ANNO LXIII - N. 2 APRILE - GIUGNO 2011 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Aldo Linguiti. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Maria Vittoria Lumetti - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Chiarina Aiello, Giacomo Aiello, Giuseppe Albenzio, Felice Ancora, Federica Angeli, Ignazio Francesco Caramazza, Wally Ferrante, Alessandro Ferri, Beatrice Gaia Fiduccia, Michele Gerardo, Federico Maria Giuliani, Maria Gabriella Mangia, Paola Palmieri, Marina Russo, Grazia Sanna, Lucia Sara, Francesca Scaramuzza, Francesco Spada, Antonio Tallarida, Roberta Tortora, Marino Valente, Giuseppe Zito. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Conferimento del dottorato in legge honoris causa all’Avvocato Generale dello Stato - Loyola University di Chicago, 21 maggio 2011 . . . . . . . . . D.Lgs 4 marzo 2010, n. 28, “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” - Circolare A.G.S. n. 29 del 17 maggio 2011 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Federico Maria Giuliani, Primazia comunitaria e strumenti processuali a tutela delle posizioni giuridiche di derivazione europea. . . . . . . . . . . . 1.- Le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea Wally Ferrante, Il divieto di conversione a tempo indeterminato dei contratti a termine nel pubblico impiego (C. giustizia, VI Sez., ord. 1 ottobre 2010, nella causa C-3/10, Affatato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante,Un duplice aspetto della sentenza “Elchinov”. Rimborsabilità dell’assistenza sanitaria prestata in altro Stato membro. Autonomia del giudice del rinvio rispetto al principio di dirittto enunciato dal giudice di ultimo grado ove reputato in contrasto con il diritto comunitario (C. giustizia, Grande Sezione, sent. 5 ottobre 2010, nella causa C- 173/09, Elchinov) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE La consultazione elettorale amministrativa e referendaria. Le difese dell’Avvocatura e i pronunciamenti dei Giudici: il no allo “election day” Giuseppe Zito, Intervento “creativo” delle Sezioni Unite: negata l’applicabilità della regola del foro erariale ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative (Cass. civ., Sez. Un., ordd. 18 novembre 2010 nn. 23285 e 23286) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lucia Sara, Sugli appalti di servizio di refezione scolatica: la competenza e la delega “contra legem” e l’infungibilità del contraente (C. app. Roma, Sez. II civ., sent. 2 dicembre 2010 n. 5101) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, In tema di danno ambientale. Legittimazione ad agire, natura dell’illecito, componenti del danno (Trib. Napoli, Sez. XXII pen., ord. 5 novembre 2010; Trib. Santa Maria Capua Vetere, Sez. II pen., ord. 1 febbraio 2011; C. app. Napoli, Sez. I civ., sent. 24 aprile 2008 n. 1495; C. app. Napoli, Sez. I civ., sent. 19 gennaio 2011 n. 90) . . . . . . . . . . . . . Marino Valente, Alessandro Ferri, Accelerazione processuale e deflazione del contenzioso in tema di custodia di veicoli sequestrati (G.d.P. Caserta, dec. 18 gennaio 2011). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 3 ›› 5 ›› 12 ›› 29 ›› 49 ›› 63 ›› 84 ›› 106 ›› 133 Federica Angeli, Sulle variazioni tariffarie dei pedaggi autostradali: legittimazione attiva per la tutela degli interessi adespoti e autonomia negoziale della P.A. (Cons. St., Sez. IV, sent. 9 dicembre 2010 n. 8686) . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Gianni De Bellis, Applicazione del fermo amministrativo ex art. 69 del R.D. n. 2440/1923 e compensazione legale nei confronti di soggetti sottoposti a procedure concorsuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Albenzio, Estinzione dell’obbligazione doganale ex art. 233 primo comma lett. d) C.D.C. - Ambito di applicazione dell’art. 338 T.U.L.D. a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia Europea C- 459/07 del 2 aprile 2009 e C-230/08 del 29 aprile 2010 . . . . . . . . . . . . . Beatrice Gaia Fiduccia, Sulla natura della sanzione di cui all’art. 19 D.Lgs n. 374/1990 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maria Gabriella Mangia, Spettanza del rimborso delle spese legali in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chiarina Aiello, Accordi di programma di natura transattiva per la messa in sicurezza e bonifica di siti inquinati. Non transigibilità sulla responsabilità da illeciti ambientali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Roberta Tortora, Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81. Individuazione del datore di lavoro ai fini dell’adozione delle misure di prevenzione, successivamente all’entrata in vigore del regolamento di riorganizzazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a norma dell’art. 1, comma 4, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, di cui al D.P.R. 30 gennaio 2008, n. 43 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, Sul regime di impugnazione dei provvedimenti di revisione e sospensione della patente di guida adottati ai sensi dell’art. 126 bis del codice della strada ed alle modalità di esecuzione delle relative pronunce giurisdizionali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giacomo Aiello, Imputazione al dipedente o al datore di lavoro delle spese relative all’iscrizione all’albo professionale . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio Borgo, Iscrizione ai partiti politici, assunzione di incarichi nell’ambito di partiti politici e propaganda degli appartenenti alla Polizia di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paola Palmieri, Sulla legittima partecipazione a gare pubbliche della CRI. Stipula di Accordi ex art. 15 L. 241 del 1990 - Disciplina comunitaria e nazionale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Rimborso spese legali ex art. 3 comma 2 bis D.L. 543/96 e art. 18 comma 1 D.L. 67/97 - Parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 142 ›› 167 ›› 170 ›› 177 ›› 182 ›› 183 ›› 189 ›› 192 ›› 198 ›› 200 ›› 226 ›› 239 LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ Francesco Spada, L’istituto del trattenimento in servizio ai sensi delle disposizioni del d.l. n. 78/2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Antonio Tallarida, Il diritto e la giustizia nell’Italia medievale . . . . . . . Felice Ancora, Il regime della nullità dell’atto amministrativo secondo il codice del processo amministrativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Grazia Sanna, La geoingegneria. Verso la privatizzazione del sole e degli ecosistemi naturali?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesca Scaramuzza, La mediazione civile e commerciale di cui al d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesca Scaramuzza, La pubblica amministrazione e la giustizia alternativa: mediazione e arbitrato nei contratti pubblici . . . . . . . . . . . . . pag. 243 ›› 251 ›› 266 ›› 280 ›› 328 ›› 339 T E M I I S T I T U Z I O N A L I Conferimento del dottorato in legge “honoris causa” all’Avvocato Generale dello Stato (Loyola University Chicago, 21 maggio 2011) «Sono particolarmente lieto di rendere noto che, nel corso di una solenne cerimonia svoltasi sabato 21 maggio scorso presso la prestigiosa Loyola University di Chicago, l’Avvocato Generale dello Stato Ignazio Francesco Caramazza è stato insignito del dottorato in legge honoris causa. La motivazione dell’onorificenza, di cui si allega ampio stralcio, oltre a dare atto della chiara fama e degli eccezionali meriti dell’Avvocato Caramazza, al quale vanno le più sentite felicitazioni, contiene espressioni di altissima considerazione per il nostro Istituto, che costituiscono legittimo motivo d’orgoglio per tutti i suoi componenti» (*) IL SEGRETARIO GENERALE Avv. Ruggero Di Martino CONFERRING OF THE HONORARY DEGREE CANDIDATE FOR THE DEGREE OF DOCTOR OF LAWS Ignazio Francesco Caramazza Avvocato Generale dello Stato Italia Presented by David N. Yellen, JD, Dean, Professor of Law Ignazio Francesco Caramazza is Italy’s most distinguished jurist. He holds the position of Avvocato Generale dello Stato, one of the most significant and challenging achievements of a legal career in Italy. As such, he is the chief of a body of 370 lawyers who are entrusted with representing the government and the public administration in judicial proceedings before national and international courts. His office is entrusted to advise the government and the pu- (*) Comunicazione e-mail da Segreteria Segretario Generale del 24 maggio 2011. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 blic administration on legal matters, including legislative initiatives of utmost importance, which can often involve international relationships. The State Advocate General occupies a singularly important role in the administration of justice in Italy by acting for the State in all legal actions in which the State is made a party or has a legal interest. Traditionally, the State Advocate Genèral is the most respected legal personality in Italy. Dr. Caramazza’s reputation for vigorous advocacy while maintaining fairness goes well beyond the borders of his country. Dr. Caramazza graduated with highest honors from the University of Rome “La Sapienza” School of Law and continued his studies to earn degrees in comparative law from both the University of Helsinki and the University of Strasbourg. His advanced studies licensed him to teach in Institutional Law, Political Economics, Finance, and Statistical Science. He held teaching positions as a professor in Labor Law at the University in Trieste and at the International University of Social Studies “Pro Deo”. From 1983-1994, Dr. Caramazza was General Counselor to the United Nationas Interregional Crime and Justice Research Institute. He has authored numerous legal publications. Throughout his legal carrer, Dr. Caramazza has achieved the highest honors of distinction that have provided him a merit-based selection for positions of leadership to serve his country. He placed first by examination to qualify as Deputy Attorney General and Deputy Attorney Legal Secretary to the Court of Auditors. Thereafter, Dr. Caramazza was appointed to the State’s Attorney Office in Florence, and from 1975, to the Avvocatura General dello Stato in Rome. From 1986-1996, he served as the Secretary General of the Avvocatura dello Stato and as Deputy Advocate General from January 2002 until his appointment in May of 2010 to the Advocate General position. During his time in office he generally dealt with complex affairs in the Constitutional Court, including jurisdictional disputes between the Prime Ministers, Public Prosecutor, and the Criminal Court of Milan. He also represented Italy in the International Criminal Court at The Hague, the European Union Court of Justice in Luxembourg, and the European Court of Human Rights in Strasbourg. Dr. Caramazza served as Secretary of State for Interior, and by appointment of the Prime Minister, served on a Commission of Experts along with 5 other members representing some of the most powerful legal positions in Italy to determine accessibility of Intelligence Documents of State. Dr. Caramazza has handled very sensitive issues involving the U.S. including s case of a CIA kidnapping which defused a source of tension and embarrassment between Italy and the U.S. Our Loyola law students studying in Rome have been the beneficiaries for the past 27 years of the example set by Dr. Caramazza ad a model of achievement and commitment to the common good. Each summer the students have been his honored guests and mentees at the Office of the Attorney General to learn about the function of his office and important cases that maintain the rule of law through his efforts. TEMI ISTITUZIONALI 3 Sull’istituto della mediazione D.Lgs 4 marzo 2010, n. 28, “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”(*) Come preannunciato con la Circolare n. 27/2011, il giorno 11 maggio u.s. si è tenuta presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri una riunione con la partecipazione di rappresentanti del Ministero della Giustizia, del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del DAGL della Presidenza del Consiglio oltre che dell’Avvocatura dello Stato, avente ad oggetto i problemi derivanti dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo indicato in oggetto. All’esito della detta riunione è stato costituito un tavolo di lavoro per individuare delle norme di rango legislativo da introdursi in un Decreto Legge di prossima approvazione per la risoluzione – tra le altre – delle emergenze scaturenti dall’entrata in vigore della mediazione nelle controversie civili e commerciali in cui siano parti soggetti pubblici patrocinati dalla Avvocatura dello Stato. In attesa della definizione del testo – che verrà sottoposto anche all’Avvocatura dello Stato – e che potrebbe richiedere tempi tecnici non necessariamente brevi, è stato concordato che l’Avvocatura assuma in via provvisoria la seguente posizione: • ove l’Amministrazione sia convenuta in ipotesi in cui l’accesso all’organismo di mediazione costituisca condizione di procedibilità di un successivo giudizio, si lascerà all’Ente patrocinato ogni valutazione in ordine alla opportunità di adesione al tentativo di mediazione, rimanendo l’Avvocatura comunque estranea a detta fase preprocessuale; resta ovviamente ferma la possibilità che l’Avvocatura presti la propria attività consultiva in ordine alla eventuale composizione della controversia. Uguale comportamento sarà tenuto nel caso di mediazione “facoltativa”. Allo stato nessuna posizione verrà comunque assunta in ordine all’applicabilità o meno della mediazione alle cause aventi come parti lo Stato e gli altri soggetti patrocinati; • ove l’Amministrazione debba agire in giudizio e non sia possibile differire l’esercizio dell’azione ad un momento successivo all’imminente chiarimento legislativo (ad esempio per lo spirare di un termine prescrizionale), nei casi di mediazione obbligatoria si vorrà di norma procedere alla notificazione dell’atto di citazione senza previa instaurazione del tentivo di mediazione, citando la controparte a comparire per un’udienza fis- (*) Circolare dell’Avvocato Generale n. 29 del 17 maggio 2011 prot. 165448. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sata in data adeguatamente distante, tale da consentire l’adozione del provvedimento normativo e degli eventuali atti organizzati che si rilevassero necessari; emergenze particolari potranno essere oggetto di specifica valutazione. Il ricorso alla mediazione sarà comunque omesso nei casi di mediazione facoltativa. Anche in questo caso nessuna posizione verrrà comunque assunta in ordine alla applicabilità o meno della mediazione alle cause aventi come parti lo Stato e gli altri soggetti patrocinati. Si confida nella puntuale osservanza di quanto disposto, facendo riserva di tempestiva comunicazione degli sviluppi della situazione. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E Primazia comunitaria e strumenti processuali a tutela delle posizioni giuridiche di derivazione europea Federico Maria Giuliani* Nel corso dei decenni, dalla firma del Trattato di Roma fino alla recente entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è intervenuto, sia sui testi dei trattati dell’Unione sia all’interno della elaborazione della Corte di Giustizia, un cospicuo dévelloppement in tema di rapporto fra ordinamento comunitario e ordinamento statuale dei Paesi Membri. Per quel che concerne, in particolare, l’Italia, l’adesione al Trattato istitutivo della CEE si collocava nell’alveo dell’art. 10, comma 1°, Cost., posto che da esso promanavano “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”, e segnatamente disposizioni pattizie plurilaterali, rese esecutive in Italia con apposita legge di ratifica ex art. 80 della Carta costituzionale. Onde è che, su questa base, laddove in origine fosse accaduto che una norma primaria di diritto interno manifestasse una sua contrarietà a disposizioni del Trattato istitutivo o di un regolamento comunitario, le norme CEE potevano essere fatte prevalere su quelle domestiche attraverso lo strumento ermeneutico applicato a queste ultime. Ciò significava che l’interprete (cioè il giudice interno), onde dirimere i dissidi fra disposizioni comunitarie e norme di legge italiane, applicava, onde fare prevalere le prime, il brocardi lex posterior derogat priori ovvero, laddove la norma interna era successiva a quella comunitaria, lex specialis derogat generali – in tale ultimo caso tendendo a pensare proprio il diritto comunitario come legge speciale nelle materie di ri- (*) Avvocato del libero foro di Milano, Master of Laws, già professore a contratto nella Università del Piemonte Orientale. Articolo già pubblicato su “Quadrimestre di Business and Tax” - Rivista free on line di Diritto Tributario e della Impresa - www.businessandtax.it. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 spettiva competenza. Inoltre, a fronte di più possibili soluzioni interpretative di una norma interna in dissidio con norme comunitarie, l’interprete – in particolare il giudice nazionale – evitava il contrasto medesimo mediante l’adozione di quella via ermeneutica, che risultava essere in compliance con le norme CEE. Questi sono i primi - più semplici - strumenti, a mezzo dei quali, in sede processuale “domestica”, i giudici italiani potevano risolvere i contrasti fra norme comunitarie e disposizioni interne. Fin qui la prevalenza dell’ordinamento comunitario rispetto a quello nazionale era piuttosto limitata, così come risultava da almeno due profili: a) anzitutto tale prevalenza lasciava aperto il problema del possibile contrasto tra norme interne e direttive comunitarie, non (ancora) attuate in Italia a mezzo di apposita legge; b) nella su indicata prospettiva, le norme del Trattato CEE finivano con l’essere trattate al pari di qualsivoglia altra convenzione internazionale (bilaterale o multilaterale che fosse), conclusa dall’Italia con Paesi terzi, laddove invece appariva piuttosto evidente che il Trattato di Roma (con la sua posteriore evoluzione) avesse un quid pluris rispetto ad altri impegni pattizi di diritto internazionale pubblico. Ma vi è di più. Rimanendo all’interno di quella primigenia soluzione dei contrasti fra norme, non sempre era possibile sciogliere i nodi in via interpretativa applicando gli strumenti di cui sopra (per i quali soccorreva in parte anche l’art. 15 delle Preleggi): sicché, in mancanza del rimedio ermeneutico, altra soluzione non restava, per sciogliere il contrasto, se non quella del giudizio incidentale dinnanzi alla Consulta, con la derivata dichiarazione d’incostituzionalità della norma interna per violazione della Carta Fondamentale sub art. 10 (cui adde oggi l’art. 117). Fu così che si andò formando, nella giurisprudenza comunitaria e di riflesso in quella italiana, l’idea per cui i trattati europei non sono meramente collocabili sul piano di ogni altra convenzione internazionale stipulata dall’Italia. Piuttosto, a far tempo dalla metà degli anni Ottanta, si cominciò con il dire che il diritto comunitario compenetra il diritto interno del nostro Paese il quale, con la stipula del Trattato istitutivo (e successive integrazioni e modifiche), ha operato un trasferimento di sovranità alle istituzioni comunitarie per tutto ciò che concerne le materie di loro competenza. Questo assunto, poi, è posto in collegamento con quello della diretta applicabilità, in Italia, delle regole comunitarie, laddove queste, secondo il diritto europeo, non abbisognano di apposito intervento da parte del legislatore nazionale (trattati fondativi, regolamenti, sentenze della Corte del Lussemburgo). Questa è la primauté del diritto europeo su quello domestico, in virtù della quale non è (più) necessario instaurare incidentalmente un giudizio costituzionale, onde fare prevalere la norma europea su quella italiana difforme, posto che, proprio per effetto di tale primazia, la norma domestica in dissidio è semplicemente disapplicata - cioè resa inefficace (o “sterilizzata) - dal giudice nazionale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 7 Peraltro, con un ulteriore passo in avanti della giurisprudenza, nell’alveo del diritto comunitario direttamente applicabile – accanto a trattati e ai regolamenti e ai princìpi della Corte – furono fatte rientrare dalla Consulta (sulle orme della Corte del Lussemburgo) anche le direttive c.d. self executing, cioè a dire quelle che, essendo già di per sé chiare e precise e dettagliate, potevano reputarsi efficacemente “aderenti” al caso concreto, nelle more di attuazione del legislatore nazionale. Ciò detto in termini generali, si possono ora vedere taluni strumenti processuali, i quali risultano essere adoperabili per fare valere la primazia del diritto europeo e delle posizioni soggettive da esso promananti, dinnanzi alle corti italiane. Al riguardo va precisato anzitutto che la diretta applicabilità delle direttive self-executing - della quale si è detto - è reputata essere applicabile soltanto nel senso c.d. verticale e non già orizzontale. In altre parole, quella diretta applicazione può essere fatta valere, dinnanzi al giudice nazionale, soltanto a carico dello Stato Membro inadempiente e della sua pubblica amministrazione, ma non invece dei cittadini privati. Ciò in quanto, sul piano ermeneutico, si ritiene non potersi ragionevolmente applicare per le direttive, che non hanno in Italia pubblicità legale pari a quella di una legge nazionale, la presunzione di conoscenza - sì che il rischio della ignorantia legis che non excusat, con riferimento alle direttive direttamente applicabili, è posto solamente a carico dei soggetti pubblici. Bisogna poi aggiungere che sia la Corte europea, sia la giurisprudenza del nostro Paese, riconoscono al soggetto privato il diritto di agire nei confronti dello Stato inadempiente agli obblighi comunitari, per il risarcimento di quel danno che deriva dal mancato o tardivo recepimento di una o più direttive europee. Non vi è chi non veda che, quand’anche la direttiva inattuata non abbia i crismi per essere direttamente applicabile, la primazia del diritto europeo fa sì che, se pure non in forma specifica (ma per equivalente), esista una responsabilità dello Stato verso i consociati in relazione all’appartenenza di quello all’Unione. Si delinea, in tal guisa, una responsabilità extra-contrattuale del Paese Membro verso i suoi consociati, per i danni a questi cagionati a mezzo dell’inadempimento agli obblighi pattizi assunti verso gli altri Paesi Membri. In altre parole, siamo di fronte a una delle possibili “incarnazioni” dell’odierno concetto di risarcibilità del danno, cagionato non soltanto da una violazione di diritti assoluti, ma anche di quelli relativi - così come, anziché di diritti, d’interessi legittimi. In una diversa prospettiva, si può sostentere che siamo in presenza di una posizione giuridica tutelata, in capo all’individuo, a che il diritto comunitario, con la sua primazia, sia adempiuto dal proprio Stato di appartenenza. In analoga prospettiva (quella, cioè, degli strumenti processuali per fare valere le posizioni soggettive di derivazione comunitaria), si può pensare ai 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 casi di contrasto fra il diritto comunitario e un provvedimento amministrativo. Una prima situazione, più facilmente risolubile in termini di tutela effettiva, è quella del provvedimento che intacca un interesse legittimo del privato, e lo fa in applicazione di una norma primaria interna, la quale risulta essere in contrasto con una o più disposizioni comunitarie direttamente applicabili (trattato, regolamento, sentenze della Corte di Giustizia, direttiva self-executing). In tale ipotesi - di c.d. “antipatia” fra norma interna e norma comunitaria -, al giudice amministrativo può essere domandato l’annullamento del provvedimento poiché quest’ultimo risulta essere in violazione di legge. La stessa cosa accade se il provvedimento è in contrasto con una norma primaria interna, la quale è debitamente attuativa di una norma comunitaria: la quale, in altre parole, è in situazione di “simpatia” con l’ordinamento europeo. Più delicato è il caso del provvedimento amministrativo, il quale viene a trovarsi in “simpatia” con la norma primaria interna, quando però è quest’ultima a essere in “antipatia” con il diritto europeo direttamente applicabile. La maggiore problematicità di questa situazione consiste nel fatto che non si tratta di domandare al G.A. l’annullamento del provvedimento amministrativo, ma si tratta piuttosto di fare valere l’interesse a che l’atto stesso non produca i suoi effetti nonostante la conformità con la norma primaria interna - posto che, evidentemente, è quest’ultima a essere violativa, in ipotesi, del diritto europeo dotato di primazia. A fronte di una siffatta peculiarità, si può obiettare che l’istituto della disapplicazione, in quanto tale, possiede anzitutto un oggetto provvedimentale piuttosto che normativo, e dipoi è vòlto a “sterilizzare” un provvedimento dinnanzi al G.O., non potendosi in quella sede domandarne né disporne l’annullamento (art. 4, L.A.C., id est r.d. n. 2248/1865, All. E): ebbene tutto ciò – si osserva – non ha nulla a che fare con il caso in questione. Nondimeno, proprio argomentando sulla scorta della necessaria primauté del diritto europeo su quello domestico, la giurisprudenza ammette che il privato interessato, il quale si veda violato dalla P.A. nel soddisfacimento di un interesse meritevole di tutela, possa impugnare il provvedimento lesivo (chiedendo anche, se del caso, il risarcimento dei danni), per avere la P.A. deliberato e/o agito in violazione del diritto comunitario. Qui l’annullamento è disposto, dal giudice amministrativo, per effetto della disapplicazione della norma (primaria) interna anti-europea. Può altresì capitare che la pubblica amministrazione, anziché subire la diretta applicabilità del diritto europeo, si avvalga, nello svolgimento delle proprie funzioni, della primazia in parola, disapplicando eventuali norme interne in conflitto con l’ordinamento sovranazionale. Si pensi alla nostra Autorità Garante della Concorrenza, la quale applica, per esempio, il regolamento comunitario settoriale, disapplicando eventuali norme domestiche a esso contrarie. In un tale caso - il quale depone nel senso di una maggiore effettività del Garante - ciò che non può farsi (come si è visto) “verticalmente” con le CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 9 direttive self-executing, è invece possibile con un regolamento della Comunità, così come per le altre norme europee direttamente applicabili per loro natura istituzionale. E ancora, in tema di aiuti di Stato (artt. 87 ss., Tratt. CE ante Lisbona, oggi artt. 107 ss. TFUE), può accadere che la Commissione europea reputi che una sovvenzione sia contraria al divieto comunitario e, per conseguenza, ordini allo Stato Membro di ripetere il relativo esborso dai beneficiari. A tal proposito, la Corte del Lussemburgo ha stabilito che il Paese Membro è obbligato al recupero dell’indebito quand’anche si tratti, allo scopo, di oltrepassare la norma interna sugli effetti della cosa giudicata. In questo caso è la Pubblica Amministrazione a (dovere) procedere a una disapplicazione dell’art. 2909 c.c. a scapito dei privati e non viceversa, posto che questi hanno incassato gli aiuti avallati da un giudicato interno eppure contrari al diritto europeo. Peraltro una siffatta disapplicazione, nel caso di successivo contenzioso tra P.A. e privato beneficiario (il quale per esempio si opponga al recupero statuale), dovrà essere operata anche dal giudice investito della controversia – così emergendo, dinnanzi a esso, una posizione giuridica tutelata in capo all’autorità pubblica, che è interessata al recupero dell’aiuto erogato. Bisogna, al riguardo, notare che l’arresto della Corte di Giustizia sulla ripetizione degli aiuti di Stato nella direzione appena ricordata, se osservato superficialmente può sembrare in contrasto con altre pronunce dei Giudici del Lussemburgo, le quali salutano con favore le norme interne dei Paesi Membri in tema di cosa giudicata, in virtù del loro contributo alla certezza del diritto all’interno della Unione; e tuttavia, ove osservata oltre la superficie, quella stessa giurisprudenza della Corte sugli aiuti manifesta che, nel caso concreto di causa, non era stata impugnata nei termini dinnanzi alla Corte stessa – divenendo così definitiva ai fini del diritto comunitario – la decisione con cui la Commissione aveva ordinato la ripetizione delle erogazioni sulla base della loro contrarietà al divieto europeo. Sì che, alla luce di tale sopravvenuta definitività del decisum dalla Commissione, il superamento del giudicato interno, operato da tale organo e avallato dai Giudici del Lussemburgo, risulta essere meno eclatante oltre che non-contraddittorio rispetto ad altre pronunce della Corte europea. Fin qui si è visto come, in varie circostanze processuali, il diritto comunitario compenetri il diritto interno nelle materie di competenza di quello, imponendosi direttamente - in primauté - a mezzo dell’interpretazione e/o della disapplicazione delle disposizioni nazionali con esso incompatibili. Vi sono poi anche situazioni peculiari, nelle quali gli strumenti processuali a disposizione sono diversi e meno diretti. Si consideri ad esempio la posizione della presidenza del consiglio dei ministri italiana la quale, ai sensi dell’art. 134 Cost., instauri un giudizio principale dinnanzi alla Consulta e in contraddittorio con una regione, assumendo che quest’ultima, con propria legge asseritamente legittima, ha introdotto un 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tributo locale il quale invece, secondo la prospettazione dello Stato, è contrario al diritto europeo vuoi sotto l’aspetto del divieto degli aiuti vuoi sotto l’aspetto della non-discriminazione. Ebbene in un tale caso - effettivamente verificatosi per taluni tributi sardi, posti a carico dei soggetti non fiscalmente domiciliati nell’isola -, la Corte Costituzionale ha posto la questione in termini non già di disapplicazione delle norme tributarie regionali, bensì in termini di costituzionalità o meno delle stesse, posto che, del raffronto tra esse e l’art. 117 Cost., si verteva in un giudizio principale dello Stato in contraddittorio con la Regione autonoma, e non già in un giudizio incidentale instaurato a seguito della rimessione degli atti da parte di altro giudice. In questo caso il Giudice delle Leggi non applica direttamente il diritto europeo, ponendosi piuttosto (con una innovazione salutata con plauso dai Giudici del Lussemburgo) nella prospettiva di un doveroso filtro di costituzionalità, per applicare il quale - poi - l’interpretazione del diritto europeo spetta alla Corte di Giustizia, entro l’apposito giudizio pregiudiziale e incidentale rispetto a quello costituzionale, instaurato e instaurando ai sensi dell’art. 234 Tratt. CE (oggi 267 TFUE). Né deve pensarsi che primauté del diritto europeo significhi anche, in eventuali casi-limite, stravolgimento di punti nevralgici e portanti dell’ordinamento interno della Repubblica. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale promosso dalle nostre corti e condiviso in dottrina, si delinea la c.d. “teoria dei controlimiti” rispetto al “limite” incombente della normativa comunitaria. Ciò significa che la primauté europea trova un suo limite invalicabile, ogni qual volta si tratta di mettere in discussione norme interne, la cui ratio s’ispira a principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e/o a diritti inalienabili che da esso promanano in capo alla persona umana (la salute, per esempio). Infine, la primazia del diritto comunitario – come si è detto – può riguardare (anziché norme pattizie o regolamenti o direttive dettagliate) principi enunciati dall’alta Corte di Giustizia. Anche per essi vale la regola della diretta applicabilità, con eventuale prevalenza su norme di diritto interno disapplicabili. Così, nel caso di una sentenza definitiva della nostra Suprema Corte, la quale è ritenuta essere in contrasto con il diritto comunitario, la relativa azione civile contro la Presidenza del Consiglio per il risarcimento dei danni, esperita ai sensi della legge n. 117 del 1988, non può prescindere da taluni criteri-base fissati in proposito dai Giudici del Lussemburgo. In particolare, a fronte della eccezione statuale giusta la quale non sussisterebbe responsabilità alcuna - non essendo i giudici di Cassazione incorsi in una colpa grave ed essendosi piuttosto limitati a fornire una certa interpretazione delle norme (ex art. 2, legge n. 117 cit.) -, l’attore, il quale lamenta una violazione del diritto UE da parte del Supremo Collegio, potrebbe fondatamente obiettare che, secondo il dictum dei Giudici del Lussemburgo, una responsabilità dello Stato Membro, per violazione del diritto europeo da parte di un giudice nazionale di ultima CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 11 istanza, non può essere revocata in dubbio neanche sulla scorta di un’asserita culpa levis, ogni qual volta la inosservanza delle norme europee (direttamente applicabili) sia grave ed evidente. In questo caso si fa valere fondatamente, in un giudizio italiano, una posizione giuridica che è di derivazione comunitaria, e lo è in punto d’interpretazione correttiva di norme interne, dettate in tema di responsabilità statale per i danni cagionati nell’esercizio di talune funzioni giudiziarie, svolte dai magistrati con falsa applicazione del diritto europeo. Analoga da ultimo - e sulla scorta del dictum della Corte di Lussemburgo - è la posizione della nostra giurisprudenza in tema di responsabilità della P.A. per i danni cagionati con i provvedimenti illegittimi. Si afferma, infatti, che non può - e non deve - incombere al danneggiato l’onere della prova dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) dell’illecito, dovendosi piuttosto la pubblica autorità fare carico di provare la scusabilità della propria condotta colposa, ascrivibile a una obiettiva incertezza della interpretazione e applicazione delle norme giuridiche sottese all’invalido provvedimento lesivo. Restano sempre fermi, di sponda – per così dire –, i controlli della teoria dei “controlimiti”, tali per cui, comunque e in ogni caso, la primazia, e la diretta applicabilità, dell’ordinamento europeo dentro e sopra l’ordinamento statuale non può, d’altronde, mai oltrepassare/intaccare/sminuire i principi/diritti fondamentali dettati dalla Carta Costituzionale. 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE Il divieto di conversione a tempo indeterminato dei contratti a termine nel pubblico impiego (Corte di giustizia dell’Unione europea, Sesta Sezione, ordinanza 1 ottobre 2010, causa C-3/2010, Affatato) Con l’ordinanza del 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, ribadendo quanto già affermato con le sentenze 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu e Sardino e 7 settembre 2006, causa C-180/04, Vassallo, ha precisato che il diritto dell’Unione non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, quinto comma, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato quando l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro preveda, nel settore interessato, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione. La domanda pregiudiziale, sollevata dal Tribunale di Rossano in funzione di Giudice del lavoro con ordinanza del 14 dicembre 2009, trae origine da una controversia instaurata da un lavoratore nei confronti di un’Azienda Sanitaria Locale con la quale il primo, premettendo di aver lavorato con plurimi contratti a tempo determinato, chiede dichiararsi la nullità dei termini apposti a detti contratti e, conseguentemente, disporsi la conversione dei medesimi in contratto a tempo indeterminato con reintegrazione nel posto di lavoro e pagamento delle retribuzioni dovute dalla cessazione dell’ultimo contratto alla effettiva reintegra. Il ricorrente nella causa principale assume infatti che la stipula di reiterati contratti a tempo determinato sarebbe stata effettuata in violazione del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 recante attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES ed in particolare: dell’art. 1 del predetto decreto legislativo in quanto le mansioni nelle quali era stato impiegato (utilizzazione di macchinari e attrezzature specifiche, cura e riordino di ambienti ospedalieri, accompagnamento e spostamento di degenti ecc.) non rispondevano ad esigenze eccezionali o straordinarie bensì permanenti e LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 13 durature, senza che fossero state esplicitate nel contratto le puntuali ragioni che avevano giustificato l’apposizione del termine; dell’art. 4 del citato decreto legislativo in quanto la proroga sarebbe avvenuta in assenza di oggettive ragioni che avrebbero potuto giustificarla nonché dell’art. 5 del predetto decreto legislativo poiché non sarebbe stato rispettato il limite temporale tra le assunzioni. Nell’ipotesi di ritenuta non convertibilità dei contratti a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato alla luce dell’art. 36, comma 5 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 16, in base al quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, il ricorrente nella causa principale chiede, in subordine, il risarcimento del danno da liquidarsi tenuto conto della aspettativa di stabilizzazione, da rapportarsi alle retribuzioni medio tempore non percepite tra la stipula del primo fino all’ultimo contratto. L’Azienda sanitaria, resistente nella causa principale, contesta la fondatezza di tutte le domande rivolte nei suoi confronti, assumendo che il termine sarebbe da considerarsi elemento essenziale dei contratti stipulati con il ricorrente e che l’ipotesi di conversione in contratto a tempo indeterminato avrebbe l’effetto di introdurre una nuova ipotesi di reclutamento del personale in violazione del citato art. 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001 nonché dell’art. 35 dello stesso decreto, che sancisce il principio generale, riconducibile all’art. 97 della Costituzione, del reclutamento nei pubblici impieghi a mezzo di pubblico concorso. Del resto, il divieto per le pubbliche amministrazioni di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato in ragione dei vincoli di bilancio, disposto da numerose leggi finanziarie, avrebbe costretto la resistente ad operare assunzioni a tempo determinato. Secondo la resistente, inoltre, la richiesta di risarcimento del danno, avanzata in subordine, sarebbe infondata non esistendo a monte il diritto che si assumerebbe leso, non essendovi stata alcuna violazione della normativa che disciplina la conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato. La normativa rilevante nella causa principale, oltre a quella di portata generale di cui al decreto legislativo n. 368 del 2001 e di cui all’art. 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001, è costituita dalla normativa speciale dettata per il settore sanitario e volta a garantire il rispetto degli obblighi comunitari in materia di realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. In particolare, ai sensi dell’art. 1, commi 98 e 107 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 per gli anni 2005 e 2006, dell’art. 1, comma 198 della legge 23 dicembre 2004, n. 311 per l’anno 2006 e dell’art. 1, comma 565 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 per il triennio 2007-2009, gli enti del Servizio sanitario nazionale concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 adottando misure necessarie a garantire che le spese del personale non superino l’ammontare ivi determinato, considerando a tal fine anche le spese per il personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni. Il citato art. 1, comma 656 della legge n. 296 del 2006 prevede alla lettera a), n. 1, 2 e 3 che gli enti del Servizio sanitario nazionale individuino la consistenza organica del personale dipendente a tempo indeterminato e la relativa spesa nonché la consistenza del personale che presta servizio con rapporto di lavoro a tempo determinato e la relativa spesa e predispongano un programma di revisione delle predette consistenze finalizzato alla riduzione della spesa complessiva di personale. In tale ambito, è verificata la possibilità di trasformare le posizioni di lavoro già coperte da personale precario in posizioni di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Da quanto sopra si deduce che, oltre alla normativa generale fondata sul necessario rispetto del reclutamento a mezzo di procedure selettive in ossequio al dettato dell’art. 97 della Costituzione italiana, la normativa di settore prevede limiti stringenti alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari motivato da esigenze di contenimento della spesa pubblica. A fronte di tale disciplina di dettaglio, propria del settore sanitario, il Governo italiano ha dedotto, nelle proprie osservazioni scritte, l’inconferenza, ai fini della decisione della causa principale, della normativa differenziata e propria di altri settori, quali quello dei lavori socialmente utili, del personale scolastico o del personale alle dipendenze delle Poste italiane S.p.A. Con l’ordinanza in commento, la Corte di Giustizia, conformemente a quanto eccepito dal Governo italiano, ha preliminarmente dichiarato l’irricevibilità di 12 quesiti sui 16 prospettati dal Tribunale di Rossano, nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, in quanto del tutto irrilevanti rispetto ai fatti di causa, vertenti esclusivamente sulla reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore sanitario. In detta decisione, la Corte ha inoltre riconosciuto la conformità al diritto dell’Unione di una normativa, quale quella italiana, che, nell’ipotesi di abuso conseguente alla reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, vieta, nel settore del pubblico impiego, che detti contratti siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, allorché l’ordinamento giuridico dello Stato membro appresti altre misure idonee a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione. Tali misure, anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 dal decreto-legge n. 112/08 convertito dalla legge n. 133/08 nonché dal decreto-legge n. 78/09 convertito dalla legge n. 102/09 (successive alle citate sentenze Marrosu e Sardino e Vassallo) sembrano soddisfare, secondo la LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 15 Corte (punti 48 e 49), i requisiti di proporzionalità, effettività ed equivalenza ed appaiono sufficientemente dissuasive sebbene spetti comunque al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato ad evitare e, se del caso, a sanzionare il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione. Infatti, da un lato, i commi 4-bis, 4-quater, 4-quinquies e 4-sexies aggiunti all’art. 5 del decreto legislativo n. 368 del 2001 dalla legge n. 247 del 2007 hanno fissato ulteriori paletti per evitare la reiterazione di contratti a termine, stabilendo una durata massima al di là della quale il contratto si considera a tempo indeterminato e introducendo un diritto di precedenza di chi abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi nelle assunzioni a tempo indeterminato, dall’altro, l’art. 36, comma 5 del decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal decreto-legge n. 112 del 2008 convertito dalla legge n. 133 del 2008 ha previsto, oltre al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e alla responsabilità per dolo e colpa grave dei dirigenti nei confronti dei quali l’amministrazione deve recuperare le somme erogate a tale titolo, anche due ulteriori conseguenze a carico dei predetti dirigenti, consistenti nell’impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale e nella considerazione della predetta violazione nell’ambito della valutazione dell’operato del dirigente medesimo. Inoltre, il comma 3 del predetto art. 36 come modificato dall’art. 17, comma 26 del decreto-legge n. 78 del 2009 convertito dalla legge n. 102 del 2009 prevede che “al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato”. Sono stati quindi previsti ulteriori elementi dissuasivi, conformemente a quanto disposto dalla clausola 5 dell’accordo quadro, che non prevede affatto come obbligatoria la sanzione della conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, come riconosciuto anche dal giudice del rinvio, ma solo una preferenza di tale misura, che ben può quindi essere esclusa per una determinata categoria di lavoratori, come quelli alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, per i quali vige il principio del concorso pubblico ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo n. 165 del 2001. La clausola 5 dell’accordo quadro rimette infatti agli Stati, previa consultazione con le parti sociali, di stabilire a quali condizioni i contratti di lavoro a tempo determinato devono essere ritenuti contratti a tempo indeterminato, lasciando quindi agli Stati medesimi la possibilità di prevedere misure alternative alla predetta conversione del rapporto. Quanto ai criteri per determinare l’adeguatezza delle sanzioni, e quindi l’entità del risarcimento del danno, ove la conversione in contratto a tempo indeterminato sia esclusa dalla normativa interna, e sempre che vi sia stata 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 violazione di detta normativa, la Corte ha chiarito che spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione siano conformi ai principi di effettività e di equivalenza. Avv. Wally Ferrante* Corte di giustizia (Sesta Sezione) ordinanza 1 ottobre 2010 nella causa C-3/10 - Pres. P. Lindh, Rel. A. Ó Caoimh, Avv. gen. N. Jääskinen - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Rossano - Franco Affatato / Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. «Art. 104, n. 3, del regolamento di procedura – Politica sociale – Direttiva 1999/70/CE – Clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico – Successione di contratti – Abuso – Misure di prevenzione – Sanzioni – Trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato – Divieto – Risarcimento del danno – Principi di equivalenza e di effettività » (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 2 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), che compare in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43), nonché del principio della parità di trattamento. 2 Questa domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra il sig. Affatato e il suo datore di lavoro, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, in merito alla qualificazione dei contratti di lavoro che vincolavano l’attore a quest’ultima e al mancato rinnovo dell’ultimo contratto del sig. Affatato. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 La direttiva 1999/70 si fonda sull’art. 139, n. 2, CE e mira, ai sensi del suo art. 1, ad «attuare l’accordo quadro (…), che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, UNICE, CEEP)». 4 Ai sensi della clausola 1 dell’accordo quadro, «[l]’obiettivo del presente accordo quadro è: a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 5 La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro così dispone: «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore (*) Avvocato dello Stato. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 17 di ciascuno Stato membro». 6 La clausola 3 del medesimo accordo quadro così recita: «Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. (…)». 7 La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro dispone quanto segue: «Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive». 8 La clausola 5 dell’accordo quadro così recita: «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». 9 A norma dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70: «Gli Stati membri mettono in atto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi entro il 10 luglio 2001 o si assicurano che, entro tale data, le parti sociali introducano le disposizioni necessarie mediante accordi. Gli Stati membri devono prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla presente direttiva. Essi ne informano immediatamente la Commissione». La normativa nazionale 10 L’art. 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, recante attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES (GURI n. 235 del 9 ottobre 2001, pag. 4; in prosieguo: il «d. lgs. n. 368/2001»), nella versione in vigore al momento dei fatti su cui verte la causa principale, dispone quanto segue: «1. È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (…). 2. L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1. (…)». 11 L’art. 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (Supplemento ordinario 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 chiarati nulli, dal momento che la durata determinata prevista dai medesimi sarebbe stata stabilita in violazione delle norme di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001. 16 Per quanto concerne le conseguenze da trarre da una siffatta violazione, questo giudice osserva tuttavia che, a differenza del regime in vigore per i rapporti di lavoro nel settore privato, l’art. 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001 vieta tassativamente, nel settore pubblico, la conversione dei contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati in successione, in un contratto a durata indeterminata. Peraltro, la giurisprudenza nazionale sarebbe contraddistinta dall’esistenza di posizioni contrastanti in merito alla risarcibilità del danno sofferto dal lavoratore interessato a causa della conclusione in successione di siffatti contratti di lavoro a tempo determinato e, comunque, questa giurisprudenza non fornirebbe nessun orientamento chiaro in merito ai criteri da prendere in considerazione per garantire un carattere effettivo e dissuasivo al risarcimento di detto danno. 17 D’altronde, il Tribunale di Rossano rileva che la normativa introdotta con i decreti legislativi nn. 165/2001 e 368/2001 al fine di recepire la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro non si applicano né ai lavoratori socialmente utili né a quelli di pubblica utilità, per i quali il diritto nazionale esclude persino che esista un rapporto di lavoro, né ai lavoratori del settore della pubblica istruzione. 18 Questo giudice sottolinea inoltre che l’art. 2, comma 1 bis, del d. lgs. n. 368/2001 prevede che le imprese concessionarie di servizi postali, ossia in realtà la sola impresa Poste Italiane SpA (in prosieguo: le «Poste Italiane»), possano concludere contratti di lavoro a tempo determinato per un periodo massimo di sei mesi, compreso tra il mese di aprile e quello di ottobre, o per un periodo di quattro mesi in altri momenti dell’anno, in una misura che non superi il 15% degli organici dell’impresa calcolati al 1° gennaio dell’anno interessato, senza doverne indicare i motivi. 19 Tale giudice rileva parimenti che le procedure di «stabilizzazione» istituite mediante leggi finanziarie tra il 2006 e il 2008, in forza delle quali taluni contratti di lavoro a tempo determinato possono essere convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, non si applicano a talune categorie di lavoratori. 20 Alla luce di ciò, il giudice del rinvio si chiede se una norma nazionale, quale l’art. 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001, volta al recepimento della direttiva 1999/70 e dell’accordo quadro, possa essere considerata una misura generale che garantisca efficacemente la prevenzione e la sanzione per l’uso abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, dato che la normativa interna introduce talune distinzioni in merito al regime legislativo vigente per i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato, in base alle categorie di lavoratori interessati. 21 Il Tribunale di Rossano ha pertanto deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) se la clausola 2, punto 1, dell’Accordo Quadro recepito dalla direttiva [1999/70] osti ad una norma interna, come quella dettata per i lavoratori socialmente utili/lavoratori di pubblica utilità dall’art. 8, comma 1, del D.lgs. n. 468/97 e dall’art. 4, comma 1, [del d. lgs.] n. 81/00, che, nell’escludere per [i] lavoratori da essa disciplinati la instaurazione di un rapporto di lavoro, finisce con l’escludere la applicabilità della normativa sul rapporto di lavoro a termine di recepimento della direttiva 1999/70 (…); 2) se la clausola n. 2.2 dell’Accordo Quadro recepito dalla direttiva [1999/70] consenta di includere lavoratori come i lavoratori socialmente utili/lavoratori di pubblica utilità, disciplinati dal D.lgs. n. 468/97 e dal [d. lgs.] n. 81/00, nell’ambito di non applicazione della direttiva LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 19 alla GURI n. 106 del 9 maggio 2001; in prosieguo: il «d. lgs. n. 165/2001»), dispone quanto segue: «1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35. 2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato (…) (…) 5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave (…) (…)». Causa principale e questioni pregiudiziali 12 Dall’ordinanza di rinvio emerge che il sig. Affatato ha stipulato con l’Azienda Sanitaria Locale n. 3 di Rossano, poi incorporata nell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, ambedue enti pubblici, sei contratti di lavoro a tempo determinato in successione, sulla base dei quali ha svolto l’attività di ausiliario specializzato socio-sanitario. Questi contratti sono stati validi, rispettivamente, dal 18 marzo 1996 al 16 maggio 1996, dal 3 agosto 1996 al 2 ottobre 1996, dal 18 dicembre 2000 al 17 febbraio 2001, dal 6 marzo 2002 al 5 luglio 2002, dal 20 agosto 2002 al 19 dicembre 2002 e dal 21 febbraio 2003 al 20 giugno 2003. 13 Poiché riteneva che questa attività soddisfacesse in realtà esigenze permanenti e durature del suo datore di lavoro, il sig. Affatato ha adito il Tribunale di Rossano per ottenere, in via principale, la conversione di questi contratti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato e la condanna del suo datore di lavoro a reintegrarlo, occupandolo in forza di un siffatto contratto, e a versargli l’importo delle retribuzioni maturate a partire dalla data di scadenza dell’ultimo contratto sino a quella della sua effettiva reintegrazione. Il sig. Affatato chiede, in subordine, la condanna dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza al pagamento delle retribuzioni per i periodi di sospensione del rapporto di lavoro trascorsi tra il primo e l’ultimo contratto di lavoro. 14 Il Tribunale di Rossano rileva nell’ordinanza di rinvio che i contratti di lavoro di cui è causa non contengono nessuna indicazione riguardo alle ragioni per le quali questi ultimi sono stati conclusi a tempo determinato e che l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza non nega che il ricorso a tale durata determinata sia stato motivato non da ragioni tecniche, organizzative o produttive relative alle obiettive necessità di un rapporto di lavoro a carattere temporaneo, bensì per l’impossibilità di procedere ad assunzioni ordinarie a causa del blocco delle assunzioni previsto da diverse leggi finanziarie. 15 Secondo il giudice del rinvio, da ciò deriverebbe che questi contratti debbano essere di- 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 1999/70 (…); 3) se i lavoratori di cui al quesito n. 2 rientrino nell’ambito definitorio di cui alla clausola 3.1 dell’Accordo Quadro recepito dalla direttiva 1999/70 (…); 4) se la clausola 5 dell’Accordo Quadro recepito dalla direttiva 1999/70 (…) ed il principio di uguaglianza/non discriminazione ostino ad una disciplina per lavoratori nel settore scuola (cfr. in particolare l’art. 4, comma 1, L. n. 124/99 e l’art. 1, comma 1, lettera a, del D.M. n. 430/00), che consenta di non indicare la causalità del primo contratto a termine, prevista in via generale dalla disciplina interna per ogni altro rapporto di lavoro a termine, nonché di rinnovare i contratti indipendentemente dalla sussistenza di esigenze permanenti e durevoli, non preveda la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti, nonché normalmente nessuna distanza tra i rinnovi ovvero, nell’ipotesi delle supplenze annuali, corrispondente alle vacanze estive in cui la attività scolastica è sospesa, ovvero fortemente ridotta; 5) se il corpus di disposizioni normative del settore scuola, come descritto, possa ritenersi complesso di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi; 6) se, ai sensi dell’art. 2 della direttiva 1999/70 (…), il D.lgs. n. [368/2001] e l’art. 36 del D.lgs. n. [165/2001] possano ritenersi disposizioni aventi caratteristiche di disposizione di recepimento della direttiva 1999/70 (…) in relazione ai rapporti di lavoro a termine nel settore scuola; 7) se un soggetto, avente le caratteristiche di [Poste Italiane], ovvero: a) è di proprietà dello Stato; b) è sottopost[o] al controllo dello Stato; c) il Ministero delle comunicazioni opera la scelta del fornitore del servizio universale ed in genere svolge tutte le attività di verifica e controllo materiale e contabile del soggetto in questione, con fissazione degli obiettivi relativi al servizio universale reso; d) esercita un servizio di pubblica necessità di preminente interesse generale; e) il bilancio del soggetto è collegato al bilancio dello Stato; f) i costi del servizio reso sono determinati dallo Stato che corrisponde al soggetto importi per coprire i maggiori costi del servizio, debba ritenersi organismo statale, ai fini della diretta applicazione del diritto [dell’Unione]; 8) in caso di risposta positiva al quesito n. 7, se ai sensi della clausola 5 detta società possa costituire settore, ovvero l’intero ambito del personale da questa impiegabile possa essere ritenuto categoria specifica di lavoratori, ai fini della differenziazione delle misure ostative; 9) in caso di risposta positiva al quesito n. 7, se la clausola 5 [dell’accordo quadro di cui all’allegato] della direttiva [1999/70] da sé sola, ovvero in uno con la clausole 2 e 4 ed il principio di uguaglianza/non discriminazione, osti ad una disposizione quale l’art. 2, comma 1 bis, del D.lgs. n. [368/2001], che consente una a-causale apposizione del termine al contratto di lavoro in relazione ad uno specifico soggetto, ovvero esima detto soggetto, differentemente dalla misura ostativa interna ordinariamente prevista (art. 1 del d.lgs. n. [368/2001]), dall’indicare per iscritto e provare, in caso di contestazione, le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che hanno determinato la apposizione del termine al contratto di lavoro, tenuto conto che è possibile procedere ad una proroga dell’originario contratto richiesta da ragioni oggettive e riferentesi alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato; 10) se il D.lgs. n. [368/2001] e l’art. 36, comma 5, del D.lgs. n. [165/2001] costituiscano normativa generale di recepimento della direttiva 1999/70 (…) per il personale dipendente dello LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 21 Stato, tenuto conto delle eccezioni a dette disposizioni generali come definite all’esito della risposta ai quesiti da 1 a 9; 11) se, in mancanza di disposizioni sanzionatorie in relazione ai lavoratori socialmente utili/lavoratori di pubblica utilità e della Scuola come descritti, la direttiva 1999/70 (…), ed in particolare la clausola 5, comma 2, lett. b), osti alla applicazione analogica di una disciplina meramente risarcitoria, quale quella prevista dall’art. 36, comma 5, del D.lgs. n. [165/2001], ovvero se la clausola 5, comma 2, lett. b, ponga un principio di preferenza perché i contratti o rapporti siano ritenuti a tempo indeterminato; 12) se il principio [dell’Unione] di uguaglianza/non discriminazione, la clausola 4, la clausola 5.1, ostino ad una differenziazione di discipline sanzionatorie nel settore “personale dipendente degli organismi [dello] Stato” sulla scorta della genesi del rapporto di lavoro, ovvero del soggetto datore di lavoro, o ancora nel settore Scuola; 13) se, definito l’ambito interno di recepimento della direttiva 1999/70 (…) nei confronti dello Stato e degli organismi ad esso equiparati a seguito della risposta ai quesiti precedenti, la clausola 5 osti ad una disciplina quale quella di cui all’art. 36, comma 5, del D.lgs. n. [165/2001], che vieti in maniera assoluta verso lo Stato la conversione dei rapporti di lavoro, ovvero quali ulteriori verifiche debbano essere compiute dal giudice interno al fine della non applicazione del divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni; 14) se la direttiva 1999/70 (…) debba operare integralmente nei confronti della [Repubblica italiana], ovvero se la conversione dei rapporti di lavoro nei confronti della PA appaia essere contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento interno e, quindi, da non applicare in parte qua la clausola 5, perché determinante effetto contrario all’art. [4 TUE], non rispettando la struttura fondamentale, politica e costituzionale ovvero funzioni essenziali del[la Repubblica italiana]; 15) se la clausola 5 [dell’accordo quadro di cui all’allegato] della direttiva 1999/70 (…), nel prevedere, in ipotesi di divieto di conversione del rapporto di lavoro, la necessità di una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, rispetto ad analoghe situazioni di diritto interno, al fine di sanzionare debitamente gli abusi derivanti dalla violazione della stessa clausola 5 e di eliminare le conseguenze della violazione del diritto [dell’Unione], imponga di tener conto quale situazione analoga di diritto interno del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con lo Stato, cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in assenza dell’art. 36, ovvero di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con soggetto privato, nei confronti del quale il rapporto di lavoro avrebbe avuto caratteristiche di stabilità analoghe a quelle di un rapporto di lavoro con lo Stato; 16) se la clausola 5 [dell’accordo quadro di cui all’allegato] della direttiva 1999/70 (…), nel prevedere, in ipotesi di divieto di conversione del rapporto di lavoro, la necessità di una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, rispetto ad analoghe situazioni di diritto interno, al fine di sanzionare debitamente gli abusi derivanti dalla violazione della stessa clausola 5 e di eliminare le conseguenze della violazione del diritto [dell’Unione], imponga di tener conto quale sanzione: a) del tempo necessario a trovare nuova occupazione e della impossibilità ad accedere ad una occupazione che presenti le caratteristiche di cui al quesito sub 15; b) ovvero, di contro, del monte delle retribuzioni che si sarebbero percepite in ipotesi di conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato». 22 Il giudice del rinvio, ritenendo che dette questioni richiedessero una risposta urgente da 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 parte della Corte in considerazione, in particolare, del fatto che il diritto del lavoro mal si concilia con tempi lunghi di giudizio e della circostanza che un gran numero di controversie identiche sono pendenti dinanzi ai giudici nazionali, ha chiesto alla Corte di sottoporre questo rinvio pregiudiziale a procedimento accelerato, in applicazione dell’art. 104 bis, primo comma, del regolamento di procedura. 23 Il presidente della Corte ha respinto tale richiesta con ordinanza 16 marzo 2010, ritenendo non soddisfatte le condizioni previste da detto art. 104 bis, primo comma. Sulle questioni pregiudiziali Sulle questioni dalla prima alla dodicesima 24 Con le sue questioni dalla prima alla dodicesima, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le disposizioni dell’accordo quadro, in particolare le clausole 2, 4 e 5 del medesimo, ostino a una normativa nazionale relativa ai lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità, nonché a quelle applicabili al personale della Poste Italiane e del settore della scuola posto che, segnatamente, queste ultime contengono eccezioni alla disciplina adottata dallo Stato membro interessato al fine di recepire la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro nell’ordinamento interno, quale risultante dai decreti legislativi nn. 165/2001 e 368/2001 rilevanti nella causa principale, con conseguente vigenza di regimi sanzionatori diversi nell’ipotesi di ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato. 25 In forza degli artt. 92, n. 1, e 103, n. 1, del suo regolamento di procedura, quando una domanda di pronuncia pregiudiziale è manifestamente irricevibile, la Corte, sentito l’avvocato generale, senza proseguire il procedimento, può statuire con ordinanza motivata. 26 Si deve ricordare in proposito che, secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito della collaborazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’art. 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, al quale è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità della decisione giurisdizionale da emanare, valutare, alla luce delle particolari circostanze della fattispecie, sia la necessità di una decisione pregiudiziale ai fini della pronuncia della propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che esso sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate dal giudice del rinvio vertono sull’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (v. sentenze 4 luglio 2006, causa C 212/04, Adeneler e a., Racc. pag. I 6057, punto 41; 7 settembre 2006, causa C 53/04, Marrosu e Sardino, Racc. pag. I 7213, punto 32, e 24 giugno 2010, causa C 98/09, Sorge, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 24, nonché ordinanza 12 giugno 2008, causa C 364/07, Vassilakis e a., punto 42). 27 Tuttavia spetta alla Corte esaminare le condizioni in presenza delle quali è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza. Infatti, lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del procedimento pregiudiziale implica che il giudice nazionale, dal canto suo, tenga presente la funzione di cui la Corte è investita, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o teoriche (v., in tal senso, citate sentenze Adeneler e a., punto 42, e Marrosu e Sardino, punto 33, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 43). 28 A questo proposito, il rigetto di una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione non ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale, oppure qualora il problema sia di natura teorica o la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v. sentenze Marrosu LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 23 e Sardino, cit., punto 33, e 23 novembre 2006, causa C 238/05, Asnef Equifax e Administración del Estado, Racc. pag. I 11125, punto 17, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 44). 29 Dall’ordinanza di rinvio si ricava che, come osservato al punto12 della presente ordinanza, nella causa principale i contratti di lavoro di cui trattasi sono stati conclusi tra il sig. Affatato ed un ente sanitario locale in merito all’espletamento di mansioni di ausiliario specializzato socio-sanitario. 30 Risulta quindi chiaro che tali contratti di lavoro non sono stati conclusi dal ricorrente nella causa principale in quanto lavoratore socialmente utile o lavoratore di pubblica utilità, non vertono sull’espletamento di mansioni svolte nell’ambito del settore della scuola e non sono stati neppure conclusi con Poste Italiane. 31 Orbene, il giudice del rinvio, benché esponga nei dettagli il contenuto delle varie normative applicabili a queste specifiche categorie di lavoratori, non spiega assolutamente per quale ragione, anche ipotizzando che tali specifiche normative non siano conformi all’accordo quadro, questa circostanza possa incidere sulla causa principale dato che è pacifico che il sig. Affatato non rientra nell’ambito di applicazione di dette normative, bensì è soggetto ai provvedimenti previsti dai decreti legislativi nn. 165/2001 e 368/2001, adottati al fine di recepire la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro. 32 Pertanto, come osservato dalla Commissione e, in parte, dal governo italiano, è giocoforza constatare che l’interpretazione del diritto dell’Unione chiesta dal giudice del rinvio riguardo alle diverse specifiche normative che esso menziona non ha manifestamente nessun rapporto con la realtà e l’oggetto della causa principale. 33 Di conseguenza, occorre dichiarare manifestamente irricevibili le prime dodici questioni. Sulle questioni dalla tredicesima alla sedicesima 34 Con le sue questioni dalla tredicesima alla sedicesima, vertenti sul regime sanzionatorio previsto dalla normativa nazionale avente lo scopo di recepire l’accordo quadro nel settore pubblico, il giudice nazionale mira ad accertare se detta normativa costituisca un’attuazione adeguata di tale accordo quadro, dato che essa vieta in modo assoluto, nel settore pubblico, la conversione dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato (questioni tredicesima e quattordicesima), e chiede inoltre di precisare i criteri idonei a garantire l’adeguatezza delle sanzioni in caso di ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (questioni quindicesima e sedicesima). 35 Ai sensi dell’art. 104, n. 3, primo comma, del regolamento di procedura della Corte, qualora la soluzione di una questione pregiudiziale sia identica ad una questione sulla quale la Corte ha già statuito o qualora la soluzione di tale questione possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza, la Corte, dopo aver sentito l’avvocato generale, può statuire, in qualsiasi momento, con ordinanza motivata. Sul divieto assoluto di convertire contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato nel settore pubblico 36 Con le sue questioni, il giudice del rinvio chiede in sostanza se la clausola 5 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, quale quella prevista dall’art. 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un con- 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tratto di lavoro a tempo indeterminato; e, in caso di soluzione affermativa, se detta clausola possa danneggiare la struttura fondamentale politica e costituzionale dello Stato membro interessato, nonché le sue funzioni essenziali, in violazione dell’art. 4, n. 2, TUE. 37 Va rilevato che la soluzione di tali questioni può essere chiaramente dedotta dalla giurisprudenza, in particolare dalle sentenze Adeneler e a. (cit., punti 91-105); Marrosu e Sardino (cit., punti 44-57); 7 settembre 2006, causa C 180/04, Vassallo (Racc. pag. I 7251, punti 33- 42), e 23 aprile 2009, cause riunite da C 378/07 a C 380/07, Angelidaki e a. (Racc. pag. I 3071, punti 145 e 182-190), nonché dalle ordinanze Vassilakis e a. (cit., punti 118-137); 24 aprile 2009, causa C 519/08, Koukou (punti 82-91), e 23 novembre 2009, cause riunite da C 162/08 a C 164/08, Lagoudakis (punto 11), in cui era stata sollevata una questione simile. Del resto, le citate sentenze Marrosu e Sardino nonché Vassallo vertevano sulla stessa normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale. 38 Da questa giurisprudenza risulta che la clausola 5 dell’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in un contratto a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce nemmeno le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi, lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia (citate sentenze Adeneler e a., punto 91; Marrosu e Sardino, punto 47; Angelidaki e a., punti 145 e 183, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 121, e Koukou, punto 85). 39 Infatti, la clausola 5, punto 2, lett. b), del citato accordo si limita a disporre che detti Stati possono, «se del caso», stabilire a quali condizioni i contratti di lavoro a tempo determinato possano essere «ritenuti (…) a tempo indeterminato» (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 145). 40 Ne consegue in particolare che, come la Corte ha già dichiarato, la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro del settore pubblico (citate sentenze Marrosu e Sardino, punto 48, nonché Vassallo, punto 33, e ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 122). 41 Pertanto la clausola 5 dell’accordo quadro, in quanto tale, non è in alcun modo atta a pregiudicare le strutture fondamentali, politiche e costituzionali, né le funzioni essenziali dello Stato membro di cui è causa, ai sensi dell’art. 4, n. 2, TUE. 42 Ciò posto, affinché una normativa nazionale che vieta in via assoluta, nel settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione (v. citate sentenze Adeneler e a., punto 105; Marrosu e Sardino, punto 49; Vassallo, punto 34, e Angelidaki e a., punti 161 e 184, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 123; Koukou, punti 67 e 86, e Lagoudakis e a., punto 11). 43 Occorre ricordare in proposito che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, onde prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure enumerate in tale disposizione, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti (v. sentenze Adeneler e a., cit., punti 65, 80, 92 e 101; Marrosu e Sardino, cit., punto 50; Vas- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 25 sallo, cit., punto 35; 15 aprile 2008, causa C 268/06, Impact, Racc. pag. I 2483, punti 69 e 70, e Angelidaki e a., cit., punti 74 e 151, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punti 80, 103 e 124, e Koukou, punto 53). 44 Le misure così elencate nella citata clausola 5, punto 1, lett. a)-c), in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi (v. citate sentenze Impact, punto 69, e Angelidaki e a., punto 74, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 80, e Koukou, punto 54). 45 Del resto, quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (citate sentenze Adeneler e a., punto 94; Marrosu e Sardino, punto 51; Vassallo, punto 36, e Angelidaki e a., punto 158, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 125, e Koukou, punto 64). 46 Benché, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le modalità di attuazione di siffatte norme attengano all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, citate sentenze Adeneler e a., punto 95; Marrosu e Sardino, punto 52; Vassallo, punto 37, e Angelidaki e a., punto 159, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 126, e Koukou, punto 65). 47 Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva» (citate sentenze Adeneler e a., punto 102; Marrosu e Sardino, punto 53; Vassallo, punto 38, e Angelidaki e a., punto 160, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 127, e Koukou, punto 66). 48 A tale proposito, nelle sue osservazioni scritte il governo italiano ha sottolineato, in particolare, che l’art. 5 del d. lgs. n. 368/2001, quale modificato nel 2007, al fine di evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico, ha aggiunto una durata massima oltre la quale il contratto di lavoro è ritenuto concluso a tempo indeterminato e ha introdotto, a favore del lavoratore che ha prestato lavoro per un periodo superiore a sei mesi, un diritto di priorità nelle assunzioni a tempo indeterminato. Inoltre, l’art. 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001, come modificato nel 2008, prevedrebbe, oltre al diritto del lavoratore interessato al risarcimento del danno subìto a causa della violazione di norme imperative e all’obbligo del datore di lavoro responsabile di restituire all’amministrazione le somme versate a tale titolo quando la violazione sia dolosa o derivi da colpa grave, l’impossibilità del rinnovo dell’incarico dirigenziale del responsabile, nonché la presa in considerazione di detta violazione in sede di valutazione del suo operato. 49 Analogamente a quanto già dichiarato dalla Corte nelle citate sentenze Marrosu e Sar- 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 dino (punti 55 e 56), nonché Vassallo (punti 40 e 41), nei confronti dei provvedimenti previsti dal decreto n. 368/2001 nella sua versione originaria (v., altresì, ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 128), così come in quelle riguardanti altre disposizioni nazionali paragonabili (v. sentenza Angelidaki e a., cit., punto 188, nonché ordinanza Koukou, cit., punto 90), una disciplina nazionale siffatta potrebbe soddisfare i requisiti ricordati nei punti 45-47 della presente ordinanza. 50 Spetta tuttavia al giudice del rinvio, l’unico competente a pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, accertare se le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato (v. citate sentenze Marrosu e Sardino, punto 56; Vassallo, punto 41, e Angelidaki e a., punti 164 e 188, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 135; Koukou, punti 69, 77 e 90, e Lagoudakis e a., punto 11). 51 Le questioni sollevate dal giudice del rinvio vanno pertanto risolte dichiarando che la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che: – essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato quando l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore interessato, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione. Spetta tuttavia al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione; – essa, in quanto tale, non è in alcun modo atta a pregiudicare le strutture fondamentali, politiche e costituzionali, né le funzioni essenziali dello Stato membro di cui è causa, ai sensi dell’art. 4, n. 2, TUE. Sull’adeguatezza delle sanzioni in caso di ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato 52 Con le sue questioni, il giudice del rinvio mira sostanzialmente a determinare i criteri rilevanti per valutare l’adeguatezza delle sanzioni previste da una normativa nazionale, quale quella enunciata dall’art. 36, n. 5, del d. lgs. n. 165/2001, in caso di ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato previsto dalla normativa nazionale rilevante nella causa principale. 53 Il giudice del rinvio chiede, in particolare, se tale adeguatezza debba essere valutata alla luce delle norme dell’ordinamento nazionale che definiscono le sanzioni applicabili nell’ambito dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato con lo Stato o con un ente privato. 54 Esso si chiede parimenti se, per garantire un siffatto carattere alla sanzione, occorra tener conto del tempo necessario al lavoratore interessato per trovare un nuovo posto di lavoro e dell’impossibilità di accedere a un lavoro a tempo indeterminato, nonché l’importo della retribuzione che sarebbe stato riscosso in caso di conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato. 55 Nelle sue osservazioni scritte il governo italiano afferma che, su quest’ultimo punto, le questioni sarebbero irricevibili dato che, nella domanda che ha proposto al giudice del rinvio, LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 27 il ricorrente nella causa principale si limita a chiedere un risarcimento collegato alle retribuzioni riscosse tra la conclusione del primo e dell’ultimo contratto di lavoro a tempo determinato. Le opzioni alternative ipotizzate da detto giudice sarebbero pertanto prive di collegamento con l’oggetto della causa principale. 56 Tuttavia, è giocoforza riconoscere che, nel caso di specie, nessun elemento presentato alla Corte è in grado di escludere che il giudice del rinvio, in forza delle norme del suo diritto nazionale – circostanza che comunque esso ha il compito di verificare –, possa discostarsi dalla domanda presentata dal ricorrente nella causa principale, diretta al riconoscimento a favore di quest’ultimo di un diritto al risarcimento. Del resto, la decisione di rinvio sottolinea espressamente la mancanza di un chiaro orientamento della giurisprudenza nazionale in merito alle modalità per il risarcimento del danno derivante dalla conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato abusivi. 57 Alla luce di ciò, in considerazione della giurisprudenza citata nei punti 26-28 della presente ordinanza, dato che il giudice del rinvio è il solo, in linea di principio, tenuto a valutare la rilevanza delle questioni che esso propone alla Corte, non si può giudicare manifesto il fatto che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione sia priva di utilità ai fini della soluzione della causa principale. 58 Tuttavia, occorre constatare che la soluzione delle questioni sollevate può essere dedotta chiaramente dalla giurisprudenza della Corte. 59 Difatti, da detta giurisprudenza, ricordata nei punti 45-47 della presente ordinanza, si evince che, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le norme vertenti sulle sanzioni applicabili in caso di ricorso abusivo ai contratti o ai rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere stabilite dall’ordinamento interno degli Stati membri nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività. 60 Conformemente alla giurisprudenza citata nel punto 49 della presente ordinanza, spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le norme di diritto interno dirette a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in successione rispettino i principi di effettività e di equivalenza. 61 Pertanto, in mancanza di qualsiasi ulteriore precisazione fornita dalla decisione di rinvio riguardo alle norme di diritto nazionale menzionate nel punto 53 della presente ordinanza, poiché la Corte non è nemmeno in grado di guidare il giudice a quo nel compiere la sua valutazione a tal riguardo, spetta a quest’ultimo esaminare se i rapporti di lavoro disciplinati da queste norme coprano situazioni analoghe a quella di cui trattasi nella causa principale, e se le sanzioni applicabili a siffatti rapporti di lavoro siano equivalenti a quelle previste per le ipotesi di ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato. 62 Per quanto concerne il principio di effettività, è sempre compito del giudice del rinvio valutare in che misura la considerazione degli elementi menzionati nel punto 54 della presente ordinanza sia necessaria per attribuire al risarcimento del danno sofferto dal ricorrente nella causa principale, a causa del ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, la natura di sanzione effettiva e dissuasiva, in grado di cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione. 63 Di conseguenza, occorre rispondere al giudice del rinvio dichiarando che l’accordo quadro dev’essere interpretato nel senso che le misure previste da una normativa nazionale, come quella oggetto della causa principale, al fine di sanzionare il ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o ec- 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 cessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione siano conformi a questi principi. Sulle spese 64 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara: 1) Le prime dodici questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Rossano, con ordinanza 21 dicembre 2009, sono manifestamente irricevibili. 2) La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che: – essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, quinto comma, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato quando l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore interessato, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione. Spetta tuttavia al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione; – essa, in quanto tale, non è in alcun modo atta a pregiudicare le strutture fondamentali, politiche e costituzionali, né le funzioni essenziali dello Stato membro di cui è causa, ai sensi dell’art. 4, n. 2, TUE. 3) Detto accordo quadro dev’essere interpretato nel senso che le misure previste da una normativa nazionale, come quella oggetto della causa principale, al fine di sanzionare il ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione siano conformi a questi principi. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 29 Un duplice aspetto della sentenza “Elchinov” 1. Rimborsabilità dell’assistenza sanitaria prestata in altro Stato membro 2. Autonomia del giudice del rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dal giudice di ultimo grado ove reputato in contrasto con il diritto comunitario (Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, sentenza 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov) 1. Con sentenza del 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov, la Corte di Giustizia dell’Unione europea – Grande sezione ha stabilito che l’art. 49 CE e l’art. 22 del regolamento n. 1408/1971 ostano ad una normativa, quale quella Bulgara, che escluda, in ogni caso, il rimborso delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro (nella specie Germania) in assenza di una preventiva autorizzazione, in particolare quando un trattamento medico compreso nell’elenco dei trattamenti rimborsabili nello Stato di residenza non preveda un metodo di cura altrettanto efficace ed erogabile in tempo utile nello Stato di residenza. I fatti di causa riguardavano una richiesta urgente, da parte di un cittadino bulgaro affetto da tumore al bulbo oculare, di autorizzazione ad avvalersi di cure in Germania che gli avrebbero consentito di combattere la malattia salvando l’occhio laddove in Bulgaria l’unica prestazione sanitaria prevista per la sua patologia avrebbe comportato l’asportazione dell’occhio. In ragione del suo stato di salute, il cittadino Bulgaro ha usufruito delle cure in Germania prima di ottenere una risposta dal sistema assicurativo obbligatorio del proprio Paese, che ha successivamente negato l’autorizzazione atteso che il trattamento sanitario non rientrava tra le prestazioni erogabili dalla normativa bulgara. In proposito, la Corte ha precisato che, ove sia stata accertata l’illegittimità del diniego di autorizzazione ad espletare le prestazioni mediche in altro Stato membro e le cure, per la loro urgenza, siano state nel frattempo prestate, l’iscritto al regime previdenziale dello Stato di residenza ha diritto ad ottenere da quest’ultimo il rimborso delle spese mediche secondo un importo equivalente a quello che gli sarebbe stato rimborsato qualora l’autorizzazione fosse stata rilasciata prima dell’inizio delle cure. Detto importo deve essere pari a quello determinato in base alla legislazione dello Stato membro in cui sono state prestate le cure e qualora risulti inferiore a quello che sarebbe spettato applicando la normativa dello Stato di residenza, è dovuto un rimborso supplementare corrispondente alla differenza tra i due importi, nei limiti delle spese effettivamente sostenute. 2. La sentenza ha affermato anche un altro importante principio proces- 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 suale, secondo il quale il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale non di ultima istanza, al quale spetti di decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore, sia vincolato, in base ad una norma processuale nazionale, al principio di diritto da quest’ultimo enunciato qualora il giudice del rinvio ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte di Giustizia, che detto principio non sia conforme al diritto dell’Unione (punti 27, 30, 32). La Corte ha inoltre chiarito incidentalmente, sebbene la questione non si ponesse nel caso di specie, che il giudice del rinvio, in tali circostanze, non è obbligato a chiedere alla Corte di Giustizia un’interpretazione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE ma può disapplicare di propria iniziativa qualsiasi disposizione nazionale ove l’interpretazione fornitane dall’organo giurisdizionale superiore risulti in contrasto con il diritto dell’Unione (punti 28 e 31). Nella causa principale, infatti, il cittadino bulgaro aveva proposto ricorso avverso il diniego di autorizzazione al Tribunale amministrativo di Sofia che, all’esito di una perizia, aveva annullato il provvedimento impugnato atteso che il trattamento sanitario in questione, pur costituendo una terapia d’avanguardia non ancora praticata in Bulgaria, corrispondeva alle prestazioni elencate nei protocolli di cura clinici. A seguito dell’impugnazione dell’ente assicurativo bulgaro, tuttavia, il Tribunale Supremo amministrativo, giudice di ultima istanza, aveva annullato la sentenza impugnata e rinviato la causa dinanzi ad altra sezione del Tribunale amministrativo di Sofia, affermando che il giudice di primo grado aveva errato nel ritenere che le cure ricevute dal cittadino bulgaro fossero comprese tra le prestazioni elencate nei protocolli di cura clinici e che, comunque, ove dette cure fossero rimborsabili dal regime previdenziale bulgaro, si dovrebbe presumere che le stesse avrebbero potuto essere prestate presso un istituto di cura bulgaro, a meno che si fosse accertato che le stesse non avrebbero potuto essere prestate in tempi tali da non mettere in pericolo la salute dell’interessato, accertamento non effettuato dal giudice di primo grado. Il giudice del rinvio, ritenendo che le valutazioni in diritto del giudice di ultima istanza non fossero conformi al diritto dell’Unione, ha chiesto alla Corte di giustizia se, nonostante il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, egli fosse vincolato al principio di diritto enunciato dal giudice superiore anche laddove lo ritenesse non conforme al diritto dell’Unione. In proposito, la Corte ha affermato che una norma di diritto nazionale, ai sensi della quale gli organi giurisdizionali non di ultima istanza sono vincolati da valutazioni formulate dall’organo giurisdizionale superiore, non può privare detti organi giurisdizionali della facoltà di investirla di questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione, rilevante nel contesto di dette valutazioni in diritto. La Corte ha quindi ritenuto che il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, se esso ritiene che la valutazione in diritto formulata LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 31 dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre alla Corte le questioni con cui deve confrontarsi. Inoltre la Corte di giustizia ha sottolineato che la facoltà attribuita al giudice nazionale dall’art. 267, secondo comma, TFUE, di chiedere un’interpretazione pregiudiziale della Corte medesima prima di disapplicare, eventualmente, istruzioni di un organo giurisdizionale superiore che risultassero in contrasto con il diritto dell’Unione non può trasformarsi in un obbligo. Il giudice nazionale, infatti, essendo incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione, è tenuto a garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, come, nel caso di specie, la norma nazionale di procedura che lo vincola al principio di diritto enunciato dall’organo giurisdizionale superiore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Peraltro, risulta da una giurisprudenza costante che la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite principale. Da queste riflessioni discende, secondo la Corte, che il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE, è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione. Avv. Wally Ferrante* Corte di giustizia (Grande Sezione) sentenza 5 ottobre 2010 nella causa C-173/09 - Pres. V. Skouris , Rel. P. Kuris, Avv. gen. P. Cruz Villalón - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Administrativen sad Sofia-grad (Bulgaria) - Georgi Ivanov Elchinov/Natsionalna zdravnoosiguritelna kasa. «Previdenza sociale – Libera prestazione dei servizi – Assicurazione malattia – Cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro – Autorizzazione preventiva – Condizioni di applicazione dell’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento (CEE) n. 1408/71 – Modalità per il rimborso all’iscritto al regime previdenziale delle spese ospedaliere sostenute in un altro Stato membro – Obbligo di un organo giurisdizionale di grado inferiore di conformarsi ad istruzioni impartite da un organo giurisdizionale di grado superiore» (*) Avvocato dello Stato. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 49 CE e 22 del regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, come modificato e aggiornato dal regolamento (CE) del Consiglio 2 dicembre 1996, n. 118/97 (GU 1997, L 28, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 18 dicembre 2006, n. 1992 (GU L 392, pag.1; in prosieguo: il «regolamento n. 1408/71»). 2 Questa domanda è stata sollevata nell’ambito di una controversia tra il sig. Elchinov e la Natsionalna zdravnoosiguritelna kasa (Cassa nazionale bulgara di assicurazione malattia; in prosieguo: la «NZOK») in merito al diniego oppostogli da quest’ultima al rilascio di un’autorizzazione a ricevere cure ospedaliere in Germania. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 Il regolamento n. 1408/71, nell’art. 22, intitolato «Dimora fuori dello Stato competente – Ritorno o trasferimento di residenza in un altro Stato membro durante una malattia o una maternità – Necessità di recarsi in un altro Stato per ricevere le cure adatte», enuncia quanto segue: «1. Il lavoratore subordinato o autonomo che soddisfa le condizioni richieste dalla legislazione dello Stato competente per aver diritto alle prestazioni, tenuto conto eventualmente di quanto disposto dall’articolo 18, e: (…) c) che è autorizzato dall’istituzione competente a recarsi nel territorio di un altro Stato membro per ricevere le cure adeguate al suo stato, ha diritto: i) alle prestazioni in natura erogate, per conto dell’istituzione competente, dall’istituzione del luogo di dimora (…) secondo le disposizioni della legislazione che essa applica, come se fosse ad essa iscritto; tuttavia, la durata dell’erogazione delle prestazioni è determinata dalla legislazione dello Stato competente; (…) 2. (…) L’autorizzazione richiesta a norma del paragrafo 1, lettera c), non può essere rifiutata quando le cure di cui trattasi figurano fra le prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro, nel cui territorio l’interessato risiede, [e] se le cure stesse, tenuto conto dello stato di salute dello stesso nel periodo in questione e della probabile evoluzione della malattia, non possono essergli praticate entro il lasso di tempo normalmente necessario per ottenere il trattamento in questione nello Stato membro di residenza. (…)». 4 L’art. 36, n. 1, del regolamento n. 1408/71 prevede quanto segue: «Le prestazioni in natura erogate dall’istituzione di uno Stato membro per conto dell’istituzione di un altro Stato membro, in base alle disposizioni del presente capitolo, danno luogo a rimborso integrale (…)». 5 In base all’art. 2, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 21 marzo 1972, n. 574, che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento n. 1408/71 (GU L 74, pag. 1), la commissione amministrativa per la sicurezza sociale dei lavoratori migranti, prevista dall’art. 80 LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 33 del regolamento n. 1408/71, ha adottato un modello di certificato necessario ai fini dell’applicazione dell’art. 22, n. 1, lett. c), sub) i), di quest’ultimo regolamento, ossia il formulario «E 112». La normativa nazionale 6 A norma dell’art. 224 del codice bulgaro di procedura amministrativa: «Le istruzioni del Tribunale supremo amministrativo relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto sono vincolanti ai fini del riesame della causa». 7 A norma dell’art. 81, n. 1, della legge bulgara relativa al sistema sanitario (DV n. 70 del 10 agosto 2004): «Ogni cittadino bulgaro ha diritto ad una assistenza medica accessibile alle condizioni e secondo le procedure della presente legge e della legge sull’assicurazione malattia». 8 In forza dell’art. 33 della legge bulgara in materia di assicurazione malattia (DV n. 70 del 19 giugno 1998), ogni cittadino bulgaro che non sia contemporaneamente cittadino di un altro Stato membro è obbligatoriamente assicurato presso la NZOK. 9 L’art. 35 di detta legge prevede che gli assicurati hanno diritto al rilascio di un documento necessario all’esercizio dei loro diritti in materia di assicurazione malattia in osservanza delle norme che coordinano i regimi di previdenza sociale. 10 L’art. 36, n. 1, della stessa legge così dispone: «I beneficiari di un’assicurazione obbligatoria hanno diritto all’ottenimento parziale o totale del valore delle spese per l’assistenza medica all’estero solo se hanno previamente ricevuto l’autorizzazione dalla NZOK». 11 Le tipologie di prestazioni sanitarie assicurate dalla NZOK sono elencate nell’art. 45 della legge in materia di assicurazione malattia, il cui n. 2 prevede che le prestazioni sanitarie di base siano determinate mediante decreto del Ministero della Sanità. In base a tale norma, detto ministero ha adottato il decreto 24 novembre 2004, n. 40, relativo alla determinazione del complesso delle prestazioni sanitarie di base garantito dal bilancio della NZOK (DV n. 88 del 2006), il cui articolo unico enuncia che il complesso di dette prestazioni sanitarie di base comprende quelle la cui tipologia e il cui importo sono stabiliti in osservanza degli allegati 1-10 a detto decreto. L’allegato 5 a quest’ultimo, intitolato «Elenco dei protocolli di cura clinici», menziona, con il n. 136, le «altre operazioni del bulbo oculare» nonché, con il n. 258, i «trattamenti ad alta tecnologia, mediante radiazioni, di malattie oncologiche e non oncologiche ». Causa principale e questioni pregiudiziali 12 Il sig. Elchinov, cittadino bulgaro iscritto alla NZOK, soffre di una grave malattia a causa della quale egli ha richiesto, in data 9 marzo 2007, da detta Cassa il rilascio di un formulario E 112 al fine di sottoporsi a un trattamento d’avanguardia presso una clinica specializzata sita in Berlino (Germania); tale trattamento non viene praticato in Bulgaria. 13 In considerazione del suo stato di salute, il sig. Elchinov è entrato tuttavia in clinica in Germania il 15 marzo 2007 e ivi ha ricevuto alcune cure prima di ottenere la risposta da parte della NZOK. 14 Con provvedimento 18 aprile 2007, adottato in seguito a parere del Ministero della Sanità, il direttore della NZOK ha negato il rilascio al sig. Elchinov della richiesta autorizzazione in quanto, in particolare, non erano soddisfatti i presupposti per la concessione di un’autorizzazione siffatta quali previsti dall’art. 22 del regolamento n. 1408/71, dal momento che il trattamento non rientra, a parere del citato direttore, tra le prestazioni previste dalla normativa bulgara e assicurate dalla NZOK. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 15 Il sig. Elchinov ha presentato ricorso avverso detto provvedimento dinanzi all’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo di Sofia). Una perizia medico–legale, effettuata durante il giudizio, ha confermato che il trattamento in questione costituiva una terapia d’avanguardia non ancora praticata in Bulgaria. 16 Con sentenza 13 agosto 2007, l’Administrativen sad Sofia-grad ha annullato detto provvedimento, giudicando che nel caso di specie erano soddisfatti i presupposti per la concessione dell’autorizzazione prevista dall’art. 22, n. 2, del regolamento n. 1408/71. Detto giudice ha rilevato, in particolare, che il trattamento in questione non esisteva in Bulgaria, ma corrispondeva alle prestazioni elencate con i nn. 136 e 258 indicate nell’elenco dei protocolli di cura clinici. 17 La NZOK ha fatto ricorso in cassazione avverso tale sentenza dinanzi al Varhoven administrativen sad (Tribunale supremo amministrativo) il quale, con sentenza 4 aprile 2008, l’ha annullata ed ha rinviato la causa dinanzi ad un’altra sezione del giudice del rinvio. Il Varhoven administrativen sad ha giudicato infatti errata la constatazione del giudice di primo grado secondo la quale le cure ricevute dal sig. Elchinov erano comprese tra le prestazioni elencate con i nn. 136 e 258 dei protocolli di cura clinici. Esso ha rilevato inoltre che, se determinate cure specifiche per le quali viene richiesto il rilascio del formulario E 112 vengono rimborsate dalla NZOK, si deve presumere che le medesime possano essere prestate presso un istituto di cura bulgaro, di modo che i giudici di primo grado avrebbero dovuto decidere se dette cure potessero essere fornite presso un istituto siffatto in termini tali da non presentare nessun pericolo per la salute dell’interessato. 18 Nel corso del riesame della causa da parte dell’Administrativen sad Sofia-grad, una nuova perizia ha confermato che un trattamento del tipo di quello somministrato al sig. Elchinov in Germania non era praticato in Bulgaria. 19 Alla luce di ciò, l’Administrativen sad Sofia-grad ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento (…) n. 1408/71 (…) debba essere interpretato nel senso che, se la cura specifica, per la quale viene richiesto il rilascio del modello E 112, non può essere praticata in un’istituzione sanitaria bulgara, si deve ritenere che tale cura non venga finanziata a carico del bilancio della [NZOK] o del Ministero della Sanità e, al contrario, qualora tale cura venga finanziata a carico del bilancio della NZOK o del Ministero della Sanità, si deve ritenere che essa possa essere prestata in un’istituzione sanitaria bulgara. 2) Se l’espressione “se le cure di cui trattasi non possono essere praticate nel territorio dello Stato membro in cui l’interessato risiede”, ricavabile dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento (...) n. 1408/71, debba essere interpretata nel senso che in tale espressione rientrano i casi nei quali la cura che viene praticata nel territorio dello Stato membro dove l’assicurato abita è, in quanto tipo di trattamento, di gran lunga più inefficace e radicale della cura praticata in un altro Stato membro, ovvero che in tale espressione rientrano solo i casi nei quali l’interessato non possa essere curato tempestivamente. 3) Se, alla luce del principio dell’autonomia processuale, il giudice nazionale debba osservare le istruzioni vincolanti impartitegli da un’istanza giudiziaria superiore nell’ambito della rimozione della sua decisione e del rinvio della causa per un nuovo esame, qualora sussistano motivi per ritenere che tali istruzioni siano in contrasto con il diritto comunitario. 4) Qualora la cura di cui trattasi non possa essere praticata nel territorio dello Stato membro nel quale l’assicurato ha la sua residenza, se sia sufficiente, affinché tale Stato membro possa LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 35 rilasciare un’autorizzazione per una cura in un altro Stato membro ai sensi dell’art. 22, n. 1, lett. c), del regolamento (…) n. 1408/71, che la cura di cui trattasi rientri come tipologia tra le prestazioni che sono previste nella normativa dello Stato membro dapprima menzionato anche qualora tale normativa non menzioni espressamente lo specifico metodo di cura. 5) Se l’art. 49 CE e l’art. 22 del regolamento (…) n. 1408/71 ostino ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, n. 1, della legge sull’assicurazione malattia, secondo cui gli assicurati obbligatori hanno diritto a ricevere totalmente o parzialmente il valore delle spese per l’assistenza medica all’estero, solo se hanno ottenuto all’uopo un’autorizzazione preventiva. 6) Se il giudice nazionale debba fare obbligo all’organismo competente dello Stato nel quale l’interessato è assicurato di emettere il documento per cure all’estero (modello E 112) qualora il diniego del rilascio di un siffatto documento risulti illegittimo, nel caso in cui la domanda di rilascio del documento venga presentata prima che fosse praticata la cura all’estero e la cura sia terminata al momento della pronuncia della decisione giudiziaria. 7) In caso di soluzione affermativa della questione di cui sopra, e qualora il giudice dovesse considerare illegale il diniego dell’autorizzazione per una cura all’estero, come debbano essere rimborsate le spese dell’assicurato per le sue cure: a) direttamente dallo Stato dove è assicurato, o dallo Stato nel quale il trattamento medico è stato praticato, previa esibizione dell’autorizzazione per cure all’estero; b) in quale misura, qualora l’ambito delle prestazioni, previsto nella normativa dello Stato membro di residenza, sia diverso dall’ambito delle prestazioni previste dalla normativa dello Stato membro dove la cura viene praticata, considerato l’art. 49 CE, che vieta le limitazioni alla libera prestazione dei servizi». Sulle questioni pregiudiziali 20 È opportuno rispondere in primo luogo alla terza questione prima di passare all’esame delle altre sei questioni, le quali vertono sull’interpretazione degli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71. Sulla terza questione 21 Dalla decisione di rinvio si evince che l’Administrativen sad Sofia-grad nutre dubbi in merito all’interpretazione degli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71 e, in particolare, per quanto concerne l’interpretazione di detto art. 22 formulata dal Varhoven administrativen sad nella sua sentenza 4 aprile 2008. Nell’investire la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale mirante all’interpretazione delle citate disposizioni, il giudice del rinvio desidera sapere nel contempo se il giudice di merito sia vincolato dalle valutazioni formulate in diritto dalla giurisdizione di grado superiore qualora abbia motivo di ritenere che tali valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. 22 Il giudice del rinvio spiega infatti che, ai sensi dell’art. 224 del codice bulgaro di procedura amministrativa, le istruzioni del Varhoven administrativen sad riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della legge hanno valore vincolante nei confronti dell’Administrativen sad Sofia-grad, in sede di riesame della causa da parte di quest’ultimo. Esso rileva inoltre che il diritto dell’Unione sancisce il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri. 23 Benché la questione da esso sottoposta alla Corte non sembri escludere l’ipotesi in cui un giudice nazionale intenda statuire senza rinvio pregiudiziale, discostandosi dalle valutazioni in diritto formulate sulla medesima causa dall’organo giurisdizionale nazionale di grado superiore, che esso giudichi non conformi con il diritto dell’Unione, si deve constatare che questo non corrisponde al caso di specie, poiché il giudice del rinvio ha investito la Corte di una 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 domanda di pronuncia pregiudiziale diretta a chiarire i dubbi che esso nutre in merito alla corretta interpretazione del diritto dell’Unione. 24 Pertanto, con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede se il diritto dell’Unione osti a che un giudice nazionale, al quale spetti decidere in seguito al rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede di ricorso, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che tali valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. 25 A questo proposito occorre ricordare, in primo luogo, che l’esistenza di una norma di procedura nazionale quale quella applicabile nella causa principale non può rimettere in discussione la facoltà, spettante ai giudici nazionali non di ultima istanza, di investire la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale qualora essi nutrano dubbi, come nel caso di specie, in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione. 26 Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, l’art. 267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la Corte qualora ritengano che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni che implichino un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione che siano essenziali ai fini della pronuncia nel merito della causa di cui sono investiti (v., in tal senso, sentenza 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf, Racc. pag. 33, punto 3; 27 giugno 1991, causa C 348/89, Mecanarte, Racc. pag. I-3277, punto 44; 10 luglio 1997, causa C 261/95, Palmisani, Racc. pag. I-4025, punto 20; 16 dicembre 2008, causa C 210/06, Cartesio, Racc. pag. I-9641, punto 88, nonché 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 41). Del resto, i giudici nazionali sono liberi di esercitare tale facoltà in qualsiasi momento essi ritengano opportuno (v., in tal senso, sentenza Melki e Abdeli, cit., punti 52 e 57). 27 Da ciò la Corte ha dedotto che una norma di diritto nazionale, ai sensi della quale gli organi giurisdizionali non di ultima istanza siano vincolati da valutazioni formulate dall’organo giurisdizionale superiore, non può privare detti organi giurisdizionali della facoltà di investirla di questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione, rilevante nel contesto di dette valutazioni in diritto. Infatti, la Corte ha giudicato che il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, se esso ritiene che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre alla Corte le questioni con cui deve confrontarsi (v., in tal senso, sentenze Rheinmühlen-Düsseldorf, cit., punti 4 e 5; Cartesio, cit., punto 94; 9 marzo 2010, causa C 378/08, ERG e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32, nonché Melki e Abdeli, cit., punto 42). 28 Del resto, occorre sottolineare che la facoltà attribuita al giudice nazionale dall’art. 267, secondo comma, TFUE, di chiedere un’interpretazione pregiudiziale della Corte prima di disapplicare, eventualmente, istruzioni di un organo giurisdizionale superiore che risultassero in contrasto con il diritto dell’Unione non può trasformarsi in un obbligo (v., in tal senso, sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci, non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 54 e 55). 29 Si deve ricordare, in secondo luogo, che risulta da una giurisprudenza costante che la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite principale (v., in particolare, sentenze 24 giugno 1969, causa 29/68, Milch-, Fett- und Eierkontor, Racc. pag. 165, punto 3; 3 febbraio 1977, causa LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 37 52/76, Benedetti, Racc. pag. 163, punto 26; ordinanza 5 marzo 1986, causa 69/85, Wünsche Handelsgesellschaft, Racc. pag. 947, punto 13, e sentenza 14 dicembre 2000, causa C-446/98, Fazenda Pública, Racc. pag. I-11435, punto 49). 30 Da queste riflessioni discende che il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE, è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione. 31 È importante sottolineare inoltre che, secondo una giurisprudenza costante, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, ossia, nel caso di specie, la norma nazionale di procedura enunciata nel punto 22 della presente sentenza, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punto 24, nonché 19 novembre 2009, causa C-314/08, Filipiak, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 81). 32 Alla luce di quanto sin qui esposto occorre risolvere la terza questione dichiarando che il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede d’impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. Sulle questioni relative all’interpretazione degli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71 33 Occorre esaminare, anzitutto, la quinta questione, riguardante l’ampiezza del potere degli Stati membri di assoggettare ad autorizzazione preventiva il rimborso delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro, poi le questioni prima, seconda e quarta, vertenti sui presupposti enunciati dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 e, infine, congiuntamente, le questioni sesta e settima, riguardanti le modalità per il rimborso di dette cure al beneficiario dell’assicurazione sociale. Sulla quinta questione, relativa all’ampiezza del potere degli Stati membri di assoggettare ad autorizzazione preventiva il rimborso di cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro 34 Con la sua quinta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71 ostino alla normativa di uno Stato membro la quale escluda, in ogni caso, il rimborso delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro in assenza di preventiva autorizzazione. 35 Il giudice del rinvio, nel ricordare che il sig. Elchinov si è fatto curare in Germania prima di aver ricevuto la risposta da parte della NZOK alla sua richiesta di autorizzazione, si chiede se il beneficiario dell’assicurazione sociale possa chiedere il rimborso delle cure ospedaliere, prestate in uno Stato membro diverso da quello sul cui territorio egli risiede, senza avere ottenuto preventivamente l’autorizzazione da parte dell’istituzione competente, quando ciò era imposto dal suo stato di salute, oppure se la prestazione delle cure, in mancanza di detta autorizzazione preventiva, comporti l’estinzione del diritto del beneficiario dell’assicurazione sociale di chiederne il rimborso. Dopo aver rilevato che l’art. 36 della legge in materia 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 di assicurazione malattia consente il rimborso di cure prestate in un altro Stato membro solo se l’assicurato abbia ottenuto una previa autorizzazione a tal fine, esso si interroga sulla conformità di una norma siffatta con gli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71. 36 A questo riguardo occorre ricordare, in primo luogo, che, per giurisprudenza costante, le prestazioni mediche fornite a fronte di un corrispettivo rientrano nella sfera di applicazione delle disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi, ivi compresa l’ipotesi in cui le cure siano dispensate in ambito ospedaliero (v., in tal senso, sentenze 16 maggio 2006, causa C-372/04, Watts, Racc. pag. I-4325, punto 86 e giurisprudenza ivi citata, nonché 15 giugno 2010, causa C-211/08, Commissione/Spagna, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 47 e giurisprudenza ivi citata). 37 È stato parimenti dichiarato che la libera prestazione dei servizi comprende la libertà dei destinatari dei servizi, in particolare delle persone che devono ricevere cure mediche, di recarsi in un altro Stato membro per godere ivi dei detti servizi (v. citate sentenze Watts, punto 87 e giurisprudenza ivi citata, nonché Commissione/Spagna, punti 48-50 e giurisprudenza ivi citata). 38 L’applicabilità dell’art. 22 del regolamento n. 1408/71 all’ipotesi in questione non esclude che quest’ultima rientri nella sfera di applicazione delle norme relative alla libera prestazione dei servizi e, nel caso di specie, dell’art. 49 CE. Infatti, da un lato, la circostanza che una normativa nazionale possa essere eventualmente conforme a una norma di diritto derivato, nella fattispecie all’art. 22 del regolamento n. 1408/71, non produce l’effetto di sottrarla alle disposizioni del Trattato CE (v., in tal senso, citate sentenze Watts, punti 46 e 47, nonché Commissione/Spagna, punto 45). 39 Dall’altro, l’art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71 ha per scopo di conferire un diritto alle prestazioni in natura erogate, per conto dell’istituzione competente, dall’istituzione del luogo di dimora, secondo le disposizioni della legislazione dello Stato membro in cui le prestazioni sono erogate, come se l’interessato appