Mondiale della Sanità-OMS) e con la società civile (organizzazioni non governative-ONG). È inoltre essenziale che gli aiuti alimentari consolidino il partenariato con il paese beneficiario, integrandosi nella politica del paese in via di sviluppo, rispettando le sue specificità e puntando a rafforzare la politica in atto. Quanto agli obiettivi più specifici, le azioni devono puntare, tra l'altro, a promuovere la sicurezza alimentare, a innalzare il tenore nutrizionale delle popolazioni beneficiarie e a contribuire ad uno sviluppo economico e sociale equilibrato. §.2. La natura giuridica dei contributi in dare-avere e la natura dei rapporti giuridici sottostanti Ciò premesso mette conto chiarire la natura giuridica dei contributi F.E.P. in questione al fine di verificare se sia possibile operare una compensazione legale o “atecnica”. I suddetti contributi sono, per espressa previsione normativa, degli aiuti pubblici di natura comunitaria volti allo sviluppo sostenibile delle zone di pesca. La concessione di suddetti contributi viene finanziata dal Fondo euro- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 231 peo Pesca al quale viene assegnata ogni anno una dotazione di danaro da suddividere tra gli Stati membri secondo l’importanza del settore della pesca, il numero di addetti e gli adeguamenti ritenuti necessari per la pesca e per la continuità delle attività. Il Fep deve finanziare azioni in materia di sviluppo sostenibile e miglioramento della qualità della vita nelle zone di pesca nel quadro di una strategia globale di sostegno all’attuazione degli obiettivi della politica comune della pesca. Su iniziativa dello Stato membro il Fondo europeo pesca può finanziare, nel quadro del programma operativo, le misure di aiuto all’arresto temporaneo delle attività di pesca a favore dei pescatori e dei proprietari dei pescherecci. Ciascuno Stato membro, previa opportuna consultazione con i partner istituzionali ed economico sociali, adotta un piano strategico nazionale per il settore della pesca e lo sottopone alla Commissione. Il piano strategico nazionale, oggetto di dialogo tra lo Stato membro e la Commissione, contiene, se lo Stato membro lo ritiene opportuno, una descrizione succinta degli aspetti della politica comune della pesca e fissa le priorità, gli obiettivi, le risorse finanziarie pubbliche ritenute necessarie in termini di attuazione. Ciascuno Stato membro elabora e presenta alla Commissione una proposta di programma operativo per l’attuazione delle politiche e delle priorità da cofinanziare tramite il Fep. Il programma operativo è coerente con il piano strategico nazionale, con gli obiettivi del Fep e con i principi orientativi stabiliti dal regolamento. La Commissione valuta il programma operativo e adotta una decisione di approvazione il più rapidamente possibile. §.3. Se sia possibile operare la compensazione legale Chiarita la natura comunitaria di questi contributi è preliminare esaminare, al fine della loro compensabilità ex art. 1246 c.c., se essi possano essere pignorati. La materia dell’impignorabilità dei crediti costituisce un’eccezione al principio della responsabilità patrimoniale sancito dall'art. 2740 del codice civile ai sensi del quale "il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri". Questa materia, in particolare, trova specifica disciplina nell'art. 545 del codice di procedura civile che, dopo avere individuato nei primi tre commi i crediti impignorabili (crediti alimentari, crediti aventi per oggetto sussidi di grazia o di sostentamento, sussidi dovuti per maternità, malattie o funerali, somme dovute dai privati a titolo di stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego), al comma 6 prevede espressamente: "restano in ogni caso ferme le altre limitazioni contenute in speciali disposizioni di legge". Posto che, come già detto, non sussiste alcun elemento per assimilare il credito vantato dalla cooperativa (...) a quelli espressamente qualificati come impignorabili nei primi tre commi dell'art. 545 c.p.c., resta da verificare se il vincolo di indisponibilità esecutiva del predetto credito possa trovare fondamento nel riportato comma 6 del medesimo art. 545 c.p.c. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Mette conto, anzitutto, evidenziare che i finanziamenti in questione rientrano tra gli interventi del Fondo europeo per la pesca nell’alveo dei fondi strutturali previsti dall’Unione Europea disciplinati dal Regolamento (CE) del Consiglio n. 1260 del 21 giugno 1999 contenente disposizioni generali, per l’appunto, sui Fondi strutturali. L'art. 32 del citato Reg. (CE) n. 1260/1999, nel disciplinare i pagamenti, al paragrafo 1, tra l'altro, così dispone: “l'autorità di pagamento provvede affinchè i beneficiari finali ricevano quanto prima e integralmente gli importi corrispondenti alla partecipazione dei Fondi a cui hanno diritto”. La riferita disposizione comunitaria mira a garantire, dunque, che i beneficiari finali degli interventi il cui finanziamento è assicurato dai Fondi strutturali, ricevano integralmente gli importi per la realizzazione dei progetti presentati. In altri termini, l'esecuzione finanziaria degli interventi deve assicurare la conformità degli impegni e dei pagamenti alle prescrizioni comunitarie e, dunque, deve garantire il trasferimento rapido ed efficiente delle risorse ai beneficiari finali senza ritardi ingiustificati e senza decurtazioni che potrebbero ridurre l'importo dovuto. Pertanto, nella fattispecie, pare potersi affermare che, in forza della richiamata normativa comunitaria, la società cooperativa beneficiaria dei contributi suddetti debba poter ricevere integralmente le somme concesse in relazione agli interventi finanziati. Ciò indurrebbe a concludere nel senso della impignorabilità delle medesime somme, con la conseguente non applicabilità della autotutela in compensazione legale per l’impedimento posta dall’art. 1246 n. 3 cod.civ. L’indisponibilità dei suddetti contributi trova conferma anche alla luce di un’altra disposizione del richiamato Reg. (CE) n. 1260/1999, ed in particolare dell’art. 38. L'art. 38 del citato Reg. n. 1260/1999 viene in rilievo laddove prevede per gli Stati membri “la responsabilità primaria del controllo finanziario degli interventi” e, a tal fine, li impegna, sia ad adottare "sistemi di gestione e controllo che consentano l'impiego efficace e corretto dei fondi comunitari", sia a tenere a disposizione della Commissione europea, "per un periodo di tre anni” successivamente al pagamento da parte della Commissione medesima del saldo relativo ad un intervento, tutti i documenti giustificativi concernenti le spese e i controlli relativi all'intervento stesso. Il regolamento C.E. 1260/1999 è stato sostituito dal regolamento C.E. n. 1083/2006. Quest'ultimo contiene norme analoghe al regolamento sostituito tra le quali spicca l’art. 80, rubricato "Integrità dei pagamenti ai beneficiari” che suona: “Gli stati membri si accertano che gli organismi responsabili dei pagamenti assicurino che i beneficiari ricevano l'importo totale del contributo pubblico entro il più breve termine e nella sua integrità. Non si applica nessuna detrazione o trattenuta né alcun onere specifico o di altro genere con effetto equivalente che porti alla riduzione di detti importi per i beneficiari”. Infine, sempre con riferimento al Fondo europeo pesca, l’art. 80 del regolamento CE n. 1198/2006 del Con- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 233 siglio del 27 luglio 2006 rubricato “Integralità dei pagamenti ai beneficiari” ribadisce la stessa prescrizione: “Gli Stati membri si assicurano che gli organismi responsabili dei pagamenti garantiscano che i beneficiari percepiscano l’ammontare complessivo del contributo pubblico entro il più breve termine e nella sua integralità. Non si applica nessuna detrazione o trattenuta, né alcun altro onere specifico o di altro genere con effetto equivalente che conduca alla riduzione di questi importi per i beneficiari”. Sembra, pertanto, doversi ribadire la tesi secondo la quale i contributi pesca siano impignorabili, alla stessa stregua dei contributi FEAGA in agricoltura, stante la medesima ratio secondo cui l’aiuto deve giungere integro al produttore e non patire nessuna “detrazione o trattenuta”. Il sintagma nessuna detrazione o trattenuta richiama effetti di strumenti di autotutela, le cui cause possono essere molteplici, tra le molte sono incluse le compensazioni finanziarie, quali ad esempio quelle dettate in regime FEAGA. Tuttavia, mentre per tale regime la normativa comunitaria regolamentare consente di trattenere dagli aiuti PAC gli aiuti indebitamente percepiti (cfr. art. t ter del Reg. CE n. 885/2006, ma già in precedenza in ambito nazionale v. l’art. 2 del D.P.R. n. 727 del 24 dicembre 1974 con riferimento ai contributi P.A.C. A.i.m.a. ed ora cfr. l’art. 3, comma 5-duodecies del D.L. n. 182/2005, convertito in legge n. 231/2005, nonché l’art. 8-ter commi 1, 5 e 7, del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5 sulla compensazione automatica,), a prescindere dalla loro impignorabilità, non si rinviene alcuna norma del genere che consente di “detrarre” in compensazione dagli aiuti FEP gli aiuti di Stato indebitamente percepiti dalle cooperative di pesca. §.4. La compensazione atecnica o impropria Chiarita l’impignorabilità dei contributi FEP è bene porsi il quesito se possa operare, nel caso di specie, compensazione atecnica: istituto per il quale non trovano applicazione le norme codicistiche in materia di compensazione legale. Come è noto, requisito necessario perché possa aversi compensazione è che vi sia l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti titoli creditori delle parti. La compensazione c.d. impropria, invece, è un'ipotesi particolare di compensazione che ricorre, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, allorquando i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, sicché il giudice dovrebbe compiere un accertamento d’ufficio di dare ed avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza. L'aggettivazione “impropria” attribuita a tale compensazione si giustificherebbe sotto un duplice e connesso profilo. In primo luogo, l'istituto della compensazione di cui agli articoli 1241 ss. c.c. presuppone, come detto, l'autonomia dei rapporti da cui nascono i contrapposti crediti delle parti, con la conseguenza che la compensazione stessa deve escludersi allorché i rispettivi crediti e debiti risultino avere origine da un unico rapporto, divenendo così 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sufficiente procedere ad un semplice accertamento algebrico delle reciproche partite di dare e di avere; inoltre, in ipotesi del genere, non trovano applicazione le regole proprie della compensazione, sia di natura processuale (come quelle della non rilevabilità d'ufficio ex art. 1242, primo comma, c.c.) che sostanziale (quali l'arresto della compensazione ex art. 1242, secondo comma, c.c. e, ed è ciò che qui interessa, la non compensabilità del credito dichiarato impignorabile ex artt. 1246, primo comma, n. 3, c.c. e 545 c.p.c.). Si registra, tuttavia, negli ultimi pronunciamenti della giurisprudenza la tendenza a superare il precedente orientamento secondo cui la cosiddetta compensazione impropria trova applicazione tutte le volte che i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, in favore della sufficienza della presenza del nesso di sinallagmaticità tra le obbligazioni (che implica, ad onor del vero, sempre una unicità di rapporto). Peraltro, la tesi secondo cui in caso di rapporto unico, anche se complesso, la valutazione delle rispettive pretese si ridurrebbe ad un accertamento contabile delle poste di dare e avere, è condivisibile solo quando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un vincolo di corrispettività che ne escluda l'autonomia, perchè in tali ipotesi la non compensabilità deriva dal fatto che l'elisione delle reciproche obbligazioni verrebbe ad incidere sull'efficacia del negozio, ponendosi così la compensazione in contrasto con la funzione del contratto. Quando, invece, le obbligazioni, ancorchè nascenti dal medesimo negozio, non siano in rapporto di sinallagmaticità, avendo carattere autonomo, non v'è ragione alcuna per escludere la fattispecie dall'area della compensazione in senso tecnico e dall'applicazione della relativa disciplina. Deve pertanto concludersi che, ai fini della configurabilità della compensazione in senso tecnico, non rileverebbe tanto la pluralità o unicità dei rapporti posti a base delle reciproche obbligazioni, quanto il fatto che le suddette obbligazioni, quale che sia il rapporto (o i rapporti) da cui esse prendono origine, siano “autonome” (nel senso, precisato, di “non essere legate da nesso di sinallagmaticità”). Le cd. “compensazioni atecniche”, pertanto, in mancanza di espressa previsione testuale, non possono essere estese oltre le ipotesi in cui una compensazione non sia logicamente configurabile (obbligazioni in sinallagma), dovendo, in ogni altro caso, ritenersi applicabile l'istituto della compensazione previsto dal codice, con i limiti e le garanzie della relativa disciplina (Cass. Civ., Sez. Lav., 9 maggio 2006, n. 10629). §.5. L’autonomia dei rapporti nella fattispecie concreta È necessario valutare, nel caso di specie, se quindi sussistano tra la cooperativa e l’amministrazione rapporti giuridici autonomi o se vi sia un unico rapporto da cui derivano obbligazioni legate dal nesso di corrispettività. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 235 §.5.1. I contributi per la ricapitalizzazione I contributi per la ricapitalizzazione delle cooperative rientrano nel complesso di azioni pubbliche in favore del settore ittico realizzate mediante un'efficace sinergia tra i diversi livelli dell'amministrazione pubblica e le associazioni nazionali delle cooperative della pesca che rappresentano le varie realtà del settore. Si tratta di contributi rientranti nel Piano nazionale della pesca e dell'acquacoltura per l'anno 2004. In particolare, attraverso la cooperazione e l'associazionismo è stata diffusa la cultura della responsabilizzazione e della compartecipazione degli operatori di settore alle politiche gestionali e di sviluppo di un'adeguata imprenditorialità. La gestione di tali contributi rispecchia il sistema gestionale “multilivello” che individua fonti di diritto diverse: la Comunità europea, lo Stato italiano, le regioni e le province autonome. All'erogazione dei contributi provvede lo Stato mediante utilizzo delle disponibilità del Fondo centrale per il credito peschereccio, mentre le regioni si impegnano ad erogare incentivi volti alla ristrutturazione aziendale e ricapitalizzazione delle cooperative. Al fine di consentire alle imprese ed alle cooperative operanti nel settore della pesca, dell'acquacoltura e delle attività connesse, un più agevole ricorso al credito, è stato istituita operatività del Fondo centrale per il credito peschereccio, previsto dalla legge 17 febbraio 1982, n. 41. Detto fondo eroga, sulla base della dotazione stabilità a livello comunitario, finanziamenti a tassi agevolati. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 2 del decreto 10 febbraio 1998, n. 113 “Alle cooperative che intendono adottare un piano di ristrutturazione aziendale finalizzato al risanamento della gestione possono essere concessi sia un contributo a fondo perduto sia un mutuo a tasso agevolato”. In particolare si tratta di un fondo di rotazione alimentato dagli stanziamenti statali dalle rate di ammortamento e dai rimborsi anticipati dei mutui erogati dal fondo stesso. La L. 41/82, che istituisce il menzionato fondo, prevede l’elaborazione di un Piano nazionale di durata triennale la cui funzione è quella di favorire la realizzazione di interventi diretti a promuovere lo sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse biologiche del mare attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima. Tra gli obiettivi indicati dai piani vi è quello volto alla ristrutturazione aziendale e al risanamento della gestione di cooperative e loro consorzi di particolare rilevanza, che operano nel settore della pesca, dell’acquacoltura, della trasformazione e commercializzazione. L’art. 5 del Decreto Legislativo 26 maggio 2004, n. 154 “Modernizzazione del settore pesca e dell'acquacoltura, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 7 marzo 2003, n. 38” stabilisce che “È il Ministero delle politiche agricole e forestali, sentito il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, che propone al CIPE, per l'approvazione di cui al comma 3, il «Programma nazionale triennale della pesca e l'acquacoltura», di seguito denominato 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 «Programma nazionale», contenente gli interventi di competenza nazionale”. Spetta, dunque, agli Stati membri erogare i finanziamenti e controllare che vengano adoperati per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal Programma triennale. §.5.2. I contributi per l’arresto natanti I contributi per l’arresto definivo dei natanti e per l’arresto obbligatorio della pesca di tonno rosso, sono contributi finanziati dal FEP sulla base del programma operativo presentato dai singoli stati membri e approvato dalla Commissione europea. Una volta adottata la decisione che approva un contributo del FEP a un programma operativo, la Commissione versa all’organismo designato dallo Stato membro un importo unico a titolo di prefinanziamento. I pagamenti da parte della Commissione avvengono sotto forma di un prefinanziamento, di pagamenti intermedi e di un pagamento del saldo. Spetta agli Stati membri garantire la gestione e il controllo dei programmi operativi e spetta agli stessi prendere provvedimenti quando venga accertata una modifica importante che incida sulla natura delle condizioni di attuazione o di controllo delle operazioni o del programma operativo. Gli aiuti di stato premi di capitalizzazione, dunque, costituiscono contributi diversi rispetto a quelli versati per il fermo natante e dell’arresto definitivo della pesca del tonno rosso, atteso che sono differenti i rapporti giuridici che si vanno ad instaurare tra beneficiario e soggetto erogatore. Entrambi i contributi, dunque, pur essendo di natura comunitaria, derivano da rapporti giuridici relativi a titoli autonomi, che hanno ratio diverse e per i quali si potrebbe procedere a compensazione tecnica se non lo impedissero le norme sopra enunciate relative all’impossibilità di effettuare detrazioni e trattenute che conducano alla riduzione di questi importi per i beneficiari. §.6. La compensazione comunitaria e la sua prevalenza sull’art. 1246 n. 3 cod.civ. Merita, tuttavia, attenzione la sentenza della Corte di giustizia n. 132 del 19 maggio 1998 nella causa C-132/95 Bent Jensen che ha ammesso a certe condizioni la compensazione fra aiuti comunitari e imposte dello Stato membro, ossia tra titoli all’evidenza del tutto autonomi. Come risulta dal testo della sentenza, il diritto comunitario non prevede, allo stato attuale, norme generali relative al potere delle autorità nazionali di procedere a compensazioni tra crediti esigibili di uno Stato membro ed importi versati in base al diritto comunitario. Il diritto comunitario non osta a che uno Stato membro operi una compensazione tra un importo dovuto al beneficiario di un aiuto in base al diritto comunitario e crediti esigibili del medesimo Stato membro. A una diversa soluzione dovrebbe giungersi solo se tale prassi ostacolasse il buon funzionamento del mercato comune. Al riguardo restano irri- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 237 levanti il titolo in base al quale lo stato membro concede gli aiuti, la circostanza che la normativa del detto Stato membro in materia di compensazione esige, per procedere una reciprocità di crediti tra il debitore e il creditore, la prassi generalmente seguita dallo Stato membro in materia di compensazione, nonché la base giuridica del credito statale con il quale viene operata la compensazione. Vi è però il limite che le autorità nazionali procedano in modo da evitare ogni pregiudizio all’efficacia del diritto comunitario o al la parità di trattamento tra gli operatori economici. A conferma della massima della sentenza della Corte di Giustizia citata, che come è noto costituisce diritto vincolante per lo Stato, vi è il Regolamento della Commissione del 21 ottobre 2008, n. 1034 recante “Modalità di applicazione del regolamento CE n. 1260/2005 del Consiglio per quanto riguarda il riconoscimento degli organismi pagatori e di altri organismi e la liquidazione del FEAGA e del FEASR”. L’art 5 ter del regolamento rubricato “modalità di recupero” stabilisce che fatte salve eventuali misure di esecuzione previste dalla normativa nazionale, gli Stati membri deducono gli importi dei debiti in essere di un beneficiario, accertati in conformità della legislazione nazionale, dai futuri pagamenti a favore del medesimo beneficiario effettuati dall’organismo pagatore incaricato di recuperare il debito. Poiché sia il FEAGA che il FEASR rientrano tra i fondi strutturali tra cui viene fatto rientrare anche il fondo europeo pesca è opportuno che anche per il recupero dei contributi finanziati dal FEP valgano le medesime norme. §.7. Conclusioni Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia e della disciplina regolamentare comunitaria menzionata, si può concludere che si può addivenire a compensazione legale tra i premi a cui la cooperativa ha diritto e i crediti vantati dell’amministrazione relativi ai contributi indebitamente erogati perché incompatibili con il mercato comune; ciò, in quanto le norme del Trattato UE sul divieto degli aiuti di Stato, nonché il principio di diritto comunitario affermato dalla Corte di Giustizia esportabile in via analogica anche per i premi fermo pesca a tutela del tonno, prevalgono sulle norme interne che vietano la compensazione legale del credito impignorabile. L E G I S L A Z I O N E E D A T T U A L I TA’ Il contenzioso in materia di operazioni elettorali nel nuovo codice del processo amministrativo a cura di Maurizio Borgo* IL TITOLO VI DEL LIBRO IV (“OTTEMPERANZA E RITI SPECIALI”) DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (DI SEGUITO, SEMPLICEMENTE “CODICE”) RECA, AGLI ARTICOLI DA 126 A 132, LA DISCIPLINA DEL CONTENZIOSO IN MATERIA DI OPERAZIONI ELETTORALI. L’omesso esercizio della delega nella parte relativa alla “giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica” (art. 44, comma 2, lett. d), della legge-delega n. 69/09) Il testo definitivo del Codice presenta una rilevante modifica rispetto a quello elaborato dalla Commissione, all’uopo istituita presso il Consiglio di Stato. La stessa è costituita dall’espunzione, con riferimento all’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in tema di contenzioso sulle operazioni elettorali (art. 126), della originaria previsione della cognizione del giudice amministrativo anche sugli “atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. Al proposito, si evidenzia come l'art. 44, comma 2, lett. d), della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplifica- (*) Avvocato dello Stato, Condirettore della Rivista. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 zione, la competitività nonché in materia di processo civile) avesse delegato il Governo ad introdurre «la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni». Con la prefata previsione, il legislatore perseguiva il meritorio obiettivo di ovviare ad una situazione di incertezza, venutasi a creare in ordine all’individuazione del giudice competente a conoscere dei ricorsi avverso gli atti degli uffici elettorali, adottati nell’ambito del procedimento elettorale preparatorio delle elezioni politiche, che si può riassumere nei termini che seguono. Gli articoli 23 e 87 del d.P.R. n. 361 del 1957 configurano un sistema di tutela delle situazioni giuridiche dei candidati all'elezione della Camera dei deputati (ma uguale disciplina vale anche per l’elezione del Senato della Repubblica) articolato in due momenti fondamentali: il primo, di natura amministrativa, consiste nel diritto del candidato di ricorrere, contro le decisioni dell'Ufficio centrale circoscrizionale, all'Ufficio centrale nazionale; il secondo, di natura giurisdizionale, nel quale spetta alla stessa Camera il «giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all'Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente». La natura amministrativa dei controlli effettuati dall'Ufficio circoscrizionale e da quello centrale è stata affermata dalla Corte Costituzionale con giurisprudenza univoca, sul rilievo che la collocazione di detti organi presso le Corti d'appello e la Corte di Cassazione «non comporta che i collegi medesimi siano inseriti nell'apparato giudiziario, evidente risultando la carenza, sia sotto il profilo funzionale sia sotto quello strutturale, di un nesso organico di compenetrazione istituzionale che consenta di ritenere che essi costituiscano sezioni specializzate degli uffici giudiziari presso cui sono costituiti» (cfr. sentenza n. 387 del 1996; conformi, ex plurimis, sentenze n. 29 del 2003, n. 104 del 2006, n. 164 del 2008). La natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell'art. 66 Cost., è pacificamente riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, «quale unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni» (cfr. Corte Cost., sentenza n. 113 del 1993). Una giurisprudenza costante e uniforme della Corte di Cassazione ha escluso la giurisdizione del giudice ordinario, come di ogni altro giudice, anche sul procedimento elettorale preparatorio, ritenendo gli uffici elettorali di cui LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 241 sopra «organi straordinari, temporanei e decentrati, di quelle stesse Camere legislative alla cui formazione concorrono, svolgendo una funzione contingente e strumentale, destinata ad essere controllata o assorbita da quella delle stesse Camere, una volta queste costituite» (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 31 luglio 1967, n. 2036; conformi, ex plurimis, sezioni unite civili, sentenze 9 giugno 1997, n. 5135; 22 marzo 1999, n. 172; 6 aprile 2006, n. 8118 e n. 8119; 8 aprile 2008, n. 9151, n. 9152 e n. 9153). A partire dalla XIII Legislatura, la Camera dei deputati ha, tuttavia, negato la propria competenza a conoscere i ricorsi riguardanti atti del procedimento elettorale preparatorio, dichiarando gli stessi inammissibili, sulla base della considerazione che «la verifica dei titoli di ammissione degli eletti esclude per definizione che nella stessa possa ritenersi ricompreso anche il controllo sulle posizioni giuridiche soggettive di coloro i quali (singoli o intere liste) non hanno affatto partecipato alla competizione elettorale» (cfr. Giunta delle elezioni della Camera dei deputati, seduta del 13 dicembre 2006). Dal quadro normativo e giurisprudenziale, sopra delineato, emerge chiaramente l’esistenza di un contrasto che potrebbe essere foriero dell’insorgenza di conflitti di giurisdizione oppure, qualora ne ricorrano i presupposti soggettivi ed oggettivi, addirittura di conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, con conseguente coinvolgimento della Corte Costituzionale. Quest’ultima è stata, peraltro, interessata della questione, seppure in via incidentale, ma ha, di recente, dichiarato la manifesta inammissibilità della stessa. Nella sentenza n. 259/09, la Consulta ha, infatti, affermato che “dal quadro normativo e giurisprudenziale esposto non deriva la conclusione, cui è giunto invece il rimettente, che vi sia nell'ordinamento un vuoto di tutela delle situazioni giuridiche soggettive nel procedimento elettorale preparatorio delle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il giudice competente in materia è stato, infatti, individuato nello stesso organo parlamentare dal giudice supremo del riparto delle giurisdizioni, che, a norma della Costituzione (art. 111, ottavo comma) e delle leggi vigenti, è la Corte di cassazione”. Nella medesima sentenza, la Corte Costituzionale ha, peraltro, evidenziato “che le questioni attinenti le candidature, che vengono ammesse o respinte dagli uffici competenti, nel procedimento elettorale preparatorio, riguardano un diritto soggettivo, tutelato per di più da una norma costituzionale, come tale rientrante, in linea di principio, nella giurisdizione del giudice ordinario”. Da qui l’introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sugli “atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica” da parte della legge n. 69/09 (scelta, quest’ultima, espressamente menzionata dalla 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Corte Costituzionale nella parte conclusiva della sentenza n. 259/09). Alla luce di quanto sopra, desta, pertanto, perplessità la decisione del Governo di non esercitare la delega nella parte relativa alla introduzione di una tutela giurisdizionale specifica per la fase preparatoria delle elezioni politiche, accantonando il testo che era stato elaborato in tale senso dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato. PER COMODITÀ DI LETTURA LA TRATTAZIONE SEGUE LA DISTINZIONE DEL CODICE IN CAPI. • Capo I: disposizioni comuni al contenzioso elettoriale (artt. 126-128) L’art. 126 del Codice individua l’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di operazioni elettorali, riferendola alle operazioni relative alle elezioni amministrative (rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle province e delle regioni) nonché all’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia. Al proposito, occorre, in primo luogo, tenere presente che, secondo la pacifica giurisprudenza della Corte di legittimità, “le controversie elettorali riservate alla giurisdizione amministrativa dall'art. 6 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 sono quelle attinenti alle operazioni elettorali - che non si esauriscono nelle attività di votazione vere e proprie, ma si estendono al complesso procedimento elettorale, dalla indizione delle elezioni fino alla proclamazione degli eletti, sicché sono devolute al detto giudice anche le controversie che investono la presentazione e l'accettazione delle liste, compresi i provvedimenti delle Commissioni elettorali mandamentali, oltre che quelle relative alla detta proclamazione degli eletti - e si caratterizzano dalla loro pertinenza a situazioni giuridiche soggettive che hanno la consistenza del mero interesse legittimo, con la conseguenza che alla giurisdizione suddetta non può riconoscersi carattere esclusivo, implicando essa, invece, senza contrasto con gli artt. 103 e 113 Cost., una applicazione dei criteri generali di riparto della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo” (cfr. Corte Cass., SS.UU., sentenza 1 luglio 1992, n. 8084). L’art. 127, in continuità con la normativa previgente, prevede, per gli atti relativi al contenzioso elettorale, l’esenzione degli stessi dal contributo unificato e da ogni altro onere fiscale. L’art. 128 dispone che in materia elettorale non è ammesso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; la norma prende atto di un consolidato orientamento del Consiglio di Stato secondo il quale il ricorso in materia elettorale non può essere svolto con le forme del ricorso straordinario al Capo dello Stato, essendo autonomamente regolato da un procedimento giurisdizionale speciale, caratterizzato da termini accelerati e da possibile decisione di LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 243 merito, rimesso alla esclusiva giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, 21 ottobre 2009, n. 3244). Tra le disposizioni comuni al contenzioso elettorale (sebbene non sia allocata nel Capo I del Titolo VI del Libro IV del Codice) va annoverata anche la previsione contenuta nell’art. 23 la quale prevede che, in materia elettorale, “le parti possono stare in giudizio personalmente senza l’assistenza di un difensore”. Trattasi di disposizione che, seppure sia conforme alla previgente disciplina (art. 7 della legge n. 1034/71), desta non poche perplessità atteso che il giudizio in materia di operazioni elettorali (in particolare, il rito disciplinato nell’art. 129) risulta caratterizzato da numerosi incombenti processuali, da compiersi, a pena di decadenza, nel rispetto di ristrettissimi termini; una circostanza, quest’ultima, che avrebbe dovuto imporre una maggiore riflessione in ordine alla opportunità di confermare, con riferimento al contenzioso in materia elettorale, la deroga al principio dell’obbligatorietà della difesa tecnica. Da ultimo, deve precisarsi che la difesa personale non è, comunque, ammessa nei giudizi di impugnazione; in tale senso dispone, infatti, l’art. 95, comma 6, del Codice. • Capo II: tutela anticipata avverso gli atti di esclusione dai procedimenti elettoriali preparatori per le elezioni comunali, provinciali e regionali (art. 129) Il Capo II del Titolo VI del Libro IV del Codice si compone di una sola disposizione, l’art. 129. L’art. 129 del Codice, al primo comma, stabilisce che i provvedimenti relativi al procedimento preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali concernenti l’esclusione di liste o candidati possono essere immediatamente impugnati, esclusivamente dai delegati delle liste e dai gruppi di candidati esclusi, innanzi al T.A.R. competente nel termine di tre giorni dalla pubblicazione del provvedimento di esclusione. Al di fuori di quanto previsto dal comma 1 – prosegue la disposizione – ogni provvedimento relativo al procedimento preparatorio per le elezioni è impugnabile soltanto alla conclusione del procedimento elettorale, unitamente all’atto di proclamazione degli eletti. La problematica ortodossia costituzionale dell’art. 129 del Codice La disposizione di cui all’art. 129 del Codice (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio 2010) risulta coeva, per una sorta di scherzo del destino, alla pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 236/10 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 83–undecies del d.P.R. n. 570/60, nella 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 parte in cui escludeva la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni comunali, provinciali e regionali, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del T.U. del 1960 è stato promosso dal T.A.R. Liguria. Il giudice rimettente ha contestato la legittimità della norma che esclude – secondo una interpretazione giurisprudenziale consolidata – la possibilità di una autonoma impugnativa degli atti endoprocedimentali del procedimento elettorale, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Nel giudizio che ha occasionato la rimessione, i ricorrenti, in qualità di elettori, delegati alla presentazione di lista e candidati, avevano impugnato i provvedimenti di ricusazione di una lista alle elezioni provinciali alla quale erano interessati. Il T.A.R., accertata la rilevanza della questione, atteso che la inammissibilità del gravame sulla base della «regola del diritto vivente» avrebbe precluso ai ricorrenti la partecipazione alla competizione elettorale «con conseguente compressione dei diritti elettorali costituzionalmente garantiti», ha, da un lato, concesso la tutela cautelare, e, dall’altro, rimesso gli atti alla Consulta per violazione degli artt. 3, 24, 48, 49, 51, 97 e 113 della Costituzione. La Corte Costituzionale ha affermato che la posticipazione dell’impugnabilità degli atti di esclusione di liste o candidati (con riferimento alla fattispecie in esame) ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni viola gli artt. 24 e 113 Cost.. L’interesse del candidato - si legge in motivazione - «è quello di partecipare ad una determinata consultazione elettorale, in un definito contesto politico e ambientale». Ogni forma di tutela che intervenga ad elezioni concluse «appare inidonea ad evitare che l’esecuzione del provvedimento illegittimo di esclusione abbia, nel frattempo, prodotto un pregiudizio». La Corte ha, altresì, evidenziato che «lo stesso legislatore, del resto, con la disposizione dell’art. 44 della L. 69 del 2009, ha delegato il Governo ad adottare norme che consentono l’autonoma impugnabilità degli atti cosiddetti endoprocedimentali immediatamente lesivi di situazioni giuridiche soggettive». A completamento del quadro della normativa di riferimento, che richiede una tutela piena e tempestiva contro gli atti della pubblica amministrazione, la Corte ha, infine, richiamato gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che riconoscono, tra l’altro, il diritto ad un ricorso effettivo. L’esclusione della impugnabilità immediata degli atti relativi al procedimento preparatorio alle elezioni, come l’esclusione di liste o candidati, - ha concluso la Corte - vanificherebbe il diritto riconosciuto dalla Convenzione europea. Da qui la statuizione di illegittimità costituzionale dell’art. 83-undicies del d.P.R. n. 570/60. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 245 La questione, sollevata dal T.A.R. Liguria, e definita dalla Corte Costituzionale, ha preso le mosse dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 24 novembre 2005 n. 10, che risolse in termini negativi la dibattuta e controversa questione circa la possibilità, in materia di ricorso avverso le operazioni elettorali, di impugnare, prima della proclamazione degli eletti, gli atti endoprocedimentali riguardanti le operazioni preparatorie. E’ d’uopo ricordare che sulla questione si erano manifestati, prima della decisione dell’Adunanza Plenaria, orientamenti giurisprudenziali molto diversificati, riconducibili a tre filoni: il primo, che riteneva il carattere immediatamente lesivo di tutti i provvedimenti rientranti nella fase preparatoria del procedimento elettorale, e, quindi, sia i provvedimenti di esclusione, sia quelli di ammissione di liste o candidature, con la possibilità, quindi, o addirittura la doverosità, della immediata impugnabilità a pena di decadenza; il secondo filone che operava una distinzione tra i provvedimenti di esclusione da quelli di ammissione di liste o candidati, prefigurando due momenti diversi di impugnazione, in relazione alla qualità dell’interesse e ritenendo i provvedimenti di esclusione immediatamente impugnabili e quelli di ammissione impugnabili, invece, in via differita, al momento della proclamazione degli eletti; il terzo filone era quello che propugnava l’ammissibilità solo di una impugnativa successiva alla proclamazione degli eletti. Rispetto a siffatti orientamenti, come già detto, prevalse quello, da ultimo menzionato, con la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10/2005, peraltro diffusamente criticata in dottrina, ma altresì immediatamente disattesa dalla giurisprudenza dei TT.AA.RR. e dallo stesso Consiglio di Stato; già nel 2006, la Sezione Quinta (ordinanza n. 2368 del 16 maggio 2006) dissentiva dalla decisione dell’Adunanza Plenaria ed affermava l’ammissibilità di un ricorso in materia elettorale avverso gli atti di esclusione o di ammissione di una lista alla competizione elettorale «in considerazione della necessità più volte sottolineata dalla Corte Costituzionale di assicurare piena ed incondizionata tutela alla res integra, in relazione all’art. 24 Cost.». In effetti, come viene ricordato nella motivazione della sentenza n. 236/10 della Corte Costituzionale, la questione della costituzionalità dell’art. 83-undecies era stata già rimessa dal T.A.R. Sicilia – Sez. Catania al vaglio della Corte Costituzionale, che, con ordinanza n. 90 del 2009, la dichiarò inammissibile; ciò perché la stessa ordinanza di rimessione era stata formulata in modo perplesso e contraddittorio, ed altresì perché la medesima ordinanza dava atto di come, anche dopo l’intervento dell’Adunanza Plenaria, la disposizione impugnata fosse stata oggetto di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali, al punto che la norma stessa era stata censurata dal rimettente anche in relazione alla sua ambiguità. Ed invero, occorre sottolineare che, a più riprese, i Giudici Amministrativi, soprattutto dei TT.AA.RR., hanno ritenuto superato l’orientamento giu- 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 risprudenziale restrittivo sull’impugnabilità degli atti preparatori del procedimento elettorale immediatamente lesivi sia in sede cautelare che in sede di merito (T.A.R. Molise, Sez. I, 20 maggio 2009 n. 216; T.R.G.A. Trentino – Trento 10 ottobre 2008 n. 254; T.A.R. Lombardia – Milano 6 novembre 2007 n. 1135). Tra le decisioni più recenti è d’uopo segnalare la sentenza del T.A.R. Lecce n. 698 del 2010, confermata dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con decisione n. 4323 del 6 luglio 2010, che ha dato per acquisita la piena ammissibilità di un ricorso avverso il provvedimento di non ammissione di una lista comunale per la elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Comunale, decidendo la controversia dapprima in sede cautelare, e, quindi, con la citata sentenza di merito. E’ evidente, quindi, lo sforzo interpretativo compiuto dalla Corte Costituzionale, che, per potersi pronunciare sulla vexata quaestio dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del d.P.R. 570/60, ha dovuto affermare che, successivamente alla decisione n. 10/2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la regola scaturita da quella decisione si sarebbe consolidata come un vero e proprio diritto vivente. E per corroborare siffatta affermazione, non proprio in sintonia con i variegati orientamenti giurisprudenziali, la Corte Costituzionale ha opportunamente richiamato il testo della proposta del nuovo codice del processo amministrativo, all’epoca trasmesso alla Camera dei Deputati, che ha previsto l’abrogazione della norma dichiarata incostituzionale, prevedendo - si legge nella motivazione della sentenza della Corte - «la possibilità di impugnare immediatamente l’ammissione o la esclusione delle liste elettorali, senza attendere la proclamazione degli eletti (art. 129)». E tutto ciò in puntuale applicazione della delega contenuta nell’art. 44 della L. 69/2009, con la quale il legislatore aveva investito il Governo del riassetto del contenzioso elettorale amministrativo. Rimane, tuttavia, aperta la questione se la nuova disciplina del Codice abbia compiutamente soddisfatto le molteplici istanze sulla necessità di una tutela immediata anche nella fase preparatoria del procedimento elettorale, e se soprattutto l’art. 129 - coevo alla sentenza della Corte Costituzionale - ne rispetti le motivazioni ed il giudizio di conformità ai precetti costituzionali. In linea di principio, va evidenziato che le ammissioni o esclusioni delle liste e dei candidati, più che atti infraprocedimentali, si atteggiano come vere e proprie “fasi” del procedimento; sicché dovrebbe valere il principio secondo cui gli atti che chiudono una fase, se immediatamente lesivi, ancorché prodromici a successivi sviluppi, sono suscettibili di autonoma impugnazione, fatto salvo l’obbligo di impugnare l’atto conclusivo del procedimento (i casi più ricorrenti sono l’atto di adozione dello strumento urbanistico generale, l’aggiudicazione provvisoria in materia di contratti pubblici, gli atti di esclusione nei procedimenti concorsuali). LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 247 D’altro canto, i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza sembrano avere una valenza riferibile a tutti gli atti preparatori del procedimento elettorale, suscettibili di incidere sull’interesse dei concorrenti alla competizione elettorale. Se è vero, infatti, che in relazione alla fattispecie esaminata, il Giudice delle leggi ha fatto espresso riferimento agli atti di esclusione di liste o candidati, ribadendo che la posticipazione dell’impugnabilità di siffatti atti ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni preclude la possibilità di una tutela giudiziaria efficace e tempestiva, si può legittimamente argomentare che le esigenze di tutela evidenziate dalla Corte possono valere anche nella diversa ipotesi di ammissione di liste o di candidati in aperta violazione di legge. Anche in questo caso, denegando la possibilità di una impugnativa tempestiva dell’atto che chiude la fase di ammissione, si realizza la violazione degli artt. 24 e 113 Cost.; ciò perché - seguendo il ragionamento della Corte - posto che l’interesse del candidato è quello di partecipare ad una determinata consultazione elettorale in un definito contesto politico e ambientale, ed altresì - occorre aggiungere - temporale, ogni forma di tutela che intervenga ad elezioni concluse appare inidonea ad evitare che l’esecuzione del provvedimento illegittimo abbia, nel frattempo, prodotto un pregiudizio. In nessun altro procedimento, come quello elettorale, gli effetti dannosi di atti preparatori illegittimi si riverberano in modo irreversibile sulla rinnovazione di quegli stessi atti a seguito di una pronunzia di annullamento ex post per la indiscutibile non omogeneità tra due procedimenti elettorali reiterati nel tempo. Siffatta argomentazione è egualmente pertinente per l’ipotesi di illegittima esclusione di una lista, ma altresì per l’illegittima ammissione di una lista concorrente. A conferma del fatto che un pregiudizio può derivare anche dall’ammissione illegittima di una singola candidatura o di una lista soccorre la natura del sistema elettorale ormai vigente nelle elezioni comunali, provinciali e regionali, ancorato fortemente al principio maggioritario; sicché la partecipazione alla competizione elettorale con candidature o liste formate e presentate in modo del tutto irregolare ha una influenza decisiva sul risultato elettorale, determinandolo nel suo esito finale. Da qui la lesione immediata dell’interesse di un candidato, che è quello di partecipare ad una consultazione elettorale nella situazione politico-amministrativa esistente alla data prefissata, secondo le regole del gioco, nel mentre, una correzione o riedizione della competizione in un momento successivo, non sarebbe pienamente satisfattiva, perché influenzata dalle modificazioni, medio tempore verificatesi, del contesto politico-ambientale in diretta dipendenza di quegli atti di ammissione illegittimi, che hanno condizionato il risultato elettorale. 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Gli esempi sono di estrema attualità: si pensi ai sindaci o presidenti di regione, proclamati eletti ed insediatisi in virtù di elezioni annullate per vizi degli atti preparatori, concernenti l’illegittima ammissione di liste o candidature presentate fuori termine o inficiate dall’irregolare raccolta delle firme dei presentatori (si veda, da ultimo, il c.d. “caso Piemonte”, di recente definito dal Consiglio di Stato). Il diniego di una tempestiva tutela giurisdizionale fin dalla fase preparatoria è destinato a ledere l’interesse del candidato, anche perché la rinnovazione della consultazione elettorale potrà essere direttamente influenzata dalla funzione pubblica, medio tempore esercitata da chi ha potuto giovarsi dell’esecuzione di un provvedimento illegittimo di ammissione alla competizione stessa. Rimane, quindi, insuperata la contraddizione del ragionamento secondo cui, una volta riconosciuto il carattere immediatamente lesivo degli atti preparatori di ammissione od esclusione di liste o candidati, non può essere posticipata nel tempo la tutela apprestata dall’ordinamento. Ed è in questi termini che la Corte Costituzionale, nell’affermare l’incostituzionalità dell’art. 83-undecies, ha rilevato la violazione degli artt. 24 e 113 Cost. nel caso di una posticipazione della impugnabilità degli atti preparatori del procedimento elettorale, che, di fatto, preclude la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti. A tal fine, la Corte ha fatto doveroso richiamo degli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea, da ritenere di diretta applicazione nel nostro ordinamento, che riconoscono, tra l’altro, il diritto ad un ricorso effettivo, che verrebbe vanificato con l’esclusione dell’impugnabilità immediata degli atti relativi al procedimento preparatorio alle elezioni. Va detto che per superare tutto ciò, e quindi per ritenere conforme ai principi costituzionali richiamati dalla sentenza n. 236/10 e dalle considerazioni fin qui svolte, la disciplina del Codice che limita la possibilità di una impugnativa immediata solo agli atti di esclusione delle liste, ma non anche a quelli di ammissione, occorrerebbe dimostrare che la fase di ammissione delle liste non sia tale da determinare una immediata lesione della situazione soggettiva del privato, e, che, quindi, sia consentita una posticipazione dell’impugnabilità di questa fase preparatoria, a differenza di quanto avviene per gli atti di esclusione. Di certo, si potrà discutere anche sotto questo profilo, ed è possibile anche individuare situazioni differenziate in relazione alla natura dei vizi ed alla rilevanza delle situazioni contrapposte, ma appare difficile affermare apoditticamente, ed in linea di principio, una volta riconosciuta l’ammissibilità dell’impugnativa immediata degli atti preparatori del procedimento elettorale, che la fase di ammissione delle liste in nessun caso possa ledere l’interesse LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 249 del candidato, e quindi la pretesa a conseguire una immediata e piena tutela giurisdizionale. In linea generale - come peraltro osservato dal T.A.R. Liguria nella ordinanza di rimessione che ha dato luogo alla sentenza della Corte Costituzionale - per i competitori politici, ottenere la ripetizione delle elezioni, in un tempo successivo della vicenda elettorale in caso di vizi della fase preparatoria, non è realmente satisfattivo. E ciò vale per qualsiasi vizio afferente l’ammissione o l’esclusione di una lista. Il decorrere del tempo nella materia elettorale non è un fattore neutrale; vi sono, peraltro, casi specifici in cui i vizi afferenti l’ammissione di una lista, non tempestivamente rilevati, hanno un effetto dirompente sulla stessa possibilità di una effettiva presenza di altre liste e di altri candidati. Si pensi, ad esempio, alla violazione della norma che limita il numero massimo delle sottoscrizioni per la presentazione di una lista, allo scopo di non condizionare le possibilità degli altri elettori e di non dar luogo ad una precostituita campagna elettorale. In una fattispecie di tal genere, è evidente che l’omessa rilevazione del vizio da parte di una commissione elettorale, ed il diniego della possibilità di una impugnativa immediata da parte di un cittadino elettore del provvedimento di ammissione della lista illegittimamente ammessa, comporterebbe una lesione immediata e difficilmente recuperabile attraverso la posticipazione dei ricorsi elettorali. Il nuovo “rito superaccelerato” Il giudizio, disciplinato nei commi 3 e seguenti dell’art. 129 del Codice, è stato, a giusta ragione, etichettato come “rito superaccellerato”. Deve, in primo luogo, osservarsi che l’impugnazione immediata dei provvedimenti, relativi al procedimento preparatorio per le elezioni amministrative ed aventi ad oggetto l’esclusione di liste o di candidati, costituisce una mera facoltà (la norma utilizza, infatti, l’espressione “possono”); il che significa che nulla vieta ai “delegati delle liste escluse e ai gruppi di candidati esclusi” di proporre impugnazione differita avverso i predetti atti di esclusione ovvero unitamente alla proclamazione degli eletti. Ma veniamo alla disamina del nuovo giudizio. L’art. 129 prevede, per la proposizione del ricorso, una scansione temporale quasi giugulatoria; il ricorso avverso i provvedimenti di cui al comma 1, da proporsi nel termine di tre giorni dalla pubblicazione, anche mediante affissione, ovvero dalla comunicazione, se prevista, degli stessi, deve essere, a pena di decadenza: a) notificato, esclusivamente mediante consegna diretta, posta elettronica 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 certificata o fax, all’ufficio che ha emanato l’atto di esclusione della lista o di uno o più candidati, alla Prefettura e, ove possibile, agli eventuali controinteressati. La disposizione esclude il ricorso alla notifica a mezzo posta considerandola una modalità di notificazione distonica rispetto al carattere particolarmente accelerato del rito. La norma prevede che destinatari necessari della notifica siano l’ufficio elettorale che ha emanato il provvedimento di esclusione e la Prefettura, competente per territorio; entrambe le predette notifiche andranno effettuate, a pena di nullità, presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, competente per territorio, atteso che, come noto, gli uffici elettorali costituiscono organi, seppure straordinari e temporanei, dell’Amministrazione dell’Interno cui è attribuita, per legge, la cura del procedimento elettorale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza del 23 luglio 2010, n. 4851). La notifica del ricorso è effettuata, ove possibile, agli eventuali controinteressati (l’espressione “eventuali”, utilizzata dalla norma, rende palese l’incertezza nutrita dai redattori della disposizione in ordine alla effettiva sussistenza di veri e propri controinteressati nell’ambito del giudizio disciplinato dall’art. 129 del Codice). La lettera a) del comma 3 si conclude con la previsione di un onere di pubblicazione del ricorso, posto a carico dell’ufficio elettorale che dovrà procedere alla affissione di una copia integrale dello stesso in appositi spazi, all’uopo destinati e sempre accessibili al pubblico (previsione, quest’ultima, che sembra imporre l’affissione di copia del ricorso in una bacheca posta all’esterno del predetto ufficio, dovendosi assicurare la possibilità di visione della stessa “sempre” ovvero, almeno così sembrerebbe doversi ritenere, anche nelle ore notturne). La pubblicazione, mediante affissione, ha valore di notificazione per pubblici proclami per tutti gli (eventuali) controinteressati; b) depositato presso la segreteria del T.A.R. adito che provvede, anche essa, ad affiggerlo in appositi spazi accessibili al pubblico (si osservi come in questo caso l’accesso del pubblico non debba essere assicurato “sempre”; il che sembrerebbe fare propendere nel senso che il pubblico possa visionare la copia del ricorso solo durante gli orari di apertura della segreteria del T.A.R.). Il comma 4 impone alle parti di indicare nei propri atti (ricorso introduttivo e atti di costituzione) l’indirizzo di posta elettronica certificata o il numero di fax, da valere per ogni eventuale comunicazione e notificazione. Il comma 5 disciplina l’udienza prevedendo che la stessa sia celebrata nel termine di tre giorni dal deposito del ricorso, senza possibilità di rinvio anche nell’ipotesi di proposizione di ricorso incidentale e senza che della fissazione della stessa debba essere dato avviso a cura della segreteria del T.A.R.. Il comma 6 prevede che il giudizio sia deciso all’esito dell’udienza con LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 251 sentenza in forma semplificata, da pubblicarsi nello stesso giorno. La motivazione della decisione può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie. Una disposizione, quest’ultima, che sembra codificare il fenomeno, già diffusosi da alcuni anni in via di prassi, delle sentenze c.d. “copia e incolla”. Il comma 7 chiude la disciplina del primo grado del giudizio superaccelerato, prevedendo che la sentenza, ove non sia stata appellata, venga comunicata, senza indugio, dalla segreteria del T.A.R. all’ufficio elettorale che ha adottato il provvedimento di ricusazione; ciò significa che l’incombente scatta quando, decorsi tre giorni dalla pubblicazione della sentenza, non sia stata depositata, giusta previsione di cui alla lett. b) del comma 8, presso la segreteria del T.A.R., che ha pronunciato la sentenza, copia del ricorso di appello. Il comma 8 disciplina il grado di appello, prevedendo, innanzi tutto, che il termine per la proposizione del gravame sia pari a due giorni decorrenti dalla pubblicazione della sentenza. Nel predetto termine, il ricorso in appello deve essere notificato secondo le medesime modalità previste dalla lettera a) del comma 3 per il giudizio di primo grado ma con la ovvia precisazione che, per le parti costituite, la notificazione si effettua mediante trasmissione all’indirizzo di posta elettronica certificata o al numero di fax indicato negli atti difensivi a norma del comma 4. Il ricorso in appello, nel medesimo e ristrettissimo termine di due giorni deve essere depositato sia presso la segreteria del T.A.R. che ha emesso la decisione gravata sia presso la segreteria del Consiglio di Stato; entrambe le segreterie dovranno provvedere alla pubblicazione, mediante affissione, del gravame con le medesime modalità di cui alla lettera b) del comma 3. Il comma 9 rinvia, ai fini della disciplina del giudizio di appello, alle forme già previste dalla norma per il giudizio di primo grado. L’ultimo comma dell’art. 129 esclude l’applicazione, con riferimento al nuovo rito superveloce, delle disposizioni di cui agli articoli 52, comma 5, e 54, commi 1 e 2. La prima delle predette disposizioni non è altro che la ricopiatura dell’art. 155, comma 5, del c.p.c. che, come noto, ha assimilato, quanto al termine di scadenza per il compimento di un atto, il sabato alla domenica, con la conseguenza che la scadenza del compimento di un atto, da eseguirsi di sabato come ultimo giorno, è posticipata al lunedì successivo. E’ evidente che la predetta disposizione, che si traduce nello spostamento della scadenza del termine, di ben due giorni, non è stata ritenuta compatibile con il carattere superaccelerato del rito di cui all’art. 129 del Codice. L’art. 54, comma 1, del Codice disciplina il fenomeno, in passato molto diffuso, della presentazione tardiva di memorie e documenti che, oggi, può essere autorizzata, su richiesta di parte, in via del tutto eccezionale, quando la 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 produzione nel termine di legge sia estremamente difficile. La predetta disposizione risulta del tutto incompatibile con la disciplina del rito di cui all’art. 129, la cui tempistica, come più sopra evidenziato, risulta particolarmente accelerata. Da ultimo, si evidenzia come nel giudizio elettorale in argomento non trovi applicazione la c.d. sospensione feriale dei termini; trattasi di disposizione che ben si comprende atteso che l’art. 129 disciplina un giudizio che ha ad oggetto la impugnazione immediata degli atti di esclusione; impugnazione che, come tale, mal si concilia con un differimento, per legge, di ben 45 giorni. • Capo III: rito relativo alle operazioni elettoriali di comuni, province, regioni e Parlamento europeo (artt. 130-132) Il Capo III del Titolo VI del Libro IV del Codice disciplina il contenzioso, per così dire ordinario, relativo alle operazioni concernenti le elezioni amministrative e del Parlamento europeo. La disposizione di cui al comma 1 (parzialmente riproduttiva del comma 2 dell’art. 129) ribadisce la regola generale secondo la quale “contro tutti gli atti del procedimento elettorale successivi all’emanazione (rectius: convocazione, N.d.A.) dei comizi elettorali” è ammesso ricorso solamente dopo la chiusura del procedimento elettorale mercé la proclamazione degli eletti; una regola, quest’ultima, che soffre la sola eccezione rappresentata dall’ipotesi disciplinata dall’art. 129, cui si riferisce la clausola di salvezza che compare in apertura dell’art. 130 del Codice. Occorre evidenziare, da subito, che il giudizio, disciplinato dal predetto art. 130, interessa l’Avvocatura dello Stato (ma sarebbe meglio dire l’Avvocatura Generale dello Stato per le ragioni di cui appresso) solo con riferimento al giudizio avente ad oggetto il procedimento relativo alle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia. Ed invero, il comma 3 dell’art. 130, codificando il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza del 23 luglio 2010, n. 4851), alla lettera a), prevede, infatti, che il ricorso avente ad oggetto le operazioni elettorali di comuni, province e regioni (le elezioni amministrative, per intenderci) debba essere notificato esclusivamente “all’ente della cui elezione si tratta”; in altre parole, la legittimazione passiva nel giudizio elettorale, limitatamente alle competizioni elettorali amministrative, spetta esclusivamente al comune o alla provincia o alla regione della cui elezione si tratta, con conseguente difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno e degli uffici elettorali che, peraltro, sono organi del Ministero dell’Interno, oltre che straordinari, temporanei e, come, tali, destinati a sciogliersi una volta intervenuto l’atto di chiusura del procedimento elettorale, ovvero la proclamazione degli eletti. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 253 Il giudizio di cui all’art. 130 del Codice, e la relativa disciplina, interessa, invece, la sola Avvocatura Generale dello Stato in quanto, con riferimento al giudizio relativo alle operazioni elettorali per la elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia (con riferimento al quale la relativa legittimazione passiva compete, giusta previsione della lettera b) del comma 3 della norma in commento, all’ufficio elettorale centrale nazionale), la competenza funzionale risulta attribuita al T.A.R. del Lazio, sede di Roma (artt. 130, comma 1, lett. b) e 135, comma 1, lett. n)). L’art. 130, al comma 1, in continuità con la previgente disciplina contenuta nell’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570/60, prevede che il ricorso elettorale “ordinario” debba essere proposto mediante deposito dello stesso, rispettivamente presso la segreteria del T.A.R. nella cui circoscrizione ha sede l’ente locale della cui elezione si tratta, per le elezioni amministrative, e nella segreteria del T.A.R. del Lazio, sede di Roma, per le elezioni del Parlamento europeo; il termine per la proposizione di entrambi i ricorsi è di trenta giorni, decorrente, per le elezioni amministrative, dalla proclamazione degli eletti, e, per le elezioni al Parlamento europeo, dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’elenco dei candidati proclamati eletti. Il comma 1 introduce, invece, una rilevante novità con riferimento alla individuazione dei soggetti legittimati a proporre ricorso. Ed invero, con riferimento alle elezioni amministrative, la predetta legittimazione viene attribuita a “qualsiasi cittadino elettore dell’ente della cui elezione si tratta”; trattasi di previsione del tutto innovativa rispetto all’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570/60 che, accanto al cittadino elettore del Comune, attribuiva la legittimazione a ricorrere anche a “chiunque altro vi abbia diretto interesse” (previsione che aveva fatto meritare al relativo giudizio l’etichetta di “azione popolare”); a ciò si aggiunga che la formulazione letterale della norma sembra escludere che possano proporre ricorso i candidati che non siano anche elettori (perché, ad esempio, residenti in diverso ente territoriale rispetto a quello della cui elezione si tratta). Il comma 2 prevede che il Presidente del T.A.R. adito, con proprio decreto, fissa l’udienza di discussione del ricorso in via d’urgenza, designa il giudice relatore, ordina le notifiche, autorizzando, ove necessario, qualunque mezzo idoneo, ordina il deposito di documenti e l’acquisizione, sempre in via istruttoria, di qualunque altra prova necessaria, ordina, infine, la comunicazione, a cura della segreteria, del decreto al ricorrente. Il comma 3 (la cui disciplina è stata, più sopra, in parte anticipata) prevede che, entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto, il ricorrente debba notificare il ricorso, unitamente al decreto presidenziale, all’ente locale della cui elezione si tratta (elezioni amministrative) ovvero all’ufficio elettorale centrale nazionale (elezioni del Parlamento europeo) nonché “alle altre parti che vi hanno interesse, e comunque ad almeno un controinteressato”. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Il comma 4 prevede che, nel termine di dieci giorni dall’ultima notificazione, il ricorrente deposita nella segreteria del T.A.R. il ricorso con la prova dell’avvenuta notificazione nonché gli atti e documenti del giudizio. Il comma 5 attribuisce all’amministrazione resistente e ai controinteressati, per la costituzione in giudizio, il termine di quindici giorni, decorrenti dal giorno in cui la notificazione del ricorso, con pedissequo decreto presidenziale, si è perfezionata nei loro confronti; la costituzione ha luogo mediante deposito nella segreteria del T.A.R. delle proprie controdeduzioni. Il comma 6 prevede che la sentenza sia pronunciata all’esito dell’udienza nel corso della quale verranno sentite le parti ove presenti. Il comma 7 dispone che la sentenza venga pubblicata in forma integrale, ovvero munita della motivazione, entro il giorno successivo a quello della decisione; ove ciò non sia possibile a cagione della complessità delle questioni, dovrà essere pubblicato, nel termine di cui sopra, il solo dispositivo di sentenza mentre la decisione, corredata delle motivazioni, dovrà essere depositata nei dieci giorni successivi. Il comma 8 contempla la trasmissione, a cura della segreteria del T.A.R., della sentenza al sindaco, alla giunta provinciale, alla giunta regionale, al presidente dell’ufficio elettorale centrale nazionale, a seconda dell’ente cui si riferisce l’elezione. Ove la sentenza riguardi le elezioni amministrative, copia del dispositivo della stessa andrà pubblicato all’albo pretorio dell’ente locale della cui elezione si tratta; solo con riferimento alle elezioni amministrative e regionali, la sentenza andrà, altresì, trasmessa al Prefetto. Una particolare segnalazione merita il comma 9 che prevede, con riferimento alle elezioni amministrative, che, laddove il T.A.R. accolga il ricorso, corregge il risultato delle elezioni e sostituisce ai candidati illegittimamente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo. La norma non tiene conto del fatto che possono darsi ipotesi in cui l’accoglimento del ricorso risulta idoneo ad inficiare, nella sua complessità, il risultato elettorale; la predetta lacuna può essere, allo stato, colmata facendo rinvio alla previsione di cui all’art. 85 del d.P.R. n. 570/60 che fa testuale riferimento all’annullamento delle elezioni in sede giudiziaria (norma che non risulta essere stata abrogata dal Codice). L’art. 130 si chiude con la previsione del dimezzamento di tutti i termini, fatti salvi quelli indicati nello stesso articolo e nell’articolo 131. Il Capo III si chiude con due articoli (131 e 132) che disciplinano, rispettivamente, il giudizio di appello in relazione alle operazioni elettorali di comuni, province e regioni, e quello relativo alle operazioni elettorali del Parlamento europeo; vale segnalare, peraltro, come l’art. 131 faccia erroneamente riferimento, in apertura, all’“appello avverso le sentenze di cui all’art. 130” che, come sopra evidenziato, disciplina unitariamente il giudizio elettorale di primo grado tanto con riferimento alle elezioni amministrative che a LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 255 quelle del Parlamento europeo. Il termine per la proposizione di appello è di venti giorni, rispettivamente decorrenti dalla notifica della sentenza per coloro nei cui confronti la stessa è obbligatoria, e dall’ultimo giorno di pubblicazione della decisione all’albo pretorio del comune, ovvero della provincia ovvero della regione (così deve interpretarsi la norma di cui al comma 1 dell’art. 131 che fa riferimento, del tutto inspiegabilmente, al solo comune). Al giudizio di appello si applicano le disposizioni che regolano il processo di appello davanti al Consiglio di Stato ma tutti i termini sono ridotti della metà. L’art. 132 disciplina il rito di appello avverso le sentenze pronunciate nei giudizi relativi alle operazioni elettorali del Parlamento europeo. L’appello si propone mediante dichiarazione da presentare presso la segreteria del T.A.R. del Lazio (la norma usa la curiosa espressione “tribunale amministrativo regionale che ha pronunciato la sentenza”, come se a pronunciarsi potesse essere un T.A.R. diverso da quello capitolino cui è attribuita, come più sopra ricordato, la competenza funzionale a conoscere dei ricorsi relativi alle elezioni europee); il termine per la proposizione di appello è di cinque giorni dalla pubblicazione della sentenza o, in mancanza, del dispositivo della stessa; in quest’ultima ipotesi, il termine per il deposito dell’appello, corredato dei motivi, è di trenta giorni dalla ricezione dell’avviso di pubblicazione della sentenza integrale. Un’ultima notazione, seppure in termini problematici, merita la tematica della natura dei termini previsti nel Capo III; in nessuno dei tre articoli che compongono il predetto Capo si fa riferimento alla natura perentoria dei termini dagli stessi previsti; dal che potrebbe desumersi che il mancato rispetto degli stessi non comporti alcuna decadenza dalla possibilità di compiere l’atto. Trattasi di un’interpretazione che, sebbene trovi un aggancio nella lettera delle disposizioni, sopra richiamate, lascia adito a notevoli perplessità atteso che, come noto, il giudizio elettorale è, da sempre, cadenzato da termini di natura perentoria, la cui mancata osservanza è sanzionata da decadenza; a ciò si aggiunga che, per pacifica giurisprudenza, quando la legge non qualifica espressamente come perentorio un termine processuale, quest’ultimo può del pari essere considerato tale in ragione dello scopo che persegue e della funzione cui adempie; orbene, nel caso del giudizio elettorale, la natura perentoria dei termini processuali è giustificata dall’interesse pubblico a che i risultati elettorali, decorso un determinato termine, non possano essere più messi in discussione. ** *** ** 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Alcune perplessità sul nuovo rito elettorale Gianni Cortigiani* Il d.lgs 104/10 ha riformulato ex novo anche il rito elettorale relativo alle elezioni amministrative (ed europee). Come noto, mentre l’art. 130 disciplina il rito “ordinario” per i ricorsi avverso le operazioni elettorali, l’art. 129, per la prima volta, prevede espressamente la impugnabilità immediata dei provvedimenti avverso gli atti di esclusione di candidati e liste. Si ricorderà che tale impugnabilità, nella vigenza dell’art. 83/11 L. 570/60, era stata inizialmente esclusa dalla elaborazione giurisprudenziale (Cons. St., 7 marzo 1986 n.156), successivamente (Cons. St., V, 3 aprile 1990 n. 322) era stata ammessa sul presupposto che l’esclusione si pone come momento finale del sub procedimento di ammissione, venendo a creare una cesura che impedisce di riferire quei provvedimenti all’atto di proclamazione degli eletti, infine Ad. Plen. 24 novembre 2005 n. 10 era tornata ad affermare la impugnabilità anche di tali provvedimenti esclusivamente con il gravame avverso la proclamazione degli eletti. Tale interpretazione, assunta come “diritto vivente” è stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 236/2010, depositata per avventura lo stesso giorno di pubblicazione del d.lgs. 104/2010, che dichiara l’incostituzionalità dell’art. 83/11 nella parte in cui non consente una “tutela immediata” avverso gli atti di esclusione. Nella decisione, ricca di riferimenti sia alla legge-delega n. 69/2009 che al d.lgs. 104/2010 in corso, all’epoca, di pubblicazione, la Corte opera una decisa distinzione fra “procedimento elettorale” comprendente le operazioni di voto e la proclamazione degli eletti e “procedimento preparatorio” nel quale rientra la presentazione e ammissione delle liste. La corrispondenza fra tale distinzione e il differenziato regime degli artt. 129 e 130 non è, peraltro, perfetta. La tutela immediata dell’art. 129 è offerta infatti soltanto avverso i provvedimenti di esclusione, e non anche avverso quelli di ammissione, che potranno formare oggetto di contestazione solo nelle forme e nei tempi dell’art. 130. Ancora, legittimati a richiedere la tutela immediata sono esclusivamente i delegati di lista, mentre l’eventuale elettore che volesse dolersi della esclusione di una lista a lui cara dovrebbe comunque attendere la proclamazione degli eletti: quindi anche atti del “procedimento preparatorio” possono essere soggetti ad impugnazione secondo il rito “ordinario” di cui all’art. 130. (*) Avvocato dello Stato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 257 Indipendentemente dalle possibili questioni sulla rispondenza del dato normativo alle indicazioni contenute nella decisione della Corte Costituzionale (potrebbe ad es. dare adito a dubbi il fatto che la “tutela efficace e immediata” sia riservata al delegato di lista e non al singolo candidato escluso), le maggiori perplessità sono date dalla differenza che i due articoli portano nella individuazione dei destinatari della notifica del ricorso. L’art. 130 indica come “Amministrazione resistente” e come destinataria della notifica esclusivamente l’Ente nel cui interesse si tengono le elezioni: viene così normativamente recepito l’indirizzo giurisprudenziale che si era consolidato nel senso di negare legittimazione passiva al Ministero dell’Interno (o alla Prefettura) in quanto chiamato soltanto ad offrire supporto logistico alle operazioni elettorali, ma anche all’Ufficio temporaneo competente alla proclamazione degli eletti, in quanto, per la posizione di neutralità che assume nella competizione elettorale, privo di interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento dei propri atti. Viceversa, l’art. 129 impone la notifica sia alla Prefettura che all’Ufficio che ha emesso l’atto di esclusione impugnato (e non anche all’Ente nel cui interesse si svolgono le elezioni). Ora, è ben vero che la esclusione della lista importa quella cesura, sopra evidenziata; che impedisce il collegamento all’atto di proclamazione degli eletti, ma resta comunque problematico giustificare la ragione per cui interesse e legittimazione mutino in dipendenza del momento in cui la impugnazione viene svolta e del soggetto impugnante. Il principio secondo il quale il Ministero o la Prefettura offrono un mero supporto logistico vale anche nella “fase preliminare”, e la posizione di terzietà e neutralità dell’Ufficio che procede alla proclamazione degli eletti (da cui l’inesistenza di interesse al mantenimento dei propri atti) dovrebbe caratterizzare anche l’attività dell’Ufficio che provvede al controllo e ammissione di liste e candidati (in questo senso v. ad es. Tar Toscana 11 aprile 2008 n. 1023), né si comprende per quale motivo l’interesse al mantenimento del proprio atto dovrebbe sussistere in caso di atto negativo mentre così non è in caso di atto positivo (si è già visto come l’ammissione di una lista possa formare oggetto di contestazione nelle forme e termini dell’art. 130, che non prevede legittimati passivi ulteriori rispetto all’Ente locale). La sensazione è che il legislatore dell’art. 129, prevedendo la notifica presso la Prefettura e l’Ufficio abbia inteso non tanto designare dei legittimati passivi, interessati a resistere al gravame, quanto risolvere in linea pratica problematiche relative alla conoscenza del ricorso da parte dei controinteressati e alla predisposizione del materiale per le operazioni di voto. Così, l’Ufficio che ha emanato l’atto, espressamente onerato della affissione in “appositi spazi accessibili”, assolve a compiti di pubblicità, mentre la Prefettura, ricevuta la notifica, si asterrà dal procedere alla stampa delle 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 schede fino alla decisione del T.A.R. Un argomento, se si vuole suggestivo, a sostegno della non riconoscibilità nella Prefettura e nell’Ufficio di “parti” sostanziali del giudizio è dato dalla lettura del comma 8 relativo all’appello: viene espressamente disciplinato il gravame proposto dal ricorrente prevedendone tempi, modi e luoghi di notifica, mentre niente si dice in ordine ad un eventuale gravame della Prefettura o dell’Ufficio, il che può far dubitare della ammissibilità stessa di un tale gravame. In ogni caso, sembra che proprio in considerazione delle esigenze di pubblicità tenute in conto dal legislatore e della estrema ristrettezza del tempo concesso, la previsione sul “luogo di notifica” del ricorso immediato debba esser vista come deroga alla regola generale di cui all’art. 11 RD 1611/1933: se il ricorso dovesse essere notificato presso l’Avvocatura le suddette esigenze di immediata pubblicità verrebbero frustrate, e, sul piano testuale, il riferimento a mezzi di comunicazione quali il fax o la p.e.c. porta a pensare ad una notifica “diretta” presso il destinatario. Alla luce delle suesposte considerazioni, sembra di poter concludere che nel rito di cui all’art. 129, non solo l’Avvocatura non è la destinataria della notifica, ma che nemmeno si impone una sua difesa “tecnica” dell’atto impugnato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 259 L’ambito di applicazione della mediazione civile e commerciale nel sistema del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 Vittorio Raeli* SOMMARIO: 1.- La mediazione volontaria 2.- La mediazione obbligata ratione materiae 3.- (segue) Le singole materie 4.- (segue) Casi di esclusione 5.- La mediazione “delegata”. 1. La mediazione volontaria Con l’entrata in vigore del d.lgs 4 marzo 2010, n. 28 è stato introdotto nel nostro ordinamento, in maniera così ampia, il tentativo di conciliazione nelle controversie civili e commerciali (1). L’art. 2, comma 1, generalizza il tentativo (facoltativo) di conciliazione per le controversie (civili e commerciali) (2) su “diritti disponibili“. Alla distinzione oggettiva tra controversie “civili” e “commerciali” (riconducibile alla Direttiva 2008/52/CE ) - si è osservato in dottrina (3) - non corrisponde alcuna contrapposizione di natura soggettiva, in quanto il decreto delegato non pone limiti soggettivi perché “chiunque” può ricorrere alla mediazione/ conciliazione, anche se, indubbiamente, qualora il soggetto che intende avvalersi o è obbligato (per legge o in via pattizia) ad esperire il tentativo di conciliazione sia un consumatore, troveranno applicazione, oltre all’art. 141 del codice del consumo, pure le raccomandazioni della Commissione delle Comunità Europee, 4 aprile 2001, n. 2001/310/CE, sui principi applicabili agli organi extra giudiziali che partecipano alla risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo, e 30 marzo 1998, n. 98/257/CE, sui principi applicabili alla risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo. (*) Consigliere della Corte dei Conti. (1) Il riferimento alla natura “civile” e “commerciale” delle controversie esclude che tra le materie soggette a mediazione (volontaria, delegata e obbligatoria) possano essere ricomprese quella penale, amministrativa e tributaria. (2) Nonostante la natura “civile” e “commerciale” sono escluse dalla mediazione ex d.lgs. 28/2010 le “negoziazioni volontarie e paritetiche” relative a tali controversie: cfr. art. 2, comma 2, d.lgs. n. 28/2010. La Relazione illustrativa precisa, sub art. 2, che “la procedura di mediazione disciplinata dal decreto non esclude il ricorso a istituti già ampiamente sperimentati nella pratica, che consentono di giungere alla composizione di controversie su base paritetica o attraverso procedure di reclamo disciplinate dalle carte di servizi, ma che si differenziano dalla mediazione per il mancato intervento di organismi terzi ed imparziali”. (3) F. MURRINO, Prime considerazioni sulla mediazione nel sistema della tutela dei diritti, in Corr. Mer., n. 6/2010, 60. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Da un punto di vista soggettivo, dunque, si è detto (4) che la mediazione ha il più vasto raggio possibile, perché tutti, senza distinzione alcuna, possono avervi accesso. Da un punto di vista oggettivo, a delimitare il campo di applicazione del decreto, il riferimento è ai “diritti disponibili”. Ovviamente quanto qui si dirà riguarda soltanto la mediazione “volontaria” (e “delegata” ovvero “sollecitata”), il cui esperimento è rimesso alla iniziativa delle parti, e non vale per la mediazione obbligatoria, concernente un numerus clausus di materie, per le quali, dunque, non si pone alcun problema in ordine alla natura dei diritti. Sul piano definitorio, per individuare la categoria dei diritti disponibili può richiamarsi il pensiero di Salvatore Pugliati, il quale avvertiva che “la facoltà di disposizione sarebbe, nella sua espressione sintetica, il potere legittimo che ha il titolare di un diritto di trasferire ad un altro il diritto stesso” (5), identificando, accanto all’elemento soggettivo, appunto, un elemento obiettivo, dato dall’attitudine dispositiva, e definendo in maniera speculare la categoria dei diritti soggettivi indisponibili come quella che ricomprende diritti intrasmissibili “non perché rispetto ad essi la capacità di agire non possa produrre una concreta facoltà di disposizione (…) ma perché essi mancano dell’attitudine a subìre atti dispositivi. In altri termini rispetto ad essi viene meno l’elemento obiettivo della cosiddetta facoltà di disposizione e l’elemento subiettivo, cioè la capacità di agire del soggetto, non può da solo rendere possibile la trasmissione di diritti che, per mancanza di attitudine propria (sia perché sono strettamente inerenti alla persona del titolare, sia perché la legge li dichiara intrasmissibili) non possono formare obietto di trasferimento” (6). Tanto premesso, in dottrina (7) si è affermato che due sono i requisiti a cui guardare per definire la categoria dei “diritti disponibili”. Il primo, di segno positivo, è il carattere patrimoniale del diritto medesimo; il secondo, di segno negativo, è la assenza di un divieto di disposizione stabilito dalla legge (ad es., diritto agli alimenti, diritto di uso e abitazione) (8). Sotto quest’ultimo pro- (4) A. CASTAGNOLA-F. DELFINI (a cura di), La mediazione nelle controversie civili e commerciali (Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), Padova, 2010, 21. (5) S. PUGLIATTI, L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 5. (6) Ibidem, 31-32. (7) A. CASTAGNOLA – F. DELFINI, op. cit., 26-27. (8) Svaluta il carattere inderogabile della disciplina quale criterio guida di individuazione della categoria dei diritti indisponibili G. MINELLI, Commento all’art. 5, in La mediazione per la composizione delle controversie civili e commerciali (a cura di M. BOVE), Padova, 2011, 95, che, traendo spunto dalla conciliazione giudiziale e “amministrata” (di fronte alle Commissioni di conciliazione di cui agli artt. 410 e 411 c.p.c.) in materia laburistica afferma “Tutto questo dimostra che l’assoggettamento a norme inderogabili non può comportare che il diritto sia indisponibile poiché se così fosse tutti gli accordi negoziali, indipendentemente dalla sede e dalla forma, sarebbero comunque invalidi”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 261 filo si è detto (9) che “diritto disponibile significa diritto rispetto al quale l’ordinamento riconosce effetti alla volontà negoziale delle parti “poiché “ se le parti non possono, attraverso l’esercizio del loro potere negoziale, darsi regole di condotta in generale, è chiaro che esse non possono darsi regole di condotta neppure con lo specifico fine di risolvere una controversia” (10). Sono senz’altro sottratte alla disponibilità delle parti, dunque, le questioni relative agli status personali (11) ed ai diritti della personalità, alla separazione personale e al divorzio dei coniugi (12), all’obbligazione di prestazione degli alimenti, all’obbligazione naturale (13). Malgrado ciò, in giurisprudenza si ammette che le situazioni soggettive patrimoniali derivanti da alcuni status personali o da diritti della personalità possono costituire oggetto di rinunzia e transazione nei limiti in cui si contenda circa la consistenza di quei diritti patrimoniali. Si pensi alla obbligazione di prestare gli alimenti e alla riconosciuta possibilità di rinunzie e transazioni che vertono sulla misura e sulla modalità del credito alimentare (14). Altresì, sono stati riconosciuti transigibili i diritti patrimoniali derivanti dal matrimonio (15). 2. La mediazione obbligata ratione materiae La scelta forse più controversa della disciplina dettata dal legislatore delegato per la mediazione si identifica con la istituzione della obbligatorietà della mediazione (16), configurandosi l’attivazione del procedimento secondo (9) F. P. LUISO, Il sistema dei mezzi negoziali per la risoluzione delle controversie civili, in www.judicium. it. (10) “Laddove, dunque, la controversia abbia ad oggetto un diritto indisponibile, l’unica strada possibile per risolvere il contrasto è la giurisdizione”: così F. P. LUISO, ibidem. (11) “Tizio e Caia non possono costituirsi rispettivamente padre e figlia con un proprio atto di volontà; conseguentemente non possono, in via consensuale, risolvere una controversia relativa alla sussistenza del rapporto di filiazione”: così, F. P. LUISO, ibidem. (12) Per L. DITTRICH, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in www.judicium. it, in tal modo, vengono espunte dall’area della mediazione proprio le liti connesse alla separazione e al divorzio e all’affidamento dei figli, che più di ogni altre potrebbero beneficiare – purchè vi sia un controllo sia pure successivo del giudice – di una attività conciliativa ad opera di un mediatore professionista, sul modello della conciliazione “delegata”. (13) Si segnala, peraltro, come negli ultimi tempi autorevole dottrina ha progressivamente riconsiderato la possibilità della conciliazione anche su diritti indisponibili vuoi sulla base di una più meditata considerazione della finalità della conciliazione (ad una finalità di prevenire comportamenti illeciti o comunque inopportuni fa riferimento F. P. LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1206) vuoi alla luce di una più specifica considerazione del ruolo di garanzia svolto dal conciliatore (si rimanda a F. CUOMO ULLOA, La conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, 474-477 e, da ultimo, a BORGHESI, Conciliazione, norme inderogabili e diritti indisponibili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 121). (14) Cfr. Cass. civ. 18 ottobre 1955, n. 3255 e Id., 19 agosto 1969, n. 3006. (15) Cfr. Cass. civ., 12 maggio 1994, n. 4647. (16) Contro il carattere obbligatorio della mediazione si era espresso il Consiglio Superiore della Magistratura nel “Parere allo schema di decreto legislativo. Attuazione dell’art. 60 della l. 18 giugno 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 le regole del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 o, alternativamente, del d.lgs. 8 ottobre 2007 n. 179, ovvero del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, limitatamente per le materie ivi regolate, quale condizione di procedibilità (17) della domanda giudiziale relativa alle materie indicate nell’art. 5 (18). Si tratta delle azioni concernenti le seguenti materie (19): 1) condominio (20); 2) diritti reali (21); 3) divisione; 4) successioni ereditarie; 5) patti di famiglia (22); 6) locazione; 7) comodato; 8) affitto di azienda; 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, adottato con delibera del 4 febbraio 2010, rilevando che “ l’aver reso obbligatorio, per le materie elencate al primo comma dell’art. 5, il ricorso alla mediazione non sembra la soluzione migliore per assicurare la diffusione della cultura per la risoluzione alternativa delle controversie. Come già rilevato dal C.S.M. nel suo parere reso in data 11 marzo 2009, il tentativo di conciliazione può avere successo solo se è sostenuto da una reale volontà conciliativa e non se si è svolto per ottemperare ad un obbligo”. (17) Come da altri è stato già detto a proposito del tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, “L’omissione del tentativo di conciliazione costituisce un ostacolo alla decisione di merito né più né meno agli altri presupposti processuali” (in termini, F. P. LUISO, Il tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, 378 ss.). (18) Vi è da dire, peraltro, che per quanto concerne le cause in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di autoveicoli e natanti la legge 26 febbraio 2011, n. 10, ha differito di un anno l’entrata in vigore della obbligatorietà della mediazione. (19) In dottrina si è osservato come la dizione ampia della norma, che si riferisce genericamente a controversie “ in materia di” , deve essere adeguatamente interpretata nelle singole fattispecie, al fine di evitare che la portata della mediazione obbligatoria sia estesa al punto da dubitare della ragionevolezza stessa del sistema (così G. BATTAGLIA, Commento all’art. 5, in A. CASTAGNOLA – F. DELFINI, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., 71). (20) Secondo le rilevazioni statistiche del Censis sul contenzioso instaurato nel 2007, le cause riguardanti il condominio ammontavano a circa 185 mila, pari al 4,5% del totale delle cause civili introdotte quell’anno. L’oggetto di tali procedimenti ha riguardato principalmente: il recupero del credito derivante dalla morosità dei condomini; l’impugnazione di delibere condominiali, ai sensi dell’art. 1137 c.c.; provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c.; procedimenti per accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c.; azioni di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c. (21) “Il problema si pone, in particolare, con riferimento alle controversie “in materia di diritti reali”, poiché, in astratto la materia dei diritti reali sarebbe idonea a coinvolgere innumerevoli liti” (ibidem). (22) Si rinvia all’istituto regolamentato dagli artt. da 768-bis a 768-septies c.c.. Nella Relazione illustrativa si specifica che l’inserimento dei patti di famiglia tra le materie per le quali è prevista la condizione di procedibilità è motivata dall’esigenza di chiarire definitivamente l’obbligatorietà del tentativo di mediazione già previsto dall’art. 768-octies c.c., che devolve(va) le controversie relative al patto di famiglia appunto “a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5”. Ricorda, infatti. G. BATTAGLIA, op. cit., 76, (nota 11), che, in relazione a tale disposizione, si era posto l’interrogativo se il rinvio fosse solo alla individuazione del soggetto competente ad erogare il servizio di conciliazione, oppure se il rinvio stesso comportasse l’estensione al patto di famiglia della disciplina della conciliazione nelle controversie societarie. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 263 9) risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti; 10) responsabilità medica; 11) diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità; 12) contratti assicurativi; 13) contratti bancari; 14) contratti finanziari. Pur essendosi dubitato in dottrina della legittimità costituzionale della elencazione per la sua eterogeneità (23) e della coerenza tra i criteri guida e le materie individuate (24), è opportuno illustrare i “criteri-guida” seguiti nella scelta delle materie, siccome chiariti dalla Relazione illustrativa al dereto-delegato. Si tratta dei seguenti criteri: 1) cause in cui il rapporto tra le parti è destinato, per ragioni sociali od economiche, a prolungarsi nel tempo, anche oltre la definizione aggiudicativa della controversia, quali quelle inerenti al condominio (25), ai contratti di locazione, comodato ed affitto di azienda, ed ai rapporti in cui sono coinvolti soggetti appartenenti alla stessa famiglia, allo stesso gruppo sociale, alla stessa area territoriale (diritti reali, divisione, successioni ereditarie, nuovamente condominio e patti di famiglia); 2) cause riferite a rapporti che si contraddistinguono per l’elevato livello di conflittualità, rispetto ai quali è particolarmente fertile il terreno della composizione stragiudiziale (risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli o natanti, responsabilità medica e diffamazione a mezzo stampa o (23) Per L. DITTRICH, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, op. cit., “più di un dubbio può sollevarsi sulla ragionevolezza di tale scelta legislativa, in relazione all’art. 3 cost. e al generale postulato di razionalità ed uguaglianza che esso presuppone”. Nello stesso senso L. RISTORI, La mediazione delle controversie civili, in La mediazione civile e commerciale (a cura di C. BESSO), Torino, 2010, 175. Contra, PORRECA, Mediazione e processo nelle controversie civili e commerciali: risoluzione negoziale delle liti e tutela giudiziale dei diritti. La mediazione e il processo civile: complementarietà e coordinamento, in Le società, n. 5, 2010, 634 ss., il quale esclude “che possa tradursi in irragionevolezza, se si pensa che, attualmente, diverse controversie, anch’esse apparentemente non accomunabili, sono soggette al filtro del tentativo di conciliazione”. (24) Si è obiettato da parte di MINELLI, op. cit., 177: perché l’affitto di azienda sì e la cessione no; perché la responsabilità medica sì, quella sanitaria no; perché alcune forme di responsabilità aquiliana sì ed altre (insidia stradale, attività pericolose) no? Per L. RISTORI, op. ult. cit., è difficile comprendere i motivi in base ai quali è stata esclusa la mediazione, come condizione di procedibilità, in relazione alle controversie societarie e a quelle in materia associativa, nonché in materia di donazioni e di diritto di famiglia, laddove si discuta di diritti disponibili (come, ad esempio, per gli accordi patrimoniali in vista di separazioni e divorzi), così come non appare giustificabile l’esclusione delle controversie contrattuali sui vizi dell’atto ed il corretto adempimento delle obbligazioni. (25) Secondo L. SALCIARINI, La mediazione nel condominio, in La nuova mediazione e conciliazione (a cura di N. SOLDATI), Milano, 2010, 340, nel condominio è riscontrabile un aspetto che rende quasi “ inevitabile” la risoluzione bonaria della contrapposizione, in quanto l’edificio è oggetto di coabitazione da parte di un insieme di soggetti che si mantiene sostanzialmente stabile nel lungo periodo. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 con altro mezzo di pubblicità); 3) cause riferite a talune tipologie contrattuali (contratti assicurativi, bancari e finanziari) che, oltre a sottendere rapporti di durata tra le parti, conoscono una diffusione di massa e sono alla base di una parte non irrilevante del contenzioso. Seguendo un’altra prospettiva (26), che guarda al tipo di conflitto (e alle tecniche di mediazione) più che alla identificazione delle materie, le controversie soggette all’obbligo della mediazione sono suddivisibili in tre gruppi diversi. Al primo gruppo appartengono le liti per le quali la modalità “satisfattiva”, imperniata cioè sulla necessità di trovare una soluzione al problema, si presenta come la più adeguata e in grado di raggiungere il progressivo dissolvimento del conflitto (27). Del secondo gruppo fanno parte, invece, le controversie per le quali il metodo “trasformativo” si presenta come il più adatto, in quanto, nel ripercorrere la storia della disputa con il fine di cambiare la qualità della relazione, tenta di sciogliere i nodi psicologici che interferiscono nella comunicazione tra le parti (28). Il terzo gruppo di controversie, infine, comprende quelle per le quali la mediazione finisce per avere tutti i caratteri della negoziazione distributiva diretta ad accertare il valore della pretesa e decidere la distribuzione dei torti e delle ragioni, tanto che, in questo caso, la mediazione assumerà, verosimilmente, i caratteri di una riproduzione in forma privata del processo (29). 3. (segue) Le singole materie Procediamo, quindi, ad analizzare le peculiarità e alcuni aspetti delle singole materie. Per quanto riguarda il condominio (30), un aspetto interessante riguarda (26) L. RISTORI, Commento all’art. 5, in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali. Commentario al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, Milano, 2010, 97. Id., La Mediazione delle controversie civili, op. cit., 171-175, secondo cui il criterio per determinare quando è opportuno che una controversia venga sottoposta a mediazione dovrebbe essere relativo, non tanto alla materia che forma oggetto della disputa, quanto, piuttosto, al “tipo” di controversia che oppone le parti. (27) Appartengono al primo gruppo le controversie condominiali, alcuni tipi di controversie sui diritti reali, le dispute in materia di successioni e divisioni e buona parte delle liti relative ai contratti di locazione e di comodato (ibidem). (28) Si ritrovano nel secondo gruppo la materia della responsabilità medica e quella della diffamazione a mezzo stampa, per l’alto contenuto emotivo di sofferenza, fisica e/o psicologica, che può essere alla base di questo tipo di conflitti (ibidem). (29) Appartengono all’ultimo gruppo le controversie relative al risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (ibidem). (30) Si fanno rientrare nell’ambito della materia condominiale le cause riguardanti: a) le controversie in cui il condominio è parte in causa, nella veste di attore o convenuto; b) le controversie che riguardano rapporti di vicinato collocati nell’ambito condominiale; c) le azioni di responsabilità nei confronti dell’amministratore per fatti inerenti alla sua gestione. V., altresì, nota 18. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 265 la legittimazione attiva e passiva nel procedimento di mediazione. Si distingue in dottrina (31) tra il caso in cui ci sia l’amministratore e quello in cui tale figura manchi: nel primo, la legitimatio ad causam spetta all’amministratore (32), quale rappresentante sostanziale e processuale del condominio ex art. 1131 c.c.; nel secondo, opera il litisconsorzio necessario tra tutti i singoli condomini. Per quanto riguarda i diritti reali, è da preferire (33) la posizione di chi (34) delimita la materia alle controversie a quelle nelle quali il diritto reale costituisca l’oggetto di una domanda giudiziale di accertamento o costitutiva (35), e non, quindi, le controversie che, seppure riguardano beni, interessano i contratti traslativi di tali diritti, quali, per fare un solo esempio, il contratto di compravendita (36). Con riferimento alla divisione due sono gli aspetti che più possono interessare. Il primo attiene al litisconsorzio necessario da lato passivo. Il secondo riguarda l’ipotesi, molto frequente nella pratica, in cui si deve affrontare una divisione nel processo di separazione personale oppure di divorzio dei coniugi, in quanto si è detto (37) che, in mancanza di accordo, sarebbe irragionevole imporre alle parti un ulteriore tentativo obbligatorio di conciliazione specificamente per la mediazione, visto che la legge già prevede un tentativo obbligatorio di mediazione giudiziale innanzi al Presidente del Tribunale all’udienza di comparizione. Per quanto concerne la locazione si tratta, come si è osservato (38), di un ritorno alla disciplina previgente, con portata però generale per tutta la materia relativa alla locazione (39). (31) G. MINELLI, op. cit., 177. (32) Secondo l’autore non è necessario che l’amministratore si procuri l’autorizzazione espressa da parte dell’assemblea dei condomini per la mediazione, come invece è richiesto per l’arbitrato, in quanto diversamente da quest’ultimo non si tratta di un mezzo aggiudicativo, anche se - si aggiunge - è consigliabile soprattutto ai fini della sottoscrizione dell’accordo di conciliazione, trattandosi di normativa di prima applicazione, non fosse altro per evitare di subìre azioni di responsabilità (ibidem). (33) V. nota 19. (34) G. BATTAGLIA, Commento all’art. 5, in La mediazione nelle controversie civili e commerciali. Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, cit., 75; G. MINELLI, op. cit., 179. Contra, L. DITTRICH, op. cit., secondo cui “per cause aventi a oggetto “diritti reali” possono intendersi anche tutte la cause aventi ad oggetto contratti traslativi di tali diritti, nonché aventi ad oggetto la loro nullità, annullamento o risoluzione” e A. CAPOZZOLI (a cura di), Mediazione e conciliazione. Istruzioni per l’uso, Montecatini Terme, 2011, 50. (35) Ad es., le azioni petitorie: azione di rivendicazione, art.948 c.c.; azione negatoria,. art. 949 c.; azione di regolamento dei confini, art. 950, c.c.; azione di apposizione di termini, art. 951 c.c.. (36) Restano escluse, pertanto, dal campo di applicazione della mediazione obbligatoria le domande di rilascio o di restituzione, di adempimento, di risoluzione, di rescissione di nullità o annullamento, di simulazione e l’azione ex art. 2932 c.c.. (37) G. MINELLI, op. cit., 178. (38) G. MINELLI, op. cit., 179. (39) Ai sensi degli artt. 44-46 della L. 27 luglio 1978, n. 392 (abrogati dall’art. 89. L. 26 novem- 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Merita qualche riflessione la materia del risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (40). Poiché il legislatore delegato non ha dettato alcuna disposizione al riguardo, si pone il problema del rapporto tra l’attività precontenziosa quale condizione di proponibilità della domanda giudiziaria, prevista dall’art. 145 – commi 1 e 2 – d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (41) e la condizione di procedibilità dell’art. 5 d.lgs. 28/2010. Si ritiene in dottrina (42) che entrambi i meccanismi debbano essere espletati, ma che i termini previsti dal Codice delle assicurazioni private e dal d.lgs. 28/2010 possono decorrere contestualmente e, quindi, vi sia la possibilità di assolvere contestualmente ad ambedue le condizioni precontenziose previste, proponendo anche con la stessa raccomandata all’assicurazione sia la richiesta di risarcimento sia la domanda di mediazione, senza dovere attendere l’esaurimento della fase precontenziosa prima di introdurre il procedimento di mediazione. Per quanto riguarda il risarcimento del danno derivante da responsabilità medica, si rileva come resti esclusa dalla obbligatorietà della mediazione la responsabilità sanitaria, che attiene al rapporto tra struttura sanitaria-paziente, la cui autonomia rispetto alla responsabilità medica, che attiene al rapporto medico-paziente, è stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza (43). Per finire, sono incluse nell’elenco le controversie relative ai “contratti assicurativi, bancari e finanziari”. Il riferimento al “contratto”, più che alla “materia”, è stato interpretato da parte della dottrina (44) nel senso che sono soggette a mediazione non tutte le controversie in materia assicurativa, bancaria e finanziaria, ma solamente quelle relative alla validità del contratto e alla fase precontrattuale (45). bre 1990, n. 335) si prevedeva che “La domanda concernente controversie relative alla determinazione, all’aggiornamento e all’adeguamento del canone non può essere proposta se non è preceduta dalla domanda di conciliazione di cui all’articolo seguente. L’improcedibilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento”. (40) V. nota 18. (41) Secondo cui “l’azione per il risarcimento dei danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni, ovvero novanta in caso di danno alla persona, decorrenti da quello in cui il danneggiato abbia chiesto all’impresa di assicurazione (oppure alla propria impresa di assicurazione, a seconda dei casi) il risarcimento del danno, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento…”. (42) L. DITTRICH, op. cit,.; G. MINELLI, op. cit., 180. Nello stesso senso, AMENDOLAGINE, Prime osservazioni sul d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 istitutivo del procedimento di mediazione e conciliazione delle controversie civili e commerciali, in Assicurazioni, 2010, 27 e LANDINI, La conciliazione nelle controversie in materia assicurativa, ivi, 33-42. (43) Cfr. Cass. civ., 11 maggio 2009, n. 10743. (44) G. MINELLI, op. cit., 182-183. (45) Contra L. DITTRICH, op. cit., secondo cui, la mediazione è obbligatoria “in tutte le ipotesi in cui sia azionabile una garanzia assicurativa”. Dello stesso avviso è PORRECA, op. cit., 633. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 267 4. (segue) Casi di esclusione L’obbligatorietà è espressamente esclusa (46) in relazione alle due azioni inibitorie ed all’azione di classe disciplinate (47) dal codice del consumo (48). Si tratta, innanzitutto, dell’inibitoria promossa dalle associazioni di consumatori, di imprenditori o dalla Camera di commercio al fine di ottenere la verifica da parte del tribunale della vessatorietà di clausole contenute in condizioni generali di contratto, precludendone l’ulteriore utilizzo nel caso di riscontro positivo (49). Differente è la seconda forma di inibitoria intrapresa dalle associazioni dei consumatori al fine di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti (50). Alle azioni inibitorie in oggetto non si applica il comma 1 dell’articolo in commento giacchè per le stesse è prescritta un’autonoma condizione di procedibilità, in quanto l’azione “può essere proposta solo dopo che siano decorsi quindici giorni dalla data in cui le associazioni abbiano richiesto al soggetto da esse tenuto responsabile, a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, la cessazione del comportamento lesivo degli interessi dei consumatori e degli utenti” (51)(52). A fronte della elencazione tassativa contenuta al primo comma dell’art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 delle materie in cui la mediazione si presenta come obbligatoria, il terzo e quarto comma dell’art. 5 sottraggono alcuni procedimenti alla obbligatorietà della stessa, sebbene vi rientrerebbero ratione materiae. Si tratta dei seguenti procedimenti (53): (46) Art. 5, comma 1, u.p.. (47) L’esclusione della obbligatorietà della mediazione e del tentativo di conciliazione rispetto alla azione di classe per le materie indicate nel comma nasce, come riportato nella Relazione illustrativa al decreto delegato, “dalla constatazione che non è concepibile una mediazione nell’azione di classe fino a quando quest’ultima non ha assunto i connotati che permetterebbero una mediazione allargata al maggior numero di membri della collettività danneggiata, fino dunque alla scadenza del termine per le adesioni”. (48) D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. (49) Cfr. art. 37. (50) Cfr. art. 140. (51) Si osserva, peraltro, che le due diverse azioni inibitorie disciplinate dal codice del consumo possono comunque giovarsi del tentativo facoltativo di conciliazione: in questo senso, C. VACCÀ, La mediazione: i tratti istituzionali, in C. VACCÀ - M. MARTELLO, La mediazione delle controversie, Milanofiori Assago, 2010, 139. (52) Per quanto concerne l’azione di classe di cui all’art. 140-bis del codice del consumo il tentativo facoltativo di conciliazione solleva problemi delicati allorquando si configuri come successivo e non preventivo: ossia, quando interviene nel corso di una azione di classe. V. art. 15 del d.lgs. n. 28/2010. (53) La Relazione illustrativa al decreto in commento dà conto del fatto che, rispetto alla disciplina dell’art. 412-bis c.p.c. “l’elenco dei procedimenti esclusi è più nutrito, in quanto più ampia è la gamma degli affari investiti dalla mediazione rispetto ai rapporti di lavoro, e dunque più varie le esigenze di tutela che possono presentarsi”. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 1) procedimenti urgenti e cautelari; 2) procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; 3) procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’art. 667 c.p.c.; 4) procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703, terzo comma, c.p.c.; 5) procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; 6) procedimenti in camera di consiglio; 7) azione civile esercitata nel processo penale. Il carattere che accomuna i procedimenti sopra indicati - si è detto in dottrina (54) - è dato dal fatto che essi sono posti a presidio di interessi per i quali un preventivo tentativo obbligatorio di mediazione appare inutile o controproducente, e ciò in considerazione del fatto che la tutela giurisdizionale è in grado, talvolta in forme sommarie e che non richiedono un preventivo contraddittorio, di assicurare una rapida soddisfazione degli interessi medesimi. Nell’ambito degli stessi occorre distinguere due diversi gruppi di materie in relazione all’esenzione parziale o totale del procedimento di mediazione. Nel primo gruppo rientrano le ipotesi nelle quali il procedimento di mediazione non preclude la proposizione della domanda e lo svolgimento di una prima fase del processo, finalizzata all’emissione di provvedimenti sommari, ma diviene nuovamente obbligatorio nella fase successiva, finalizzata alla pronuncia sul merito della causa (55). Appartengono a tale gruppo i procedimenti di cui ai nn. 1), 2), 3) e 4). In relazione ai procedimenti urgenti e cautelari, l’esclusione è motivata dal fatto che “La mediazione non può andare a discapito della parte che ha interesse a ottenere un provvedimento urgente o cautelare; imporre una sospensione in tali ipotesi significherebbe precludere l’accesso alla giurisdizione rispetto a situazioni che richiedono una decisione in tempi molto ristretti e sulle quali il mediatore è privo di qualsiasi potere d’intervento” (56). La Relazione illustrativa al D.lgs n. 28/2010 non chiarisce se il tentativo (54) N. SOLDATI, Commento all’art. 5 commi 3,4 e 6 in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, cit., 124. (55) Vi è da dire che già il Consiglio Nazionale Forense, nel suo parere sullo schema di decreto legislativo, aveva suggerito di escludere totalmente l’applicazione dell’art. 5, commi 1 e 2, ai procedimenti per ingiunzione, convalida di licenza o sfratto e possessori senza ripristinare l’obbligatorietà del tentativo una volta che si prosegua nelle forme del rito ordinario. (56) Aggiunge la Relazione, cit., che “ la formula prescelta (“provvedimenti urgenti e cautelari”) è molto ampia, onde potervi ricomprendere con sicurezza anche quei provvedimenti volti a fronteggiare stati di bisogno, la cui qualificazione è incerta in giurisprudenza e dottrina “facendo riferimento, ad esempio, all’ordinanza provvisionale di cui all’art. 147 del codice delle assicurazioni private e all’accertamento tecnico preventivo, la cui natura cautelare è stata affermata da Corte cost. 28 gennaio 2010, n. 26. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 269 di mediazione torni ad essere obbligatorio e debba essere proposto dopo la pronuncia della misura cautelare oppure se si possa dare inizio al giudizio di merito e, in tale ultima ipotesi, se debba essere rilevata l’improcedibilità del giudizio di merito o se il tentativo di mediazione sia definitivamente precluso. In ossequio al principio del nesso di strumentalità necessaria fra cautela e merito, sembra che la soluzione preferibile sia quella di considerare applicabile il comma 4 dell’art. 669-octies c.p.c. - sebbene dettato per le sole controversie di lavoro dei dipendenti pubblici - che non esonera la parte ricorrente dal tentativo di conciliazione (57), con la conseguenza che la misura cautelare diventerà inefficace qualora la conciliazione non venga proposta, data l’estinzione del giudizio di merito che deve essere dichiarata d’ufficio. Come giustamente evidenziato nella Relazione illustrativa, citata, l’esclusione dei procedimenti di ingiunzione (58) (59) e di convalida di licenza o sfratto (60) “si giustifica per il fatto che in essi ci troviamo di fronte a forme di accertamento sommario con prevalente funzione esecutiva. Il procedimento è caratterizzato da un contraddittorio differito o rudimentale, e mira a consentire al creditore di conseguire rapidamente un titolo esecutivo. Appare pertanto illogico frustrare tale esigenza imponendo la mediazione o comunque il differimento del processo… E’ stato previsto che la mediazione possa trovare nuovamente lo spazio all’esito della fase sommaria, quando le esigenze di celerità sono cessate, la decisione sulla concessione dei provvedimenti esecutivi è stata già presa e la causa prosegue nelle forme ordinarie”. Prosegue la Relazione “L’esclusione dei procedimenti possessori fino all’adozione dei provvedimenti interdittali si giustifica per motivi analoghi a quelli che riguardano i provvedimenti cautelari (massima urgenza nel provvedere). La collocazione nel comma 5 è dovuta al fatto che il procedimento possessorio può conoscere una fase di merito (articolo 703, quarto comma, codice di procedura civile), nella quale è incongruo non consentire la mediazione”. (57) Cfr. Corte cost. (ord.) 16 aprile 1999, n. 122, che ha esteso l’applicabilità dell’art. 669-octies, comma 4, c.p.c. anche in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti con riferimento alla attività precontenziosa ex art. 22 della L. 24 dicembre 1969, n. 990. (58) L’esclusione del tentativo obbligatorio di mediazione rispetto al procedimento di ingiunzione ex art. 633 c.p.c. è stata questione dibattuta in dottrina in tutti i casi in cui la domanda è sottoposta a condizione di procedibilità, prevalendo in giurisprudenza la tesi favorevole alla esclusione in materia di lavoro (cfr. Corte cost. 6 febbraio 2001, n. 29), di subfornitura (cfr. Trib. Belluno 4 novembre 2009), di telecomunicazioni (cfr. Trib. Torino 2 dicembre 2005) ed agraria (cfr. Trib. Roma 13 aprile 1987). (59) La condizione di procedibilità torna ad operare dopo la pronuncia ex artt. 648 e 649 c.p.c. sulla richiesta di esecuzione provvisoria del decreto o sulla sospensione dell’esecuzione provvisoria concessa ex art. 642 c.p.c.. Secondo G. MINELLI, op. cit., 191, l’onere di sanare il vizio sarà, ragionevolmente, in capo all’opponente se venga concessa l’esecuzione provvisoria del decreto ed in capo all’opposto nel caso che sia stata disposta la sospensione della esecuzione provvisoria. (60) Solo dopo la decisione sulla concessione o meno dei provvedimenti esecutivi ed il mutamento del rito ex artt. 667 e 426 c.p.c. la condizione di procedibilità ritorna ad essere operante. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Per contro, rientrano nel secondo gruppo quei procedimenti che sono sempre esentati dal tentativo obbligatorio di mediazione, vale a dire i procedimenti di cui ai nn. 5), 6) e 7). Per quanto riguarda i procedimenti di opposizione (61) o incidentali di cognizione (62) relativi all’esecuzione forzatasi, secondo la dottrina (63) si è voluto evitare che l’esperimento del tentativo di conciliazione differisca nel tempo la possibilità di soddisfazione sottesa all’azione esecutiva. Rispetto ai procedimenti in camera di consiglio l’esclusione del tentativo obbligatorio di mediazione è giustificata dalla Relazione illustrativa con il richiamo alla “flessibilità e rapidità con cui il giudice può provvedere sul bene della vita richiesto” (64). Infine, è opportunamente esclusa l’azione civile esercitata nel processo penale, onde evitare qualsivoglia interferenza tra il procedimento di mediazione ed il giudizio penale, in quanto la costituzione di parte civile nel processo penale comporta l’inevitabile sottoposizione dell’azione civile ai tempi e alle condizioni del solo giudizio penale (65). Una ipotesi che non è stata prevista, ma che ad avviso di taluno (66) avrebbe dovuto opportunamente essere inserita tra i casi di esclusione della obbligatorietà, è il procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c. (67). (61) Ex artt. 615, 617 e 619 c.p.c.. (62) Ex artt. 512 e 547-549 c.p.c.. (63) Cfr. M. M. ANDREONI, Commento all’art. 5, in La mediazione nelle controversie civili e commerciali. Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, cit., 107. Secondo N. SOLDATI, Commento all’art. 5 commi 3, 4 e 6, cit., 126, “consentire o, ancora peggio, imporre un rinvio derivante dall’obbligo del tentativo di mediazione nella fase processuale in cui la soddisfazione del singolo diritto è più prossima, significherebbe consentire ai debitori esecutati di strumentalizzare la procedura di mediazione a fini dilatori ”. (64) In dottrina, peraltro, c’è chi come M.M. ANDREONI, op. cit., ha avanzato qualche perplessità sulla base della affermazione giurisprudenziale secondo cui la giurisdizione camerale si caratterizzerebbe come un “contenitore neutro” ( in termini, Cass., sez. un., 19 giugno 1996, n. 5629). Secondo G. MINELLI, op. cit., 192, si tratta più che altro di una scelta discrezionale del legislatore. (65) Nella Relazione illustrativa, cit., si afferma anche che “condizionarne l’esercizio alla previa mediazione equivarrebbe a impedire o a ostacolare fortemente la costituzione di parte civile, così sacrificando una forma di esercizio dell’azione civile di grande efficacia e forte valore simbolico”. (66) C. AVESANI – M. LUPANO, Il rapporto con il processo, in La mediazione civile e commerciale, cit., 334-337. Gli autori, dopo aver richiamato il carattere di “celerità” del nuovo rito sommario, affermano: “Sarebbe quindi controproducente e in contrasto con lo scopo perseguito affermare l’obbligatorietà del tentativo di mediazione per tutte le materie di cui al 1° comma dell’art. 5 qualora l’attore opti per il procedimento sommario di cognizione, perché ciò significherebbe , di fatto, allungare i tempi del processo fino a un massimo di quattro mesi (art. 6 del decreto) sia pure giungendo alla conclusione che, in assenza di una previsione legislativa, “ non sembra possibile risolvere la questione se non nel senso che la disciplina del tentativo obbligatorio di mediazione […] si debba applicare anche al procedimento sommario di cognizione”. (67) Sia il Consiglio Superiore della Magistratura, sia il Consiglio Nazionale Forense si erano espressi, nei rispettivi pareri sullo schema di decreto delegato, perché l’elenco di cui all’art. 5, comma 4, fosse integrato dall’inserimento di questo rito. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 271 5. La mediazione “delegata” La direttiva europea 52/2008/CE individua nella mediazione “suggerita o ordinata” (68) dal giudice una delle tre possibili forme di mediazione, accanto quella liberamente scelta dalle parti e a quella prescritta dal legislatore. Il legislatore italiano ha previsto tale figura (69) nell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, definendola come la mediazione a cui le parti addivengono su “invito” rivolto dal giudice (70), “valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”. La Relazione illustrativa al decreto in commento chiarisce che la mediazione “delegata” non è, circa le materie per le quali la mediazione preventiva è obbligatoria, impedita o vietata dal fatto che questa sia fallita. Si può dire, quindi, che la mediazione “delegata” opera, in primo luogo, con riferimento alle materie per le quali è prescritto come obbligatorio il tentativo di mediazione e, come questa, incontra le stesse limitazioni ed esclusioni (71). Poiché, tuttavia, sarà molto difficile che, una volta fallito il tentativo di mediazione in una delle controversie concernenti le materie di cui all’art. 5, comma 1, le parti raccolgano l’“invito” ad esse rivolto dal giudice di riprendere, per così dire, il procedimento di mediazione che si è concluso in un nulla di fatto, sembra che il terreno elettivo della mediazione delegata sia quello delle controversie concernenti i “diritti disponibili ” tout court e che, quindi, il giudice non sia limitato dall’elenco delle materie. Il successo di tale forma di mediazione, a prescindere dai termini in cui si delinei l’ambito di applicazione, dipenderà comunque dall’atteggiamento della classe forense, in quanto ai fini dell’accettazione è determinante il ruolo del difensore che dovrà saper consigliare il proprio cliente sulla base di una previsione sull’esito della lite. ************** Disposizioni in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (*) Nella Gazzetta ufficiale del 5 marzo 2010 n. 53, è stato pubblicato il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante “Attuazione dell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 in (68) La previsione trae ispirazione dall’esperienza della court annexed mediation che già da diversi anni è sperimentata davanti alle giurisdizioni statunitensi. (69) Che non rappresenta una novità assoluta nel nostro ordinamento, in quanto preceduta dalla novella della L. n. 54/2006 in tema di affidamento condiviso dei figli, che, all’art. 155-sexies c.c., ha previsto la mediazione ad opera di esperti per facilitare l’accordo tra i coniugi riguardo all’affidamento dei figli. (70) Si parla, pertanto, anche di mediazione “sollecitata”. (71) Infra par. 4. (*) Circolare dell’Avvocatura dello Stato n. 21 del 24 marzo 2011 prot. 100888. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”. Successivamente, con D.M. 18 ottobre 2010, n. 180 è stato approvato il regolamento contenente la “Determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs 4 marzo 2010 n. 18”. Infine, con il D.L. n. 225 del 29 dicembre 2010 convertito nella L. n. 10 del 26 febbraio 2011 (art. 2 comma 16 decies), è stato prorogato il termine per l’entrata in vigore della mediazione obbligatoria per talune materie. Essendo state introdotte significative innovazioni influenti tanto sul processo civile quanto, indirettamente, sull’attività consultiva dell’Avvocatura, riservate ad un successivo approfondimento le prime indicazioni operative, si riportano qui di seguito le principali disposizioni della normativa entrata in vigore il 21 marzo 2011. 1) La mediazione facoltativa: (art. 2) In linea con la legge delega (art. 60, comma 3, lettera a) della legge n. 69 del 2009) e con la normativa comunitaria (direttiva 2008/52/CE), l’art. 2 prevede la mediazione come strumento facoltativo di risoluzione delle controversie, stabilendo che chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili. 2) La mediazione obbligatoria: (art. 5, comma 1) L’esperimento del procedimento di mediazione è invece obbligatorio e costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi bancari e finanziari. Limitatamente alle controversie condominiali e a quelle vertenti sul risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti l’art. 2 comma 16 decies del D.L. n. 225 del 29 dicembre 2010 ha prorogato il termine per l’entrata in vigore della mediazione obbligatoria di ulteriori dodici mesi. In talune materie, in alternativa al procedimento di mediazione previsto dal decreto legislativo n. 28 del 2010 può essere esperito il procedimento di conciliazione presso la Camera di conciliazione e arbitrato della Consob previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179 (per le controversie tra risparmiatori o investitori ed intermediari), nonché il procedimento istituto in attuazione dell’articolo 128 bis del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (decreto legislativo n. 385 del 1993, n. 385) per le materie ivi regolate. L’improcedibilità derivante dal mancato esperimento del procedimento di mediazione deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal Giudice, non oltre la prima udienza del giudizio che fosse intrapreso sul medesimo oggetto. Il mancato esperimento o la mancata conclusione della mediazione rilevati dal Giudice non comporta, a differenza di quanto accade nel caso del mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione del processo del lavoro, la sospensione del processo, ma solo un rinvio dello stesso. La mediazione non è tuttavia obbligatoria (quale che sia la materia) per l’azione inibitoria e l’azione di classe previste dagli articoli 37, 140 e 140 bis del codice del consumo (Decreto Legislativo n. 206 del 2005). 3) La mediazione sollecitata dal Giudice: (art. 5, comma 2) Il Giudice, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 273 parti, può invitare le parti stesse a procedere alla mediazione, anche in sede di giudizio di appello. E’ rimessa alle parti la possibilità di aderire o meno all’invito del Giudice. 4) Domande cautelari e trascrizione: (art. 5, comma 3) Lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale. 5) Esclusione della condizione di procedibilità: (art. 5, comma 4) Anche nelle materie contemplate dall’art. 5, comma 1 (v. n. 2) la mediazione non è tuttavia obbligatoria - talvolta solo per la fase a cognizione sommaria -, per ragioni di rito (procedimento per ingiunzione; sfratto; possessorie; talune procedure esecutive; procedimento in camera di consiglio), e per la costituzione di parte civile nel processo penale. In questi casi non trova nemmeno applicazione la mediazione su invito del Giudice. 6) Clausola di mediazione: (art. 5, comma 5) La mediazione può essere infine obbligatoria, al di fuori della previsione normativa, in quanto contemplata in un contratto, nello statuto o nell’atto costitutivo dell’ente parte in causa. 7) Effetti della domanda di mediazione: (art. 5, comma 6) Dal momento della comunicazione alle altre parti (v. n. 11), la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Essa impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente ex novo dal deposito del relativo verbale presso la segreteria dell’organismo di mediazione. 8) Durata: (art. 6) Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a quattro mesi, che decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione ovvero dalla scadenza del termine fissato dal Giudice per il deposito della stessa,. Il termine di quattro mesi (sprovvisto peraltro di sanzione) non è soggetto alla sospensione feriale. 9) Effetti sulla ragionevole durata del processo: (art. 7) Il periodo per lo svolgimento del procedimento di mediazione e il corrispondente periodo del rinvio disposto dal Giudice non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89. 10) Accesso alla mediazione: (art.4) La domanda di mediazione è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo di mediazione. Non è prevista alcuna norma per individuare l’organismo territorialmente competente. In caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda. Per determinare il tempo della domanda si ha riguardo alla data della ricezione della comunicazione. L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa. All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 (esenzioni) e 20 (credito d’imposta), e dell’eventuale obbligatorietà della mediazione. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. 11) Procedimento: (art. 8) All’atto della presentazione della domanda di mediazione dinanzi all’organismo (ente pubblico o privato dinanzi al quale si svolge il procedimento), è disegnato un mediatore e viene fissato il primo incontro tra le parti. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurare la ricezione, anche a cura della parte istante. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il Giudice successivamente adito può desumere argomenti di prova ai sensi dell’articolo 116, secondo comma c.p.c. 12) Dovere di riservatezza: (art. 9) Il mediatore è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento, anche nel corso delle “sessioni separate”, laddove le parti siano ascoltate separatamente. 13) Inutilizzabilità delle dichiarazioni: (art. 10) Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, anche parziale, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale propendono le informazioni. Sul punto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio. Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. 14) Conciliazione: (art. 11) Se è raggiunto un accordo amichevole, il meditore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo. Quando l’accordo non è raggiunto, o se le parti ne fanno concorde richiesta, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. La proposta è comunicata alle parti per iscritto. Le stesse fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta. 15) Efficacia esecutiva: (art. 12) Il verbale di accordo il cui contenuto non sia contrario all’ordine pubblico o a norme imperative è omologato con decreto del Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di mediazione e costituisce titolo esecutivo. 16) Spese processuali: (art. 13) Nel solco di quanto già previsto dall’art. 91 c.p.c., come modificato dalla legge n. 69 del 2009, l’art. 13 prevede una rilevante eccezione al principio della soccombenza, stabilendo che, quanto il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il Giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché, a titolo di sanzione pecuniaria processuale, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato (Fondo Unico Giustizia) di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Tali disposizioni si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto. Allo scopo di disincentivare l’uso strumentale della mediazione e il comportamento processuale scorretto o ostruzionistico, è previsto inoltre che, anche quanto non via sia piena coincidenza tra il contenuto della proposta e il provvedimento che definisce il giudizio, il Giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 275 17) Criteri di determinazione dell’indennità: (art. 16 del D.M. n. 180/2010) L’indennità comprende le spese di avvio del procedimento e le spese di mediazione. Le stesse sono dovute in solido da entambe le parti (chi promuove la mediazione e chi vi aderisce). Le spese di mediazione sono partitamente indicate nella Tabella A) allegata al decreto, e sono determinate con riferimento al valore della lite. 18) Mediazione nell’azione di classe: (art. 15) L’azione di classe non prelude la mediazione, peraltro sempre facoltativa (v. n. 2, ultima parte). L’art. 15 prevede quindi che, quando è esercitata l’azione di classe prevista dall’articolo 140 bis del codice del consumo, la conciliazione, intervenuta dopo la scandenza del termine per l’adesione degli altri appartenenti alla classe ai sensi del predetto art. 140 bis, comma 9, ha effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito. 19) Regime tributario: (art. 17) Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente. 20) Credito dì imposta: (art. 20) Alle parti che corrispondono l’indennità ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di mediazione presso gli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito dì’imposta commisurato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro cinquecento. In caso di insuccesso della medizione, il credito d’imposta è ridotto della metà. 21) Abrogazioni: (art. 23) Sono abrogati gli articoli da 38 a 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, sulla conciliazione societaria, mentre restano ferme le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazioni relativi alle controversie di lavoro di cui all’articolo 409 c.p.c. 22) Entrata in vigore: (art. 24) Come già detto le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 1 sono entrate in vigore il 20 marzo 2011 (salvo quanto precisato al n. 2 per talune materie) e si applicano ai giudizi successivamente iniziati. Si fa riserva di inviare a breve indicazioni operative sulle prime questioni interpretative emerse, al fine di garantire uniformità di orientamento in tutte le Sedi. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 L’immediata applicabilità delle disposizioni della c.d. riforma Brunetta Poteri della dirigenza pubblica in materia di organizzazione e gestione Francesco Spada* Il decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 contiene, tra gli interventi più incisivi, la modifica del sistema di disciplina delle relazioni sindacali nel settore del pubblico impiego (1), attuata essenzialmente attraverso una compressione del potere regolativo della contrattazione collettiva ed una corrispondente estensione dell’area di azione riservata alla legge. In particolare, il legislatore delegato ha disciplinato direttamente alcuni aspetti del rapporto di lavoro, sottraendoli alla regolamentazione contrattuale e ha riformulato, tra l’altro, l’art. 40 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, disposizione di apertura del titolo dedicato a “Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale”. La disposizione da ultimo citata, nella nuova formulazione, individua, da un lato, l’oggetto della contrattazione collettiva, limitandolo fortemente rispetto alla precedente formulazione (“La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali”) e, dall’altro, le materie espressamente escluse dall’ambito di applicazione della regolamentazione di fonte negoziale (“le materie attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421”). Essa prevede, inoltre, che “nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”. (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’Autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. (1) Sul tema, ex multis, TALAMO V., La riforma del sistema di relazioni sindacali nel lavoro pubblico, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, 1, 13 e ss.; SOLOPERTO R., La contrattazione collettiva nazionale e integrativa, in TIRABOSCHI M. e VERBARO F. (a cura di), La nuova riforma del lavoro pubblico, Giuffrè, 2010, 365 e ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 277 Un ulteriore settore di intervento della riforma del lavoro pubblico recata dal d.lgs. n. 150 del 2009 è rappresentato dalla dirigenza pubblica (2), alla quale si sono intese attribuire, da un lato, maggiore autonomia rispetto alle ingerenze della politica e delle organizzazioni sindacali e, dall’altro, più intense prerogative manageriali. In particolare, al fine di porre un argine al processo di progressiva espansione della contrattazione verso aree non assoggettate a tale forma di relazione sindacale, il legislatore delegato ha preservato espressamente i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro dall’ingerenza sindacale, attraverso la riformulazione degli artt. 5, comma 2 e 9 del d.lgs. n. 165 del 2001. Ai sensi del citato art. 5, comma 2 “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all’art. 9. Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici”; l’art. 9 aggiunge che “fermo restando quanto previsto dall’art. 5, comma 2, i contratti collettivi nazionali disciplinano le modalità e gli istituti della partecipazione”. E’ interessante, a questo punto, leggere il combinato disposto delle disposizioni di cui agli artt. 5, co. 2, 9 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001: i poteri dirigenziali di micro-organizzazione, ossia di organizzazione degli uffici e del lavoro, aventi natura privatistica, non sono negoziabili e l’unica forma di relazione sindacale ammessa in materia è quella dell’informazione, laddove prevista dai CCNL di riferimento. In questo modo, il legislatore delegato ha posto nel nulla i dubbi che le precedenti formulazioni delle esaminate disposizioni facevano sorgere, sgombrando il campo da ogni incertezza interpretativa e prevedendo, in aggiunta, un robusto apparato sanzionatorio, ossia quello della nullità e dell’inserzione di clausole legali per l’ipotesi di violazione di norme imperative (praticamente tutte quelle contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, compreso l’art. 5 co. 2) o di limiti fissati alla contrattazione collettiva da parte di disposizioni contrattuali individuali e collettive. Ciò premesso, uno dei più frequenti quesiti di carattere pratico posti all’interno delle amministrazioni all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. riforma Brunetta ha riguardato il seguente tema: le disposizioni sui poteri (2) Sul tema, ex multis, BATTINI S., L’autonomia della dirigenza pubblica e la riforma Brunetta, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, 1, 39 e ss.; FUSO P., Il rafforzamento dell’indipendenza della dirigenza, in TIRABOSCHI M. e VERBARO F. (a cura di), La nuova riforma del lavoro pubblico, Giuffrè, 2010, 589 e ss. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 unilaterali della dirigenza in tema di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, di cui al novellato art. 5 co. 2, sono immediatamente applicabili? In particolare, successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, in numerosi casi le organizzazioni sindacali si sono rivolte ai Giudici del lavoro al fine di far dichiarare l’antisindacalità della condotta delle amministrazioni pubbliche che, in applicazione della c.d. riforma Brunetta, hanno adottato unilateralmente determinazioni incidenti nell’area dei rapporti di lavoro su materie fino ad allora oggetto di concertazione o di contrattazione, secondo le previsioni dei CCNL di riferimento. I Giudici del lavoro hanno, così, affrontato la questione dell’immediata applicabilità del novellato art. 5, co. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, pervenendo quasi sempre alla risposta negativa (3). Il percorso argomentativo adottato dai Giudici del lavoro è riassumibile nei termini che seguono: • l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni legislative recate dalla c.d. riforma Brunetta non travolge le difformi previsioni contrattuali vigenti al 16 novembre 2009, data di entrata in vigore della riforma; • l’art. 65 del d.lgs. n. 150 del 2009 prevede un regime transitorio, fissando il termine del 31 dicembre 2010 per l’adeguamento dei contratti collettivi integrativi in essere alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 e disponendo la cessazione della loro efficacia a partire dal 1 gennaio 2011 in caso di mancato adeguamento; • il citato art. 65, nei primi due commi, riguarda i soli contratti collettivi integrativi ed impone il loro adeguamento, entro il 31 dicembre 2010, alle norme che regolano la definizione degli ambiti riservati alla legge e alla contrattazione collettiva, oltre che alle disposizioni del titolo III del decreto; • la disposizione del citato art. 65, comma 5 (“Le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso”) deve essere intesa in modo tale da armonizzarsi sistematicamente con le disposizioni dei commi precedenti, nel senso che le norme del decreto riguardanti la contrattazione collettiva nazionale trovano applicazione solo in riferimento ai contratti collettivi nazionali stipulati dopo l’entrata in vigore della riforma e non a quelli stipulati anteriormente; • sono conseguentemente fatti salvi gli effetti dei contratti collettivi nazionali già stipulati, che saranno cadutati non già per contrasto con le norme della riforma, bensì per il sopravvenire della disciplina di fonte contrattuale successiva, realizzata nel contesto della nuova disciplina legislativa; (3) Tribunale Torino, decreto, 2 aprile 2010; Tribunale Pesaro, ordinanza, 19 luglio 2010; Tribunale Lamezia Terme, decreto, 7 settembre 2010; Tribunale Trieste, decreto, 5 ottobre 2010; Tribunale Siena, sentenza, 22 novembre 2010, n. 596; Tribunale Roma, sez. lavoro, sentenza, 7 gennaio 2011, n. 687. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 279 • è, di conseguenza, antisindacale la condotta dell’amministrazione che, a seguito dell’entrata in vigore della c.d. riforma Brunetta, adotta unilateralmente determinazioni ex art. 5 co. 2, senza attivare le procedure di concertazione e/o di contrattazione previste dalla contrattazione collettiva. Tali argomentazioni - soprattutto quelle indicate negli ultimi tre punti - appaiono frettolose conclusioni concepite con l’intento di bloccare, almeno fino all’applicazione dei nuovi CCNL, la completa applicazione della riforma Brunetta e, in definitiva, poco condivisibili. A ben vedere, è sulla corretta interpretazione dell’art. 65 e, soprattutto, sul criterio della gerarchia delle fonti che ci si deve soffermare per superare le discutibili conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del lavoro nei primi mesi di applicazione della riforma. Dal citato art. 65 deriva soltanto che la contrattazione collettiva integrativa - attuativa di quella nazionale - del preesistente regime normativo mantiene la propria efficacia, salvo adeguamento (entro il 31 dicembre 2010, termine ultimo per disporne l’adeguamento, dopo il quale si determina ex lege la cessazione dell’efficacia) e che i contratti decentrati stipulati successivamente al 15 novembre 2009 devono completamente armonizzarsi con la riforma, senza che occorra la stipulazione di un nuovo contratto di primo livello a ciò finalizzato. I commi da 1 a 4 dell’art. 65 si riferiscono espressamente ai contratti collettivi integrativi, per cui le disposizioni relative al loro doveroso adeguamento non si applicano ai contratti collettivi nazionali: questi ultimi, quindi, non sono fatti salvi dall’applicazione immediata e totale della riforma. Ai primi quattro commi della disposizione, se ne aggiunge un ulteriore, che presenta un ambito di applicazione diverso. Il comma 5, infatti, richiama espressamente i contratti collettivi nazionali, prevedendo che “Le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso”: tale disposizione, tuttavia, in considerazione della sua collocazione a chiusura del Titolo IV del Capo IV, rubricato “Contrattazione collettiva nazionale e integrativa”, non può che riferirsi esclusivamente alle disposizioni del decreto contenute, appunto, nel Capo IV. La previsione del comma 5, quindi, si riferisce esclusivamente alle norme procedimentali che regolano le modalità di formazione dei contratti collettivi e non alle norme incidenti sulla definizione delle materie di competenza dei contratti stessi, che sono, invece, immediatamente applicabili. Soprattutto si deve considerare, in disaccordo con quanto affermato dai Giudici del lavoro, che la gerarchia delle fonti impone la superiorità della legge sui contratti collettivi (4), con la conseguenza che, se questi ultimi contrastano (4) TOSCHEI S., La fonte legislativa prevale su quella contrattuale, in Guida al diritto Sole 24 ore, Pubblico Impiego, 2009, fasc. 47, 31 e ss. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 con disposizioni legislative, sono nulli e le loro previsioni sono sostituite automaticamente con le previsioni di legge: tale meccanismo risulta espressamente richiamato dal novellato art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 e impone l’immediata disapplicazione delle clausole contrattuali nazionali contrastanti con la fonte primaria. In generale, inoltre, il decreto legislativo n. 150 del 2009 non subordina affatto l’applicazione delle disposizioni in esso contenute alla stipulazione di contratti collettivi nazionali, ma ne prevede l’immediata applicazione, con la sola ovvia eccezione delle norme transitorie (5). Il nuovo sistema di relazioni sindacali, pertanto, trova applicazione, in virtù del principio tempus regit actum, ai fatti accaduti successivamente all’entrata in vigore del decreto, avvenuta il 16 novembre 2009, con conseguente immediata caducazione delle discipline contrattuali contrastanti con le disposizioni di legge. In particolare, il citato art. 5, co. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 interviene direttamente ed immediatamente sulla contrattazione collettiva nazionale, limitandone l’ambito di applicazione e prevedendo implicitamente la disapplicazione del sistema di relazioni sindacali già disciplinato dai CCNL, nella parte in cui risulti incompatibile con la stessa disposizione. Da ciò consegue che le previsioni contrattuali che prevedono forme di relazione sindacale più incisive rispetto alla mera informazione devono intendersi sostituite di diritto con la previsione di cui al citato art. 5, che stabilisce, in ipotesi di tal fatta, unicamente la previa comunicazione alle organizzazione sindacali. Le previsioni contrattuali che prevedono forme di concertazione e/o di contrattazione sindacale sulle materie indicate dall’art. 5 co. 2 sono, dunque, insanabilmente affette da nullità sopravvenuta per contrasto con norme imperative e la loro inosservanza da parte delle amministrazioni non può costituire comportamento antisindacale, in considerazione del nuovo assetto dei poteri organizzativi e gestionali della dirigenza pubblica delineato dalla c.d. riforma Brunetta. Tali conclusioni appaiono avvalorate dalla circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 7 del 13 maggio 2010 (6), che inserisce il citato art. 5, co. 2 nel novero delle disposizioni che “operano dal 15 novembre 2009, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, non essendo previsto un termine di adeguamento”. (5) OLIVIERI L., Il “tormentone” della vigenza della riforma Brunetta nella giurisprudenza dei giudici del lavoro, in www.lexitalia.it. (6) RAPICAVOLI C., Applicazione del decreto Brunetta: norme di immediata applicazione e norme ad applicazione differita, Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 7/2010, in www.ambientediritto. it. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 281 La circolare aggiunge che “nei confronti dei contratti collettivi che dispongano in modo diverso, vengono applicati i meccanismi di eterointegrazione contrattuale previsti dagli articoli 1339 e 1414, co. 2 del codice civile” e che “in queste ipotesi le forme di partecipazione sindacale, se già previste dai contratti nazionali, regrediscono all’informazione”. L’interpretazione che qui si privilegia è, da ultimo, stata fatta propria dal legislatore che, in sede di Consiglio dei Ministri 21 gennaio 2011, ha adottato uno schema di decreto legislativo di modifica del d.lgs. n. 150 del 2009. Tale provvedimento, tra l’altro, inserisce nell’art. 65 del d.lgs. n. 150 del 2009 un nuovo comma 4-bis, che sancisce espressamente l’immediata applicabilità delle disposizioni modificative dell’art. 5, co. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001. Si tratta di una vera e propria disposizione di interpretazione autentica, che sancisce, una volta per tutte, l’immediata attribuzione di poteri unilaterali ai dirigenti in tema di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, con conseguente modifica delle relazioni sindacali, degradate in materia a mera informazione. Lo schema di decreto legislativo interpreta, inoltre, autenticamente anche il comma 5 dell’art. 65: le norme sui contratti collettivi nazionali demandate alla sottoscrizione della nuova tornata contrattuale sono soltanto quelle che disciplinano il procedimento di stipulazione e controllo, ma non quelle che incidono sulla definizione delle materie di competenza dei contratti stessi. Tale previsione, abbinata alla piena ed immediata applicabilità del novellato art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001, priva in via retroattiva i contratti collettivi nazionali della possibilità di disciplinare tutte le materie riguardanti l’organizzazione, gli incarichi dirigenziali, le progressioni verticali e le prerogative dei dirigenti quali datori di lavoro. C O N T R I B U T I D I D O T T R I N A Avvocatura dello Stato, amministrazione pubblica e democrazia Il ruolo della consulenza legale nella formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche Guilherme Francisco Alfredo Cintra Guimarães* L’articolo avanza una tesi generale sulla funzione delle attività di consulenza legale svolte dall’Avvocatura dello Stato nell’ambito della pubblica amministrazione, con attenzione speciale ai contesti brasiliano e italiano. Con l’aiuto della teoria dei sistemi sociali sviluppata dal sociologo tedesco Niklas Luhmann, le attività di consulenza legale sono descritte come una specie di traduzione fra i sistemi giuridico e politico. La funzione della consulenza legale sarebbe quindi quella di tradurre i programmi giuridici che condizionano l’attività politico-discrezionale della pubblica amministrazione, con l’obiettivo principale di contribuire alla legittimità e alla efficienza delle politiche pubbliche necessarie alla promozione dei diritti fondamentali dei cittadini. SOMMARIO: Introduzione - 1. Gli ostacoli del positivismo giuridico ad una comprensione adeguata della consulenza legale: interpretazione giuridica e principio di legalità - 2. La consulenza legale come attività di “traduzione” - 3. Sulla necessità di uno sguardo spregiudicato sulla politica - Conclusione - Bibliogra. (*) Avvocato dello Stato in Brasile. Questo articolo è stato scritto nell’ambito di una ricerca sull’Avvocatura dello Stato realizzata presso la Sezione di filosofia e sociologia del diritto del Dipartimento di cultura giuridica Giovanni Tarello – DIGITA della Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova, sotto la guida del Professor Realino Marra (borsa di ricerca “Alla scoperta dell’Italia”, 2009-2010). L’A. ringrazia il Professor Realino Marra per i suoi importantissimi suggerimenti e critiche e per la revisione finale dell’articolo. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Introduzione Si può dire che la figura dello specializzato in diritto, del tecnico o professionista legale sia sempre stata circondata da un qualche sentimento diffuso di diffidenza. Come fidarsi di uno che utilizza l’istituzione sacra della giustiza come fonte di guadagno quotidiano? Si tratta di una situazione che produce naturalmente diffidenza, una diffidenza che accompagna i giuristi dai primordi dell’apparizione e differenziazione della loro professione come ruolo sociale autonomo e specializzato fino ai nostri giorni (1). Riguardo alla professione specifica dell’avvocato, la diffidenza è ancora più grande. Se il giudice può “nascondersi” sotto la figura del terzo neutro e imparziale responsabile per applicare la legge e realizzare la giustizia nel caso concreto, l’avvocato ha sempre il compito professionale di essere parziale, di prendere posizione, di difendere una delle parti in conflitto. Un ruolo veramente paradossale, che impone all’avvocato una sorta di “imparziale parzialità”: per un verso, egli deve essere imparziale nei suoi doveri con la giustizia, per un altro, deve essere parziale nella difesa degli interessi dei suoi clienti (2). Cosa dire allora sulla figura dell’avvocato dello Stato, l’avvocato i cui “clienti” sono, almeno in teoria, tutti i cittadini? Essendo sottomesso al controllo giudiziario, anche lo Stato ha bisogno degli avvocati. Come possono essi essere “imparzialmente parziali” nella difesa dell’entità politica che rappresenta l’unione di tutta la collettività? La necessità di una avvocatura specifica per lo Stato può essere descritta come un risultato della separazione dei poteri e dell’assoggettamento dell’esecutivo alla legge prodotte dalle rivoluzioni borghesi. La creazione di una istituzione speciale responsabile per tutte le attività contenziose e consultive rappresenta però l’opzione specifica di alcuni paesi (Italia, Spagna e Brasile, per esempio) di affidare la tutela giudiziale e la consulenza legale dello Stato ad un unico organo, per ragioni di efficienza ed uniformità (3). Le attività di difesa e consulenza giuridica dello Stato sono essenziali in qualsiasi regime democratico. Al di là dell’importanza della separazione dei poteri e dell’esistenza di una giurisdizione indipendente capace di giudicare con imparzialità i conflitti fra lo Stato e i cittadini, l’assistenza giuridica interna (1) Cfr. LA TORRE 2002. (2) D’accordo con Massimo La Torre: “La dialettica, e la tensione, è tra la parzialità della difesa di una parte e l’imparzialità di una pretesa che si dice essere giustificata ed adottabile in via di principio dal giudice” (2002: 56). Sulla storia, cambiamenti e problemi attuali dell’avvocatura nel contesto italiano ed europeo, cfr. ALPA 2005. (3) In questo saggio, l’attenzione sarà rivolta piuttosto ai modelli brasiliano e italiano di Avvocatura dello Stato, anche se le riflessioni teoriche sul ruolo della consulenza legale nell’amministrazione pubblica che saranno avanzate non riguardano necessariamente un qualche modello specifico. Sull’Avvocatura dello Stato italiana, cfr. CARAMAZZA 1998 e MANZARI 1987. Sull’Avvocatura dello Stato brasiliana, cfr. MACEDO 2008 e GUEDES & SOUZA 2009. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 285 all’amministrazione pubblica è anche indispensabile per assicurare che gli organi statali agiscano in conformità con le regole che caratterizzano lo Stato democratico di diritto. Attenta a questa importanza, la Costituzione brasiliana del 1988, simbolo della ridemocratizzazione del paese dopo più di venti anni di dittatura militare (1964-1985), ha realizzato un grande cambiamento nel modello di assistenza giuridica allo Stato. La tutela giudiziale e stragiudiziale dell’amministrazione federale, che prima costituiva una delle funzioni del Pubblico Ministero, e le attività di consulenza legale, prima compiute dai diversi uffici giuridici degli organi ed enti statali, sono state riunite e assegnate ad una nuova istituzione: l’Avvocatura Generale dello Stato (Advocacia-Geral da União - AGU). L’obiettivo, per un verso, era ritirare la funzione di rappresentazione giudiziale dell’amministrazione del Pubblico Ministero, perché esso potesse concentrarsi soltanto sulle attività di controllo dello Stato e difesa del regime democratico, e per un altro, riunire le funzioni di difesa e consulenza giuridica dell’amministrazione pubblica in una sola istituzione, per ragioni di efficienza e uniformità (4). Dopo più di quindici anni di esistenza (5), l’Avvocatura dello Stato in Brasile ha progredito molto nella professionalizzazione dell’assistenza giuridica allo Stato, con incremento di efficienza e aumento del risparmio di denaro pubblico. Tuttavia ci sono ancora alcuni problemi tipici di un’istituzione relativamente giovane, come l’assenza di un’identità istituzionale solida, il bisogno di una migliore integrazione fra i suoi diversi dipartimenti interni e i conflitti amministrativi che succedono spesso con altri organi ed enti statali sulle caratteristiche e sui limiti delle attività consultive. Le attività consultive sono proprio il tema centrale di questo saggio. Il ruolo generale e la funzione specifica della consulenza legale all’interno dell’amministrazione pubblica sembrano essere molto più problematici e circondati da malintesi e pregiudizi di quanto non siano il ruolo e la funzione del contenzioso. Nel contenzioso l’obbligatorietà del contraddittorio e dell’ampia difesa aiuta a delimitare in modo più chiaro cosa deve fare l’avvocato dello Stato: difendere lo Stato in giudizio oppure rappresentarlo contro un qualche convenuto, così come fanno tutti gli avvocati in generale. Nella consulenza invece la situazione è un po’ più complessa. L’avvocato partecipa (o almeno dovrebbe (4) Secondo alcuni autori, il modello italiano dell’Avvocatura dello Stato ha esercitato un’influenza rilevante in questo cambiamento. L’esistenza in Italia di un’istituzione già consolidata responsabile per tutte le attività contenziose e consultive sarebbe stata una fonte di ispirazione per i giuristi e politici che hanno contribuito alla creazione dell’Avvocatura Generale dello Stato brasiliana. Cfr. MACEDO 2008: 61-73. (5) Nonostante sia stata prevista nella Costituzione Federale del 1988, l’Avvocatura dello Stato brasiliana è stata istituita soltanto nel 1993 dalla Legge Federale Complementare n. 73 del 10 Febbraio 1993. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 partecipare) a tutto il processo di formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche (6). Diritto e politica sono in contatto diretto nell’ambito della stessa organizzazione, criteri giuridici e criteri politici di decisione si sovvrapongono a vicenda. Se nei tribunali il linguaggio tecnico-giuridico familiare agli avvocati predomina, nella pubblica amministrazione essi devono anche fare i conti con un linguaggio politico-amministrativo a cui non sono di solito molto abituati. Ciò fa diventare ancora più complesso il loro obbligo paradossale di trattare con “imparziale parzialità” gli interessi dello Stato, gli interessi pubblici, interessi di tutta la collettività dei cittadini (7). Nel contesto brasiliano, si sta affermando a poco a poco l’idea secondo la quale la funzione di consulenza sarebbe quella di un controllo interno di legalità degli atti amministrativi (8). Come risultato di questa comprensione (secondo noi) un po’ storta, gli organi di consulenza tendono a concentrarsi piuttosto sul controllo previo di atti e procedimenti isolati, invece di contribuire in forma più attiva e partecipativa alla formulazione ed esecuzione giuridica delle politiche pubbliche. Ciò produce diffidenza dalla parte degli organi di gestione e conseguenti difficoltà di dialogo. Partendo dal contesto brasiliano e dalla necessità di sviluppare criticamente un punto di vista alternativo, l’obiettivo principale di questo saggio è avanzare una tesi più generale sul ruolo e sulla funzione della consulenza legale nell’ambito della pubblica amministrazione. Invece di “controllo”, parleremo di “traduzione”: traduzione delle norme e del linguaggio giuridico nel processo di formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche come funzione specifica della consulenza legale (9). Secondo questa tesi, riconoscendo il carattere strutturalmente indeterminato del diritto moderno, gli organi di consulenza legale dovrebbero concentrarsi piuttosto sull’analisi delle conseguenze e dei rischi giuridici di ogni decisione amministrativa particolare, invece di proporre interpretazioni unilaterali e definitive sui comportamenti giuridici da assumere. In luogo di presentare soltanto quelle che considerano le soluzioni più corrette dal loro punto di vista, gli avvocati dovrebbero dimostrare quali sono le interpretazioni possibili per ogni caso e i loro rispettivi rischi (possibilità di domande giudiziali, conseguenze nell’interpretazione di casi similari, ecc.). Questo presupporrebbe (6) Il concetto di politica pubblica va compreso in questo saggio come l’agire organizzato e procedimentale dello Stato che ha lo scopo di fornire o regolare il fornimento di beni e servizi ai cittadini, come forma di promozione di diritti fondamentali e legittimato dalla possibilità di partecipazione e controllo sociale. Sul rapporto fra diritto amministrativo e politiche pubbliche, cfr. BUCCI 2006. (7) Sul carattere “mitologico” della concezione tradizionale dell’unità, neutralità e superiorità dell’interesse pubblico, cfr. CASSESE 2008: 58-59. (8) Cfr. MACEDO 2008: 110-157 e GUEDES & SOUZA 2009: 129-137 e 465-483. (9) Devo ringraziare l’amico Renato Bigliazzi per avermi suggerito originalmente di guardare le attività di consulenza legale come una specie di traduzione. Su questa idea originale e su tantissime altre svolte in questo saggio, posso dire con sincerità che il credito sia tutto suo. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 287 dunque una comprensione meno individualistica e più istituzionale delle attività di consulenza, dove l’importante non sono tanto le opinioni specifiche di ogni avvocato in particolare, ma piuttosto la possibilità di conferire trasparenza e pubblicità ai diversi fondamenti e criteri giuridici che orientano le decisioni statali, tenendo sempre di vista l’obiettivo principale di contribuire all’efficienza e alla legittimità delle politiche pubbliche. Il saggio viene diviso in tre parti. Nella prima parte, sono identificati, analizzati e decostruiti due ostacoli del positivismo giuridico ad una comprensione adeguata delle attività di consulenza legale: (i) l’immagine ancora presente nella cultura giuridica dell’interpretazione come attività meccanica di sussunzione dei casi concreti della vita reale a norme generali e astratte e (ii) la concezione tradizionale del principio di legalità secondo la quale alla pubblica amministrazione spetta appena l’esecuzione passiva delle leggi approvate dal parlamento. Nella seconda parte, è avanzata la tesi centrale del saggio, quella della consulenza legale come attività di traduzione fra diritto e politica. Nella terza parte, si fa un breve commento sulla diagnosi di crisi della politica caratteristica dell’epoca attuale, poiché il pregiudizio generale riguardo l’attività politica rappresenterebbe allo stesso tempo una causa ed un effetto del modello della consulenza legale come attività di controllo, modello che viene qui rifiutato. Alla fine, si fa un riassunto conclusivo delle idee sviluppate nel saggio e si presentano alcune proposte per il futuro dell’Avvocatura dello Stato in Brasile. 1. Gli ostacoli del positivismo giuridico ad una comprensione adeguata della consulenza legale: interpretazione giuridica e principio di legalità Il positivismo giuridico è ancora oggi un paradigma dominante nella teoria e nella pratica del diritto. I suoi principi, concetti e metodi continuano a influenzare l’insegnamento giuridico nelle università e il quotidiano delle attività forensi in tutto il mondo occidentale, nonostante le diverse teorie critiche sviluppate principalmente a partire dalla seconda metà del secolo scorso. In modo riassuntivo, si può caratterizzarlo come l’approccio scientifico al diritto (a) impegnato nella costruzione e utilizzazione di un metodo specifico capace di fornire descrizioni neutrali del fenomeno giuridico e (b) che concepisce il diritto come un sistema di norme prodotte dagli organi ufficiali dello Stato (10). Dalla tradizione positivista derivano due “ostacoli teorici” che devono essere superati se si vuole descrivere in forma più adeguata le attività di consulenza legale svolte dall’Avvocatura dello Stato: (i) l’idea ormai ingenua secondo cui l’interpretazione giuridica può essere ridotta ad una attività meccanica di sussunzione dei casi concreti della vita reale a norme generali e (10) Per un’analisi più ricca e approfondita, cfr. il classico BOBBIO 1996. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 astratte e (ii) la concezione classica del principio di legalità che assegna alla pubblica amministrazione la funzione passiva di semplice esecutrice delle leggi approvate dal parlamento. Entrambi i due ostacoli sono derivati da una descrizione gerarchica della separazione dei poteri caratteristica dell’illuminismo rivoluzionario del secolo XVIII e poi ereditata dalle teorie giuridiche positiviste del secolo XIX. La sostituzione della sovranità di origine divina del monarca per la sovranità popolare di origine democratica come fonte di legittimazione del potere fu accompagnata dall’identificazione del parlamento come legislatore onnipotente e razionale, incaricato di tradurre la volontà generale del popolo in leggi generali e astratte capaci di regolare direttamente tutti gli aspetti della vita sociale. Agli altri due poteri furono assegnate dunque delle funzioni subalterne di applicare le norme già legittimamente prodotte dal legislatore: il giudiziario nella risoluzione dei conflitti e soltanto quando richiesto dagli interessati, e l’esecutivo nell’amministrazione quotidiana dei negozi dello Stato, ancora ridotti se si considera il contesto degli Stati liberali post-rivoluzionari (11). Caratteristica di questa descrizione gerarchica è la centralità quasi assoluta della legge nel processo di produzione ed applicazione del diritto. Il diritto è così ridotto alla legge prodotta dallo Stato, che deve essere sufficientemente semplice e chiara da poter essere interpretata in maniera letterale e deduttiva dai giudici e dagli amministratori. Una specie di “feticcio della legalità” che accompagnò tutto il positivismo giuridico ottocentesco e che ancora oggi si fa presente nella dogmatica giuridica tradizionale, seppure in forma velata. Riguardo il potere giudiziario, la distinzione gerarchica fra legislazione e giurisdizione produce l’illusione che l’interpretazione giuridica sia un’attività meccanica. Le leggi approvate dagli organi competenti devono determinare direttamente la decisione del giudice, descritto come un semplice agente incaricato di esprimere nelle situazioni concrete la volontà previa del legislatore. Davvero la distinzione serve a nascondere il fatto che il diritto regola la sua propria produzione. In altre parole, la distinzione occulta il paradosso derivato dalla constatazione che il giudice, interpretando la legge prodotta dal legislatore, crea il diritto che egli stesso applica. Così la produzione e l’applicazione del diritto possono essere descritte come attività diverse. Da un lato, (11) Questa è ovviamente una descrizione abbastanza semplice e riassuntiva. Le vicende storiche dei periodi rivoluzionario e post-rivoluzionario riguardo il tema della separazione dei poteri sono molto più complesse di quanto non si potrebbe dire in un unico paragrafo. Il movimento di codificazione del diritto in Francia, per esempio, fu guidato non da un parlamento libero composto dai legittimi rappresentanti del popolo, ma da una comissione di giuristi sotto il controllo diretto dell’imperatore. E in Germania i teorici dello Stato tedesco dovettero essere veramente “creativi” per conciliare l’ideale di un governo delle leggi con i poteri assoluti (o quasi assoluti) del monarca. Sulle diverse forme di tradurre la formula del rule of law nelle tradizioni anglo-americana, francese e tedesca, cfr. ROSENFELD 2001. Sul rapporto fra l’illuminismo e i movimenti di codificazione, cfr. TARELLO 1976. Sulle origini teologiche del concetto moderno di sovranità, cfr. AGAMBEN 2007. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 289 c’è la produzione delle leggi generali e astratte, le cui modifiche sono giustificate da motivi politici, e dall’altro, l’applicazione individualizzata di queste leggi alle situazioni particolari, in cui si deve tener conto delle specificità di ogni caso concreto. Allora si può ammettere che i giudici, essendo vincolati alla legge prodotta dal parlamento, decidano in modo libero e indipendente, anche se questo stesso vincolo può essere pure oggetto di interpretazione (12). Dal dogma dell’onnipotenza e razionalità del legislatore derivano anche i dogmi dell’assenza di lacune nella legge e della completezza dell’ordinamento giuridico, ossia la descrizione del diritto come un sistema chiuso, completo e coerente di norme previamente approvate dal legislatore (o almeno già esplicitate nelle decisioni precedenti dei tribunali) che regola, anche se in forma implicita, tutte le situazioni concrete di applicazione, non lasciando alcuno spazio alla creatività e all’iniziativa innovatrice dell’interprete. La situazione però si modifica durante il secolo XX. I cambiamenti continui e sempre più veloci delle strutture sociali, specialmente la transizione dallo Stato liberale allo Stato sociale, portano nuovi problemi alla teoria del diritto. La percezione della crescente complessità dei fenomeni sociali, insieme alla moltiplicazione di norme diverse e in gran parte sconnesse, prodotte con l’obiettivo di concretizzare i programmi di un Stato interventista, fanno crollare la concezione positivista dell’interpretazione giuridica come attività meccanica di sussunzione. La complessità dei fatti e la patente imprecisione e incoerenza del materiale legislativo prodotto dal parlamento evidenziano il ruolo creativo e costruttivo del giudice e della pubblica amministrazione nell’interpretazione e applicazione del diritto. L’interpretazione diventa così il problema centrale della teoria giuridica. Partendo dalle nuove tesi e idee avanzate dalla filosofia del linguaggio dei primi decenni del secolo, in particolare dalla “svolta linguistica” guidata dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, autori classici come Hans Kelsen e Herbert Hart, anche se ancora inseriti nella tradizione positivista, introducono il dibattito sull’“indeterminatezza strutturale” o “open texture” del diritto, ossia l’impossibilità di controllare previamente il significato delle norme giuridiche, sia attraverso la legislazione, sia attraverso i modelli dogmatici della scienza giuridica. Riconoscendo il carattere attivo e creativo dell’interpretazione giuridica, entrambi gli autori ammettono che i suoi risultati non possono essere totalmente determinati neppure previsti in anticipo, perché dipendono sempre dalle particolarità e caratteristiche di ogni situazione concreta di applicazione (13). La teoria del diritto inizia allora a descrivere l’interpretazione non come (12) Su questa funzione paradossale della distinzione legislazione/giurisdizione, cfr. LUHMANN 2005: 367-372. (13) Cfr. KELSEN 2006: 387-397 e HART 2005: 137-149. 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 un’attività di scoperta del senso previo contenuto nella legge, ma piuttosto come una vera attività di creazione e produzione di diritto, in cui le preferenze e le scelte specifiche dell’interprete giocano un ruolo fontamentale. I teorici cominciano a occuparsi dell’analisi delle diverse possibilità di lettura dei testi normativi e del ruolo dell’argomentazione fondata in principi nella costruzione delle decisioni giuridiche (14). Partendo dalla figura dei principi, autori come Ronald Dworkin e Robert Alexy sviluppano una critica radicale del modello positivista tradizionale del diritto come sistema chiuso e completo di regole applicabili attraverso un semplice procedimento di sussunzione (15). L’attività di interpretazione è quindi elevata al rango di operazione centrale del sistema giuridico. Se interpretare vuol dire creare, costruire, fare scelte, lavorare con principi e argomenti complessi, e non semplicemente dedurre dalla legge la norma applicabile ai fatti, e poiché le leggi vanno sempre interpretate prima di essere “esecutate”, come si può descrivere l’attività dell’amministrazione pubblica a partire dal tradizionale principio di legalità, secondo cui amministrare significa soltanto “esecutare le leggi”? L’attività amministrativa è senza ombra di dubbio la più grande, onerosa, diversificata e onnipresente delle attività statali. Come conseguenza, è anche quella che rappresenta il maggior rischio alla libertà dei cittadini. Ciò spiega l’importanza storica della formula classica del principio di legalità amministrativa: l’amministrazione può fare soltanto quello che è stato previamente autorizzato dalla legge. Cioè deve circoscriversi ai limiti teoricamente stabiliti dai propri cittadini rappresentati in parlamento (16). Si tratta di un principio (14) Sul tema dell’argomentazione giuridica, cfr. il classico MACCORMICK 2006. Nel contesto italiano, le ricerche sul tema dell’interpretazione e del linguaggio del diritto in generale furono avanzate da autori importanti come Norberto Bobbio, Uberto Scarpelli e Giovanni Tarello. Questo ultimo ha sviluppato, insieme ad altri rappresentanti della “scuola genovese” come Riccardo Guastini e Paolo Comanducci, una teoria scettica dell’interpretazione che sottomette alla critica le principali premesse del modello dell’interpretazione giuridica come attività meccanica di sussunzione. Cfr. GUASTINI 2008 e CHIASSONI 1999. (15) Cfr. DWORKIN 2003 e ALEXY 1988. (16) Secondo Sabino Cassese: “Dalla necessaria superiorità dell’interesse pubblico e dalla forza vincolante della decisione amministrativa è agevole il passagio alla nozione di supremazia della pubblica amministrazione. Contro questa posizione di forza del diritto amministrativo si svilupperà il principio di legalità. [...] Divenuti rappresentativi i parlamenti, questi, infatti, utilizzarono la legge come strumento di tutela dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni” (2003: 152). Sulle origini autoritarie della moderna concezione di amministrazione pubblica in Francia e sullo sviluppo del diritto amministrativo nel contesto di una maggior democratizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione, cfr. CASSESE 2000: 15-90. La semplice invenzione del principio di legalità non vuol dire però che l’amministrazione sia stata allora automaticamente sottomessa ai limiti imposti dal parlamento. La storia giuridico-politica degli ultimi due secoli smentisce chiaramente questa idealizzazione ingenua, poiché i governi autoritari sono riusciti abbastanza spesso a imporre delle eccezioni a questo principio di legalità caratteristo dello Stato di diritto, almeno nelle situazioni descritte come situazioni di “emergenza”. Cfr. AGANBEM 2003. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 291 veramente democratico, specialmente se accompagnato dalle possibilità di controllo giudiziale degli atti amministrativi e responsabilizzazione dello Stato per danni causati ai privati. Il contenuto democratico del principio di legalità non va tuttavia confuso con la concezione tradizionale della pubblica amministrazione come semplice esecutrice passiva delle leggi approvate dal parlamento. Amministrare non vuol dire soltanto applicare passivamente le leggi. Chiunque abbia un minimo contatto con il quotidiano di un’organizzazione amministrativa si accorge che questa immagine passiva e semplificatrice non corrisponde alla realtà, principalmente nel contesto di uno Stato regolatore e interventista (17). Si tratta appena di un mito prodotto dal positivismo giuridico ottocentesco. D’accordo con Sabino Cassese: [...] è probabile che il paradigma dell’amministrazione come esecuzione di leggi non abbia mai trovato rispondenza nel diritto positivo. Se esso, oggi, è smentito dal diritto positivo, lo era, a maggior ragione, nell’Ottocento, quando minore era il peso del Parlamento e meno estesa l’area regolata da leggi. Come si spiega allora la fortuna della formula? È probabile che la spiegazione vada cercata in un fatto ideologico, successivamente teorizzato. Si tratta dell’influenza del liberalismo e del positivismo, i quali, per trovare uno schermo al cittadino e un fondamento sicuro di osservazione alla scienza, puntarono tutto sulla legge. Per essi, il diritto è il prodotto di volontà costituzionalmente abilitate (il Parlamento) e l’amministrazione tende ad essere cancellata dietro alle leggi. Così facendo, le scuole positivistiche si cacciarono in un labirinto inestricabile. Dovettero, infatti, spiegare perché, se l’amministrazione era esecuzione di leggi, godesse di tanta libertà di scelta. E ricorsero a due accorgimenti. Affermarono che solo in alcuni casi esiste tale libertà di scelta, essendo l’attività amministrativa, di regola, vincolata (rovesciando, così, i termini reali del problema). E sostennero che, per spiegare i casi in cui vi era tale libertà di scelta, bisognava far ricorso alla discrezionalità, cosa diversa dall’autonomia. [2000: 43-44] (18). La formula della discrezionalità è una formula paradossale. Una formula (o forma) che contiene una distinzione, la distinzione fra vincolazione e discrezionalità. Entrambi i due lati della distinzione hanno senso soltanto se ri- (17) La tradizione statunitense delle independent agencies o autorità amministrative indipendenti poi diffusa in quasi tutto il mondo occidentale nel contesto delle riforme amministrative dell’ultimo quarto del secolo XX è un esempio chiaro della complessità e molteplicità di compiti delle organizzazioni amministrative moderne, le cui attività non possono essere descritte semplicemente come “esecuzione di leggi”. (18) Su altri miti del positivismo giuridico riguardo i concetti, i metodi e i principi fondamentali del diritto amministrativo, cfr. CASSESE 2008: 57-63. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 feriti l’uno all’altro, cioè all’altra metà della distinzione, al loro rispettivo senso opposto (19). Si parla della discrezionalità dell’amministrazione soltanto perché si concepisce l’amministrazione come un’attività vincolata alla legge. È per giustificare la sua solita libertà di scelta che si dice che, anche se programmata dalla legge, l’amministrazione ha dei poteri o delle competenze discrezionali, ossia non vincolati (o non totalmente vincolati) alla legge stessa. Nel diritto amministrativo, questa formula della discrezionalità della pubblica amministrazione riflette il fatto che le decisioni amministrative, nonostante siano condizionate giuridicamente, sono di solito decisioni politiche, e non giuridiche, poiché l’amministrazione è un’organizzazione del sistema politico, e non del sistema giuridico (20). Ma quale sarebbe la differenza fra decisioni giuridiche e decisioni politiche? E cosa vuol dire essere un’organizzazione del sistema politico? In una democrazia, la separazione dei poteri può essere descritta come un meccanismo di scaglionamento e filtro dell’influenza politica sui diversi organi statali. Se il legislativo è lo spazio legittimo di questa influenza e il giudiziario lo spazio dove essa è di solito considerata illegittima, nell’amministrazione pubblica si deve in parte accettare la sua legittimità e in parte rifiutarla in nome del diritto (21). Il diritto in generale e i diritti costituzionale e amministrativo in particolare compiono dunque una funzione di neutralizzazione parziale dell’influenza politica sulle decisioni dell’amministrazione pubblica. Davvero, essi delimitano lo spazio di quello che è giuridico, e deve dunque essere trattato secondo criteri giuridici, e quello che è politico, e deve dunque essere trattato secondo criteri politici. Questo è proprio il senso specifico della distinzione vincolazione/ discrezionalità: indicare, per un verso, che ci sono limiti o vincoli imposti dal diritto alle attività amministrative, e per un altro, che ci sono anche spazi dove l’amministrazione è libera per decidere d’accordo con criteri (tecnici, politici, economici) che sfuggono a ogni tipo di controllo giuridico. Alla fine, si tratta sempre della definizione (o disputa) dei confini fra diritto e politica (22). Diritto e politica possono essere descritti come sistemi sociali autonomi che realizzano funzioni sociali diverse. Al diritto spetta la generalizzazione e (19) Su questa “logica delle forme” (law of forms) che lavora sempre con i concetti di distinzione e paradosso, introdotta nel dibattito scientifico dal matematico inglese George Spencer Brown, cfr. LUHMANN 1996b: 61-75. Sui paradossi del sistema giuridico, cfr. LUHMANN 1988 e MAGALHÃES 2002. (20) In questo saggio diritto e politica vanno compresi come sistemi sociali autonomi e funzionalmente differenziati nel senso della teoria dei sistemi sociali sviluppata dal sociologo tedesco Niklas Luhmann. Cfr. LUHMANN & DE GIORGI 1994. Sui principali concetti della teoria dei sistemi di Luhmann, cfr. BARALDI ed al. 1996. (21) Cfr. LUHMANN 1985: 45-46. (22) Sulla costituzione come meccanismo di accoppiamento strutturale fra i sistemi politico e giuridico, cfr. LUHMANN 1996a. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 293 stabilizzazione delle aspettative normative di condotta. La politica invece è responsabile per la produzione delle decisioni che vincolano la collettività. Mentre le decisioni giuridiche sono programmate in forma condizionale, secondo la formula se/allora, orientandosi alla correzione o riparazione di azioni compiute nel passato, le decisioni politiche sono guidate da programmi teleologici o finalistici, secondo la forma mezzo/fine, e si orientano verso la produzione di conseguenze specifiche nel futuro (23). L’importante è che fra diritto e politica c’è proprio una differenziazione di base nella comunicazione che si può percepire nel momento in cui si deve analizzare le conseguenze giuridiche di una decisione politico-amministrativa, cioè nelle attività quotidiane compiute dagli organi di consulenza legale dello Stato. Mentre la politica si preoccupa di produrre decisioni che possano raggiungere i fini promessi o accordati nei processi di negoziazione e discussione fra le organizzazioni statali e i diversi gruppi politici e sociali, il diritto si preoccupa di assicurare che queste decisioni siano in accordo con le norme che regolano l’attuazione e il funzionamento dello Stato. L’esistenza di questa differenza nella comunicazione costituisce spesso una fonte di problemi nel rapporto fra organi di consulenza legale e organi di gestione. Problemi che non si limitano a semplici difficoltà di comprensione fra differenti organi statali, ma che hanno anche un impatto sulla qualità delle politiche pubbliche implementate dallo Stato. Questi problemi sembrano essere il risultato dell’assenza di una comprensione adeguata del ruolo della consulenza legale, in gran parte a causa della persistenza del “mito” positivista dell’amministrazione pubblica come semplice esecutrice passiva delle leggi. Questo è il punto centrale: nel contesto di uno Stato regolatore e interventista, amministrare non è soltanto esecutare le leggi, ma piuttosto fare politica, cioè formulare ed esecutare politiche pubbliche a partire dagli indirizzi politici approvati dal parlamento, con l’obiettivo di promuovere i diritti fondamentali dei cittadini. Quindi l’immagine classica del positivismo ottocentesco è anacronistica e non corrisponde alla realtà dell’amministrazione pubblica odierna, sovraccaricata di compiti regolatori, di prestazione di servizi, di prevenzioni dei nuovi rischi tecnologici e ambientali, ecc. D’accordo con Jürgen Habermas: [...] sovraccaricata dai compiti di regolazione, l’amministrazione non può più limitarsi, nel quadro di univoche competenze normative, a dare esecuzione alle leggi in maniera specializzata e normativamente neutrale. Secondo il modello espertocratico l’amministrazione avrebbe dovuto prendere solo decisioni pragmatiche: a questo ideale, natural- (23) Sulla differenziazione funzionale del sistema politico, cfr. LUHMANN 1994. Sulla differenziazione funzionale del sistema giuridico, cfr. LUHAMMN 2005a. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 mente, essa non poté mai attenersi. Ma nella moderna amministrazione ‘prestatrice di servizi’ si accumulano problemi che richiedono ora una ponderazione di beni collettivi, ora una scelta tra finalità concorrenti, ora un giudizio normativo su casi singoli. Questi problemi, per essere trattati razionalmente, hanno bisogno di discorsi di fondazione e di applicazione che fanno saltare i confini professionali d’un adempimento normativamente neutrale di compiti. [1996: 521] La complessità e molteplicità delle attività amministrative non si adatta dunque al modello teorico della semplice esecuzione delle leggi. Ciò non vuol dire ovviamente che l’amministrazione non sia vincolata alla legge. La legge è il principale strumento di programmazione della amministrazione, però non è in grado di determinare previamente tutte le sue decisioni, di dire sempre e in ogni caso quello che essa può e non può fare. Così come non è in grado di regolare previamente tutte le sue proprie situazioni di applicazione, poiché le norme vanno sempre interpretate, e interpretare vuol dire anche creare, costruire, produrre qualcosa di nuovo. Perciò si parla di discrezionalità amministrativa, anche se l’amministrazione ha sempre il dovere di osservare la legge. Davvero, in una democrazia, questo dovere tutti ce l’hanno. Se si parte dalla differenziazione funzionale fra diritto e politica, le organizzazioni della pubblica amministrazione vanno descritte come organizzazioni del sistema politico, così come i tribunali sono organizzazioni del sistema giuridico (24). Implementare politiche pubbliche significa piuttosto contribuire alla formazione e all’esecuzione delle decisioni politiche che vincolano la collettività. Decisioni nella maggior parte discrezionali, rivolte alla produzione di conseguenze future e guidate dalla formula mezzo/fine, che implicano scelte fra alternative diverse e che impongono la valutazione di diversi criteri tecnici, politici ed economici, oltre all’essenziale considerazione dei vincoli e limiti giuridici esistenti (25). (24) Il proprio sistema politico può essere diviso in tre spazi distinti: lo spazio della politica in senso stretto, dove si svolgono i conflitti e le conciliazioni di interessi che portano alla produzione delle principali decisioni di governo (parlamento, organi di governo, partiti politici), lo spazio dell’amministrazione, responsabile per l’esecuzione concreta delle decisioni prodotte nello spazio della politica in senso stretto (organizzazioni burocratiche della pubblica amministrazione), e lo spazio del pubblico, che esercita pressione, partecipa della formulazione e realizza il controllo delle decisioni statali (associazioni di classe, movimenti sociali, società civile organizzata). Cfr. LUHMANN 1994: 61-66. Sulla posizione dei tribunali nel sistema giuridico, cfr. LUHMANN 2005a: 359-399. (25) Per qualificare una decisione come politica o giuridica il più importante non è tanto l’organo a cui spetta prenderla (parlamento, amministrazione pubblica o giuridiziario), ma piuttosto i criteri utilizzati nella sua formulazione, poiché sono questi criteri che orientano il tipo specifico di comunicazione prevalente. Le decisioni giuridiche sono caratterizzate da una programmazione di tipo condizionale: davanti a determinate circonstanze, si deve prendere una decisione che stabilisca chi ha diritto e chi non ha diritto. Le decisioni politiche invece sono guidate da programmi teleologici, che si orientano verso il futuro: l’importante è identificare i mezzi che portino all’ottenzione delle conseguenze descritte come desiderabili. Quindi quando le organizzazioni della pubblica amministrazione funzionano come una spe- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 295 Dalla stessa forma di un tribunale, anche la pubblica amministrazione deve interpretare il diritto, interpretazione che non è mai meccanica e che richiede sempre creatività e competenza nel trattamento di regole, principi e argomenti complessi (26). Gli obiettivi sono però diversi. I giudici interpretano il diritto per decidere in definitiva chi ha e chi non ha diritto in un caso concreto e sono perciò costretti, poiché, a causa del divieto di “non liquet”, “la non decisione non è permessa”, a presentare e giustificare le loro decisioni come se fossero le “uniche risposte corrette”, anche se ovviamente ci sono sempre diverse forme di leggere un testo normativo (27). L’amministrazione invece interpreta il diritto non semplicemente per esecutare passivamente la legge, ma piuttosto per chiarire quali sono i vincoli giuridici che limitano la sua discrezionalità nell’implementazione delle politiche pubbliche. Perciò ha bisogno di “tradurre” i confini prodotti dal diritto alla sua libertà politica di scelta. Ha bisogno insomma di consulenza legale. 2. La consulenza legale come attività di “traduzione” “[...] ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue. Altra soluzione che temporale e provvisoria, una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità, rimane vietata agli uomini o non è, comunque, direttamente perseguibile” (Walter Benjamin, “Il compito del tradutorre”, 1995: 45) Tradurre è un compito complesso. Complesso e paradossale. Le lingue non sono mai completamente traducibili fra di loro. E comunque occorre tradurle. Ogni parola o espressione ha una sua storia specifica che è propria della lingua di origine. Storia non sempre compartita dalle altre lingue alle quali la stessa parola o espressione deve essere tradotta. D’accordo con Benjamin: cie di “tribunale amministrativo”, le loro rispettive decisioni, così come le comunicazione svolte intorno alla loro formulazione ed esecuzione, possono essere, a dipendere dall’ipotesi e dai procedimenti utilizzati, di natura più giuridica che politica. (26) D’accordo con Habermas: “Accollandosi compiti del legislatore politico e dando esecuzione a programmi da essa stessa stabiliti, l’amministrazione deve decidere in propria gestione molte questione di fondazione e di applicazione normativa. Si tratta di questioni che non sono decidibili in base a criteri di efficienza, ma che richiedono piuttosto un trattamento razionale di ragioni normative” (1996: 517). (27) Sulla funzione del divieto di “non liquet” (nel senso di un doppia negazione: “la non decisione non è permessa”) riguardo la chiusura operativa del diritto e la posizione dei tribunali nel sistema giuridico, cfr. LUHMANN 2005a: 359-399. Sulla tesi dell’“unica risposta corretta” come artificio teorico rivolto a negare la discrezionalità dei giudici nell’interpretazione delle norme e “prendere i diritti sul serio”, cfr. DWORKIN 2002. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 “Che una traduzione, per quanto buona, non possa mai significare qualcosa per l’originale, è fin troppo evidente. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità” (1995: 41). Questa immagine della traduzione ci serve qui come una specie di metafora per spiegare il ruolo degli avvocati nella consulenza legale allo Stato. Essi devono tradurre il linguaggio tecnico-specializzato tipico del diritto moderno ai politici e amministratori responsabili per la presa delle decisioni nelle organizzazioni della pubblica amministrazione. Devono far capire loro le conseguenze e i rischi giuridici delle loro decisioni, così come devono tradurre in termini giuridici queste stesse decisioni. Anche questo un compito complesso e paradossale. Abbiamo già visto che diritto e politica sono sistemi sociali che utilizzano linguaggi diversi, così come differenti criteri di decisione. Questi linguaggi e questi criteri devono essere tradotti all’interno dell’amministrazione, poiché la programmazione giuridica delle decisioni politico-amministrative deve essere compresa dagli amministratori perché sia veramente effettiva. Spetta allora agli avvocati dello Stato assolvere questa funzione. Il principale obiettivo di questa traduzione è dare sostegno giuridico-costituzionale alle politiche pubbliche formulate ed esecutate dallo Stato, come modo di garantire la loro efficienza e legittimità. Legittimità nel senso di conferire trasparenza e pubblicità ai criteri giuridici che orientano le decisioni politico- amministrative, agevolando così le attività degli organi istituzionali di controllo e il proprio controllo sociale compiuto dalla società civile organizzata. E efficienza nel senso di contribuire al raggiungimento degli scopi di queste politiche, cioè la promozione dei diritti fondamentali dei cittadini, al prevenire per quanto possibile i rischi di conflitti con gli stessi organi di controllo e l’eventuale (e sempre pregiudiziale) annullamento delle decisioni statali (28). L’amministrazione pubblica è composta di organizzazioni e le organizzazioni sono aggruppamenti o sistemi la cui funzione è la presa di decisioni (29). Secondo una concezione più tradizionale, le decisioni rappresentano una (28) Sulla funzione dell’Avvocatura dello Stato brasiliana di conferire sostegno giuridico-costituzionale alla formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche, cfr. VIEIRA JUNIOR 2009. (29) D’accordo con il concetto classico formulato dal teorico dell’amministrazione Herbert Simon: “[...] il termine organizzazione si riferisce al complesso schema di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un gruppo di essere umani. Questo schema fornisce ad ogni appartenente al gruppo buona parte dell’informazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che influenzano le sue decisioni e, allo stesso tempo, crea in lui delle aspettative stabili e ragionevolmente sicure riguardo a ciò che gli altri membri del gruppo stanno compiendo ed al modo in cui essi reagiranno a quanto egli dice o compie. Il sociologo chiama questo schema un ‘sistema di ruoli’, ma per la maggior parte di noi esso è più familiare sotto il nome di ‘organizzazione’” (1967: 14). Sulle organizzazioni come sistemi autopoietici che producono e riproducono se stessi attraverso le proprie operazioni, cioè attraverso la continua presa di decisioni, cfr. LUHMANN 2005b. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 297 scelta discrezionale fra alternative diverse, dove la conoscenza gioca un ruolo fondamentale nel permettere un soppesamento razionale delle conseguenze previdibili di ogni alternativa disponibile, nonostante tutti i limiti della razionalità e della capacità umana di previsione (30). Tuttavia le decisioni possono anche essere descritte in modo più astratto come eventi complessi, contingenti e paradossali che producono differenze nella forma di connettere passato e futuro. D’accordo con Luhmann: L’enigma dell’emergenza di decisioni da una specie di alchimia decisionale non viene dunque chiarito da concetti come scelta o soggetto; viene solo distribuito su tali due concetti. Bisogna chiedersi, allora, se si possa coniare un concetto di decisione che eviti questo vicolo cieco. Vogliamo provarci riferendo il problema della decisione alla dimensione temporale. Ogni decisione pressuppone il tempo del mondo, che differisce continuamente la distinzione tra passato e futuro in un altro, nuovo presente. Solo semplificando grossolanamente si può concepire questo come movimento o come processo. In realtà, si tratta del fatto che ogni presente sopporta il peso del problema di una nuova descrizione del suo passato e di quello di una nuova proiezione del suo futuro. Il tempo non lascia però molto tempo per questo. Riflessioni del genere possono dunque essere fatte solo in modo altamente selettivo e solo per motivi particolari. La decisione, per così dire, riduplica il problema. Essa fornisce un passato rilevante per se stessa, quindi ha bisogno di una memoria che l’aiuti a cogliere problemi, alternative e risorse come aspetti del suo presente. Inoltre, si può arrivare a decidere solo se si capisce che farlo crea una differenza. Il mondo, sulla base della decisione, apparirà diverso da come apparirebbe nel caso in cui non si dovesse decidere. Elemento costitutivo e irrinunciabile della decisione è allora una proiezione di differenze. Una decisione costruisce una conessione tra passato e futuro diversa rispetto a quella che si dà comunque nel tempo del mondo. Ma questo accade nel mondo, cioè nel tempo del mondo, per esempio in un certo momento databile. [2005b: 115-116] La dimensione temporale è dunque ciò che caratterizza la specificità di ogni decisione. Una decisione è un evento che accade nel presente. La sua presa dipende però, da un lato, da una descrizione del suo passato che esponga questo stesso passato come una alternativa sulla quale si può decidere nel presente, e dall’altro lato, da una proiezione delle differenze (o conseguenze) che saranno possibilmente (o probabilmente) prodotte nel futuro. Nel contesto della pubblica amministrazione, per esempio, la descrizione dei vincoli giuridici esistenti e la proiezione delle possibili conseguenze giuridiche future ri- (30) Cfr. SIMON 1967: 43-180. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 guardo un qualche progetto di decisione delimita il campo delle alternative decisorie disponibili all’amministrazione allo stesso tempo che le chiarisce gli eventuali rischi che dovranno essere assunti se si vuole decidere con responsabilità. L’obiettivo della consulenza legale è dare consistenza giuridica alle decisioni politiche (nel senso di discrezionali) della pubblica amministrazione. La responsabilità per la decisione spetta però a colui che la deve prendere, al decisore, cioè all’amministratore. Agli organi di consulenza legale spetta appena consigliarlo, provando a tradurgli il “diritto vigente”, sulle alternative decisorie disponibili e sulle possibili conseguenze giuridiche delle sue decisioni. Questo sarebbe magari qualcosa relativamente semplice se non ci fosse un problema, forse il principale problema di tutta l’attività di consulenza: diritto e politica hanno tempi diversi, funzionano in modo operativamente chiuso l’uno rispetto all’altro, sono perciò, in certa misura, “intraducibili” fra di loro (31). E nonostante tutto ciò, per decidere bisogna “tradurli”. Le decisioni della pubblica amministrazione sono comunicazioni del sistema politico. Comunicazioni che si rivolgono però al sistema giuridico prima e dopo la presa della decisione. Prima perché l’amministrazione ha bisogno di osservare il sistema giuridico per provare ad anticipare come esso reagirà alle sue decisioni. E dopo perché, essendo le decisioni stesse formulate in termini giuridici, nella forma di atti amministrativi, contratti, regolamenti, ecc., i loro rispettivi effetti giuridici producono anche un impatto sulle decisioni future che ancora andranno prese. Tuttavia la risposta del sistema giuridico alla decisione amministrativa non può ovviamente essere controllata dall’amministrazione. Nonostante tutte le eventuali “buone intenzioni” dell’amministratore, non si può mai essere totalmente sicuri sulla forma in cui la decisione sarà interpretata (o “tradotta”) dai tribunali. Da questo punto di vista il diritto rappresenta una specie di “cassa nera” per la politica. Le sue reazioni sono sempre e in certa misura imprevedibili. Perciò si prova comunque a prevederle in anticipo, per ridurre o assorbire previamente l’incertezza giuridica che circonda la decisione, immunizzando e tranquillizzando così l’amministrazione sulle eventuali “sorprese” che il diritto può produrre nel futuro (azioni giudiziali, richieste di informazioni dagli organi di controllo, condanne all’amministrazione, annullamento della decisione, ecc.). Traducendo all’amministrazione i programmi giuridici che condizionano le sue decisioni e provando ad anticipare le conseguenze giuridiche di queste stesse decisioni, si può dire che la consulenza legale “apre la porta” del sistema del diritto alla politica. La sua attività di traduzione, nonostante sia rivolta alle (31) Su questa “opacità” reciproca fra diritto e politica come risultato della differenziazione funzionale e della chiusura operativa dei due sistemi, cfr. LUHMANN 2005a: 473-505. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 299 organizzazioni della pubblica amministrazione, è un’operazione del sistema giuridico. Una prima traduzione, in termini giuridici, della decisione politicoamministrativa. Si potrebbe aggiungere: una traduzione che viene accompagnata da una sorta di “scommessa” sul fatto che il diritto capirà ciò che la politica ha voluto dire, ossia che il giudice interpreterà la decisione e le norme che la condizionano nella stessa maniera dell’amministrazione. Eppure “che il futuro sia sconosciuto è condizione irrinunciabile della possibilità di decidere” (Luhmann 2005b: 126). Il futuro “non comincia mai”, cioè rimane sempre indeterminato, sconosciuto, irraggiungibile (32). Giuridicamente ciò vuol dire di nuovo che non si può avere certezza sulla forma in cui il diritto risponderà alla decisione politica: accettandola, rifiutandola oppure sollecitando eventuali modifiche. Il sistema è una macchina storica in certa misura imprevedibile. Perciò l’ideale tradizionale di certezza o sicurezza giuridica non è altro che un mito. L’indeterminatezza strutturale o open texture del diritto moderno significa giustamente che l’attività di interpretazione contiene sempre un elemento creativo, un elemento di sorpresa e imprevidibilità che impedisce ogni previsione sicura sulla forma in cui le norme saranno interpretate dai tribunali, sul modo in cui il diritto sarà costruito nei casi futuri. C’è soltanto una certezza tautologica che nel futuro il diritto continuerà a dire cos’è e cosa non è il diritto, ossia la certeza paradossale di un incerto trattamento nel futuro (33). La consulenza legale non può quindi definire con sicurezza cosa sia e cosa non sia il diritto in una qualche situazione specifica, concreta oppure solo ipotetica, poiché la risposta finale (possiamo dire, l’“unica risposta corretta”) spetta sempre ai giudici, non agli avvocati. Essa può soltanto assistere l’amministrazione nel suo rapporto con il diritto. Un rapporto paradossale, collegato alla dimensione temporale della decisione politico-amministrativa. Essendo le decisioni eventi che accadono sempre e necessariamente nel presente, tenendo come orizzonte un futuro sconosciuto, la consulenza legale, provando a tradurre i vincoli giuridici che condizionano l’amministrazione e ad anticipare le conseguenze della decisione riguardo il sistema del diritto, contribuisce all’assorbimento della incertezza giuridica che circonda tutto il procedimento decisorio. Una funzione paradossale di anticipare quello che non può essere anticipato, di assicurare quello che è sempre incerto, di tradurre quello che non è mai totalmente traducibile. La calcolabilità giuridica delle conseguenze è sempre limitata. Gli avvocati dello Stato possono essere descritti come traduttori, ma sicuramente non come “astrologi”. L’incertezza può (32) Cfr. LUHMANN 1982. (33) Questa “incertezza giuridica” può anche essere descritta come un risultato della positività del diritto moderno, cioè il fatto che il diritto positivo della società moderna è un diritto contigente, artificiale, modificabile. Cfr. LUHMANN 1985. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 essere, in certa misura, “addomesticata”, ma non completamente eliminata. Per assorbire o “addomesticare” questa incertezza, la consulenza legale deve rivolgersi al passato del sistema giuridico. Deve realizzare una sorta di “ricerca storica” nel sistema per scoprire (o “selezionare”) le possibilità decisorie “nascoste” nelle sue “fonti”. Cioè deve cercare nelle leggi, nei precedenti giudiziari e nelle opinioni degli esperti (dottrina) una forma di “tradurre il diritto” che presenti all’amministrazione diverse possibilità di decisioni e di valutazione delle sue rispettive conseguenze. Se una qualche regola in materia ambientale è già stata giudicata illegale dai tribunali, l’avvocato può suggerire, per esempio, che la stessa regola o una regola similare sia allora inserita in un disegno di legge, e non in un regolamento, con l’obiettivo di evitare una nuova sentenza sfavorevole. Dunque, oltre ad assistere nell’assorbimento della incertezza, la consulenza legale produce anche un arricchimento giuridico della “memoria decisionale”, offrendo più possibilità di scelta all’amministrazione e contribuendo così ad una presa di decisione più “furba” e responsabile (34). Si può capire allora l’importanza dei pareri giuridici e di tutto il procedimento di argomentazione in essi condensato. Riguardo l’attività decisoria, l’argomentazione giuridica può essere descritta come un’operazione che si svolge a partire dalla distinzione fra ridondanza e varietà (35). Da un lato, l’argomentazione diminuisce la sorpresa della decisione fornendole giustificazioni previe capace di connetterla ad altre decisioni già prese nel passato, ad alternative già provate precedentemente e che possono perciò essere reiterate senza paura delle conseguenze. Da un altro lato, può offrire anche i fondamenti alla presa di una decisione diversa ed innovatrice, le cui conseguenze non sono ancora totalmente chiare, seppure possano essere parzialmente anticipate in base ad un paragone con una qualche situazione similare. Fra ripetizione ed innovazione, ridondanza e varietà, c’è sempre un rischio, un rischio che causa paura e allo stesso tempo esige responsabilità. Essendo il futuro sconosciuto, la presa di una decisione innovatrice o inedita presenta ovviamente un livello di rischio più elevato riguardo una decisione che non sfugge ai modelli e agli standard a cui ci si è già abituati. La creatività (34) D’accordo con Luhmann: “[...] l’essere sconosciuto del futuro non può essere cambiato. In questo senso non fa differenza il modo in cui il sapere è distribuito socialmente e se qualcuno dispone di un sapere migliore rispetto ad altri. Anche la ricerca di ulteriori informazioni concerne sempre solo il passato. In quanto a ciò, la diffusa concezione per cui con più informazione si può cogliere meglio il futuro deve essere corretta. L’incertezza, che viene aumentata dalle informazioni, non è incertezza del futuro, ma incertezza della scelta in un ambito selettivo. Certamente un decisore con una memoria arricchita può vedere più possibilità, utilizzare schemi più differenziati e, per usare una formula un po’ fuori moda, decidere in modo più furbo. In questo, e solo in questo, sta il vantaggio della conoscenza ambientale e della consulenza. Ma questo significa solo che il decisore dispone di strutture più complesse che differenziano, ma non eliminano, la non conoscenza del futuro: egli dispone di schematismi, scripts, cognitive maps, implicit theories, tutti concetti che ricorrono alla memoria e non al futuro” (2005b: 138). (35) Cfr. LUHMANN 1995 e 2005a: 401-471. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 301 ha anche un suo costo. Gli oneri argomentativi sono più pesanti, le giustificazioni devono essere più complesse e approfondite, gli effetti della decisione attuale nelle decisioni future vanno soppesate con più prudenza e attenzione (36). Gli avvocati possono provare a fornire gli argomenti che giustifichino la decisione e indichino i rispettivi rischi, ma la disposizione a prendere il rischio ed assumere la relativa responsabilità spetta sempre al decisore, cioè ai politici ed amministratori, mai agli avvocati stessi – la decisione comunque è sempre una decisione politica, e non giuridica (37). Gli argomenti favorevoli che giustificano la decisione e provano ad anticipare le sue possibili conseguenze sono però, come la decisione stessa, argomenti contingenti, prodotti prima della sua presa e che possono essere confutati e rifiutati nel futuro, quando la decisione non potrà più essere disfatta, ma soltanto cambiata attraverso un’altra decisione. Perciò ce n’è sempre, in quasi tutti i processi decisori, una sorta di “paura” di decidere, collegata all’incertezza sulla forma in cui la decisione sarà controllata nel futuro. D’accordo con Luhmann: [...] si osserva l’alternativa che è fissata per la decisione in modo diverso, a seconda che ci si fermi al tempo prima della decisione o al tempo dopo la decisione. [...] nell’istante in cui viene presa la decisione cambia la forma della contingenza. Prima della decisione la contingenza è aperta, è possibile la scelta di ogni possibilità. Dopo la decisione, la contingenza è chiusa, non è più possibile un’altra decisione, ma tutt’al più una correzione attraverso una nuova decisione. Ma l’alternatività, e con essa la contingenza, continuano ad essere mantenute. Esse non vengono cancellate attraverso la decisione, così come non vengono trasformate in un’altra modalità del necessario o dell’impossibile. Diversamente non sarebbe possibile criticare le decisioni o pentirsi per averle prese, né renderle oggetto di rimprovero, né tanto meno tema di responsabilità. [...] Solo così si può spiegare il fatto che si abbia paura delle decisioni, che si eviti il rischio, perché si deve tener conto di un successivo cambiamento della valutazione e persino di un cambiamento dei criteri di valutazione. [2005b: 140- 141] (36) Secondo Luhmann: “[...] sono rilevanti le decisioni passate che siano state accettate senza reclami, cioè quelle che possono supporre di essere accettate. Chi devia deve sopportare il rischio della novità, deve argomentare, ha l’onere della prova. In modo corrispondente, il futuro viene tirato in causa dal punto di vista degli effetti che avranno i precedenti. Il decisore e colui che accetta la decisione devono anche pensare che in futuro casi simili saranno trattati secondo lo stesso modello, o, almeno, che con la decisione incombente si stabilizza un’aspettativa in questo senso” (2005b: 143). Sulla valutazione delle conseguenze giuridiche della decisione nella forma del precedente, cioè riguardo l’impatto della decisione attuale nelle decisioni future, e sulla argomentazione conseguenzialista in generale, cfr. MACCORMICK 1983 e 2006: 127-195 e LUHMANN 2005a: 441-448. (37) Cfr. LUHMANN 2005a: 498-499. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Il rischio rappresenta allora una forma di osservare la decisione riguardo il suo futuro incerto, una forma di razionalizzare la paura di decidere attraverso il tentativo di anticipare le sue eventuali conseguenze negative (38). Tutte le decisioni politiche devono confrontarsi con il problema dell’incertezza giuridica futura. Perciò i politici e gli amministratori hanno bisogno di consulenza legale, per costruire gli argomenti con cui possano sostenere giuridicamente la decisione e per anticiparsi ai suoi eventuali effetti negativi (azioni giudiziali, annullamento della decisione, formazione di precedenti decisori sconvenienti, ecc). Soltanto essendo consapevole dei rischi si possono assumere le conseguenze della decisione. Soltando osservando l’incertezza del futuro nella forma del rischio si può razionalizzare l’eventuale paura di decidere. Si può insomma decidere con responsabilità (39). Perciò i politici e gli amministratori danno tanta importanza ai pareri giuridici prodotti dagli organi di consulenza legale – un’importanza forse sopravvalutata. I pareri compiono una funzione rassicuratoria e di “tranquillizzazione” dell’attività politica. Contribuiscono all’assorbimento dell’incertezza giuridica della decisione, “immunizzandola”, in certa misura, al fornirle argomenti e giustificazioni giuridici preliminari che poi possano essere riattivati nei tribunali nel caso sia necessario difendere la decisione in giudizio. Sono utilizzati dunque come una sorta di “scudo” dal decisore, come qualcosa che si suppone capace di proteggerlo dalla critica e dal controllo inerenti ad ogni assunzione politica di responsabilità nel contesto di un regime democratico. Tuttavia, esponendo gli eventuali rischi della decisione, i pareri funzionano (o almeno dovrebbero funzionare) anche come uno strumento per conferire pubblicità e trasparenza ai criteri giuridici che orientano le decisioni politico-amministrative, agevolando così la salutare critica democratica alle decisioni statali e il necessario controllo istituzionale su di esse. Siccome era consapevole dei rischi e nonostante ciò ha deciso di assumere l’apposita responsabilità, il decisore deve fare i conti con l’opinione pubblica e con gli organi di controllo. Quindi anche il “compito del decisore” è un compito arduo. Ancora più arduo se il suo supposto “traduttore”, invece di assisterlo e aiutarlo, ritiene (38) D’accordo con Luhmann: “Anche nell’osservazione e nella descrizione di decisioni non si può raggiungere alcuna certezza. Proprio questo si intende con il concetto di rischio. I rischi non hanno un luogo ontologico nel mondo; a differenza del concetto di pericolo, il concetto di rischio indica una forma di osservazione di decisioni” (2005b: 139-140). Sulla figura del rischio come forma di osservazione del futuro e di razionalizzazione della paura riguardo l’incertezza sul futuro, cioè una forma di costruire vincoli con il futuro, cfr. LUHMANN 2005c e DE GIORGI 1998. (39) D’accordo con Luhmann: “Se tutto ciò che accade deve assumere la forma della decisione e se le decisioni possono essere prese sempre solo nel momento attuale, sempre solo nel presente, per quanto concerne il tempo bisogna fare i conti con questa incertezza. Le decisioni sono possibili solo perché il futuro è indeterminato, cioè anche sconosciuto. In questo consiste, appunto, ciò che normalmente si chiama responsabilità” (2005b: 120). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 303 che deve, anche lui, controllarlo. Gli avvocati sono piuttosto utili per difendere ed assistere, non controllare. Perciò si chiamano avvocati, e non controllori. La diffidenza e il pregiudizio generalizzato contro l’attività politica del decisore però può mescolare o confondere un po’ questi ruoli diversi. Bisogna allora guardare la politica senza pregiudizi. 3. Sulla necessità di uno sguardo spregiudicato sulla politica Dopo il crollo del muro di Berlino e l’espansione globale dell’egemonia del modello dell’economia di mercato, la politica moderna sembra aver perso un po’ la tramontana. D’accordo con Habermas: Davanti alle sfide radicali d’una limitazione ecologica della crescita economica e d’un crescente divario nei rapporti nord/sud; davanti all’impresa, storicamente eccezionale, di riconvertire ai meccanismi d’un sistema economico differenziato i paesi ex-socialisti; sotto la pressione di flussi migratori provenienti dai paesi impoveriti del sud e ora anche dell’est; di fronte ai rischi di nuove guerre etniche, nazionali e religiose, di ricatti atomici e di lotte internazionali per la distribuzione delle risorse: di fronte a questo sfondo terrificante, la politica delle società occidentali costituitesi come Stati democratici di diritto sembra aver perso orientamento e consapevolezza. Dietro la retorica domina la rinuncia. [1996: 7] (40) La globalizzazione dei mercati, l’accelerazione dei flussi migratori, i nuovi rischi tecnologici e ambientali, l’emersione o rinascita dei conflitti etnici e religiosi rappresentano quindi sfide alla politica contemporanea, sfide che non possono essere affrontate unicamente al livello dei tradizionali Stati-nazione, ma richiedono anche un’articolazione politica dei problemi a livello globale (41). Questa diagnosi di crisi della politica o depoliticizzazione della società moderna segnala un fenomeno che può rafforzare, in certa misura, una tendenza usuale di diffidenza nei confronti dei politici e dell’attività politica in generale, coltivata di solito dai rappresentanti della burocrazia statale. L’argomento tipicamente tecnocratico della parzialità dell’attività politica tradizionale e della sua assenza di compromesso nella valutazione neutrale degli interessi pubblici sembra essere rafforzato nel contesto contemporaneo del- (40) Secondo la prospettiva “apocalittica” o “messianica” riguardo le moderne società occidentali svolta da Giorgio Agamben: “La politica contemporanea è questo esperimento devastante, che disarticola e svuota su tutto il pianeta istituzioni e credenze, ideologie e religioni, identità e comunità, per tornare poi a riproporne la forma definitivamente nullificata” (1996: 88). (41) Sulla necessita di ripensare la politica e il diritto moderni nel contesto della globalizzazione, cfr. MARRAMAO 2009. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 l’incapacità degli Stati-nazione di gestire da soli i nuovi e inediti problemi di una società globalizzata. Nel contesto brasiliano, sembra che la diffidenza e il pregiudizio generalizzato contro la politica rappresentino allo stesso tempo una causa ed un effetto del modello della consulenza legale come attività di controllo. Una specie di circolo vizioso. Per un verso, i pregiudizi contro la politica, cioè la riduzione dell’attività politica a una disputa meschina su potere e influenza fra partiti e fazioni, fa apparire come naturale la necessità di controllare eccessivamente i politici ed amministratori da tutte le parti, poiché sono essi i responsabili per la presa delle decisioni politiche nella pubblica amministrazione. E per un altro verso, tale supposta necessità di un controllo burocratico eccessivo sulla politica dà origine a diffidenze e gerarchie fra presunti controllori e controllati, diffidenze e gerarchie che soltanto rafforzano gli stereotipi dei burocrati o tecnocrati neutri e imparziali e dei politici e decisori in generali parziali e senza compromesso solido e stabile con gli interessi pubblici. Eppure gli organi di consulenza legale e gli organi di gestione, responsabili per la presa delle decisioni politico-amministrative, fanno entrambi parte della pubblica amministrazione. Ciò significa che dovrebbero lavorare insieme, in regime di mutua collaborazione, e non in modo contrastante, come se l’uno dovesse controllare le attività dell’altro in una posizione di superiorità o supremazia (42). L’Avvocatura dello Stato è di solito descritta come un organo tecnico (o tecnico-giuridico), di carattere non politico. Questo carattere non politico è considerato essenziale per assicurarle la necessaria autonomia nella tutela dell’interesse pubblico (43). L’autonomia tecnica e la relativa indipendenza politica sono però caratteristiche di tutti gli organi burocratici della pubblica amministrazione, e non solo dei suoi organi di assistenza giuridica. Tutti gli organi, siano amministrativi o giuridici, devono cercare sempre di realizzare con imparzialità gli interessi pubblici. Perciò la funzione dell’Avvocatura dello Stato non deve essere identificata con una attività di fiscalizzazione della legalità degli atti amministrativi, come se si trattasse di un organo superiore di (42) Sui conflitti che succedono spesso fra gli uffici di una stessa organizzazione a causa dell’identificazione dei loro membri con l’ufficio a cui appartengono piuttosto che con l’organizzazione in generale, cfr. SIMON 1967: 58-60. (43) Secondo l’ex Avvocato Generale dello Stato italiano Oscar Fiumara: “L’Avvocatura è un organo essenzialmente tecnico, assolutamente non politico, di rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio, cioè del Governo, quindi esamina qualsiasi vertenza, qualsiasi problema da un punto di vista esclusivamente tecnico-giuridico. Proprio in virtù di tale metodo l’Avvocatura dello Stato, pur essendo incardinata nella Presidenza del Consiglio dei ministri, opera in piena autonomia al fine di apprestare la migliore tutela dell’interesse pubblico e collabora con tutti i poteri” (2009: 1). Nel contesto brasiliano, si parla spesso dell’indipendenza o autonomia funzionale dell’Avvocatura dello Stato riguardo il potere esecutivo per difendere la stessa idea di autonomia nella tutela dell’interesse pubblico. Cfr. GUEDES & SOUZA 2009: 87-127. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 305 controllo interno dell’amministrazione. Un’altra volta ci si deve soffermare su questo punto: consulenza legale non è controllo, gli avvocati dello Stato non sono controllori. Come abbiamo già visto, essi possono essere descritti meglio come “traduttori”, come coloro che devono tradurre ai politici e amministratori i vincoli giuridici che condizionano la loro discrezionalità. Se magari c’è qualcosa che riguarda il controllo nella loro attività, ciò sarebbe unicamente la possibilità che gli avvocati presentano di assistere giuridicamente nel processo di autocontrollo della pubblica amministrazione. Un controllo però svolto dalla propria amministrazione, con l’obiettivo di correggere e fiscalizzare le sue proprie attività, situazione in cui l’ausilio giuridico degli avvocati è sempre indispensabile (44). Anche se il rischio di corruzione e di inadempimento cosciente delle norme è purtroppo sempre presente in tutti gli organi statali (possiamo dire pure: in tutta la società) i politici e decisori in generale non possono essere guardati a priori con pregiudizio e diffidenza. La corruzione funziona (o almeno dovrebbe funzionare) ovviamente come un limite: davanti ad un fondato sospetto di corruzione, gli avvocati hanno il dovere di azionare i competenti organi di controllo affinché siano prese le apposite misure rivolte a evitare oppure riparare eventuali danni al patrimonio pubblico. Si tratta però di un dovere che spetta non solo agli avvocati, ma a tutti i funzionari pubblici. Davvero, a tutti i cittadini (45). Ma nuovamente ciò non vuol dire che la consulenza legale si assomigli a un’attività di controllo. Fatto salvo il dovere irrinunciabile di prevenire e combattere la corruzione, la funzione della consulenza è quella di fornire argomenti e giustificazioni che diano sostegno giuridico alle decisioni politico-ammini- (44) Nel contesto italiano, per esempio, non si parla mai dell’Avvocatura dello Stato come un organo di controllo della pubblica amministrazione. La sua funzione è piuttosto descritta come una “funzione giustiziale”: “Nell’esercizio del suo potere di ‘persuasione’ l’Avvocatura esercita una funzione che non è né amministrativa né di giustizia, ma giustiziale, quasi di raccordo tra le due, dovendo da un lato, in sede di consulenza, indirizzare l’azione pubblica istituzionale verso l’osservanza della legalità, e dall’altro lato, in sede giudiziaria sostenere le ragioni di legalità dell’operato amministrativo a tutela degli interessi pubblici generali coinvolti nel giudizio” (MANZARI 1987: 113). I pareri prodotti dall’Avvocatura dello Stato italiana però non vincolano necessariamente l’attività della pubblica amministrazione: “È fatta salva la possibilità per l’amministrazione consultante di disattendere il parere reso dall’Avvocatura dello Stato, sia esso facoltativo od obbligatorio, fermo restando che per pacifico riconoscimento anche giurisprudenziale l’orientamento contrario a quello espresso dall’organo legale consultivo impegna in modo particolare l’ente sul piano motivazionale, richiedendosi adeguata giustificazione del dissenso nell’atto amministrativo conclusivo del procedimento ausiliato” (sito internet: http://www.avvocaturastato.it/?q=node/86, ultimo acesso: 30.11.2010). Sul supposto carattere vincolante di alcuni dei pareri prodotti dall’Avvocatura dello Stato brasiliana, piuttosto in materia di contratti di appalto, e sulla responsabilità degli avvocati riguardo le conseguenze delle decisioni guidate da questi pareri, cfr. GUEDES & SOUZA 2009: 139-164. (45) Sull’attuazione dell’Avvocatura dello Stato brasiliana nella difesa del patrimonio pubblico in giudizio attraverso il recupero di attivi pubblici e la punizione di funzionari corrotti, cfr. GUEDES E SOUZA 2009: 485-499. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 strative e che permettano una valutazione previa dei loro rispettivi rischi e conseguenze giuridiche. Argomenti e giustificazioni che devono essere resi pubblici e trasparenti e che poi possano essere utilizzati anche per difendere le decisioni stesse davanti agli organi di controllo (tribunali, commissioni parlamentari, corti dei conti, ecc). Il dibattito istituzionale su tesi giuridiche diverse fra le organizzazioni della pubblica amministrazione e gli organi di controllo, purché realizzato con pubblicità, trasparenza e responsabilità, è qualcosa di salutare alla democrazia, e non qualcosa della quale si dovrebbe aver timore o paura. Perciò è importante guardare la politica senza pregiudizi, assistere i politici e gli amministratori senza diffidenza, tradurre loro il “diritto vigente” senza qualsiasi tipo di sentimento corporativista di superiorità. L’importanza dell’attività tipicamente politica e la complementarità fra politica e amministrazione burocratica, fra politici di professione e funzionari amministrativi, veniva già teorizzata dalla sociologia politica weberiana. I politici sono legittimati ad esercitare la guida politica dello Stato e ad assumere la responsabilità per la presa delle principali decisioni statali. I funzionari amministrativi invece hanno la preparazione e la specializzazione tecnica e professionale necessaria all’implementazione impersonale delle decisioni statali e all’ausilio tecnico-burocratico essenziale alla loro formulazione. Si tratta però di due ruoli diversi e complementari che non vanno confusi o mescolati (46). L’Avvocatura dello Stato deve quindi svolgere la sua funzione di consulenza legale all’amministrazione consapevole dell’importanza e dell’impatto di questa attività nella qualità delle politiche pubbliche formulate ed escutate dallo Stato. Ossia deve capire il senso specificamente “politico” del suo agire, un senso positivo, non necessariamente collegato alle usuali dispute su potere e influenza che caratterizzano tutti i regimi politici, ma di collaborazione e coinvolgimento nell’implementazione delle politiche pubbliche e nel raggiungimento dei loro obiettivi. Deve dunque guardare l’attività politico-amministrativa nella quale è necessariamente coinvolta senza pregiudizi. (46) Cfr. WEBER 2004: 72-74. D’accordo con Weber: “[...] la burocrazia ha fallito completamente dove è stata investita di questione politiche. [...] Infatti nelle condizioni moderne l’istruzione specializzata costituisce il presupposto indispensabile per la conoscenza dei mezzi tecnici necessari per il raggiungimento di fini politici. Ma stabilire fini politici non è un compito tecnico, e il funzionario specializzato non deve, semplicimente in quanto tale, determinare la politica” (1999: 533-535). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 307 Conclusione “Scusa, allenatore, ma su tutta questa roba, ti sei già messo d’accordo con i russi? ” (Garrincha) Prima dell’ultima partita del girone del mondiale di calcio del 1958, contro l’ex-Unione Sovietica, l’allenatore brasiliano stava spiegando ai suoi calciatori come dovevano comportarsi durante la partita, con quale schema tattico dovevano giocare, cosa dovevano fare in campo. Perciò aveva tantissimi disegni che riassumevano le diverse posizioni che i calciatori della squadra brasiliana avrebbero dovuto tenere rispetto a quelle che avrebbero ricoperto i calciatori della squadra sovietica. Un vero esercizio di previsione su cosa avrebbero fatto i sovietici e di anticipazione delle contromisure che avrebbero dovuto essere prese dai brasiliani. Alla fine, Garrincha, calciatore specialmente conosciuto per le sue incredibili abilità di dribbling e per il suo grande umorismo, alzò la mano e chiese all’allenatore: “Scusa, allenatore, ma su tutta questa roba, ti sei già messo d’accordo con i russi?”. Il Brasile vinse la partita per due a zero e poi fu campione del mondiale per la prima volta nella sua storia. Garrincha e Pelé, che all’epoca aveva appena diciassette anni, furono considerati i migliori calciatori del mondiale. In questa partita specifica contro l’ex Unione Sovietica, l’immagine dei sovietici che quasi cadevano a terra a causa delle finte di Garrincha entrò definitivamente nella storia del calcio mondiale (47). Dopo aver letto attentamente un parere reso da un organo di consulenza legale su una questione di grande rilievo, il politico o l’amministratore potrebbe forse domandare all’avvocato che l’ha scritto: “Ma guarda, su tutti questi argomenti, ti sei già messo d’accordo con i giudici, con gli organi di controllo, con le comissioni parlamentari che poi sicuramente mi chiederanno informazioni e giustificazioni?”. La risposta è ovviamente “no”. Su queste cose non ci si accorda. Perciò tutta l’attività di consulenza legale è, in certa misura, un po’ “schizofrenica”. Nonostante tutti gli argomenti, giustificazioni e tentativi di anticipazione delle possibili conseguenze, la realtà futura del sistema giuridico non è mai raggiungibile. Abbiamo visto come le concezioni classiche sull’interpretazione giuridica e sul principio di legalità prodotte dal positivismo giuridico ottocentesco, e che ancora oggi si fanno presenti nella pratica forense e amministrativa e nella dogmatica giuridica tradizionale, rappresentano un ostacolo ad una comprensione adeguata delle attività di consulenza legale. L’interpretazione è l’operazione centrale del sistema giuridico, un’operazione complessa e creativa, mai (47) Ringrazio nuovamente l’amico Renato Bigliazzi per avermi suggerito questo “esempio calcistico”. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 meccanica. Operazione quotidianamente svolta dalla pubblica amministrazione nell’adempimento della sua funzione di implementare le politiche pubbliche necessarie alla promozione dei diritti fondamentali dei cittadini. Una funzione che soltanto attraverso una riduzione grossolana e anacronistica può ancora essere descritta come semplice “esecuzione di leggi”. Nella formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche, le attività di consulenza legale giocano un ruolo fondamentale nel chiarimento dei vincoli giuridici che limitano la discrezionalità dei politici e amministratori, offrendo loro l’opportunità di analizzare in anticipo le diverse possibilità di scelta disponibili ed i possibili rischi e conseguenze giuridiche delle loro decisioni. Perciò la consulenza legale può essere descritta come un’attività di traduzione fra diritto e politica, un’attività essenziale alla democratizzazione delle decisioni politico-amministrative. Traducendo il “diritto vigente” e contribuendo alla pubblicità e trasparenza dei criteri giuridici che orientano le decisioni statali, essa agevola il loro controllo istituzionale e sociale allo stesso tempo che rende possibile una presa di decisione più furba e responsabile. Questa metafora della traduzione è utile anche per confutare il modello della consulenza legale come attività di controllo, modello che purtroppo si sta affermando a poco a poco nel contesto dell’Avvocatura dello Stato brasiliana. Si tratta ovviamente di un modello storto che, oltre a mischiare e confondere i ruoli diversi degli avvocati e degli organi di controllo, viene di solito accompagnato da uno sguardo diffidente e pieno di pregiudizi sull’attività politica. Bisogna allora che gli avvocati capiscano l’importanza “politica” della propria consulenza, vale a dire il suo impatto sulla qualità delle politiche pubbliche implemantate dallo Stato, e si coinvolgano veramente nell’ottenzione degli obiettivi di esse. Bisogna insomma che guardino la politica senza pregiudizi. In Brasile gli organi di controllo (tribunali, pubblico ministero, corte dei conti) hanno già creato una loro identità propria. Le loro attività sono senza ombra di dubbio essenziali alla democratizzazione dello Stato, anche se ogni tanto ci si lamenta di un supposto controllo eccessivo che “soffocherebbe”, in certa misura, la pubblica amministrazione, creando presunti ostacoli alla sua capacità di azione ed innovazione. Questi sono conflitti usuali in ogni regime democratico, nel senso che fanno parte della propria democrazia, fatta piuttosto di dissensi e dispute che non di consensi e armonie artificialmente (o autoritariamente) prodotti. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato come organo di consulenza legale dell’amministrazione funziona (o almeno dovrebbe funzionare) dunque come contromisura o contrappeso, nel senso di rendere possibile il dialogo (ogni tanto conflittuale) fra l’amministrazione e gli organi di controllo (possiamo forse dire: fra politica e diritto). Se tutti hanno il diritto a essere difesi da un avvocato, perché non l’avrebbe anche lo Stato, che rappresenta l’unione politica di tutti i cittadini? CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 L’Avvocatura dello Stato brasiliana è un’istituzione relativamente giovane. Se ci si allontana un po’ dal profilo degli organi di controllo (del Pubblico Ministero, piuttosto), ci si può vedere che c’è ancora molto spazio da essere riempito. Gli avvocati dovrebbero allora profittarne meglio. Bibliografia AGAMBEN, GIORGIO, 1996. Mezzi senza fine: note sulla politica. Torino: Bollati Boringhieri. AGAMBEN, GIORGIO, 2003. Stato di eccezione. Homo sacer, II, 1. Torino: Bollati Boringhieri. AGAMBEN, GIORGIO, 2007. Il Regno e la Gloria: per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2. Vicenza: Neri Posa. ALEXY, ROBERT, 1998. Sistema jurídico, principios jurídicos y razón práctica. Revista Doxa, 5: 139 ss. ALPA, GUIDO, 2005. 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GUEDES, JEFFERSON CARÚS & LUCIANA MOESSA DE SOUZA (a cura di), 2009. Advocacia de Estado: questões institucionais para a construção de um Estado de Justiça. Belo Horizonte: Fórum. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 HABERMAS, JÜRGEN, [1992] 1996. Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia. Tr. it. Milano: Guerini e Associati. HART, HERBERT, [1961] 2005. O conceito de direito. Tr. pt. Lisboa: Fundação Calouste Gulbenkian. KELSEN, HANS, [1960] 2006. Teoria pura do direito. Tr. pt. São Paulo: Martins Fontes. LA TORRE, MASSIMO, 2002. Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto. Soveria Mannelli: Rubbettino. LUHMANN, NIKLAS, 1982. The future cannot begin. In The differentiation of society. New York: Columbia University Press. LUHMANN, NIKLAS, [1972] 1985. Sociologia do direito II. Tr. pt. Rio de Janeiro: Tempo Brasileiro. LUHMANN, NIKLAS, 1988. The third question: the creative use of paradox in law and legal history. 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Torino: Einaudi. 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 In tema di pubblico impiego privatizzato Il discrimine temporale ai fini del riparto di giurisdizione tra “atti di gestione e dato storico” Lilia Marra e Concetta Quartuccio* Roberto Antillo** SOMMARIO: 1) Breve premessa sul processo di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego: le c.d. categorie escluse e le categorie “ripubblicizzate”. 2) Cenni sulla problematica afferente l’individuazione della giurisdizione in materia concorsuale. 3) Il discrimine temporale ai fini del riparto di giurisdizione in materia di pubblico impiego privatizzato tra “atti di gestione e dato storico”. 4) Repertorio di casi nei quali si è affrontato il profilo della giurisdizione: a) Controversia in tema di differenze retributive e regolarizzazione della posizione pensionistica definita con sentenza n.1164 del 23 ottobre 2009 della Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Lavoro, resa in conformità a Corte di Cassazione, S.U., sentenza 7943 del 27 marzo 2008; b) Controversia in tema di azione di condanna dell’amministrazione per le spettanze retributive da incarico di reggenza definita con sentenza n. 605/05 R.S. del 18 novembre 2005 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Sezione Lavoro, e Cassazione S.U. 23 aprile 2008 n. 10450 con riferimento ad una controversia in tema di azione di condanna dell’amministrazione per le spettanze retributive da incarico di reggenza; c) Controversia in tema di computo dell’indennità di buonuscita definita con sentenza n. 764 del 2006 della CdA di Reggio Calabria e Cassazione, S.U., sentenza n. 2054 del 31 gennaio 2006. 5) Le categorie escluse dalla privatizzazione ed il criterio di riparto di giurisdizione in tema di azione risarcitoria: controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno per la lesione alla integrità psicofisica (diritto primario), in relazione al provvedimento di sospensione cautelare dal servizio di un sovraintendente della Polizia di Stato: sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, Sezione Lavoro, n. 186/2010 R.S. del 13 maggio 2010, resa in conformità a Cassazione, S.U., sentenza n. 5785 del 4 marzo 2008. 1. Breve premessa sul processo di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego: le c.d. categorie escluse e le categorie “ripubblicizzate” A quasi due decenni dall’entrata in vigore della Legge del 3 febbraio 1993 n. 29, che ha avviato il processo di privatizzazione del pubblico impiego, le problematiche relative alla giurisdizione afferente le controversie di lavoro, almeno con riferimento al discrimine temporale, del 30 giugno 1998, valido ai fini del riparto, possono (forse) dirsi definitivamente assopite, al punto di tentare di ripercorrerne le tappe, attraverso la rassegna di alcune controversie svoltesi dinanzi agli Uffici giudiziari del distretto della Corte d’appello di Reg- (*) Dottori in Giurisprudenza ammessi alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (**) Avvocato dello Stato. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 gio Calabria e definite alla stregua delle pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione. Può essere opportuno rammentare, brevemente, che, prima dell’avvio della avviata riforma, il rapporto di pubblico impiego aveva natura pubblicistica, in un contesto in cui le difficoltà avvertite nel tracciare una netta linea di confine tra le situazioni giuridiche di interesse legittimo e diritto soggettivo, concernenti il rapporto di lavoro, avevano indotto il legislatore del 1923 (1) a devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la totalità delle controversie di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, con la conseguenza che tanto gli atti di costituzione, di gestione e di estinzione del rapporto di lavoro, espressione di un potere autoritativo, quanto quelli di natura paritetica di contenuto retributivo-economico, venivano assoggettati ad un’unica giurisdizione (quella amministrativa). A seguito del processo di privatizzazione del pubblico impiego, invece, si è proceduto ad un’immediata assimilazione dei pubblici dipendenti ai lavoratori privati, con la conseguente devoluzione della tutela giudiziale alla giurisdizione ordinaria. Il regime di giurisdizione che ne è derivato è disciplinato dall’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 (ex art. 68, comma 1, del D.Lgs. n. 29/1993 nella stesura di cui all'art. 18, D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387), il quale prevede che al giudice ordinario vengano devolute tutte le controversie inerenti ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. In merito alle categorie eccettuate, il legislatore all’art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 29/1993, ora art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001, ha ritenuto opportuno mantenere la giurisdizione del giudice amministrativo per le controversie relative alle categorie di lavoratori che rimangono escluse dal processo di privatizzazione, le c.d. categorie non contrattualizzate, quali i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati ed i procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica, il personale della carriera prefettizia a partire dalla qualifica di vice consigliere di prefettura, i professori ed i ricercatori universitari, i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 D.Lgs. C.p.S. 17 luglio 1947 n. 691 e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281 e 10 ottobre 1990, n. 287, vale a dire, rispettivamente, il personale della Banca d’Italia, della CONSOB e dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. (1) Decreto Legislativo 2480/1923 recepito nel T.U. C.d.S. del 1924. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 In ultimo, il legislatore ha provveduto a “ripubblicizzare” categorie di dipendenti che erano state originariamente ricomprese nel processo di privatizzazione. Si vedano, in proposito, i commi 1-bis ed 1-ter dell’art. 3 (introdotti, rispettivamente, dalle leggi 30 settembre 2004, n. 252 e 27 luglio 2005, n. 154) i quali prevedono che il rapporto di impiego degli appartenenti al Corpo dei vigili del fuoco e del personale della carriera dirigenziale penitenziaria, in deroga all’art. 2, commi 2 e 3, del D. Lgs. n. 165 del 2001, sia disciplinato in regime di diritto pubblico secondo il rispettivo ordinamento. L’esclusione dal processo di privatizzazione si giustifica in ragione della peculiare connotazione pubblicistica delle funzioni demandate, che, sul piano tecnico-giuridico, si risolve nel c.d. principio di specialità, più volte riaffermato anche dalla Corte costituzionale (2) per legittimare le deroghe soggettive a forme di privatizzazione. Anche la dottrina (3) ha evidenziato che lo "speciale" regime riservato alle categorie non contrattualizzate potesse trovare ragionevole giustificazione in relazione ai fini assunti in via diretta dallo Stato che sono, per natura o per valutazione insindacabile del legislatore, tra quelli basilari per l'esistenza stessa e per il mantenimento delle condizioni indispensabili alla vita della Comunità. 2. Cenni sulla problematica afferente l’individuazione della giurisdizione in materia concorsuale Al di là delle predette categorie di pubblico impiego, ai sensi dell’art. 63, comma 4°, del d.lsg.vo n.165/2001, resta, altresì, ferma, la giurisdizione amministrativa sulle procedure concorsuali di ammissione al rapporto di lavoro, trattandosi di atti che evidentemente conservano natura pubblicistica in quanto antecedenti alla costituzione del rapporto e che non sono, quindi, influenzati dalla sua privatizzazione. La scelta appare in linea con il criterio di riparto fondato sulla causa petendi in quanto la procedura concorsuale, indicata dalla Costituzione come indefettibile ai fini dell’accesso al pubblico impiego (art. 97), è una procedura ad evidenza pubblica i cui atti hanno natura amministrativa e pertanto, i partecipanti ad essa sono titolari di meri interessi legittimi alla corretta esplicazione della selezione. Mentre, ai sensi del comma 1° dell’art. 63 del citato decreto legislativo spettano al giudice ordinario le controversie concernenti l’assunzione al lavoro. Nonostante l’apparente chiarezza dispositiva delle predette norme, nella realtà pratica il discrimine tra le due giurisdizioni è stato spesso controverso. (2) Corte cost., 21 luglio 1988, n. 860; Corte cost., 25 novembre 2005, n. 430. (3) ARMANDO POZZI, Il contenzioso lavoristico delle carriere non privatizzate innanzi al giudice mministrativo: principio di specialità, discrezionalità tecnica, risarcimento del danno, pregiudizialità amministrativa, colpa dell'amministrazione, in Lav. nelle p.a. 2007, 06, 1031. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 E così per esempio una problematica particolarmente dibattuta ha riguardato, come è noto, l’individuazione della giurisdizione con riferimento ai concorsi “interni” per progressione verticale riservati ai dipendenti già in servizio. Aspetto quest’ultimo che sembrerebbe definitivamente assestato secondo giurisprudenza con l’affermazione della giurisdizione del G.A. per i concorsi esterni, per quelli misti e per i concorsi interni per la progressione verticale di carriera e, viceversa, con il riconoscimento della giurisdizione del G.O. in caso di concorsi interni per la progressione orizzontale da una qualifica ad un'altra nell'ambito della stessa area funzionale (Corte Cass. Sez. Un. del 15 ottobre 2003 n. 15403; Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 20 aprile 2006, n. 9168). Ancora più recentemente, Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 2007, n. 2969 secondo cui: “In materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a procedure concorsuali per l'assunzione di pubblici dipendenti, la giurisdizione deve essere attribuita al giudice ordinario o a quello amministrativo sulla base dei seguenti criteri: a) giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie relative a concorsi per soli candidati esterni; b) identica giurisdizione nelle controversie relative a concorsi misti, restando irrilevante che il posto da coprire sia compreso o meno nell'ambito della medesima area funzionale alla quale sia riconducibile la posizione di lavoro di interni ammessi alla procedura selettiva, poiché, in tal caso, la circostanza che non si tratti di passaggio ad area diversa viene vanificata dalla presenza di possibili vincitori esterni; c) ancora giurisdizione amministrativa quando si tratti di concorsi per soli interni che comportino passaggio da un'area funzionale ad un'altra, spettando, poi, al giudice del merito la verifica di legittimità delle disposizioni che escludono l'apertura del concorso all'esterno; d) residuale giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie attinenti a concorsi per soli interni, che comportino passaggio da una qualifica ad un'altra, ma nell'ambito della medesima area funzionale o della medesima categoria”. 3. Il discrimine temporale ai fini del riparto di giurisdizione in materia di pubblico impiego privatizzato tra “atti di gestione e dato storico” Gli effetti transitori del passaggio della tutela giudiziale dal giudice amministrativo a quello ordinario, sono regolati dalla sola breve previsione contenuta nell’art. 69, comma, 7 del D.lgs.vo su citato, il quale testualmente recita “Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all'articolo 63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”. 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Anche in questo caso, al pari di quanto occorso in materia di procedure concorsuali, la normativa testè riportata ha dato luogo a diversi dubbi interpretativi che, come su anticipato, sono stati affrontati, almeno per taluni profili, in controversie pendenti presso le locali sedi giudiziarie che si portano in rassegna come segue. 4. Casistica di ricorsi nei quali si è affrontato il profilo della giurisdizione: 4.1. Controversia in tema di differenze retributive e regolarizzazione della posizione pensionistica definita con sentenza n. 1164 del 23 ottobre 2009 della Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Lavoro, resa in conformità a Corte di Cassazione, S.U., sentenza 7943 del 27 marzo 2008 Con ricorso depositato in data 28 aprile 2004 innanzi al Tribunale di Reggio Calabria, la Sig.ra S. R., dipendente dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, conveniva in giudizio la suddetta Amministrazione, al fine di ottenere il riconoscimento, sotto il profilo giuridico ed economico, dell’anzianità di servizio maturata dal 1 gennaio 1991 (data di assunzione dei vincitori del concorso pubblico bandito nell’aprile dell’anno 1990, al quale concorso la stessa era stata in un primo momento esclusa) al 1 aprile 1992 e, conseguentemente, la condanna alla corresponsione degli emolumenti stipendiali non percepiti in tale periodo. La ricorrente chiedeva, altresì, la corresponsione delle differenze retributive relative al periodo intercorrente tra il 1 apirle 1992 ed il 1 novembre 2002 (alla luce del passaggio dalla qualifica ricoperta alle dipendenze del Ministero del Lavoro a quella ricoperta alle dipendenze dell’Università), nonché la regolarizzazione della posizione pensionistica. L’istante chiedeva, infine, il risarcimento di tutti i danni morali e materiali, consistenti, tra l’altro, nella perdita di chance. Si costituiva in giudizio nell’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria, la l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Reggio Calabria, la quale, sostenendo che si trattasse di questione anteriore al 1998, deduceva, preliminarmente, il difetto di giurisdizione del giudice adito e, nel merito, l’infondatezza e la genericità della pretesa. Con sentenza n. 1715/04, emessa in data 7 ottobre 2004, il giudice di prime cure accoglieva l’eccezione sollevata dalla difesa erariale, dichiarando il difetto di giurisdizione. A sostegno di tale decisione, il Tribunale di Reggio Calabria richiamava l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che stabiliva che per i ricorsi proposti dopo il 15 settembre 2000 riconosceva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello amministrativo, allorquando si trattasse di questioni i cui fatti materiali e giuridicamente rilevanti CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 ricadevano alla data del 30 giugno 1998. In particolare, il predetto Giudicante, nel riferirsi alla pronuncia della Cassazione, Sezioni Unite, 639/2002 secondo cui, ai fini del riparto della giurisdizione, rileva “il dato storico, costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, come poste a base della pretesa avanzata, in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta controversia” riteneva che, ove la lesione del diritto del lavoratore fosse stata prodotta da un atto provvedimentale o negoziale anteriore alla data del 30 giugno 1998, si sarebbe dovuto fare riferimento all'epoca della sua emanazione, ragion per cui non sarebbero state frazionabili in due periodi distinti le pretese derivanti da un unico rapporto, dovendosi attribuire la competenza a fronte di un'unica questione alla giurisdizione amministrativa. Proposto gravame avverso la decisione, la Corte di Appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 1164 del 23 ottobre 2009, perveniva, in accoglimento dell’avverso appello, ad una parziale revisione della pronuncia, richiamando i principi enucleati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con pronuncia n. 7943 del 27 marzo 2008, di cui si riporta parte della motivazione come di seguito, mostrando di superare l’iniziale orientamento dottrinale e giurisprudenziale che agganciava il discrimine temporale al “momento storico dell'avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze”, quale dato unico a cui riferirsi al fine della individuazione della giurisdizione. “Con il ricorso, articolato in numerose censure, la L. sostiene che la Corte territoriale ha violato il disposto del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17, perchè il petitum sostanziale di cui alla controversia in esame comportava l'attribuzione della controversia stessa al giudice ordinario con riferimento al risarcimento dei danni conseguenti alla ritardata costituzione del rapporto di impiego con il Ministero della Giustizia - ed al mancato percepimento degli stipendi ed alla violazione degli altri diritti connessi al rapporto di pubblico impiego - anche per il periodo sino al 30 giugno 1998, per essere in questo senso rivolte le conclusioni e la sostanza delle domande proposte davanti ai giudici di merito. Aggiunge che altra soluzione poteva essere rappresentata da una rimeditazione della decadenza di cui al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 45, comma 17, quale trasfuso nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7, nel senso di ritenere, con una interpretazione costituzionalmente orientata, che tale norma integri una decadenza di natura processuale per avere il legislatore inteso stabilire un termine entro il quale i diritti nati in vigenza del precedente ordinamento possono essere azionati davanti al giudice che si è spogliato per il futuro della giurisdizione esclusiva del rapporto stesso. Denunzia, infine, che nel merito la Corte territoriale ha errato nel rigettare la domanda del risarcimento dei danni per perdita di chance per mancanza di supporto probatorio, dimenticando il tal modo il criterio della vicinanza della 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 prova secondo il quale non può addossarsi il relativo onere a chi non può detta prova fornire perchè la documentazione relativa ai concorsi espletati e di cui si era constata la irregolarità erano in possesso del datore di lavoro e della pubblica amministrazione, cui le norme di rito consentivano di imporne l'esibizione. Tutte le esposte censure, da esaminarsi congiuntamente per comportare l'esame di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettate perchè prive di fondamento e con esse va rigettato il ricorso, che dette censure contiene. Queste Sezioni Unite hanno statuito che nell'ipotesi di inquadramento in ruolo nel pubblico impiego in seguito a ricorso in giudizio dinanzi al giudice amministrativo - con retrodatazione della nomina a fini giuridici, ma non a quelli economici - la controversia instaurata nei confronti della P.A., avente ad oggetto le differenze retributive, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17, (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7), essendo il rapporto di lavoro costituito fin dalla data stabilita giudizialmente (cfr. in tali sensi tra le altre: Cass., Sez. Un., 16 novembre 2007 n. 23738; Cass., Sez. Un., 20 aprile 2006 n. 9153, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2005 n. 317). L'indicato criterio di riparto della giurisdizione (D.Lgs. n. 80 del 1998 cit., ex art. 45, comma 17) vale, quindi, anche per l'individuazione del giudice cui va devoluta la giurisdizione per quanto attiene alla domanda di risarcimento per perdita di chance. Consegue da tutto ciò che nessun addebito può muoversi alla decisione della Corte d'appello di Torino che - per quanto riguarda la domanda del risarcimento danni per il mancato pagamento delle retribuzioni e degli scatti di anzianità maturati successivamente al 1 luglio 1998 - ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario ed ha rimandato le parti, ai sensi del disposto dell'art. 353 c.p.c., comma 1, davanti al primo giudice, mentre ha poi dichiarato il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno per la perdita di chance sino al 30 giugno 1998, respingendo invece la stessa domanda per il periodo successivo”. Pertanto, alla stregua della predetta giurisprudenza di legittimità, la locale Corte frazionava cronologicamente le pretese e, conseguentemente riconosceva in favore della dipendente le richieste retributive ed economiche relative al periodo successivo alla data del 30 giugno 1998. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 4.2. Controversia in tema di azione di condanna dell’Amministrazione per le spettanze retributive da incarico di reggenza definita con Sentenza n. 605/05 R.S del 18 novembre 2005 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Sezione Lavoro, e Cassazione S.U. 23 aprile 2008 n. 10450 relativamente ad una controversia in tema di azione di condanna dell’Amministrazione per le spettanze retributive da incarico di reggenza Con ricorso depositato in cancelleria in data 19 marzo 2001, il signor P. B. adiva il Giudice del Lavoro di Reggio Calabria, chiedendo la condanna del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali agli emolumenti retributivi, ai ratei di indennità ed agli oneri previdenziali, oltre accessori di legge, relativamente all’incarico svolto quale direttore reggente presso l’Agenzia Regionale per l’Impiego della Regione Calabria dal 17 novembre 1995 sino al 25 novembre 1999, giusto atto di conferimento dell’incarico del 12 gennaio 1996. Rappresentava al riguardo che “il protrarsi dell’incarico per oltre quattro anni aveva fatto venir meno il requisito principale dell’istituto della reggenza, che è costituito dalla limitatezza temporale, con la conseguenza che tale attività non poteva essere ricompresa nei doveri nascenti dal rapporto di impiego aggiuntivo, e che, pertanto, detta attività andava retribuita con il corrispondente trattamento economico”. Chiedeva, quindi, che il Ministero del Lavoro fosse condannato a corrispondergli a titolo di compenso e nella forma di trattamento accessorio la somma di £ 92.225.000 per l’attività di reggenza svolta dal 1° luglio 1998 al 25 novembre 1999. In via subordinata, chiedeva la corresponsione della medesima somma a titolo di indennizzo per indebito arricchimento, avvalendosi di quel rimedio che, però, l’ordinamento concede esclusivamente in via residuale; nel caso de quo la legittimità di una simile domanda appariva alquanto dubbia, a fronte dell’esistenza di un’apposita azione di natura contrattuale. Costituitasi in giudizio l’amministrazione resistente, ed in accoglimento della sollevata eccezione di difetto di giurisdizione della difesa erariale, il Tribunale dichiarava, con sentenza n. 495/02 R.S. dell’8 novembre 2002, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, posto che “il fatto costituitivo” su cui si basava il diritto azionato, era dato dall’incarico di reggenza conferito in data 12 gennaio 1996. La predetta decisione, tuttavia, veniva appellata con ricorso del 5 febbraio 2003, con il quale controparte chiedeva la riforma sul punto, evidenziando che “il fatto materiale in ordine alla cui rilevanza giuridica sia insorta la controversia va identificato nel rifiuto opposto dall’amministrazione, in data 23 novembre 2000, in sede conciliativa di procedere alla remunerazione del lavoro aggiuntivo effettivamente svolto”. La Corte d’Appello con sentenza n. 605/05 R.S. accoglieva il proposto 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 gravame, aderendo all’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo il quale “in tema di impiego pubblico privatizzato, il discrimine temporale fra giurisdizione ordinaria e amministrativa va individuato, alla luce dell’art. 69, comma 7, del d. lgs. 30 marzo 2001 n. 165, con riferimento non ad un atto giuridico o al momento di instaurazione della controversia, bensì al dato storico costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze poste alla base della pretesa avanzata, sicchè, quando essa abbia ad oggetto spettanze retributive, rileva il periodo di maturazione delle stesse, non le date di compimento degli atti di gestione del rapporto, ancorchè abbiano determinato l’insorgere della questione litigiosa: il perfezionamento della fattispecie attributiva del diritto di credito, anche sotto il profilo della sua esigibilità, consente infatti di accedere alla tutela giurisdizionale indipendentemente dall’emanazione, da parte dell’amministrazione datrice di lavoro, di atti di gestione del rapporto obbligatorio (Cass. S.U. n. 601 del 14 gennaio 2005)”. Proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Giudice di secondo grado, con sentenza n. 10450 del 23 aprile 2008 la S.C. ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, con il conseguente definitivo rigetto dell’opposta tesi secondo cui “il fatto materiale” dovesse individuarsi nell’atto di conferimento dell'incarico e che, per l’effetto, le pretese retributive relative all'epoca successiva alla data del suddetto conferimento costituissero meri effetti consequenziali del provvedimento attributivo dell'incarico. Le Sezioni Unite, nell’occasione, hanno ribadito che “quando la domanda del dipendente abbia ad oggetto spettanze retributive, rileva il periodo di maturazione delle stesse, non l'epoca di compimento degli atti di gestione del rapporto, ancorché abbiano determinato l'insorgere della questione litigiosa; sicché quando il lavoratore, sul presupposto dell'avverarsi di determinati fatti, riferisca le proprie pretese relative a differenze retributive ad un periodo in parte anteriore e in parte successivo alla data su indicata, la competenza giurisdizionale non può che essere distribuita tra Giudice amministrativo in sede esclusiva e Giudice ordinario, in relazione a due periodi”. 4.3. Controversia in tema di computo dell’indennità di buonuscita definita con sentenza n. 764 del 2006 della CdA di Reggio Calabria e Cassazione, S.U., sentenza n. 2054 del 31 gennaio 2006 Con ricorso depositato in data 29 luglio 2005 la signora M. F., quale docente di un istituto superiore secondario, nel premettere che aveva fatto richiesta di conseguire il riscatto degli anni pre-ruolo anteriore alla nomina e che il conteggio del relativo servizio non includeva gli anni universitari, chiedeva, in sede giudiziale, stante l’esito negativo delle istanze rivolte in via amministrativa, che le venisse riconosciuto nei confronti dell’INPDAP e del Ministero CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 dell’Istruzione, della Ricerca e dell’Università, il diritto di riscattare gli anni di laurea ai fini della liquidazione dell’indennità di buona uscita. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale con sentenza n. 764/06 dichiarava il proprio di difetto di giurisdizione, in considerazione del fatto che il dato storico costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, poste a base della pretesa, doveva essere collocato in data antecedente al 30 giugno 1998, ovvero al momento della presentazione della domanda di riscatto avvenuto nel 1966. Con ricorso in appello del 29 giugno 2006, la signora M. F. proponeva impugnazione avverso la suddetta decisione e la competente Corte d’Appello, in accoglimento del gravame, ha dichiarato la sussistenza della giurisdizione del giudice di primo grado. Al tal fine, il giudice di secondo grado si è limitato a richiamare il precedente giurisprudenziale costituito dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione Unite, n. 2054 del 31 gennaio 2006, secondo cui “le spettanze di fine rapporto attengono a pretese che, per la dottrina e per la giurisprudenza, si perfezionano al momento della cessazione del rapporto - che come si evince dagli atti non risulta essersi verificata per essere i ricorrenti ancora in servizio - anche se è riconosciuta prospettabile la domanda dei lavoratori volta ad ottenere un accertamento nei confronti del datore di lavoro diretto ad individuare la base di computo del loro trattamento di fine rapporto. La cognizione spetta dunque al Giudice ordinario in quanto il diritto fatto valere va riferito a un periodo in ogni caso successivo al 30 giugno 1998, data indicata dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 45, comma 17 (e riprodotta dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7) come discrimine per il passaggio dal Giudice amministrativo al Giudice ordinario delle controversie sui rapporti di pubblico impiego privatizzati, non potendosi in contrario addurre la previsione della L. 20 marzo 1980, n. 75, art. 6, che assegna alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie in materia di indennità di buonuscita e di indennità di cessazione del rapporto di impiego, per riguardare detta disposizione solo il personale di Stato e delle Aziende autonome e non gli enti diversi (cfr. da ultimo: Cass., Sez. Un., 18 aprile 2003 n. 6343; Cass., Sez. Un., 9 agosto 2001 n. 10978)”. Diversa è invece la soluzione prospettata dalla Suprema Corte in ordine alle spettanze economiche: “La domanda relativa alle spettanze economiche (per compenso per lavoro straordinario) decorrenti a partire dal 1 gennaio 1993 induce - diversamente da quanto si è deciso in relazione al trattamento di fine rapporto - a distinguere tra pretese retributive, per essere le stesse riferibili a fasi del rapporto lavorativo in parte anteriori ed in parte successive alla suddetta data del 30 giugno 1998, posto che il fatto costitutivo del diritto al compenso periodico va correlato allo svolgimento della prestazione lavorativa assunta a base della periodicità, ed in ragione cioè del periodico ma- 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 turarsi dei diritti azionati (cfr. in tali sensi ancora Cass., Sez. Un., 18 aprile 2003 n. 6343 cit., cui addì Cass. 5 giugno 2002 n. 8159). 5. Le categorie escluse dalla privatizzazione ed il criterio di riparto di giurisdizione in tema di azione risarcitoria. Controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno per la lesione alla integrità psicofisica (diritto primario), in relazione al provvedimento di sospensione cautelare dal servizio di un sovraintendente della Polizia di Stato: sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, Sezione Civile, n. 186/2010 R.S. del 13 maggio 2010, resa in conformità a Cassazione, S.U., sentenza n. 5785 del 4 marzo 2008 Con atto di citazione notificato il 23 marzo 2000 innanzi al Tribunale di Reggio Calabria, il Sig. S.I., in servizio nella Polizia di Stato con la qualifica di sovrintendente presso il compartimento della Polizia Stradale di Catanzaro – Sezione di Reggio Calabria, conveniva in giudizio il Ministero dell’Interno, affermando di essere stato, in data 17 giugno 1992, sospeso cautelarmene dal servizio con decreto ministeriale n. 333-D22799, ai sensi dell’art. 9 comma II DPR 737/81. Spiegava, inoltre, che la sospensione era stata disposta a causa della pendenza a carico del predetto attore di due procedimenti penali per tentata truffa aggravata e furto aggravato e che il relativo provvedimento era stato revocato in data 8 aprile1995, dopo la definitiva assoluzione. Il Sig. S.I. contestava la legittimità del provvedimento, essendo stato, all’epoca dell’adozione dello stesso, semplicemente rinviato a giudizio e, pertanto, chiedeva, la condanna dell’Amministrazione al risarcimento di tutti i danni subiti, quantificati in € 77.468,53. Costituitosi in giudizio, il Ministero dell’Interno, con comparsa depositata in cancelleria il 21 giugno 2000, eccepiva, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice adito in quanto la controversia riguardava uno dei rapporti “eccettuati”, individuati dall’art. 2 comma 2 della l. 29/93 e dagli artt. 33 e 34 del D.lgs. 80/98; in via subordinata, eccepiva la prescrizione del diritto fatto valere dall’istante e l’infondatezza, nel merito, della domanda. Il giudice di prime cure, con la pronuncia n. 781/2002 del 24 giugno 2002, disattendeva l’eccezione formulata dal Ministero resistente in adesione ad un orientamento formatosi già prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 80/98, secondo il quale assumerebbe valore determinante, “ai fini del riparto di giurisdizione, l’accertamento della natura giuridica della responsabilità in concreto azionata. In altre parole, ad avviso del giudicante, occorreva verificare la fonte contrattuale ovvero extracontrattuale della eventuale responsabilità, sussistendo, nel primo caso, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e, nel secondo caso, la giurisdizione del giudice ordinario (cfr. per tale principio Cass. S.U., 11 luglio 2001 n. 9385; Id., 14 dicembre 1999 n.900)”. In particolare, scrive il primo Giudicante, “sulla scorta del criterio di- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 323 stintivo appena menzionato, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblico impiego (che concerne ormai, come premesso, solo i rapporti di impiego non affidati, per la loro natura, alla giurisdizione ordinaria), non trova applicazione in quei casi in cui la pretesa fatta valere in giudizio si fondi in via esclusiva sulla violazione del principio del neminem laedere che preesiste agli obblighi della Pubblica Amministrazione inerenti al rapporto di pubblico impiego, ne prescinde ed ha una tutela autonoma, sicchè il rapporto di impiego si configura solo il presupposto estrinseco ed occasionale del fatto dedotto in giudizio (non trovando questo fatto il suo titolo nello stesso rapporto: cfr. Cass., S.U., 28 luglio 1998 n. 7394; Id., 4 novembre 1996, n. 9522; 19 giugno 1996 n. 5626; 2 agosto 1995 n. 8459; 18 novembre 1994 n. 9755; 16 gennaio 1987, n. 304; 22 luglio 1966 n. 1988; 3 maggio 1966 n. 1111; 17 febbraio 1964 n. 349), Ciò posto, è da ritenere che i nuovi dati normativi, dianzi citati, non siano tali da ricondurre alla giurisdizione del giudice amministrativo anche le controversie di danno aquiliano, posto che il riferimento alla giurisdizione esclusiva contenuto ora nell’art. 68 comma IV parte II del D.Lgs. n. 165/2001 va letto non in contrapposizione con la previsione immediatamente precedente, ma come affermazione che per le categorie non privatizzate nulla è cambiato, se non – ed è questa l’utilità della norma – per l’attribuzione dei diritti patrimoniali consequenziali (diritti patrimoniali connessi). Ne deriva pertanto che conserva validità ai fini della soluzione della questione sul riparto della giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente nei confronti della P.A. l’insegnamento giurisprudenziale che assegna rilievo determinante all’acclaramento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta. Ed allora, atteso che nella specie si versa in ipotesi di dedotta lesione di diritti primari per fatto illecito dell’Amministrazione e quindi di asserita responsabilità extracontrattuale della medesima non inerente al rapporto di pubblico impiego, è da reputare che resti ferma la giurisdizione del giudice ordinario”. Il Tribunale di Reggio Calabria, dunque, sgomberato il campo dalla sollevata eccezione preliminare, respingeva la domanda risarcitoria, non ravvisando alcun illecito nella condotta dell’Amministrazione la quale appariva pienamente conforme all’art. 9 comma 2 del D.P.R. n. 737/1981. Appellata la sentenza a cura di controparte, la Corte di Appello di Reggio Calabria con sentenza n. 186/2010 del 13 maggio 2010, in accoglimento dell’appello incidentale esperito nell’interresse dell’Amministrazione, ribaltava le conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado e riconosceva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Evidenziava, in merito, come il ragionamento del Tribunale, secondo cui la dedotta lesione di diritti primari per fatto illecito dell’Amministrazione fosse pur sempre riconducibile ad una ipotesi di responsabilità extracontrattuale, 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 scaturisse da una risalente interpretazione giurisprudenziale, superata nella stessa giurisprudenza di legittimità, “che qualificava come azione di natura sempre extracontrattuale, perché proposta ai sensi dell’art. 2043 c.c. e quindi appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario, la domanda del dipendente di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno morale e del danno biologico (Cass. SS.UU. 22 maggio 2002 n. 7470)”. Spiega la Corte d’appello che, “è invece necessario, per risolvere la questione del riparto, verificare se il fatto illecito violi il generale divieto di neminem laedere e segnatamente il divieto di non ledere il bene della salute psicofisica dell’individuo, ovvero violi le regole del rapporto di impiego senza che rilevi la qualificazione formale data dal danneggiato in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero mediante il richiamo di norme di legge (ad es. art. 2043 c.c. e ss, o art. 2087 c.c.), indizi di per sé non decisivi, essendo necessario considerare i tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata stabilire se sia stata denunciata una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso; oppure se la condotta lesiva dell’amministrazione presenti caratteri tali da escludersi qualsiasi incidenza nella sfera giuridica di soggetti ad essa non collegati da rapporto di impiego, sicché debba escludersi la stessa possibilità di configurare detta condotta lesiva al di fuori dell’ambito del rapporto, nel qual caso la responsabilità ha natura contrattuale, conseguendo l’ingiustizia del danno alle violazioni di talune delle situazioni giuridiche in cui il rapporto di impiego si articola e sostanziandosi la condotta lesiva nelle specifiche modalità di gestione di tale rapporto. Soltanto nel caso in cui, all’esito dell’indagine condotta secondo gli indicati criteri, non possa pervenirsi all’identificazione dell’azione proposta dal danneggiato, si deve qualificare l’azione come di responsabilità extracontrattuale (v. tra tante Corte di Cassazione, SS. UU., 4 marzo 2008 n. 5785). Il principio si applica a qualsiasi voce di danno preteso dal dipendente, ivi compreso quello alla integrità psicofisica, dovendosi ulteriormente precisare che nelle controversie concernenti il personale rimasto in regime di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del citato d.l.vo n. 165/2001, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, la quale appunto comprende anche le controversie attinenti ai diritti patrimoniali connessi, con ciò includendo tutte le controversie inerenti al rapporto, ivi comprese quelle risarcitorie (così Cass. S.U. 31 luglio 2008 n. 20751…) Secondo, dunque, la Corte di merito il criterio discretivo andava e va individuato nei tratti propri dell’elemento materiale posto a base della pretesa risarcitoria, escludendo, contrariamente a quanto asserito nel percorso moti- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 325 vazione del giudice di prime cure, che, nella fattispecie, il provvedimento di sospensione cautelare del servizio, fondante l’avversa pretesa risarcitoria, potesse essere estrapolato dal rapporto di pubblico impiego assurgendo ex se a fatto illecito di natura extracontrattuale. Quest’ultimo approdo ha, ovviamente, come effetto quello di limitare, a parere di chi scrive, del tutto legittimamente, la cognizione del giudice ordinario nei rapporti di pubblico impiego non privatizzati alle fattispecie in cui il fatto lesivo abbia solo occasionalmente investito un pubblico dipendente, essendo - il fatto lesivo di cui si discute - potenzialmente idoneo ad incidere nella sfera giuridica della generalità dei consociati. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Privatizzazioni e affidamento “in house” Il ruolo delle azioni collettive nella tutela dei beni comuni e sociali Lucia Paura* SOMMARIO: Introduzione – 1. I lavori della Commissione Rodotà ed i rapporti economici costituzionali – 2. La “formazione sociale” (art. 2 Cost.) e l’effettività nella tutela degli interessi; differenza tra beni sociali e beni comuni – 3. L’art. 41 Cost. ed i beni sociali quale funzione integrativa del consenso. I rapporti economico-sociali ed etico-sociali – 4. Gli artt. 41 e 43 Cost.: dai beni sociali ai beni comuni – 5. L’art. 43 Cost., la sussidiarietà verticale e i beni riservati o comuni – 6. L’art. 41 Cost. e i beni sociali. La perequazione obiettivo del riequilibrio – 7. La class action e la tutela dei beni sociali e comuni – 8. La “rivincita” dei servizi pubblici: i nuovi orientamenti della giurisprudenza comunitaria ed il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. La class action quale tutela dei beni pubblici avverso la privatizzazione: il momento dell’esercizio – 9. I dubbi profili costituzionali e comunitari del recente decreto sulle privatizzazioni – 10. Il legislatore e le sliding doors. Profili processuali e amministrativi dell’azione collettiva nel settore pubblico – 11. Considerazioni conclusive. Introduzione Recenti farraginosi provvedimenti legislativi tendono ad alterare il ruolo dello Stato nel delicato equilibrio che la Costituzione ha voluto segnare tra il regime della proprietà pubblica ed i servizi pubblici essenziali, scardinando la tutela dei diritti fondamentali connessi ai fondamenti di democrazia sociale. Eppure l’art. 43 Cost. è stato disegnato non solo per costituire un argine temporale al diritto dei privati, ma per conciliare quel delicato equilibrio tra pubblico e privato, contrassegnato dai principi fondamentali dell’art. 2 Cost. sulla solidarietà, cui fa da integrazione la sussidiarietà, quale dovere dello Stato di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla formazione della personalità (art. 3 Cost.). Per tale obiettivo diventa determinante una duplice funzione della sussidiarietà che l’ordinamento ha voluto tracciare nella disciplina dei rapporti economici costituzionali, quali proiezione dei principi fondamentali: la prima, di riservarsi la gestione dei beni ritenuti essenziali ai fini del consenso sociale e per evitare conflitti tra formazioni non omogenee (sussidiarietà verticale art. 43 Cost.); l’altra, di perseguire un riequilibrio perequativo attraverso il controllo e la promozione, in tal caso non esclusivamente pubblica, di beni sociali, ossia prevalentemente di servizi (art. 41 Cost.). Scardinare questa delicata funzione integrativa del consenso rappresentata (*) Dottore di ricerca in diritto privato, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, avvocato civilista. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 327 dalla solidarietà significa rimettere in gioco tutta l’articolata strategia costituzionale, creando una tragica spirale conflittuale tra le classi deboli non più tutelate e la preponderanza degli interessi gestititi direttamente dai privati. Eppure proprio questo aveva voluto scongiurare il costituente ponendo in via prioritaria la tutela sia del soggetto, la cui fisicità è la sua unica arma (tutela del lavoro ex art. 1 Cost.), sia della formazione sociale, che superava le categorie corporative e la ferrea distinzione degli ordini sociali, creando un sistema articolato ma dinamico di protezione dove il pubblico potesse fungere in ogni caso, soprattutto sui temi più delicati della convivenza, quale argine esclusivo od integrativo di controllo delle dinamiche socio-economiche. In questa chiave emergono dubbi sempre più fondati sulle nebbie che avvolgono la recente legislazione sulle privatizzazioni e sui possibili profili di incostituzionalità cui non possono fare che da equivoco schermo le direttive comunitarie. Il nostro lavoro intende porre in luce la contraddizione che la strategia di privatizzazioni pone rispetto anche alla recente configurazione di azioni seriali (la c.d. class action) in cui la tutela dei beni comuni e sociali diventa uno strumento - forse il primo - attuativo della garanzia delle formazioni sociali. E a questo non contraddicono i limiti all’esercizio della class action anche nell’esperimento dell’azione a tutela dei beni pubblici in cui l’elemento del danno non assume un riscontro patrimoniale; il che è giustificato dall’esigenza prioritaria del mantenimento qualificato dell’esercizio (ripetiamo prioritario anche rispetto ad una pretesa soggettiva che assurge a maggior forza nella serialità dell’azione). Profili processuali e amministrativi dell’azione collettiva nel settore pubblico chiuderanno il nostro escorso. Su quest’ultimo aspetto il nostro contributo si è posto come possibile chiave di lettura del principio di effettività parametrato alle norme processuali amministrative vigenti, con finalità che mirino a garantire dinanzi ad un legislatore ambiguo la compatibilità giuridica dello strumento dell’azione collettiva tra l’economicità e la sostenibilità economica. A tal fine ci è sembrato che la Commissione Rodotà (su cui infra) nella inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche, proponesse chiaramente classi di beni in cui l’elemento della tutela fosse prevalentemente costituito dalla destinazione-utilità e dall’effettività che esso fosse in grado di esprimere. È nell’effettività che la nostra ricerca pur accogliendone il principio ne supera le conclusioni. 1. I lavori della Commissione Rodotà ed i rapporti economici costituzionali Le recenti modifiche contenute nel decreto sulle privatizzazioni convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 ( “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo svi- 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 luppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), con le ulteriori novità apportate dal decreto legge 135/2009 (art. 15 a modifica dell’art. 23 bis l. 133/2008) ci portano a ribadire il ruolo dello Stato nell’economia tra il regime della proprietà pubblica e dei servizi pubblici essenziali (segnato dalla incombente progressiva dismissione e gestione privatistica) e la tutela dei diritti fondamentali strettamente connessi che esprimono i principi costituzionali di democrazia sociale. Sebbene dal punto di vista dei fondamenti la nostra indagine (1) prendeva spunto dalla riforma “Rodotà” (2) che si proponeva di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato, proponendo classi di beni legate non alla soggettiva appartenenza degli stessi, bensì alla destinazione/ utilità che sono in grado di esprimere, tuttavia riteniamo che il bene giuridicamente inteso, sia esso pubblico, comune, sociale o individuale, trovi costantemente la sua ragion d’essere nell’effettività, nella sua potenzialità a produrre fasci di utilità meritevoli di tutela. Quale “lanterna magica” il bene proietta le sue immagini su una superficie opaca che rappresenta lo scenario, colorandosi delle utilità che la collettività, la comunità o il privato trarranno dal bene. Nella metafora, un caleidoscopio di situazioni di effettività, variabili soggettivamente in relazione all’utilizzo, oggettivamente relative in relazione alle potenzialità. L’effettività quale criterio di valutazione dei beni rende opinabile la possibilità di poterne operare una classificazione in categorie rigide precostituite o museificate; siano essi beni pubblici (o comuni), beni sociali o beni privati, saranno le “utilità” a qualificarne rispettivamente la fruizione generale alla collettività (art. 43 Cost.), il beneficio per “formazioni sociali” (art. 41 Cost), ovvero l’interesse del singolo. Il che ne determina anche una permeabilità tra le classificazioni, sia in forma ascendente che dismissiva. Riferendoci nello specifico ai beni “riservati”, riteniamo opportuno segnalare – specie alla luce dei lavori dell’Assemblea costituente – l’utilizzo nell’art. 43 Cost., in modo distinto, di due allocuzioni estremamente significative nella diversa portata: l’una iniziale, a carattere preclusivo, che prelude alla riserva originaria ed è l’utilità generale; l’altra invece, l’interesse generale, conclusiva della disposizione, di carattere effettuale e teleologico, che ne prevede l’estensione “a categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali” (di per sè, prevalentemente beni sociali), quando assu- (1) Cfr. F. LUCARELLI - L. PAURA, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere, Napoli 2008, passim. (2) Commissione Rodotà per l’elaborazione dei “Principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II Del Titolo I Del Libro III del Codice civile nonché di altre parti dello stesso libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni” . CONTRIBUTI DI DOTTRINA 329 mono caratteri di “interesse generale”. Non può essere priva di significato la distinzione tra utilità ed interesse: l’una elemento fondante, l’altra circostanza sopravveniente, requisito di specificità. Al contrario, depotenziati i fini di “utilità generale”, non ricorrendo i caratteri di “interesse generale”, il bene da riservato potrà divenire oggetto di programmi, controlli, indirizzi, coordinamento (divenendo bene sociale), ovvero ritornare al mercato. Tuttavia finchè i caratteri permangono o sopravvengono sono costituzionalmente illegittime privatizzazioni o dismissioni, anche al fine della sola gestione del bene. Aver individuato l’elemento caratterizzante del bene nella effettività di generare utilità ed interessi può indurci ad ulteriori riflessioni che, pur non ponendo in discussione il “carattere” del bene, incidano sulla tipologia delle azioni processuali a difesa per quanto riguarda l’esperibilità e l’identificazione del convenuto. Più precisamente, il bene pubblico o comune, promossa la destinazione di fruizione generale alla collettività può anche influenzare in modo diretto e immediato esigenze di esercizio processuale da parte di una specifica formazione sociale o di una comunità; ovvero essere giuridicamente incompatibile, limitatamente allo specifico esercizio, con gestione o acquisizione privata. Si aprono, quindi, su tali vicende ventagli di esercizio di azioni processuali, amministrative ed ordinarie, che senza porre in causa la natura del bene, ne identifichino in concreto l’effettività e compatibilità, ovvero ne difendano l’oggetto e la permanenza. In questa prospettiva verificheremo l’esercizio della class action, azione seriale, contro la P.A, sempre nella prospettiva dell’art. 97 Cost. 2. La “formazione sociale” (art. 2 Cost.) e l’effettività nella tutela degli interessi; differenza tra beni sociali e beni comuni La nostra analisi, dunque, prescinde da una aprioristica classificazione e ricorre sempre al criterio guida della effettività in relazione agli interessi concretamente perseguiti, resi oggettivi dal riferimento alle formazioni sociali i cui contenuti impongono sempre una relatività e variabilità nel raggiungimento degli obiettivi prefissati, (formazioni sociali che tanto più nella definizione dei beni possono rivelare un coagulo di interessi, quali ad es. tutela dell’ambiente). Obiettivi del tutto occasionali in relazione ad una problematica specifica che venga a costituirsi e alla sua ricaduta su formazioni non più rappresentabili o configurabili in categorie sociali; il che rende inadeguata una classificazione tassativa che non consenta permeabilità tra le diverse funzioni. Sotto questo profilo l’attenzione si concentra sull’ontologia dei beni c.d. comuni, fondanti il ruolo dello Stato nella tutela della personalità, distinguendoli 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 dai beni sociali, intesi quali istituti o servizi con funzioni integrative; questi ultimi a carattere non assoluto, volti a sanare situazioni di fatto impedienti la piena realizzazione della personalità nelle formazioni sociali, garantendo “fasci di utilità”, di carattere economico e di natura etico-sociale. La diversa configurazione delle utilità consente di delimitarne la riferibilità oggettiva, alternativa o simultanea, in maniera speculare ai rapporti costituzionali economico-sociali, ovvero etico-sociali. 3. L’art. 41 Cost. ed i beni sociali quale funzione integrativa del consenso. I rapporti economico-sociali ed etico-sociali Con riguardo all’art. 41 Cost. ed ai beni sociali - utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana; programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali - questi si concretizzano in istituti e servizi, tesi a garantire l’uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost., comma 2). I beni sociali, infatti, consentono di acquisire quote di cittadinanza a chi ne è carente, dai settori della sanità, alla formazione, all’istruzione, alla giustizia, ecc. Si tratta del più vasto e pervasivo modello di Welfare (solidarietà orizzontale) che il Costituente ha voluto tracciare nell’obiettivo perequativo di bilanciare l’iniziativa economica con il benessere ed il consenso sociale. Viene così lanciato, nel contempo, un ponte di collegamento tra i rapporti economico- sociali e quelli etico-sociali, completandosi la strategia dei beni comuni e della sussidiarietà verticale e orizzontale della P.A.: dalle misure economiche, provvidenze ed istituti sussidiari alla famiglia (art. 31 Cost.); alla tutela della salute ed alle cure gratuite per gli indigenti (art. 32 Cost.); alle provvidenze economiche per rendere effettivo il diritto allo studio dei capaci e meritevoli (art. 34 Cost.). Lavoro, abitazione, sanità, formazione, (cultura e beni culturali) sono categorie di beni sociali, in quanto attraverso di essi la Costituzione intende garantire il consenso attraverso specifici servizi ed istituti che ne attuino in concreto l’accesso. A livello comunitario (Carta di Nizza) vi si aggregano i nuovi diritti sociali, diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 27), sicurezza nel lavoro e assistenza sociale (art. 34), accesso ai servizi di interesse economico generale (art. 36), tutela dell’ambiente (art. 37), protezione del consumatore (art. 38). Con particolare efficacia il Trattato Costituzionale (Carta Europea dei Diritti fondamentali e Diritti sociali), nonché il successivo Trattato di Lisbona accomunano tutti i beni sociali tra gli obiettivi della coesione socio-culturale: l’Unione si adopera per un Europa dallo sviluppo sostenibile basata sulla crescita economica equilibrata, una economia sociale e di mercato che mira alla piena occupazione e al progresso sociale e ad un elevato livello della qualità CONTRIBUTI DI DOTTRINA 331 dell’ambiente. Essa combatte l’esclusione sociale e promuove la giustizia e la protezione sociale, nonché la coesione economica, sociale e territoriale. La strategia si completa con l’impegno dell’Unione europea a contribuire alla eliminazione della povertà. La tutela dei beni sociali nella funzione di sussidiarietà orizzontale, opera in un sistema di valori caratterizzato da servizi ed istituti che fungono da ammortizzatori sociali delineando il Welfare State moderno. La loro tutela si presenta indispensabile di fronte alla crisi economica che dai soggetti più deboli si estende alla middle class, il cui diminuito potere di acquisto la sospinge alle soglie della povertà nella quasi assoluta impermeabilità agli strati sociali superiori. 4. Gli artt. 41 e 43 Cost.: dai beni sociali ai beni comuni Nelle disposizioni costituzionali in tema di rapporti economici (artt. 35 ss.) si attua un costante bilanciamento perequativo tra diritto dei privati (3) (ci sembra più corretto utilizzare tale espressione che può essere omnicomprensiva di diritto soggettivo, interesse legittimo, interessi diffusi) ed intervento pubblico, solidarietà e sussidiarietà; quest’ultima ad azione orizzontale e verticale. In progress, se riflettiamo sulla tutela dei beni, utilizzando le categorie della Commissione Rodotà, ne rinveniamo tre species, privati, comuni e pubblici (cui ineriscono i beni riservati e sociali), mentre, per quanto riguarda il contenuto economico, tre sono ancora le proiezioni satisfattive di interessi, retribuzione, profitto e rendita, regolate rispettivamente dagli artt. 36, 41, 42, (44, 47) Cost. Nel concreto soddisfacimento degli interessi privati, agisce quale contrappeso sociale un costante pendolo solidale dello Stato, che garantisce rispettivamente i “livelli di vita liberi e dignitosi” (art. 36 Cost.), la “libertà e dignità umana” (utilità e fini sociali, art. 41, 2° e 3° comma), la “funzione sociale” (ed equi rapporti sociali) e l’“accessibilità a tutti” (artt. 42- 44 Cost.), “l’accesso alle proprietà” (art. 47 Cost.). Trasponendo il discorso dalla titolarità, rispettivamente dei diritti e delle garanzie sociali alla tipologia dei beni, come detto, ne rinveniamo tre specificazioni, beni privati, beni comuni, beni sociali. Se la prima e la seconda categoria (quest’ultima concernente i beni riservati allo Stato ex art. 43 Cost.) sarebbe potuta apparire di immediata identificazione, più complessa può apparire l’individuazione dei beni sociali, che, più che caratterizzarsi nell’attribuzione diretta a soggetti, riflettono l’incrociarsi di interessi individuali con (3) Abbiamo ritenuto opportuno qualificare un nuovo genus di interessi meritevoli di tutela, nel superamento del dualismo diritto soggettivo – interesse legittimo, gli interessi a legittimazione sociale su cui si veda infra. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 funzioni e fini sociali che daranno luogo agli interessi a legittimazione sociale (infra). Muovono dall’ideale di Welfare State, di una fruizione socialmente differenziata di istituti e servizi integrativi (perciò orizzontalmente sussidiari) alla formazione della personalità individuale ed alla captazione del consenso sociale. 5. L’art. 43 Cost., la sussidiarietà verticale e i beni riservati o comuni Nell’articolato costituzionale, dunque, concernente i rapporti economici (artt. 41-42-44-45-47 Cost.), l’ordinamento disciplina la copresenza privato e pubblico: iniziativa economica pubblica e privata, proprietà pubblica e privata, nonché un programma di controlli, limiti, obiettivi, incentivi, tutti intesi a bilanciare il diritto del privato con regole perequative di solidarietà (utilità sociale, libertà, dignità umana, funzione sociale, equi rapporti sociali, accessibilità alle proprietà, espropriazione per interesse generale) e sussidiarietà orizzontale (proprietà ed iniziativa pubblica, programmi e controlli, partecipazioni statali, incentivi; accesso alle proprietà: abitazione, piccola e media proprietà contadina, azionariato popolare). L’art. 43 Cost. riveste, invece, un ruolo del tutto autonomo e dà imprimatur impositivo a tutte le imprese e categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio. In questo contesto emerge il carattere socioeconomico del sistema democratico inteso a riservare allo Stato ciò che ritiene possa assumere carattere di preminente interesse generale. Si disegna, così, il ruolo della sussidiarietà verticale, nell’emersione prioritaria dei beni comuni di cui lo Stato ne assume proprietà, gestione e controllo, con la riserva di proprietà o prevedendone trasferimento successivo a suo favore, una volta determinatone il carattere di preminente interesse generale. Dunque, si tratta di una strategia “espansiva”, intesa non a racchiudersi in un modello precostituito, ma a garantire anche potenzialmente l’acquisizione di altri beni comuni che non siano inizialmente categorizzati. La differenza fondamentale della sussidiarietà verticale rispetto a quella orizzontale va letta proprio nel “dovere” dello Stato non solo di riservare a sé, ad Enti pubblici o comunità di lavoratori o utenti, imprese o categorie, ma anche di provvederne al trasferimento mediante esproprio dei beni comuni non riservati ma di cui emerga il preminente interesse sociale. È soprattutto la differente disciplina dell’esproprio ad offrirci l’imprimatur dei beni comuni oggetto di ablazione. Mentre l’art. 42, co. 3, Cost. disciplina l’esproprio della proprietà privata assoggettandolo a previsione della legge e “motivi di interesse generale”, l’art. 43 Cost. riferisce esplicitamente al carattere di “preminente interesse generale” l’espropriazione di imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, per cui “ai motivi” si sostituisce “il carattere” e “all’interesse generale” il “preminente CONTRIBUTI DI DOTTRINA 333 interesse generale”. Ne deriva l’incedibilità e l’intrasferibilità dei beni comuni ex art. 43 Cost., in quanto il modello delineato di riserva ha funzione espansiva, dalla riserva iniziale al trasferimento acquisitivo. La cessione di tali beni violerebbe quindi il carattere insito nei beni stessi nella loro funzione preminente di interesse generale: dove “carattere” sta per requisito fondante e “preminente” per assolutezza. Con ciò non si intende cristallizzare del tutto le categorie, in coerenza con l’inversione metodologica operata dalla riforma “Rodotà”: dovrebbe trattarsi soltanto di beni soggetti nel tempo ad obsolescenza dovuta all’evoluzione tecnica e industriale che ne faccia venir meno l’utilità o ne commuti l’interesse “preminente” in un servizio diverso rispetto a quello iniziale (questo sì da essere oggetto di riserva attraverso esproprio). La dimensione sostanziale ascrivibile al predicato di preminenza dell’interesse generale connotante la categoria dei beni comuni produce conseguenze processuali in termini di tutela degli stessi laddove si ipotizzi l’esercizio di un’azione collettiva risarcitoria nel settore pubblico (su cui infra). In questi casi, infatti, la differenziazione della categoria dei beni comuni da quella dei beni sociali si rivela illuminante nella misura in cui l’assiologia generale dell’interesse sottesa ai beni comuni postula la sua riferibilità soggettiva esclusivamente allo Stato (diversa la soluzione prospettata per i beni sociali su cui infra) a cui la formazione sociale si rivolge per ottenere tutela nella difesa della riserva di legge. 6. L’art. 41 Cost. e i beni sociali. La perequazione obiettivo del riequilibrio Le categorie dei beni sociali rientrano, a noi sembra, a pieno titolo nella disciplina dell’art. 41 Cost., commi 2 e 3, enfatizzato a tutela dell’iniziativa privata, ma estremamente strategico nel disegnare l’intervento dello Stato nell’economia, individuandosi il ruolo della sussidiarietà orizzontale nell’iniziativa pubblica, che compare quale “colpo di teatro” nel comma 3 di un articolato che sembrava destinato ad esaurirsi nella disciplina dell’iniziativa privata. Sussidiarietà soprattutto pervasiva nei programmi e nei controlli, da determinarsi per legge sull’iniziativa privata. Per i beni sociali, quindi l’integrazione (sussidiarietà orizzontale) attraverso iniziative pubbliche o private, intende rimuovere situazioni di fatto che impediscano il pieno sviluppo della personalità umana (art. 3 Cost., 2° comma); il che ne rende soggettivamente relativo e variabile l’esercizio, secondo l’interesse sotteso ovvero la graduazione sociale ed il risultato perseguito. Ed è proprio la virtualità e l’occasionalità dell’esercizio “a sussidio” a segnare l’obiettivo perequativo che differenzia i beni sociali dai beni comuni (o riservati), in quanto per questi ultimi gioca l’assolutezza della riserva tesa 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 a garantirne prioritariamente la fruizione generale alla collettività e, quindi, la necessaria titolarità pubblica della destinazione e dell’esercizio. Per i beni sociali, invece predomina la variabile perequativa della finalità sociale e, dunque, il risultato da perseguire, indipendentemente dall’esercizio pubblico o privato dell’iniziativa economica. L’elemento condizionante la fase empirica di utilizzo degli stessi è necessariamente legato alla teleologia della piena realizzazione dei diritti sociali garantiti a tutti dalla Carta fondamentale, quale proiezione del Welfare State, espressione di una sussidiarietà orizzontale (integrativa). Circoscrivendo l’attenzione ai beni sociali dunque si tratta di istituti e servizi sociali, connotati prevalentemente di forte specificità (edilizia residenziale pubblica, edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; reti locali di pubblico servizio, etc.), prescindenti dal legame di inscindibilità con la tutela della persona (elemento connotante i beni comuni), rispetto a cui la titolarità della gestione, privata o pubblica (art. 41 Cost.), diviene indifferente rispetto alla destinazione sociale della fruibilità. Ciò che rileva è il necessario perseguimento della “utilità sociale” (comma 2 art. 41), unitamente alla necessità che l’attività economica venga “indirizzata e coordinata a fini sociali” (comma 3 art. 41 Cost.). L’ambito di operatività della categoria riguarda settori che lo Stato non si riserva (come avviene nell’art. 43 Cost), in cui la notevole elasticità della garanzia si traduce nella risposta ad esigenze sociali differenziate anche nel tempo. I servizi ed istituti soddisfacendo esigenze sociali (sanità, istruzione, formazione, gratuito patrocinio, …) “liberano” anche frazioni di utilità di salario, favorendo un miglior tenore di vita del lavoratore e garantendogli “livelli di vita liberi e dignitosi” (art. 36 Cost.), minimo comune denominatore di perequazione. Quanto ai casi empirici di applicazione l’esemplificazione proposta dalla Commissione Rodotà per i beni sociali, può essere arricchita da tutte quelle controversie di natura seriale che sempre più caratterizzano il settore pubblico. Si pensi ai danni da emotrasfusioni, (in cui è configurabile un concorso causale efficiente di responsabilità e per la struttura operativa fornitrice del servizio e per l’inosservanza di un obbligo di vigilanza e garanzia dello Stato in ordine alla prestazione sanitaria, specificantesi in un dovere di indirizzo e coordinamento gravante sul Ministero della Salute (cfr. art. 41, 2° e 3° comma), che sarebbe così un ulteriore legittimato passivo ad causam), ed anche danni ambientali, danni alla salute conseguenti all’uso di amianto, uranio impoverito, emissioni elettromagnetiche, danni per mancata erogazione di reddito da cittadinanza, per il non corretto funzionamento del servizio mensa nelle strutture scolastiche ed universitarie, per il non rispetto o non corretta applicazione delle graduatorie di accesso all’edilizia economica e popolare, per violazioni del diritto allo studio (borse di studio presalario, ecc.), danni derivanti da omissione CONTRIBUTI DI DOTTRINA 335 nella manutenzione di strutture ed infrastrutture pubbliche, ecc. 7. La class action e la tutela dei beni sociali e comuni Riprendendo la classificazione della proprietà pubblica (art. 41-43 Cost. e funzione della P.A. art. 97 Cost.), la socialità della destinazione dei beni postula il riconoscimento di forme di tutela processualmente compatibili con la capillarità della fruizione dei beni de quo. L’introduzione dell’azione collettiva risarcitoria a partire dalla legge Finanziaria 2008, nonché attraverso successivi emendamenti approvati dalla Commissione Industria con riguardo anche all’estensione nel settore pubblico, sembra offrire risposte positive, nella misura in cui si riconosce che proprio l’ambito oggettivo di applicazione in settori sociali (come quello di cui si discorre) appare maggiormente coinvolto nella tutela processuale di categorie protette più deboli di quelle riconducibili allo status di consumatore. Secondo l’impostazione costituzionale da noi offerta (4) l’azione collettiva risarcitoria (c.d. class action) è esercitata da una formazione sociale temporanea e occasionale di soggetti, indipendente dalle “categorie” sociali che la caratterizzano, coesa solidalmente alla realizzazione di un obiettivo seriale, economicamente differenziato e distinto, esercitabile anche individualmente (nel caso di azioni collettive a carattere patrimoniale). Definita la fenomenologia, occorre valutare l’originalità della tutela di interessi seriali nel quadro dei rapporti privato-pubblico e nelle connessioni con la solidarietà e sussidiarietà costituzionale attraverso l’incidenza sia sui principi generali (artt. 2, 3, 4 Cost.), che sui rapporti economici costituzionali (artt. 36 e ss.). La filiera della solidarietà, cioè la ripetitività dell’oggetto perseguito dai destinatari del servizio, esprime la categoria seriale di soggetti che si coagulano nella difesa di propri interessi, socialmente rilevanti, coinvolgenti i piú svariati settori, da quello dell’iniziativa economica, alla sanità, all’ambiente, ai servizi essenziali (artt. 22, 32, 41, 43 Cost.). Invero, quale protagonista dell’azione collettiva risarcitoria viene al momento indicato il consumatore, oggetto dell’azione collettiva il mercato, quindi beni e servizi, ma l’individuazione soggettiva è generica, tenuto conto dei caratteri specifici della formazione sociale (art. 2 Cost.) cui fa riferimento la Costituzione che ne ha voluto connotare l’aggregazione anche dal punto di vista variabile e occasionale. Conseguentemente l’azione in base all’oggetto può divaricarsi e riguardare un conflitto di natura prettamente privatistica tra pluralità di soggetti ed impresa; ma potrà anche assumere natura socio-economica (4) Cfr. F. LUCARELLI – L. PAURA, Diritto privato e diritto pubblico, cit., pp. 183 e ss. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 e risvolti costituzionali nel caso in cui l’azione sia diretta a garantire l’azione sussidiaria dello Stato in materia di prestazioni sociali, servizi essenziali e riserva di legge (art. 43 Cost.). Potrà infine coinvolgere il potere pubblico per la tutela diretta o sussidiaria di diritti primari, salute, ambiente, paesaggio, cultura, servizi e istituti (artt. 41-44-47 Cost). La semplice tutela del consumatore non avrebbe effettività in questi settori dove la difesa del singolo sarebbe ancora più debole rispetto all’interlocutore Stato, che si trova a svolgere la funzione di proprietario ovvero di programmatore e controllore di attività economiche pubbliche e private (art. 41 Cost.). La mancata tutela nei confronti della burocrazia statale si tradurrebbe in forme di deriva liberistica, ancora più accentuata dalla libera connotazione pubblica/privata. Per i beni sociali, dove non è configurabile la pretesa diretta, è sul momento del corretto funzionamento (art. 97 Cost.) che potrebbe incidere l’azione processuale ovvero nella fase di dismissione dell’istituto o del servizio, laddove invece per i beni riservati l’azione mira alla assoluta conservazione della titolarità. Nei beni sociali, quindi, prevale la garanzia del risultato che va difesa da eventuali inefficienze della gestione, nonché da scelte che privilegino l’economicità della gestione rispetto alle finalità sociali. 8. La “rivincita” dei servizi pubblici: i nuovi orientamenti della giurisprudenza comunitaria ed il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. La class action quale tutela dei beni pubblici avverso la privatizzazione: il momento dell’esercizio Preme precisare la sempre maggiore rilevanza che nei momenti di crisi socio-economica assumono i servizi pubblici di interesse economico-generale garantiti dall’art. 43 Cost. e ripresi dal Trattato di Lisbona. Per essi si impone una riflessione sulla solitudine del soggetto ad avvalersene nei confronti delle Amministrazioni pubbliche, soprattutto nel momento della loro costituzione in s.p.a. e successiva trasformazione in imprese. Difatti ribadiamo (5) che la dismissione attraverso trasferimento azionario della presenza della mano pubblica nelle società destinate a funzioni di interesse generale, nella fase di una loro eventuale privatizzazione pone il problema, stabilito il principio generale dell’esperibilità dell’azione (ovvero dell’an), del momento in limine che ne rende necessario l’esercizio (il quando): il che si concretizza, a nostro avviso, nella fase di contestazione della privatizzazione. Infatti, ripetiamo che una volta avvenuta la privatizzazione il conflitto (5) Cfr. F. LUCARELLI – L. PAURA, Diritto privato e diritto pubblico, cit., pp. 200 e ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 337 potrebbe avere ad oggetto solo l’economicità della gestione, essendosi oramai affievolita la tutela dell’interesse generale. La socialità in queste ipotesi cederebbe il passo all’economicità, se quest’ultima prevale sull’utilità sociale cui i beni sono destinati; da qui la necessità di esercizio dell’azione collettiva contestando proprio il procedimento di privatizzazione. Abbiamo già accennato che molto spesso il ruolo della Comunità europea sulla concorrenza viene supinamente recepito se non addirittura accolto in maniera distorta. A partire dal Trattato di Amsterdam del 1997, l’Unione europea si è aperta progressivamente ad una rivalutazione del ruolo dello Stato in campo economico-sociale e occupazionale. Anche la giurisprudenza comunitaria sembra sempre più orientata ad evitare fenomeni di frettolose dismissioni di capitale pubblico in favore di privati, attraverso un’ attività di recupero non solo ex post, ma preventiva, specie a livello ermeneutico di legislazione, del ruolo dell’intervento pubblico nei settori economici in crisi. All’uopo si rivela interessante evidenziare la particolare sensibilità al tema dei rapporti tra aiuti di Stato, specie in relazione alle imprese che gestiscono servizi pubblici locali, ed in house providing con specifico riguardo al partenariato pubblico/privato, manifestata dall’Avvocatura dello Stato, con particolare attenzione al distonico scenario delle ricadute giurisprudenziali comunitarie sulle linee evolutive di legislazione nazionale proiettate a direzioni opposte (si cfr. il decreto sulle privatizzazioni su cui infra). In particolare voci verticistiche (6) della difesa erariale, cui vanno ascritte soluzioni innovative sposate dai recenti revirements della Corte di Giustizia (7), hanno segnato un progressivo superamento della residualità del ruolo degli appalti in house e delle società miste, aprendo a notevoli spazi di intervento pubblico nei settori in crisi. Il quadro che ne risulta è stato definito (8) “una rivincita dei servizi pubblici nel nuovo contesto europeo” adombrata, come vedremo a breve, dalle recenti modifiche alla legislazione nazionale sulle privatizzazioni. Più nello specifico la problematica affrontata dalla Corte di Giustizia, nella decisione del 10 settembre ultimo scorso, riguardava una questione pregiudiziale proposta dal Tar della Lombardia su un affidamento senza gara del servizio di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani in comuni in certa misura “consorziati” (9). Il problema ermeneutico vedeva coinvolta la compatibilità del suddetto affidamento ad una società per azioni a capitale interamente pubblico (art. 113 decreto legislativo 267/2000) con l’impianto (6) Per un approfondimento sul punto si cfr. G. FIENGO, Un utile riassunto sul tema degli “appalti in house”, in Rassegna Avvocatura dello Stato LXI – N. 3, luglio-settembre 2009, pp. 151 ss. (7) Si cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, Terza Sezione, sentenza 10 settembre 2009, causa C-573/07. (8) Cfr. G. FIENGO, cit. (9) Cfr. G. FIENGO, cit. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sistemico comunitario dei principi di libertà di stabilimento ovvero di prestazione di servizi, del divieto di discriminazione e dell’obbligo di parità di trattamento, di trasparenza e di libera concorrenza di cui agli artt. 12 CE, 43 CE, 45 CE, 46 CE, 49 CE E 86 CE. Come anticipato, la novità della decisione consiste nell’aver aderito all’inversione di rotta nell’attribuzione all’intervento pubblico di una dignità non residuale, ampliando gli spazi operativi degli appalti in house e delle società miste nel settore dei pubblici servizi. All’uopo si rivelano illuminanti alcuni passaggi interpretativi della decisione suddetta: “… Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, una gara non è obbligatoria in caso di contratto a titolo oneroso concluso con un ente giuridicamente distinto dall’autorità locale che costituisce l’amministrazione aggiudicatrice, qualora tale autorità eserciti su detto ente un controllo, analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e, nel contempo, tale ente realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che lo controllano (v., in tal senso, sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal, Racc. pag. I-8121, punto 50) (10). … Orbene, detta giurisprudenza rileva sia per l’interpretazione della direttiva 2004/18 sia per quella degli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE nonché dei principi generali di cui essi costituiscono la specifica espressione (v., in tal senso, sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, Racc. pag. I-1, punto 49, nonché 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen, Racc. pag. I-8585, punto 62) (11)”. La Corte delimita l’ambito di operatività dei principi comunitari, con l’esclusione delle ipotesi integranti i requisiti specificati nella nota sentenza Teckal (su cui ampiamente infra) sull’affidamento diretto: “… Per quanto concerne l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare, in particolare, gli artt. 43 CE e 49 CE nonché i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in base alla cittadinanza così come l’obbligo di trasparenza che ne discende (v., in tal senso, sentenze Parking Brixen, cit., punti 47-49, e 6 aprile 2006, causa C-410/04, ANAV, Racc. pag. I-3303, punti 19-21). … L’applicazione delle regole enunciate agli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE, nonché dei principi generali di cui esse costituiscono la specifica espressione, è tuttavia esclusa qualora, al contempo, l’ente locale che costituisce l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sull’ente aggiudicatario un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e detto ente realizzi la parte più importante della sua attività con l’autorità o le autorità che lo controllano (v., in tal senso, sentenze Teckal, cit., punto 50; Parking Brixen, cit., punto 62, nonché 9 giugno 2009, causa (10) Punto 36, Corte di Giustizia delle Comunità europee, Terza Sezione, sentenza 10 settembre 2009, causa C-573/07. (11) Punto 37, Corte di Giustizia, cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 339 C-480/06, Commissione/Germania, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 34) (12)”. Nella fissazione dei suddetti principi, nonché nella delimitazione dell’ambito di operatività dell’eccezione è ribadita l’indifferenza alla tipologia sociale assunta dall’ente aggiudicatario, quantunque società di capitali: “… La circostanza che l’ente aggiudicatario si costituisca sotto forma di società di capitali non esclude in alcun modo l’applicazione dell’eccezione ammessa dalla giurisprudenza richiamata al punto precedente. Nella citata sentenza ANAV, la Corte ha riconosciuto l’applicabilità di tale giurisprudenza nel caso di una società per azioni (13)”. Fondamentale risulta il passaggio argomentativo in ordine alla configurabilità di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi da parte di un’amministrazione aggiudicatrice su una società di cui è azionista, con la quale intende concludere un contratto, nel caso in cui esista la possibilità, sebbene non concretizzata, che investitori privati entrino nel capitale della società di cui trattasi: “… Per risolvere tale questione va ricordato che la circostanza che l’amministrazione aggiudicatrice detenga, da sola o insieme ad altri enti pubblici, l’intero capitale di una società concessionaria potrebbe indicare, pur non essendo decisiva, che tale amministrazione aggiudicatrice esercita su detta società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (v., in tal senso, sentenze 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo e Consorzio Alisei, Racc. pag. I-4137, punto 37, nonché 13 novembre 2008, causa C-324/07, Coditel Brabant, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31). … Per contro, la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi (v., in tal senso, citate sentenze Stadt Halle e RPL Lochau, punto 49, nonché Coditel Brabant, punto 30). … Di regola, l’esistenza effettiva di una partecipazione privata al capitale della società aggiudicataria deve essere verificata nel momento dell’affidamento dell’appalto pubblico di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punti 15 e 52). Può anche assumere rilevanza tenere conto della circostanza che, nel momento in cui un’amministrazione aggiudicatrice affida un appalto ad una società di cui detiene l’intero capitale, la legislazione nazionale applicabile prevede l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali (v., in tal senso, citata sentenza Parking Brixen, punti 67 e 72). (12) Cfr. punti 39 e 40, Corte di Giustizia cit. (13) Punto 41, Corte di Giustizia cit. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 … In via eccezionale, circostanze particolari possono richiedere che siano presi in considerazione avvenimenti intervenuti successivamente alla data di aggiudicazione dell’appalto in esame. È quanto avviene, in particolare, nel caso in cui le quote della società aggiudicataria, precedentemente detenute interamente dall’amministrazione aggiudicatrice, vengano cedute ad un’impresa privata appena dopo l’aggiudicazione a tale società dell’appalto di cui trattasi nell’ambito di una costruzione artificiale diretta ad eludere le norme comunitarie in materia (v., in tal senso, sentenza 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punti 38-41). … Certamente, non può escludersi che le quote di una società vengano vendute a terzi in qualunque momento. Tuttavia, il fatto di ammettere che questa mera possibilità possa sospendere indefinitamente la valutazione sul carattere pubblico o meno del capitale di una società aggiudicataria di un appalto pubblico non sarebbe conforme al principio di certezza del diritto. … Se il capitale di una società è interamente detenuto dall’amministrazione aggiudicatrice, da sola o con altre autorità pubbliche, al momento in cui l’appalto in oggetto è assegnato a tale società, l’apertura del capitale di quest’ultima ad investitori privati può essere presa in considerazione solo se in quel momento esiste una prospettiva concreta e a breve termine di una siffatta apertura (14)”. La Corte opta per una verifica empirico-contingente, case by case, a nulla rilevando un giudizio prognostico a carattere probabilistico ed aprioristico sull’apertura al capitale privato. L’assenza di alcun indizio concreto e la presenza di una mera astratta possibilità non risultano sufficienti ad integrare il requisito del mancato controllo. Sempre ai fini della determinazione del controllo si rivela altresì preziosa la delimitazione dell’esercizio congiunto dello stesso nelle ipotesi in cui varie autorità pubbliche scelgono di svolgere alcune delle loro missioni di servizio pubblico facendo ricorso ad una società che esse detengono in comune: “… Richiedere che il controllo esercitato da un’autorità pubblica in un caso del genere sia individuale avrebbe la conseguenza d’imporre una gara di appalto nella maggior parte dei casi in cui un’autorità siffatta intendesse associarsi ad una società detenuta da altre autorità pubbliche al fine di attribuirle la gestione di un servizio pubblico (v., in tal senso, citata sentenza Coditel Brabant, punto 47). … Un risultato simile non sarebbe conforme al sistema delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici e di concessioni. Si riconosce, infatti, che un’autorità pubblica ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi (citate sentenze Stadt Halle e RPL Lochau, punto 48; Coditel Brabant, punto 48, e Commissione/Germania, punto 45) (15)”. (14) Punti 45-50, Corte di Giustizia cit. (15) Punti 56 e 57, Corte di Giustizia cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 341 Inoltre ai fini della determinazione dell’esercizio effettivo del controllo analogo vengono indicati i parametri normativi e le circostanze pertinenti: il controllo cioè dovrà superare un “test di decisività” circa l’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti della società. L’accesso ai privati nell’ambito di attività qualificabili “accessorie” non dequota l’obiettivo principale della gestione del servizio pubblico; nel caso di specie si menziona a titolo esemplificativo la raccolta differenziata dei rifiuti, la quale potrebbe rendere necessaria la rivendita ad enti specializzati di talune categorie di materiale recuperato a scopo di riciclaggio; “l’esistenza di un potere siffatto non è sufficiente per ritenere che detta società abbia una vocazione commerciale che rende precario il controllo di enti che la detengono (16)”. Alla luce di suddette considerazioni, le conclusioni giurisprudenziali sono così sintetizzate: “Gli artt. 43 CE e 49 CE, i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in base alla cittadinanza così come l’obbligo di trasparenza che ne discende non ostano all’affidamento diretto di un appalto pubblico di servizi ad una società per azioni a capitale interamente pubblico qualora l’ente pubblico che costituisce l’amministrazione aggiudicatrice eserciti su tale società un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e tale società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. Fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio dell’operatività delle disposizioni statutarie di cui trattasi, il controllo esercitato dagli enti azionisti sulla detta società può essere considerato analogo a quello esercitato sui propri servizi in circostanze come quelle di cui alla causa principale, in cui: – l’attività di tale società è limitata al territorio di detti enti ed è esercitata fondamentalmente a beneficio di questi ultimi, e – tramite organi statutari composti da rappresentanti di detti enti, questi ultimi esercitano un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti di detta società”. Come anticipato, l’Avvocatura di Stato (17) ha manifestato aperte perplessità in ordine al distonico scenario legislativo nazionale rispetto ai suddetti orientamenti comunitari; perplessità condivisibili non solo sul piano della verifica di compatibilità al diritto comunitario, ma anche in relazione alla coerenza sistemica del diritto interno, principalmente nei rapporti con la fonte costituzionale. (16) Punto 79, ult. cit. (17) Sul punto si cfr. G. FIENGO, op. cit. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 9. I dubbi profili costituzionali e comunitari del recente decreto sulle privatizzazioni Il recente decreto legge sull’adeguamento della nostra legislazione agli obblighi e direttive comunitarie approvato dal Consiglio dei ministri in data 9 settembre 2009 (d.l. 135/2009), soprattutto la lettura dell’art. 15 (“Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici di rilevanza economica”) accentua le nostre preoccupazioni sulle estese manipolazioni dei principi comunitari in materia di concorrenza. Soprattutto quando entrano in gioco la coesione economico territoriale (art. 3 Trattato costituzionale) ed i principi fondanti della comunità e della nostra Costituzione. In questo caso, in specie, la solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.) ed il riequilibrio perequativo tra sussidiarietà orizzontale e verticale (art. 3 Cost., comma 2: uguaglianza sostanziale). Applicata aprioristicamente la libertà di mercato ed il divieto di concorrenza pubblica ne conseguono nel decreto diffuse violazioni costituzionali in materia di rapporti economici che incidono sul livello di occupazione (art. 36 Cost.); depotenziano, se non annullano del tutto, la tutela dei beni e servizi sociali (art. 41 Cost.) e la funzione dei beni riservati (art. 43 Cost.); alterano l’equilibrio tra iniziativa privata e pubblica (art. 41 Cost., comma 2 Cost.) e impresa (proprietà) pubblica e impresa (proprietà) privata nella gestione dei servizi sociali e di quelli essenziali; fino ad incidere sul ruolo proprietario degli azionisti delle s.p.a. pubbliche (art. 42 Cost.). Anche il tema del riparto delle competenze Stato-Regione (art. 117, comma 2) ne esce stravolto, mentre appare violato (potremmo dire espropriato) il principio autonomistico di autodeterminazione dei Comuni di cui gli artt. 5 e 118 Cost. Infine nella cancellazione (salvo casi eccezionali) degli affidamenti in house il legislatore si sottrae, oblitera del tutto, la valutazione della buona gestione o meno dell’Ente, violando l’art. 97 Cost. Ma procediamo analiticamente. La ricostruzione della proprietà pubblica, attraverso la distinzione tra beni comuni e beni sociali sulla base del principio di effettività, va trasposta sul piano operativo-funzionale della gestione dei servizi pubblici, alla luce delle recenti riforme del decreto 112 sulle privatizzazioni convertito nella legge 113/08, modificato dal d.l. 135/2009 (art. 15). La tendenza dell’attuale Governo alla liberalizzazione riprende il cammino attraverso il rilancio delle privatizzazioni e il ridimensionamento del fenomeno dilagante delle gestioni pubbliche in house, limitandolo a casi eccezionali. Il decreto recentemente approvato prevede due vie ordinarie per la gestione dei servizi pubblici locali, ovvero una gara obbligatoria per la concessione a imprese private del servizio locale di acqua, gas, energia, rifiuti, CONTRIBUTI DI DOTTRINA 343 trasporto e una società per azioni mista con un socio privato scelto con gara, che abbia almeno il 40% del capitale e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio (un socio quindi industriale e operativo). L’elemento rilevante è il chiarimento sulle gestioni in house: quelle attuali decadranno automaticamente entro il 31 dicembre 2011 e per il futuro saranno limitate a situazioni “eccezionali” che dovranno essere autorizzate con parere “preventivo” Antitrust. Il parere dovrà essere emanato entro 60 giorni, varrà il silenzio-assenso e spetterà alla stessa Autorità per la concorrenza di definire la soglia sopra la quale si ritiene rilevante il parere. A questo punto ci sembrano opportune delle considerazioni. Con l’affidamento in house il committente pubblico, derogando al principio di carattere generale dell’evidenza pubblica, in luogo di procedere all’affidamento all’esterno di determinate prestazioni, provvede in proprio (all’interno), all’esecuzione delle stesse, mediante il sistema dell’affidamento diretto (c.d. in house providing), ossia senza gara. Sebbene tale figura non trovi una definizione ed una disciplina puntuale nelle normative sia comunitarie che interne, la giurisprudenza e la dottrina ne hanno delimitato i confini attraverso l’interpretazione in negativo dei due istituti dell’appalto di pubblici servizi e della concessione di pubblici servizi. L’elemento profondamente distintivo consiste nell’assenza di alterità tra ente pubblico ed organo “in house”, ovvero nella mancanza di una relazione intersoggettiva, di un rapporto contrattuale o concessorio in senso stretto. Negli affidamenti in house manca quindi, il coinvolgimento degli operatori economici nell’esercizio dell’attività della Pubblica Amministrazione, per cui le regole sulla concorrenza, applicabili agli appalti pubblici e agli affidamenti dei pubblici servizi a terzi, non vengono in rilievo. Si tratta di un modello organizzativo in cui la p.a. provvede da sé al perseguimento degli scopi pubblici quale manifestazione del potere di auto-organizzazione e del più generale principio comunitario di autonomia istituzionale e buona amministrazione. La scelta tra il sistema dell’affidamento della prestazione mediante gara pubblica e l’opposto modello dell’affidamento in house è preceduto dalla comparazione degli obiettivi pubblici che si intendono perseguire e delle modalità realizzative avuto riguardo ai tempi necessari, alle risorse umane e finanziarie da impiegare ed al livello qualitativo delle prestazioni in base ai principi di economicità e massimizzazione dell’utilità per l’Amministrazione (seguendo il sistema anglosassone del c.d. “Best Value”). Tuttavia l’ibrida connotazione organizzativa ha spinto la Corte di Giustizia (con la nota sent. Teckal 18 nov. 1999, causa C-107/98) a definire i confini entro cui l’affidamento in house può considerarsi legittimo: Le condizioni necessarie affinché si possa derogare alla gara pubblica, secondo il tradizionale insegnamento della “Sentenza Teckal” sono: 1) l’esercizio da parte dell’ente committente, sul soggetto affidatario, di 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 un “controllo analogo” a quello che esercita sui propri servizi (qui a nostro avviso il referente costituzionale è l’art. 41 Cost.); 2) la necessità che il soggetto affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente committente (o gli enti se sono più di uno) che la controlla (qui riteniamo giochino un ruolo determinante gli artt. 5 e 118 Cost.). Quest’ultimo requisito concorre alla distinzione tra organo in house e organismo di diritto pubblico tout court. Laddove ricorrano gli elementi dell’organo in house, l’ente è assimilato all’amministrazione pubblica e come tale è soggetto alla medesima normativa, ivi compresa quella in materia di appalti pubblici. Gli enti in house in quanto organi della P.A. sono soggetti ai medesimi obblighi di quest’ultima e la scelta di un modulo organizzativo di tal tipo rende a nostro avviso fisiologico l’assolvimento dei criteri e principi di efficienza amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Chiariti siffatti profili, occorre prospettare possibili forme e strumenti di tutela rispetto alla eventuale antieconomicità della gestione privata nel conseguimento delle finalità di garanzia ed efficienza dei servizi pubblici di cui all’art. 97 cost. Ebbene riprendendo le riflessioni in tema di esercizio di azioni collettive sulla opportunità di una loro funzione ostativa alla privatizzazione, riteniamo che la fase di accertamento dell’inefficienza o palese mancanza di garanzia di realizzazione degli interessi pubblici costituisca il quando della esperibilità della tutela, al fine di evitarne la limitazione dell’oggetto alla sola economicità e non alla effettività del risultato gestorio, anche a fronte di un eventuale esercizio antieconomico (indispensabile alla effettività del risultato), che richieda la sussidiarietà dell’Ente pubblico (anche qui gioca l’art. 41 Cost.). L’area probandi cioè andrebbe circoscritta alla essenzialità della gestione privata per livelli di efficienza più vantaggiosi, giustificativi dell’operatività delle regole sulla concorrenza. Il venir meno di siffatta dimostrazione infatti implicherebbe la necessità della gestione in house che garantisca il corretto equilibrio tra sostenibilità economica e compatibilità giuridica e ciò non solo per i profili di cui all’ art. 97 Cost. già citati ma anche rispetto alle prescrizioni di cui all’art. 42 Cost. a tutela del diritto di proprietà funzionalizzato agli obiettivi sociali di uno Stato democratico-sociale. In riferimento alla l. 133/2008 così come modificata dal d.l. 135/2009 (art.15), dunque, riteniamo possano profilarsi due motivi di incostituzionalità. L’eliminazione dell’affidamento in house, salvo l’eccezionalità, si pone in aperto contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto la sottrazione di poteri gestori potrebbe ipotizzarsi solo a fronte di carenze economiche e finanziarie (che anzi preluderebbero ad una cessazione della concessione o a fortori ad un commissariamento). Inoltre affidare la gestione operativa a un Ente privato esterno richiede CONTRIBUTI DI DOTTRINA 345 un’accurata analisi delle potenzialità economiche, logistiche, operative dell’esercizio di tale gestione con le qualità dell’Ente committente, che dovrebbero rivelare una effettività maggiore rispetto alla sottratta gestione in house (artt. 5 e 118 Cost.). Resta poi sul tappeto il problema della tutela degli azionisti nella mutazione della organizzazione in house nel nuovo modello societario. Ebbene qui a noi sembra profilarsi la violazione dell’art. 42 Cost., in quanto l’acquisto di azioni prevedeva la partecipazione quotistica ad una proprietà pubblica: verrebbe in tal caso, in maniera autoritaria, modificato il titolo di proprietà di riferimento, mentre sul piano degli interessi (sempre ex art. 42 Cost.) verrebbe meno la funzione sociale. In questo quadro si inserisce il discorso sulla esperibilità di azioni collettive, di cui ampiamente sopra. In ogni caso seguendo gli ultimi aggiornamenti sul punto, per la Feder Utility il Parlamento dovrebbe aumentare i tempi di dismissione per gli Enti locali. Difatti la scadenza prevista dal decreto di ridurre entro il 31 dicembre 2012 la partecipazione di una quota non inferiore al 30%, determinerebbe una pioggia di azioni sul mercato (valutate in 2,2 mld) che rischierebbe di trasformarsi in un bagno di sangue per le aziende pubbliche e ovviamente per i Comuni. Tra i primi casi dubbi di privatizzazione, si è appreso del caso “Grandi navi veloci” Spa (Gnv) per l’acquisto di Tirrenia Spa, con l’acquisizione di tutte le navi che operano su rotte nazionali: chiaro l’intento di procedere alla privatizzazione di un servizio pubblico essenziale, che seppur non esente da valutazioni “disfunzionali” quanto a modalità di gestione, risulta in ogni caso ontologicamente connesso al perseguimento di interessi generali fondamentali. Nell’attuale fase di privatizzazione si profilano gli elementi di problematicità costituzionale e di gestione, cui facevamo cenno. È molto strano che tutti gli operatori che gestiscono la quasi totalità dei trasporti nel Golfo di Napoli e per le altre isole minori, non abbiano partecipato alla gara, sottolineando l’insostenibilità economica della gestione dei servizi per i lunghi periodi autunnali e invernali. Ed erano proprio tali operatori, con la loro esperienza sul posto, che avrebbero potuto garantire una migliore gestione dei servizi. Stesso discorso per la svendita della Caremar, con la convenzione (primo gennaio 2010) con la Regione Campania attraverso l’accordo di programma per il trasferimento della società di navigazione del gruppo Tirrenia dallo Stato alla Regione, alla presenza del ministro dei Trasporti Altiero Mattioli, del ministro delle finanze Giulio Tremonti e dell’assessore regionale ai trasporti Ennio Cascetta. Se da una parte l’accordo di programma sembrava offrire un segnale po- 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 sitivo, in quanto il passaggio dallo Stato alla Regione della Caremar implicava, comunque, il riconoscimento della presenza pubblica nei servizi essenziali, avendo la Regione maggiore competenza della situazione territoriale, tuttavia i tempi brevi (due mesi), fissati per il bando a cura della Regione, aventi quale obiettivo il trasferimento alla gestione privata, nonché la gestione (solo il 30% al pubblico) nelle mani del privato, reso ancor più avido dal contributo garantito per dieci anni dallo Stato, riteniamo abbiano rappresentato la continuazione del gioco perverso di privatizzazione dei profitti e di pubblicizzazione degli oneri, senza alcuna reale garanzia di fondo sulla “essenzialità” pubblica del servizio. 10. Il legislatore e le sliding doors. Profili processuali e amministrativi dell’azione collettiva nel settore pubblico Un primo spiraglio all’esercizio della class action anche nei confronti della P.A., da noi auspicato, sembrava si fosse aperto nell’articolo 3 del ddl Brunetta (votato alla Camera in prima lettura l’11 febbraio 2010) che prevedeva l’esercizio dell’azione collettiva nei confronti dei concessionari di servizi pubblici locali. Ma come sovente sta accadendo, il legislatore ha operato come se si trattasse di una sliding door, (una porta scorrevole che si apre e si richiude automaticamente al passaggio) per cui attuato un principio se ne svuota il suo contenuto. Già in questa prima fase l’azione non prevedeva il risarcimento del danno, diventando una class action “light”, dove non si prevedeva il ristoro neanche delle spese processuali, ma solo il ripristino del servizio e dei suoi standard. Inoltre, si disponeva che l’azione nei confronti dei concessionari dei servizi pubblici non potesse essere proposta o proseguita, nel caso in cui un’autorità indipendente (o comunque un organismo con funzioni di vigilanza e controllo nel relativo settore) avesse avviato sul medesimo oggetto il procedimento di loro competenza. Non venivano neanche affrontate le problematiche del risarcimento del danno nelle more del ripristino e dell’individuazione degli standard. A nostro avviso sarebbe rimasta in ogni caso impregiudicata l’ipotesi da noi formulata di class action che miri all’interruzione del processo di privatizzazione; azione preventiva che può anche essere esercitata in litisconsorzio necessario con l’autorità di vigilanza. Questo il panorama fino alle recentissime novità che ne hanno modificato, seppure in maniera non significativa, lo scenario di operatività. La legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione, infatti, (e il conseguente decreto legislativo ormai in fase avanzata di redazione) prevede l’ipotesi di esperibilità dell’azione collettiva anche nei servizi pubblici, con profili differenti dal settore privato in termini di ontologia sostanziale dello strumento e in termini strettamente processuali. Tuttavia l’obiettivo, a noi sem- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 347 bra, è conferire forme di monitoraggio dell’attività amministrativa agli utenti di servizi e istituti (ferrovie, poste, ospedali) per ricondurre entro i confini dei c.d. standard di efficienza soddisfacenti la cura e gestione degli interessi pubblici (art. 97 Cost.). Difatti, non si tratta di un’azione a carattere risarcitorio, quanto piuttosto di uno strumento che intende contribuire al controllo degli standard dei parametri di funzionalità dei servizi pubblici, sia pure in vista dell’attuazione del federalismo fiscale, dove il riferimento agli standard non può essere puramente formale, ma andrà valutato sulla base della effettività. L’azione potrà essere proposta da ogni interessato nei confronti sia delle amministrazioni sia dei concessionari dei servizi pubblici, per contestare inefficienze della pubblica amministrazione (che vengono sintetizzate nella violazione di standard qualitativi, di obblighi contenuti nelle carte dei servizi, nell’omesso esercizio di poteri sanzionatori e di vigilanza, nella violazione di termini o inerzia quanto ad atti dovuti) da cui sia derivato un danno per una pluralità di utenti o consumatori. La possibilità per il singolo di proporre l’azione è affiancata dalla chance di intervento anche da parte di associazioni o comitati a tutela dei diritti dei propri associati. Per il rapporto del singolo con l’associazione si parla di una vera e propria affiliazione non di affidamento di un “semplice” mandato come nel caso della class action privata, richiedendosi una graduazione di maggiore affinità tra gli interessi coinvolti nella vicenda processuale, postulante un rapporto ancor più effettivo di immedesimazione organica. Oltre che a ragioni sostanziali di interesse pubblico fisiologicamente ascrivibili a forme di titolarità sociale, seppure differenziata, l’affiliazione trova indubbiamente giustificazione in ragioni di ordine processuale, che rendono indispensabile l’intensificazione di filtri scongiuranti azioni pretestuose, ben più deboli nel processo amministrativo rispetto a quello ordinario. La proposizione dell’azione da parte del singolo in grado di aggregare intorno al suo intervento gli interessi seriali o dell’associazione, non compromette l’intervento preventivo e prioritario da parte dell’Authority competente per materia. Anzi, a cercare di attenuare almeno in parte l’impatto dell’azione collettiva nei confronti dei concessionari di pubblici servizi (forte è infatti la preoccupazione di questi ultimi per il proliferare di azioni anche strumentali), si sottolinea che il decreto delegato si dovrà preoccupare di individuare le soluzioni idonee a bloccare l’azione (anche quando già proposta) quando «un’autorità indipendente o comunque un organismo con funzioni di vigilanza e controllo» abbia avviato un procedimento sui medesimi fatti. Azione bloccata quindi sino almeno all’estinzione del procedimento presso l’Autorità. La competenza è poi affidata al giudice amministrativo, il che valorizza le considerazioni da noi precedentemente svolte nella fase prodromica alla 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 previsione di tutela collettiva nel settore pubblico. Di particolare considerazione la fase preventiva all’instaurazione del giudizio che prevede, quale condizione di ammissibilità, che il ricorso vada preceduto da una diffida all’amministrazione o al concessionario perché adotti entro un termine rigido, che dovrà essere fissato nel decreto delegato, tutte le iniziative utili per la soddisfazione degli interessati. L’utilizzo di un linguaggio giuridico “creativo” (si parla di termine rigido, laddove si renderebbe necessaria una precisa scelta legislativa temporale in ordine alle conseguenze potenzialmente scaturenti dallo spirare dello stesso, quale potrebbe essere un termine essenziale) accentua problematiche ascrivibili alla incompletezza dell’architettura processuale prevista. In questa fase infatti la legge delega impone un meccanismo indirizzato a responsabilizzare il dirigente competente e, in rapporto alla tipologia dell’ente, i vari organi interni dell’amministrazione (di indirizzo, di vertice o esecutivo), ma non si dà contezza dei poteri che fattivamente vengono azionati dal privato con l’avanzamento del petitum. Ci chiediamo cioè se la diffida si possa considerare un’attivazione dell’autotutela amministrativa (in tal caso la condizione di ammissibilità sembra riecheggiare la tradizionale pregiudiziale amministrativa, con tutte le riflessioni di congestionamento processuale, che per anni ne hanno accompagnato il dibattito) ovvero possa assimilarsi al tentativo obbligatorio di conciliazione (come tipico del settore privato) che in tal caso andrebbe a connotare in via speciale un procedimento amministrativo ma postulerebbe anche una bilateralità nella determinazione del petitum, che l’unilateralità della pregiudiziale esclude. Problematiche queste sicuramente discendenti dalla evanescenza terminologica dell’oggetto dell’azione (c.d. standard di efficienza soddisfacenti) che a nostro avviso andrebbero specificati da una precisa scelta legislativa, avendo tra l’altro un referente costituzionale fondamentale in tema di attività amministrativa (art. 97 Cost.) che impone chiarificazioni sostanziali in tema di identificazione dei parametri funzionali di efficienza nella cura degli interessi pubblici. Oltre a questioni di qualificazione giuridica della fase preventiva della condizione di ammissibilità dell’azione, si pongono interrogativi in ordine alla configurazione dell’eventuale silenzio dell’amministrazione, che a nostro avviso, coerentemente al sistema amministrativo in generale, andrebbe distinto oltre che dall’inadempimento tout court, anche dall’inerzia qualificata, indubbiamente riferibile in maniera alquanto proporzionale ai livelli standard di funzionalità. La previsione legislativa riguarda il caso di condanna della pubblica amministrazione, per cui è previsto una sorta di rafforzamento della pronuncia in caso di inerzia nel ripristino delle condizioni di efficienza. Nel caso infatti di inadempimento protratto nel tempo scatterà il commissariamento (anche se non è specificato per quanto e con quali obiettivi), ma la CONTRIBUTI DI DOTTRINA 349 legge delega si occupa di precisare che, anche in questo caso, deve essere escluso il risarcimento del danno. La stessa sentenza definitiva di condanna, della quale dovrà anche essere assicurata idonea pubblicità, avrà poi come effetto l’attivazione di procedure di accertamento di responsabilità interna disciplinari o a livelli dirigenziali. Anche qui problemi interpretativi, soprattutto per la fase del commissariamento rispetto alla quale ci sembrerebbe opportuno differenziare i casi in cui è necessario passare per il “filtro” del giudizio di ottemperanza (dunque con le conseguenze in ordine ai poteri del Commissario ad acta). In particolare riteniamo che a monte vada individuata la natura dell’azione e della sentenza che ne consegue che, a nostro avviso, andrebbe assimilata alla azione di mero accertamento (non potendo parlarsi di condanna tout court vista l’assenza del carattere risarcitorio). In questo caso dunque specifichiamo che l’azione di mero accertamento (o dichiarativa), del tutto analoga a quella ammessa nel processo civile, avente ad oggetto sia un diritto patrimoniale che non patrimoniale viene tradizionalmente riferita dalla giurisprudenza alle vertenze per diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva e più discussa invece per la tutela di interessi legittimi, in cui sia possibile l’impugnazione di un provvedimento. Auspicando soluzioni legislative più chiare in termini di qualificazione della natura giuridica del decisum individuativo degli standard di funzionalità dell’attività amministrativa, si rende fin da ora opportuno riflettere sul dovere di conformazione al giudicato incombente in ogni caso sull’Amministrazione alla luce del principio di cui all’art. 4 della legge n. 2248 del 1865 (allegato E). L’amministrazione infatti deve porre in essere l’attività necessaria per adeguare la situazione di fatto (il disservizio) a quella di diritto affermata nella sentenza (individuativa degli standard di efficienza del servizio), e ciò indipendentemente dalla presenza di una specifica pronuncia di condanna del giudice. Il dovere di conformarsi al giudicato è configurabile infatti anche in presenza di una sentenza di annullamento o di mero accertamento, sostenendo in queste ipotesi la dottrina che, in conseguenza dell’art. 4 cit., la sentenza rileverebbe come “fatto”. Nel caso di inosservanza del dovere dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato, è dunque esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura l’esecuzione della sentenza e di tutti gli obblighi che ne derivano. In tal modo anche la sentenza di mero accertamento nei confronti della P.A. può essere idonea ad innescare una tutela esecutiva, non esaurendosi la sua utilità nel superamento di una incertezza obiettiva nella situazione di diritto ma rivelandosi, anzi, rimedio a una lesione concreta di diritti sociali provocata dall’Amministrazione. L’ottemperanza, a nostro avviso, costituisce un filtro necessario deterrente al commissariamento, visto l’oggetto del petitum (ripristino degli standard), nonché della ratio dello strumento processuale (riconduzione dell’azione amministrativa a parametri di funzionalità). In altri termini riteniamo 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 che prima di pervenire alla patologia, debba essere offerta all’Amministrazione “l’opportunità” di attivarsi per la corretta cura e gestione dell’interesse pubblico (art. 97 Cost.) adeguandosi alle disposizioni del giudice: è solo il pervicace inadempimento al dovere di conformità al giudicato che giustificherebbe il commissariamento. Inoltre non si può ignorare che la sostituzione del giudice all’Amministrazione, seppure inadempiente, anche ai fini di valutazioni tipicamente discrezionali, crea molte incertezze: come è noto la discrezionalità amministrativa prevede diverse articolazioni (si pensi alla distinzione tra discrezionalità tecnica e discrezionalità tout court), che postulano differenti gradi decisionali sul piano ideologico-politico, non necessariamente assorbiti dalla sentenza da eseguire. La nomina del Commissario ad acta, scelto tra i funzionari di altra Amministrazione, non si esaurisce dunque nella funzione meramente esecutiva del giudicato, ma spesso impone un’attività con caratteri di novità rispetto allo stesso. Di qui gli annosi problemi sul difficile equilibrio, nel giudizio di ottemperanza, del rapporto istituzionale fra Amministrazione e potere giurisdizionale, nonché della natura giuridica del Commissario ad acta ibridamente oscillante tra quella di organo straordinario dell’Amministrazione (con la conseguente possibilità di impugnazione dei suoi atti davanti al giudice amministrativo) e quella di ausiliario del giudice (comunque non dotato di poteri giurisdizionali, ma autore in ogni caso di atti inquadrabili nel giudizio di esecuzione e come tali tutelabili sotto l’indirizzo del giudice dell’ottemperanza). Ma su questo il decreto glissa ed oltre alla vacuità delle disposizioni procedurali, non sembra essere esaustivo circa le ipotesi configurabili. Riteniamo necessario distinguere i casi di disservizio da quelli in cui l’intervento del Commissario ad acta si innesti sul silenzio-rifiuto dell’Amministrazione ex art. 21-bis legge Tar, introdotto dall’art. 2 della legge 205/2000. In questo caso la legge non richiama le disposizioni sul giudizio di ottemperanza; l’intervento del Commissario si svolge non tanto ai fini della “esecuzione” di una sentenza (la sentenza nel caso di “silenzio”, si limita ad ordinare all’ Amministrazione di provvedere), ma comporta la sostituzione di un’Amministrazione rimasta inerte. La peculiarità dell’intervento del Commissario nel caso del “silenzio” trova conferma nella specialità della procedura: non si applicano le norme sullo svolgimento del giudizio di ottemperanza e la giurisprudenza sottolinea che la nomina del Commissario non interviene in un giudizio di esecuzione, ma nella seconda “fase” di un giudizio unitario sul “silenzio”. La peculiarità trova inoltre conferma nel fatto che la nomina del Commissario non è in alternativa ad un intervento diretto del giudice (nel caso del silenzio il giudice non può sostituirsi all’Amministrazione, ma deve sempre procedere alla nomina del Commissario) e che il ruolo del giudice si esaurisce in siffatta nomina, senza che sia prevista la permanenza di poteri di vigilanza e di intervento CONTRIBUTI DI DOTTRINA 351 rispetto al suo operato. La figura del Commissario, nel caso di silenzio, sembra pertanto corrispondere a quella di un organo straordinario dell’Amministrazione. Ritenendo opportuno approfondire aspetti tecnici processuali, segnaliamo che la giurisprudenza amministrativa, confrontandosi con le specificità del giudizio de quo, si è espressa nei termini di un giudizio unitario, avente un duplice oggetto, misto di accertamento e di condanna, in cui al giudice è consentito non solo di pronunciare sull’inadempimento dell’amministrazione, ma anche di ordinarle di provvedere sull’istanza e di nominare un Commissario ad acta (18). Il rito speciale relativo all’obbligo di provvedere cumula tre tipi di procedimenti: la fase cautelare o accelerata, senza escludere in assoluto la tutela cautelare urgente; la fase della condanna ad adempiere all’obbligo di provvedere in seguito al silenzio dell’amministrazione; la fase dell’ottemperanza, come si desume dalla possibilità di nominare un commissario che provveda in luogo della amministrazione pervicacemente inadempiente, pur a seguito della condanna a provvedere. Chiariti i profili processuali, sarà il decreto delegato a definire la procedura di adesione all’azione collettiva, ma è prevedibile che sarà analoga a quanto già definito nel settore privato. Con un meccanismo cioè di opt in (al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti), per il quale cioè serve un’esplicita manifestazione di volontà per l’ingresso nella “classe” dopo che sono state poste in essere adeguate forme di pubblicità dell’avvio dell’azione. La previsione delle spese a carico del proponente/proponenti nulla dispone in ordine all’eventuale regime di solidarietà nella individuazione della relativa responsabilità. Questo aspetto si riversa sulla pubblicità (intesa qui nel senso dell’ontologica afferenza ad interessi pubblici) della sentenza, anche nei casi in cui non vi sia condanna dell’Amministrazione, non potendosi configurare l’onerosità delle spese a carico dei proponenti, data la connotazione fisiologicamente pubblicistica del decisum de quo. La differenza tra le due tipologie di azioni, nel caso di privatizzazione di servizi essenziali, pone problemi all’attore della class action sulla determinazione del convenuto (Pubblica Amministrazione o società privata). Su questo va riaffermato che la riserva ex art. 43 Cost. ha in sé una connaturale essenza dei diritti sociali volta alla soddisfazione di prestazioni essenziali alla convivenza civile; per cui la riserva non si esaurisce o non si dismette con la privatizzazione ma conserva in sé un potere assoluto da non confondersi con la culpa in vigilando. Il disservizio compiuto da una società (18) Cons. Stato, 17 gennaio 2001, 2001, p. 647. 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 epilogo di un processo di privatizzazione, vedrà convenuta non solo la società erogatrice del servizio ma come anche e necessariamente l’Ente che abbia dismesso. In ogni caso rimane impregiudicato il risarcimento. Non a caso le lobbies si sono mosse immediatamente avvertendo il pericolo di azioni collettive esercitate nei confronti degli enti ex-municipalizzati, ovvero società di servizi a capitale misto pubblico-privato. 11. Considerazioni conclusive Avviandoci alle conclusioni coerenti alle premesse che hanno ispirato l’indagine, sempre più nelle situazioni reali cui il diritto deve sempre confrontarsi per acquistare effettività, si rivela l’esigenza del mantenimento della riserva pubblica soprattutto, ma non unicamente in tutti quei servizi la cui essenzialità non si confronta unicamente con l’esigenza sociale della parte debole, ma addirittura con la tutela della persona universalmente riconosciuta (è il caso dei servizi essenziali di collegamento del territorio con le isole quali il caso della Tirrenia che impone che alla sostenibilità economica debba anteporsi una effettività che la rende giuridicamente compatibile all’obiettivo perseguito). In questa linea di empirismo risolutivo con riguardo alla tutela processuale della proprietà e dei servizi pubblici il nostro sforzo è stato indirizzato alla costruzione di un possibile percorso procedimentale alla luce di una attività ermeneutica compatibile coi principi amminstrativi vigenti, tenendo conto della specifica funzione di monitoraggio dell’attività della P.A. (art. 97 Cost.) che lo strumento collettivo di azione ambisce ad assolvere. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 353 La transazione fiscale e il concordato preventivo Riflessioni a margine di un caso concreto Paolo Superbi* SOMMARIO: 1) Introduzione 2) Il carattere endoconcorsuale dell’istituto 3) Il consolidamento del debito tributario 4) La cessazione della materia del contendere 5) Qual’è la sorte del credito iva? 6) Conclusioni. 1. Introduzione Con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, emanato in attuazione del d.l. 14 maggio 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, il legislatore ha riformato organicamente la disciplina delle procedure concorsuali apportando al R.D. 16 marzo 1942, n. 267 importanti innovazioni di carattere sostanziale. Nel tentativo di abbandonare l’originaria impostazione sanzionatoria della crisi dell’impresa, la nuova legge fallimentare si caratterizza per la sensibilità che il legislatore ha dimostrato in ordine alla tutela sia dei livelli occupazionali, sia dei beni produttivi, esigenze, queste, che rendevano l’impianto normativo originario non più adeguato al mutamento della realtà socio-economica. Nel delineare la nuova disciplina, il legislatore non si è pertanto limitato ad incidere sullo schema base di cui al R.D. n. 267/1942 modificando il contenuto di talune disposizioni, ma ha introdotto ex novo alcuni innovativi istituti, fra i quali quello previsto dall’art. 182-ter della l.f., ossia la transazione fiscale. Successivamente, sulla scia dei numerosi interrogativi ermeneutici posti dalle prime applicazioni della normativa de qua, il legislatore è stato costretto ad intervenire dapprima con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, con cui è stata estesa l’applicabilità della transazione fiscale (in un primo tempo prevista per il solo concordato preventivo) anche agli accordi di ristrutturazione del debito di cui all’art. 182-bis della l.f., nonché, in seguito, con il d.l. 2 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni, dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2. L’antecedente storico della transazione fiscale è unanimemente individuato nella c.d. transazione sui ruoli d’imposta di cui all’ormai abrogato art. 3 del d.l. n. 178/2002, con cui si consentiva all’Agenzia delle Entrate, successivamente all’inizio dell’esecuzione coattiva, di procedere alla transazione dei tributi iscritti a ruolo, il cui gettito fosse di esclusiva spettanza dello Stato, in (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna. 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 caso di maggiore economicità e proficuità rispetto alla riscossione coattiva, quando nel corso della procedura esecutiva emergeva l’insolvenza del debitore o questi era assoggettato a procedure concorsuali. La peculiarità dell’istituto era da individuare nel fatto che l'accordo transattivo, essendo di natura stragiudiziale e non essendo inserito in una procedura concorsuale, era da ritenere, secondo un parere del Consiglio di Stato recepito dall'Agenzia delle Entrate (1), atto dispositivo soggetto alle regole generali dettate in tema di revocatoria nell'ipotesi di successivo fallimento del contribuente, pur riguardando il pagamento di imposte scadute. Con ciò si voleva dire che, in caso di successivo fallimento del debitore, l'Amministrazione finanziaria si sarebbe trovata esposta all'azione revocatoria fallimentare, non essendo possibile invocare la norma di cui all’art. 89 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, che sottrae appunto il pagamento di imposte scadute a questo tipo di azione (2). Ciò spiega l'orientamento assunto dall'Agenzia delle Entrate nella citata circolare, secondo il quale era da escludere la possibilità di concludere accordi transattivi con debitori che rivestivano la qualifica di imprenditore commerciale e rientranti fra i soggetti assoggettabili a fallimento, secondo i criteri previsti nell'art. 1 della l.f., "se non a condizione che l'accordo proposto all'Agenzia si inserisca in un piano di riassetto dell'impresa di più ampia portata e di ristrutturazione del debito che preveda il coinvolgimento di tutti i creditori ...". Con tale orientamento si limitava notevolmente lo spettro di operatività della norma, che poteva essere invocata solo da soggetti non fallibili, cioè previsti fra le categorie di "piccoli" imprenditori esclusi dal fallimento ai sensi di quanto disposto al comma 2 del citato art. 1 della l.f., o da imprenditori commerciali per i quali era già stata avviata una procedura concorsuale. In questo quadro, ben si possono comprendere le ragioni che spinsero il legislatore, con l’art. 1, co. 5 della l. 14 maggio 2005, n. 80 a prevedere, quale principio direttivo della riforma delle procedure concorsuali, la riconduzione della transazione in sede fiscale alla disciplina del concordato preventivo. La transazione fiscale, a prescindere dai molteplici dubbi ermeneutici che ha sollevato, costituisce un punto di osservazione privilegiato del mutevole rapporto tra moduli autoritativi e moduli consensuali nell’attuazione del tributo. Ciò premesso, con il presente lavoro si intende focalizzare l’attenzione su alcuni dei principali risvolti interpretativi sollevati dall’istituto de quo prendendo spunto da un caso concreto, deciso dal decreto della Corte d’Appello di Bologna 22 febbraio 2010, con cui l’organo giudicante ha respinto il re- (1) Circ. 4 marzo 2005, n. 8/E, www.agenziaentrate.it. (2) GOLINO, “La transazione fiscale e gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, Il fisco, n. 46, 17 dicembre 2007, p. 6701. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 355 clamo proposto dall’Agenzia delle Entrate e dall’Agente della riscossione avverso il decreto del Tribunale fallimentare con cui il giudice di prime cure ha omologato il concordato preventivo. Con la pronuncia in commento la Corte d’appello di Bologna affronta due questioni di estremo interesse. Con la prima, di natura procedurale, ci si chiede se l’imprenditore che intenda proporre il pagamento dilazionato o falcidiato dei crediti tributari in sede di concordato preventivo debba in ogni caso seguire le modalità procedurali di cui all’art. 182-ter della l.f., o se, invece, la transazione fiscale rappresenti una mera facoltà a disposizione dell’imprenditore da esercitare nell’ottica del conseguimento di determinati effetti. Con la seconda, di carattere sostanziale, ci si chiede quale sia la sorte del credito IVA, se non altro per ciò che attiene, come nel caso di specie, alle proposte di concordato presentate prima dell’entrata in vigore del sopra richiamato d.l. 2 novembre 2008, n. 185 che, intervenendo sul punto, ne ha espressamente escluso la falcidiabilità, ammettendone, per converso, la mera dilazionabilità. Vale la pena premettere sin d’ora come l’istituto de quo sia astrattamente idoneo a realizzare un triplice ordine di effetti: - la dilazione/falcidia dei crediti tributari; - il consolidamento del debito tributario; - la cessazione della materia del contendere nelle liti tributarie relative ai tributi oggetto della transazione. La breve disamina dei passaggi più significativi del decreto in commento consentirà di mettere in evidenza la diversità delle prerogative di cui è titolare il Fisco nell’ambito della procedura concordataria e, conseguentemente, le diverse condizioni cui è subordinata la realizzazione degli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire disciplinando la transazione fiscale. 2. Il carattere endoconcorsuale dell’istituto Con riguardo alla prima delle due questioni esaminate dai giudici felsinei, la Corte d’appello, in adesione alla tesi fatta propria dal tribunale sostiene che “la presentazione della proposta di transazione fiscale, pur in presenza di crediti erariali, non è necessaria per ottenerne la falcidia, ma costituisce una mera facoltà attribuita al debitore che intenda ottenere gli effetti tipici dell'art. 182 ter l.f., e cioè il consolidamento del debito tributario e la cessazione della materia del contendere nelle liti aventi ad oggetto i tributi compresi nella proposta di transazione”. Gli argomenti a favore di questa tesi sono desunti in primo luogo dal dato letterale della disposizione in base alla quale “il debitore può proporre il pagamento parziale o dilazionato (…)” e non “deve proporre” ciò che starebbe 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 a significare l’assoluta facoltatività della transazione fiscale (3). Soccorrerebbero inoltre ulteriori esigenze di carattere sistematico: poiché l’art. 2778 c.c. colloca il credito IVA al 19° grado e poiché l’art. 160, c. 2 della l.f. prevede il divieto di alterare l’ordine dei privilegi, ritenere necessario il ricorso alla transazione fiscale in presenza di un credito IVA implicherebbe prevedere il soddisfacimento integrale di tutti i crediti privilegiati di rango superiore, il che equivarrebbe a rendere di fatto non praticabile il ricorso al concordato preventivo (4). Ma l’ulteriore argomento utilizzato dall’organo giudicante su quale si intende concentrare l’attenzione è quello per cui “in esito alla transazione, l'Amministrazione Finanziaria ed il concessionario del servizio di riscossione sono chiamati ad esprimere il proprio voto come ogni altro creditore, sicché la proposta di concordato è approvata, in caso di raggiungimento della maggioranza prescritta, anche nell'ipotesi di voto contrario della amministrazione fiscale. Ed allora, come condivisibilmente osservato dalla giurisprudenza sopra richiamata (5), se l'eventuale dissenso dell'Amministrazione Finanziaria non impedisce l'omologabilità del concordato ove si raggiungano le maggioranze prescritte dall'art. 177 l.f., non si comprende per quale ragione la transazione fiscale dovrebbe essere considerata una strada proceduralmente obbligata, così da imporre all'imprenditore che proponga il concordato di tentare comunque il raggiungimento dell'accordo con le agenzie fiscali fin dal momento del deposito della domanda presso il Tribunale, con l'attivazione della procedura descritta nei commi 2 e 3 dall'art. 182 ter”. In altre parole, e con questo riassumendo il pensiero dell’organo giudicante, poiché la funzione della transazione fiscale è quella di consentire il consolidamento del debito tributario e la cessazione della materia del contendere nelle liti tributarie già insorte e poiché in ogni caso il voto dissenziente dell’amministrazione finanziaria è ininfluente ai fini dell’omologabilità del concordato, qualora sullo stesso si formino le maggioranze previste dalla legge, allora ne discende che la strada della transazione fiscale si pone come obbligata nel solo caso in cui il contribuente voglia mettersi al riparo dalle future azioni accertatrici. Ora, è indubbio che la lettera dell’art. 182-ter l.f. non esprima un conte- (3) In realtà, l’utilizzo della forma verbale “può” ben può essere riferita al fatto che il legislatore considera valutazione rimessa alla discrezionalità del debitore quella inerente la scelta di proporre o meno il pagamento dilazionato o falcidiato del credito tributario e che, una volta risolto in senso positivo il quesito, tale opzione non possa che essere concretizzata attraverso la procedura di cui all’art. 182-ter. (4) Tale argomento risulta tuttavia privo di pregio in quanto la non falcidiabilità del credito IVA era stata dall’Erario argomentata sulla base di presupposti diversi, ossia sulla sua riconduzione al novero dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea per i quali, già dalla prima formulazione della norma, ne era esclusa la transigibilità. (5) Trib. La Spezia, decreto 1 luglio 2009, in www.ilcaso.it. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 357 nuto normativo di chiara e agevole interpretazione (6) e che, al contrario, le lacune e le contraddizioni della disposizione offrono all’interprete spunti per sostenere ipotesi esegetiche totalmente divergenti. Mentre nel primo capoverso del comma primo viene disposto che il debitore può proporre il pagamento anche parziale dei tributi “limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria”, nel terzo capoverso la norma aggiunge che “se il credito tributario è assistito da privilegio la percentuale e i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore”. Nei primi commenti alla normativa, era emerso il dubbio se il debitore concordatario potesse estendere la sua richiesta di transazione fiscale anche ai crediti privilegiati o se, invece, si dovesse attribuire rilevanza decisiva all’inciso contenuto nel primo capoverso e quindi sostenere l’utilizzabilità di tale strumento “limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria”. Inoltre, poiché nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 169/2007 vigeva nel concordato preventivo la regola per cui i creditori aventi diritto di prelazione dovessero essere soddisfatti integralmente e poiché tale prescrizione mal si conciliava con la previsione della falcidiabilità del credito tributario privilegiato, si era in un primo tempo sviluppato un orientamento giurisprudenziale tale per cui il rapporto tra concordato preventivo e transazione fiscale era ricostruito in termini di assoluta autonomia (7). Tuttavia, in seguito alle modifiche, ad opera del d.lgs. n. 169/2007, dell’art. 160 l.f. e l’inserimento al comma II della possibilità, anche nell’ambito del concordato preventivo, di soddisfare anche in misura parziale i crediti privilegiati, nella giurisprudenza successiva si è consolidata un’opinione di segno contrario tale per cui la transazione fiscale si configura quale istituto endoconcorsuale alla cui definizione si può addivenire nel caso di procedure che coinvolgono il creditore-Fisco unitamente agli altri creditori (8). In altre parole, la transazione fiscale costituirebbe parte integrante del concordato preventivo e ne condividerebbe gli effetti, con la conseguenza che i crediti tributari privilegiati restano soggetti all’esito della votazione del concordato e del giudizio di omologazione (9). (6) La disposizione in commento è stata definita “tormentata e ambigua” da LA ROSA, “Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi”, Riv. Dir. Trib., 2008, I, 230. (7) RANDAZZO, “Il consolidamento del debito tributario nella transazione fiscale”, Riv. Dir. Trib., 2008, 10, p. 825, il quale richiama due decisioni giurisprudenziali che avevano accolto tale impostazione, ossia Trib. Bologna, decreto 26 ottobre 2006, e Trib. Messina, decreto 29 dicembre 2006. L’A. sottolinea come l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 40/E del 18 aprile 2008 sia rimasta ancorata a questa impostazione nonostante la sopra richiamata modifica normativa. (8) MOSCATELLI, “Crisi dell’impresa e debito tributario: riflessioni sulla transazione fiscale”, Rass. Trib., n. 5, 2008, p. 1317. (9) Cfr., ex multis, Trib. Mantova, decreto 26 febbraio 2009, Trib. Roma, decreto 27 gennaio 2009, secondo cui “va sostenuta la non autonomia dell’istituto della transazione fiscale rispetto al concordato 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 Da ciò si ricava l’ulteriore corollario che l’Amministrazione finanziaria non è titolare di un potere di veto tale da consentirle, esprimendo in sede di adunanza dei creditori il proprio dissenso alla proposta, di pregiudicare l’omologabilità del concordato qualora sullo stesso si formino le maggioranze previste dalla legge. Insomma, all’interno della procedura di concordato preventivo la posizione del Fisco risulta parificata a quella degli altri creditori. Tutto ciò premesso, è ora possibile affrontare il quesito di partenza: è corretto ricavare da questa impostazione il carattere meramente facoltativo della transazione fiscale, considerando lo stesso come un’opportunità a disposizione del contribuente che intenda ottenere gli effetti di consolidamento del debito tributario e di cessazione della materia del contendere? Come osservato in dottrina (10), il difficile equilibrio tra procedure concorsuali e fiscalità è sempre stato condizionato, per un verso, dalle rigidità delle pretese del Fisco, caratterizzate dall'indisponibilità dell'obbligazione tributaria e dal regime pubblicistico del rapporto tra ente impositore e contribuente, e per altro verso dalla c.d. specialità del diritto tributario che per tale sua natura è stato spesso ritenuto prevalente sulle regole della concorsualità. Ora, nell’attuale formulazione, il legislatore persegue senz’ombra di dubbio una progressiva assimilazione delle ragioni creditorie del Fisco rispetto a quelle degli altri creditori, escludendo che la soddisfazione del primo sia garantita in via preferenziale o in virtù di procedure differenziate rispetto a quelle che coinvolgono gli altri creditori, disciplinando invece la possibilità di un accordo con l’Amministrazione Finanziaria necessariamente nel contesto concorsuale della procedura di concordato preventivo (nonché degli accordi ex art. 182-bis). Da un punto di vista più pragmatico, l'istituto della transazione fiscale ha sullo sfondo la presa d'atto dell'inutilità dell'ostinazione sul pagamento integrale del tributo nei casi in cui l'incapienza del patrimonio del debitore renderebbe inefficace o solo potenzialmente efficace la riscossione, rappresentando una forma di bilanciamento tra il principio di indisponibilità dell'obbligazione tributaria (su cui vedi infra) e il regime della par condicio creditorum (11). In altri termini, se ai fini dell'omologabilità del concordato preventivo preventivo, invero tale istituto non costituisce un vero e proprio negozio a contenuto transattivo, poiché non è prevista la stipula di un accordo contenete reciproche concessioni”, Trib. Piacenza, decreto 3 luglio 2008, Trib. Pavia, decreto 8 ottobre 2008, in base al quale “la transazione fiscale costituisce una fase del concordato preventivo e l’accordo si identifica col concordato stesso; ne consegue che l’Agenzia delle Entrate ed il concessionario resteranno soggetti all’esito della votazione concordataria”, consultabili su www.ilcaso.it. (10) DEL FEDERICO, “La nuova transazione fiscale secondo il Tribunale di Milano: dal particolarismo tributario alla collocazione endoconcorsuale”, Fall., n. 3/2008, p. 92. Cfr. LO CASCIO. (11) ATTARDI, “Inammissibilità del concordato preventivo in assenza di transazione fiscale”, Il Fisco, n. 39, 26/102009, p. 1-6435. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 359 pare corretto ritenere che, in sede di adunanza dei creditori la posizione del Fisco sia parificata rispetto a quella degli altri creditori, occorre però evitare il rischio, in cui incorre la Corte d'Appello bolognese, di ricavare da questa affermazione conseguenze applicative avulse dalle ben più complesse esigenze che la transazione fiscale è chiamata a contemperare. In questo senso, si è in dottrina sottolineato come la transazione fiscale integri prima di tutto un subprocedimento amministrativo la cui funzione è innanzitutto quella di quantificare con certezza e stabilità il credito tributario nell'ottica di una consapevole votazione del Fisco rispetto ai termini della proposta concordataria (12). Inoltre tale esigenza può risultare a sua volta strumentale rispetto alla limitazione del fenomeno delle rinvenienze dei crediti tributari nel corso della procedura o addirittura dopo l'esecuzione del concordato (quantomeno per i tributi cui è applicabile la transazione fiscale). In altre parole, tra gli scopi dell'istituto vi sarebbe quello, ulteriore, di assicurare un assetto certo e trasparente degli effetti della procedura (13). 3. Il consolidamento del debito tributario Con le considerazioni sopra svolte si è tentato di dimostrare l’imprescindibilità della transazione fiscale quale istituto finalizzato alla procedimentalizzazione della volontà amministrativa. Scopo del presente paragrafo è pertanto quello di indagare un ulteriore profilo problematico, determinante ai fini di una migliore comprensione dell’istituto. Posto che la procedura di concordato preventivo è impermeabile rispetto al voto concretamente espresso dagli Uffici in sede di adunanza dei creditori, ci si chiede se il voto favorevole dell’Amministrazione Finanziaria possa essere ritenuto indispensabile se non altro ai fini della produzione degli ulteriori effetti scaturenti dalla transazione fiscale, ossia, da un lato, il consolidamento del debito tributario e, dall’altro lato, la cessazione della materia del contendere nelle liti tributarie insorte. Sotto il primo profilo, la dottrina ha sottolineato come la locuzione “consolidamento del debito tributario”, vera e propria novità nel panorama legislativo, svolga la funzione di condensare il risultato di una serie di attività che, entro un breve termine, sia l’Agente della riscossione, sia l’Agenzia delle En- (12) ATTARDI, op. cit., DEL FEDERICO, “La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali”. Tale posizione ha trovato riscontro anche in Trib. Roma, decr. 27 gennaio 2009 che “l'art. 182-ter prevede esclusivamente una disciplina procedurale tale da consentire agli uffici fiscali di esprimere il proprio voto, al pari degli altri creditori (...)”. (13) DEL FEDERICO, “ult. op. cit.”. 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 trate sono chiamati ad espletare (14). Tali attività consistono in primo luogo nella liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni e nella notifica dei relativi avvisi di irregolarità, nonché, in secondo luogo, nella certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a ruolo, nonché dai ruoli vistati ma non ancora consegnati all’Agente della riscossione. Quanto alla tipologia di controlli concretamente esperibili dagli Uffici non si registra uniformità di vedute. Secondo una prima impostazione, l’effetto del consolidamento si concentrerebbe esclusivamente sul profilo liquidatorio dei tributi, e non di accertamento: la brevità del termine entro il quale espletare i controlli, se da un lato rende possibile l’attuazione della liquidazione dei tributi, dall’altro lato impedisce di fatto l’esercizio dell’attività accertatrice (15). Ne consegue che resterebbe impregiudicata la possibilità di svolgere controlli sostanziali nonché di emettere i relativi atti di accertamento negli ordinari termini di legge (16). A favore di questa soluzione viene altresì fatto notare che gli avvisi di liquidazione, a prescindere dalla loro variegata natura giuridica, per un verso, sono caratterizzati da controlli formali agevoli e celeri e, per altro verso, si pongono su un gradino di attendibilità ben superiore all’atto di accertamento in senso stretto (17). Manca inoltre nella norma qualsiasi riferimento a tale preclusione rispetto all’esercizio del potere impositivo, preclusione che non può essere ricavata dalla regola sulla cessazione della materia del contendere (su cui vedi infra), istituto, questo, avente carattere meramente processuale e pertanto destinato ad operare esclusivamente nella fase contenziosa e non anche in quella amministrativa (18). Su questa linea di pensiero si è assestata la prassi amministrativa: l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che anche l’eventuale accettazione degli Uffici (14) RANDAZZO, op. cit. (15) Secondo RANDAZZO, op. cit., la norma in esame fa riferimento al controllo formale che normalmente viene effettuato mediante le procedure automatizzate (art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973, art. 54- bis, d.p.r. n. 633/1972), controllo in ordine al quale pare ragionevole assegnare eccezionalmente il breve lasso temporale di 30 gg. dalla comunicazione del proponente. (16) ATTARDI, “op. cit.”, secondo cui i controlli sono riconducibili alla liquidazione dei tributi relativi alle dichiarazioni già presentate senza che l’Amministrazione Finanziaria possa ritenersi obbligata ad effettuare controlli sostanziali a carico del contribuente preclusivi di successive attività accertatrici. Aderisce a questa impostazione anche LA ROSA, “op. cit.”, secondo il quale occorrerebbe escludere che l’adesione dell’Amministrazione Finanziaria alla proposta di concordato formulata dall’imprenditore osterebbe al successivo esercizio dei normali poteri di accertamento e rettifica delle dichiarazioni dal medesimo presentate. (17) DEL FEDERICO, “La nuova transazione fiscale…” op. cit.. (18) Lo rileva ATTARDI, op. cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 361 alla proposta di transazione non preclude l’espletamento di ulteriori attività di accertamento (19). Tale posizione è stata criticata da chi, in dottrina, ha fatto notare che, se l’intenzione del legislatore fosse stata quella di attribuire alla dichiarazione di voto degli Uffici ex art. 182-ter i medesimi effetti giuridici del voto espresso dagli altri creditori ai sensi dell’art. 178 l.f., non vi sarebbe stato alcun bisogno di disciplinare in termini così minuziosi l’attività di ricognizione della complessiva posizione debitoria dell’imprenditore concordatario perché un simile risultato si sarebbe per esempio potuto ottenere integrando il precetto di cui all’art. 90 del d.p.r. n. 602/1973, ovvero in via amministrativa mediante il ricorso ad una fonte di normazione secondaria o di una circolare. In quest’ottica, non resta che attribuire alla locuzione “transazione fiscale” il significato che le è proprio di definitiva chiusura delle partite debitorie nei confronti del Fisco, onde consentire all’impresa di uscire dalla crisi e ritornare in bonis (20). Su queste basi, si è pertanto sviluppato un secondo orientamento che ritiene altresì indispensabile l’espletamento, da parte degli Uffici, delle attività che si concretizzano nei controlli c.d. sostanziali a carico del contribuente, come tali preclusivi di ulteriori attività accertative. Si sottolinea inoltre, in questo senso, che se gli Uffici potessero rivedere i risultati transati ai sensi dell’art. 182-ter l’istituto perderebbe efficacia e diverrebbe ben poco appetibile (21). Seguendo questo secondo filone interpretativo, che si ritiene maggiormente aderente alla ratio dell’istituto (ossia conservare i complessi aziendali come fonte produttiva di ricchezza e di nuova capacità contributiva), si è sostenuto che, proprio perché il voto da parte degli Uffici alla proposta concordataria è potenzialmente idoneo a produrre gli ulteriori effetti di definitiva quantificazione della complessiva situazione debitoria dell’impresa concordataria e di impedimento al successivo esercizio dei poteri accertativi sui rapporti tributari oggetto di transazione, risulterebbe scarsamente coerente disconoscere all’accordo così concluso una autonoma individualità giuridica (22). E tale autonoma individualità giuridica non può che esprimersi nella necessità, ai fini degli affetti di consolidamento del debito tributario, dell’adesione (rectius accettazione) alla proposta da parte del Fisco (23). (19) Circ. 18 aprile 2008, n. 40/E, www.agenziaentrate.it. (20) STASI, op. cit. (21) TOSI, “Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale”, Giust. Trib., n. 1/2008, p. 31 che stigmatizza la brevità del termine a disposizione degli Uffici. (22) STASI, op. cit. (23) Dello stesso parere è FICARI, op. cit., che sottolinea il ruolo necessario della Direzione Regionale delle Entrate tale per cui il suo assenso costituisce condizione della perfezione ed efficacia dell’accordo. 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 In altri termini, il consolidamento del debito tributario prescinde totalmente dalla ricostruzione in chiave endoconcorsuale della transazione fiscale, manifestando al contrario quegli immanenti profili privatistici dell’istituto, tali da portare il legislatore a definire la transazione fiscale come “proposta di accordo” (art. 182-ter, II co., l.f.). 4. La cessazione della materia del contendere Il penultimo comma dell’art. 182-ter l.f. dispone che “con l’omologazione del concordato preventivo si determina la cessazione della materia del contendere nelle liti aventi per oggetto i tributi di cui al comma 1”. In via preliminare va osservato che l’ambito di applicazione della disposizione potrebbe coincidere con quella transazione speciale idonea ad estinguere per novazione il rapporto preesistente che è la conciliazione giudiziale (24). Per altri, la norma sarebbe semplicemente pleonastica, posto che la legge processuale tributaria all’art. 46 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 prevede già che il giudizio si estingue in tutto o in parte nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni caso, di cessazione della materia del contendere (25). In linea generale, nel concordato preventivo non è previsto né un procedimento di ammissione del credito né una procedura di verifica dei crediti. Il commissario giudiziale procede al controllo dell’elenco dei creditori ed apporta le necessarie rettifiche; ciascun creditore può sollevare contestazioni sui crediti concorrenti, alle quali il debitore ha diritto di replicare fornendo al giudice i necessari chiarimenti. Il giudice può ammettere provvisoriamente in tutto o in parte i crediti contestati, ma ciò ai soli fini del calcolo delle maggioranze. Pertanto, tutte le questioni relative all’esistenza del credito, al suo ammontare e al grado di privilegio spettante trovano spazio nell’ordinario giudizio di cognizione o, per ciò che attiene agli atti impositivi, nel giudizio avanti il giudice tributario. In altre parole il divieto posto dal legislatore, per i creditori per titolo o causa anteriore al decreto di ammissione al concordato preventivo, di agire esecutivamente sul patrimonio del debitore, non elude la possibilità di agire giudizialmente per l’accertamento dei crediti al fine di procurarsi titoli idonei per la successiva esecuzione. La conseguenza che se ne trae è che, per regola generale, la sentenza di omologazione del concordato preventivo, pur determinando un vincolo defi- (24) L’osservazione è di MANDRIOLI, “Transazione fiscale e concordato preventivo tra lacune normative e principi del concorso”, Giur. Comm., 2008, n. 2, p. 296. (25) ATTARDI, op. cit.. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 363 nitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, non comporta la formazione di un giudicato né sull’an, né sul quantum, né sul rango dei medesimi. Da ciò se ne è dedotto che, tramite il V comma dell’art. 182-ter l.f., il legislatore abbia voluto derogare alla predetta regola generale (26). Si tratta di stabilire se tale effetto rimanga attratto dal carattere endoconcorsuale dell’istituto (vedi supra), o se, invece, costituisca il punto di emersione delle immanenti connotazioni consensuali-privatistiche che la transazione fiscale reca con sé. In altri termini, occorre verificare se l’adesione dell’Amministrazione Finanziaria alla proposta di concordato possa ritenersi indispensabile rispetto alla definizione degli effetti processuali di definizione delle liti pendenti. A questo proposito, la lettera del V comma dell’art. 182-ter l.f. sembra subordinare la definizione delle controversie al passaggio in giudicato del certo di omologazione di cui all’art. 181 l.f. e non anche, quale effetto dell’accordo, all’adesione da parte dell’Agenzia delle Entrate alla proposta transattiva. Ciò significherebbe che l’art. 182-ter l.f. dispone la definitiva cessazione della materia del contendere in ordine alle liti tributarie per il solo fatto che il concordato venga omologato e, pertanto anche nelle ipotesi di mancata adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria espressa mediante voto contrario alla proposta contenuta nella domanda di concordato preventivo, alla quale non rimarrà che la possibilità di fare opposizione al giudizio di omologazione ex art. 180 l.f. (27). Secondo parte della dottrina, tuttavia, si tratta di un profilo di riemersione della connotazioni transattive dell’istituto che rappresenta la conseguenza dell’accordo perfezionatosi nell’ambito del concordato: in mancanza dell’adesione da parte dell’Amministrazione Finanziaria, l’effetto della cessazione della materia del contendere sarebbe precluso (28). In questo senso, secondo una più corretta lettura della norma, la chiusura della procedura di concordato ai sensi dell’art. 181 l.f. indicherebbe solamente il momento cronologico in cui ciò avviene, purché, come si è detto, sul presupposto della previa adesione del Fisco alla proposta. 5. Qual’è la sorte del credito iva? La disposizione in commento esordisce statuendo che “con il piano di cui all’art. 160, il debitore può proporre il pagamento parziale o anche dilazionato dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori (…) ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea ” dopo la (26) ATTARDI, op. cit. (27) L’osservazione è di MANDRIOLI, op. cit. (28) DEL FEDERICO, “La transazione...”, op. cit. 364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 modifica apportata dal d.l. 2 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni, dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”. In primo luogo si pone il problema della individuazione dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali, in quanto soltanto ad essi torna applicabile la transazione fiscale. Come è noto, la legislazione non offre alcuna definizione di tributo, per cui il relativo concetto è di elaborazione dogmatico-giurisprudenziale, donde ovvie difficoltà interpretative ed applicative. La dottrina prevalente concepisce il tributo come «prestazione patrimoniale imposta, caratterizzata dall'attitudine a determinare il concorso alle pubbliche spese»; su posizioni analoghe si è posta anche la Corte costituzionale, affermando che la nozione di tributo «è caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali; da un lato, l'imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; dall'altro, la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine integrare la finanza pubblica, e cioè allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire le spese pubbliche». In virtù di tale concezione unitaria dottrina e giurisprudenza prevalenti riconducono alla categoria del tributo le imposte, le tasse ed i contributi. Per quanto qui rileva l'art. 182-ter, nel fare riferimento ai tributi amministrati dalle sole agenzie fiscali, risolve alla radice la maggior parte delle problematiche qualificatorie. Quanto all’individuazione della nozione per amministrazione del tributo, occorre fare riferimento a quel fascio di poteri funzionali al controllo, all’accertamento e alla riscossione (29). Per le entrate pubbliche amministrate da soggetti diversi dalle agenzie fiscali l'art. 182-ter non potrà trovare applicazione, a prescindere dalla qualificazione tributaria, previdenziale, patrimoniale, ecc. (si pensi al caso dei tributi regionali e locali). Da ciò si ricava che i tributi che possono astrattamente costituire oggetto della transazione fiscale sono l’Irpef, l’Irap (30), l’Ires, con le relative addizionali e imposte sostitutive, imposta di registro, imposta ipotecaria e catastale, imposte di bollo, imposte sulle successioni e donazioni, imposta sugli intrat- (29) MAGNANI, op. cit. (30) DEL FEDERICO, “Commento sub art. 182-ter”, Il nuovo diritto fallimentare, coordinato da Jorio, diretto da Fabiani, precisa che con riguardo all’imposta sulle attività produttive, un primo orientamento valorizza, convincentemente, il criterio della competenza amministrativa a gestire il tributo e quindi giunge a ricomprendere tale imposta entro l’ambito di applicazione dell’art. 182-ter; viceversa un secondo e più restrittivo orientamento valorizza la titolarità del tributo, sotto il profilo della spettanza del gettito, ovvero sotto il profilo della potestà legislativa. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 365 tenimenti, tasse automobilistiche, tasse sui contratti di borsa, canone di abbonamento della televisione, imposta demaniali, dazi di importazioni e esportazione, imposte di fabbricazione e di consumo (31). Ciò premesso, nel caso di specie era stata posta all’attenzione dell’organo giudicante la questione della transigibilità dell’IVA. In altre parole, poiché la proposta di concordato era stata avanzata prima dell’entrata in vigore del predetto d.l., era necessario stabilire se la soluzione ivi accolta avesse natura meramente interpretativa oppure innovativa della precedente formulazione della norma, con la conseguenza che solo nel primo caso della stessa si poteva fornire un’applicazione retroattiva (e quindi estesa anche al caso di specie). Si rendeva, in altre parole, necessario stabilire se l’IVA potesse essere o meno considerata tributo che costituisce risorsa propria dell’U.E.. La Corte d’appello, aderendo all’impostazione del Tribunale fallimentare, opta per la seconda soluzione osservando che “la nuova norma (…) ha carattere non già interpretativo ma innovativo della precedente formulazione in quanto detta una specifica disciplina per l’IVA distinguendo il trattamento di tale tributo, nell’ambito della transazione fiscale, sia da quello dei tributi che possono essere oggetto di falcidia sia da quello relativo ai tributi costituenti risorse proprie dell’U.E.”. Prima di capire se la soluzione proposta possa ritenersi corretta pare opportuno effettuare brevi cenni sul sistema di finanziamento dell’U.E. al fine di meglio precisare il ruolo svolto dall’IVA in questo contesto. Il finanziamento del bilancio comunitario tramite risorse proprie pur previsto nei trattati fu attuato con la Decisione 70/234/Cee-Euratom del 21 aprile 1970 con la quale, accanto alle risorse proprie tradizionali costituite dai prelievi agricoli e dai dazi doganali, fu introdotta una risorsa proveniente dall’imposta sul valore aggiunto ottenuta applicando una percentuale non superiore all’1% ad una base imponibile determinata in modo uniforme in base a regole comunitarie (32). Successivamente, per fare fronte alle difficoltà del bilancio comunitario ed equilibrare la contribuzione tra gli stati fu introdotta un’altra risorsa propria basata sul Prodotto Nazionale Lordo degli Stati membri prevedendo dei correttivi per quei paesi che avevano denunciato una penalizzazione derivante dalle modalità di calcolo delle risorse proprie, in particolare attuando man mano una diminuzione dell’importanza dell’IVA per il finanziamento comunitario culminata nel regolamento n. 1550/2000/Ce-Euratom del 22 maggio 2000. (31) STASI, “La transazione fiscale”, Fall., 2008, f. 7, p. 733. (32) Con l’introduzione della sesta direttiva 77/388/Cee del 17 maggio 1977 è stata stabilita la determinazione in modo uniforme della base imponibile IVA, concedendo agli stati membri la possibilità di derogare alle disposizioni introdotte. 366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 L’attuale disciplina delle risorse proprie scaturenti dall’IVA (33) risulta basata sul calcolo delle entrate nette riscosse da ciascun Paese membro nel corso di un anno, divise per l’aliquota media ponderata, che rappresenta, per ciascuno Stato membro, la media ponderata delle diverse aliquote applicabili alle operazioni gravate da IVA non detraibile. È evidente che l’onere gravante su ciascuno Stato, per ciò che riguarda il finanziamento comunitario, è direttamente collegato, da un lato, alla reale consistenza della base imponibile (dipendente dal valore dei consumi complessivi delle famiglie), ma anche, dall’altro lato, all’efficienza della singole amministrazioni nel reprimere le frodi ed evitare l’evasione dell’imposta (34). A ciò a vanno aggiunte ulteriori correzioni al fine di tenere eventualmente conto delle imposte non riscosse per effetto delle riduzioni accordate dagli Stati membri alle piccole imprese ai sensi dell’art. 24, par. 2, della Sesta Direttiva. Pur essendo chiaro il meccanismo di calcolo della risorsa proveniente dall’IVA, a partire dall’entrata in vigore dalla riforma della legge fallimentare si era andato sviluppando un dibattito, sia in dottrina, sia in giurisprudenza sulla riconducibilità dell’IVA al novero dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea. Secondo un primo orientamento, in ragione del legame di fondo sussistente tra la base imponibile comune e le entrate nette IVA percepite dagli Stati membri, ai fini della determinazione del gettito spettante all’U.E. risulta fondamentale la capacità dello Stato di riscuotere il tributo in riferimento a tutte le operazioni tassabili, capacità che risulterebbe compromessa ove fossero rese possibili modalità transattive di riscossione dell’IVA (35), con la conseguenza che, tale tributo, proprio perché costituente risorsa propria dell’U.E. sarebbe estraneo all’ambito di applicazione dell’istituto in commento. Diversamente argomentando, le tesi contrarie o considerano la quota IVA come mero trasferimento finanziario (36), oppure ritengono la base imponibile IVA mero parametro cui applicare l’aliquota uniforme che prescinde dalla riscossione dell’imposta dovuta dal singolo contribuente italiano, in maniera tale per cui, in realtà, la transazione fiscale non provocherebbe alcun effetto sull’imponibile nazionale in base al quale calcolare la risorsa IVA comunitaria (37). (33) Contenuta nella Decisione n. 2000/597/Cee-Euratom del 29 settembre 2000 e nei già menzionati regolamneti (34) ZATTI, “Il finanziamento dell’Unione Europea e il sistema delle risorse proprie”, Cedam, Padova, 2002, p. 10. (35) MAURO, “La problematica appartenenza dell’IVA all’ambito di applicazione della transazione fiscale nelle procedure concorsuali”, Riv. Dir. Trib., 2008, 10, p. 847. (36) DEL FEDERICO, “La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali”, Riv. Dir. Trib., 2008, I, p. 215, TOSI, “La transazione fiscale…”, op. cit., FICARI, “Riflessioni su transazione fiscale e ristrutturazione dei debiti tributari”, Rass. Trib., n. 1/2009, p. 68. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 367 Né è mancato chi ha sostenuto una tesi intermedia, adombrando la soluzione secondo cui, ferma restando la necessità di corrispondere all’Unione Europea l’imposta derivante dall’applicazione delle modalità di determinazione del gettito comunitario, è consentito transigere l’IVA nazionale a seguito dell’esercizio, da parte dell’Italia, delle facoltà di deroga alla disciplina comunitaria sulla riscossione del tributo che la Direttiva 2006/112/Ce concede ai singoli Stati membri. In ogni caso a dirimere il contrasto interpretativo insorto sul punto è intervenuto lo stesso legislatore che, facendo propria una posizione mediana, tramite l’art. 32 del d.l. 2 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009, n. 2, ha ricondotto il credito IVA entro l’ambito di applicazione della transazione fiscale ma consentendone solamente la dilazione e non anche la falcidia. La norma non stabilisce un limite temporale alla possibile rateazione del pagamento ed è stato ipotizzato che il margine di dilazione ritenuto accettabile dagli Uffici possa essere piuttosto ampio (38). Nonostante il recente intervento normativo, tuttavia, l’argomento della transigibilità del credito IVA non può dirsi certo esaurito. In primo luogo, l’Agenzia delle Entrate (39) ha precisato che il divieto di falcidia attiene solo alla sorte del debito d’imposta originario e non riguarda gli accessori e gli interessi che ne sono esclusi possono pertanto essere pagati in percentuale. La sorte del diverso trattamento tra sorte e accessori risiede nel fatto che solo il credito IVA vero e proprio partecipa alla determinazione del contributo italiano all’U.E. (vedi supra), sicchè sarebbe incongruo rispetto allo scopo estendere il divieto a interessi e sanzioni, così inutilmente appesantendo le prospettive del proponente e frustrando le stesse aspettative di maggior recupero da parte dell’Erario, nell’ambito del concordato, rispetto al fallimento. Un altro tema non del tutto definito riguarda il criterio del conteggio della falcidia massima consentita dalla legge. Essa è determinata dall’art. 160, terzo comma e dall'art. 182-ter, primo comma, l.f., con riferimento alla percentuale di abbattimento dei crediti privilegiati di grado inferiore o aventi interessi economici omogenei e, per i crediti chirografari, con riguardo al trattamento degli (37) Si tratta della posizione maggioritaria in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, decr. 13 dicembre 2007, nonché Trib. Pavia, decr. 8 ottobre 2008 secondo cui “la cosiddetta IVA comunitaria non è calcolata sul riscosso IVA nazionale così che la rinuncia alla riscossione di parte dell’imposta sul valore aggiunto è rinuncia propria dello Stato Italiano senza nessuna incidenza diretta o indiretta sul sistema di finanziamento comunitario”. Per l’orientamento contrario, cfr. Trib. Piacenza, decr. 1 luglio 2008. tutte le richiamate pronunce sono citate da PANNELLA, “L’incognita transazione fiscale”, Fall., n. 6/2009, p. 644. (38) LAMALFA, “L’Agenzia delle Entrate illustra l’estensione della transazione fiscale all’IVA”, Corr. Trib., n. 24/2009, p. 1946. (39) Circ. 10 aprile 2009, n. 14/E, www.agenziaentrate.it. 368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2011 altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto il trattamento più favorevole, secondo la previsione dei primo comma dell'art. 182-ter, così come modificata dal d.l. n. 185/2008. Ciò che non è chiaro infatti è se tale conteggio vada eseguito prendendo a parametro solo le voci escluse dal divieto - e cioè gli interessi e le sanzioni come tali - ovvero se possa essere rapportato all'intero credito originario unitariamente considerato, composto da sorte, interessi e rivalutazione. Se il credito IVA, pur se composto da più voci (sorte, interessi e sanzioni), viene in rilievo unitariamente ai fini dell'applicazione di questa norma (come in genere vengono in rilievo tutti i crediti nell'ambito delle procedure concordatarie), a prescindere dalla composizione interna delle singole imposte, potrebbe anche accogliersi la tesi più elastica, che comporterebbe in concreto un margine di abbattimento maggiore. Se invece la distinzione tra una parte falcidiabile ed una parte non falcidiabile viene riconnessa a differenze di tipo ontologico tra la sorte e gli accessori, allora sarebbe necessario calcolare la percentuale di falcidia di interessi e sanzioni solo sulle voci oggetto della falcidia stessa e non sull’intero credito (40). 6. Conclusioni Alla luce della sommaria esposizione di alcune delle questioni interpretative cui ha dato luogo l’utilizzo della transazione fiscale nel concordato preventivo, si può tentare, in conclusione, di riassumere brevemente le considerazioni sopra svolte. Come detto, infatti, l’utilizzazione di questo istituto è strumentale rispetto alla realizzazione di tre ordini di effetti (vedi supra): falcidia/dilazione dei crediti tributari, consolidamento del debito tributario, cessazione della materia del contendere nelle liti tributarie insorte. D’altro canto, sui rapporti tra transazione fiscale e concordato preventivo si sono sviluppate tue tesi estreme. La prima, dominante in giurisprudenza, attrae tutti i suddetti effetti entro la logica concordataria, ritenendo totalmente irrilevante la posizione che il Fisco assume in ordine alla proposta del debitore, potendo il Tribunale, nell’esercizio del c.d. cram down power, giungere all’omologazione del concordato anche in presenza di un voto contrario espresso dall’Agenzia delle Entrate e/o dall’Agente della riscossione e, per tale via, ottenere tanto il consolidamento del debito tributario quanto la cessazione della materia del contendere. La seconda, di segno opposto, fatta propria dall’Agenzia delle Entrate, (40) LAMALFA, ult. op. cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 369 oltre che da parte della dottrina, richiede il voto favorevole degli Uffici anche per ciò che attiene agli effetti di falcidia del credito erariale, così svalutando l’indefettibile connotazione endoconcorsuale che la - nuova - transazione fiscale reca con sé. A ben vedere, tuttavia, nessuna delle predette interpretazioni riesce a cogliere il dato fondamentale, ossia quello costituito dalla persistente ambiguità dell’istituto sotto il profilo dell’individuazione della sua natura giuridica. Tale ambiguità non è altro che il sintomo della polifunzionalità della transazione fiscale, a sua volta espressione di quell’esigenza avvertita dal legislatore di contemperare, nell’ambito delle vicende della crisi d’impresa, le ragioni erariali da un lato e le peculiarità della procedura concorsuale di concordato preventivo dall’altro lato. In altri termini, la transazione fiscale assume connotati ora proceduraliconcorsuali, ora privatistico-consensuali a seconda del tipo di effetto che si intende realizzare. In questo senso, con riguardo alla falcidia dei crediti tributari assumono indubbia preminenza i caratteri endoconcorsuali dell’istituto, con tutte le implicazioni sopra esposte. Diversamente, con riguardo sia all’effetto di consolidamento, sia alla cessazione della materia del contendere, ove rimangono estranee esigenze di tutela della par condicio creditorum, riemergono quelle sfumature contrattuali che rendono in quest’ottica indispensabile il voto favorevole del Fisco alla proposta concordataria. Il carattere polifunzionale dell’istituto rappresenta altresì l’argomento che consente di affermare la necessarietà della transazione fiscale tutte le volte in cui l’imprenditore in stato di crisi intenda accedere alla procedura di concordato preventivo, risultando altrimenti vanificata la consapevole espressione del voto da parte degli uffici in sede di adunanza dei creditori. Quanto al credito IVA, che normalmente costituisce una delle poste debitorie più considerevoli e ricorrenti nelle imprese in stato di crisi, è stato sottolineato come l’esclusione di tale tributo dalla falcidia concordataria non faccia altro che vanificare l’attrattiva della transazione fiscale (41), in un quadro complessivo che, complici le molteplici carenze dell’impianto normativo, evidenzia l’insuccesso dell’art. 182-ter (42). (41) ZENATI, “La transazione fiscale nella legge fallimentare”, Corr. Trib., n. 23/2008, p. 1896. (42) MINNITI, “La transazione fiscale: ultime novità e proposte per un rilancio”, Riv. Dott. Comm., n. 1/2009, p. 127. R E C E N S I O N I ALESSANDRA BRUNI - GIOVANNI PALATIELLO (*), La difesa dello Stato nel processo (“Modelli e tecniche dei processi civili”, Collana diretta da G. ARIETA e F. DE SANTIS, UTET GIURIDICA, 2011, pp. III-XXIV-344) Prefazione di Ignazio Francesco Caramazza (**) L’opera costituisce una monografia interamente dedicata al tema della difesa dello Stato nel processo, con particolare attenzione al processo civile ma con sostanziose trattazioni anche di quello penale, amministrativo e costituzionale. Il volume, dopo aver dato conto delle origini storiche e del processo evolutivo in Italia della difesa dello Stato in giudizio, si sofferma sulla nuova realtà dell’Amministrazione statale, che potrebbe dirsi “policentrica”, in quanto legata non più (o non solo) alla organizzazione per Ministeri, ma che abbraccia nuovi soggetti (quali, a titolo di mero esempio, le Agenzie e le cosiddette società pubbliche) formalmente distinti dallo Stato in senso stretto, e tuttavia preposti alla cura di interessi pubblici riferibili allo Stato medesimo. In tale ottica, particolare attenzione viene riservata al cosiddetto patrocinio autorizzato ex art. 43, r.d. n. 1611/19333, istituto particolarmente “flessibile”, che ben si adatta alla nuova fisionomia dell’Amministrazione statale e della Pubblica Amministrazione in generale. Il volume di Alessandra Bruni e di Giovanni Palatiello si segnala per l’incisività delle argomentazioni, per la chiarezza dell’esposizione e l’equilibrio delle soluzioni proposte ai numerosi problemi interpretativi posti dalla disciplina della difesa dello Stato in giudizio, con particolare attenzione dedicata alle più recenti modifiche normative che hanno profondamente innovato sia il processo civile, sia quello amministrativo. Si tratta di una delle rare opere che non si limitano ad una trattazione settoriale delle questioni legate al patrocinio dello Stato, proponendone, invece, una ricostruzione criticosistematica di ampio respiro, che offre a tutti gli operatori del diritto non solo una compiuta informazione ma anche una ricca messe di spunti di riflessione. (*) Avvocati dello Stato. (**) Avvocato Generale dello Sato. Finito di stampare nel mese di aprile 2011 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma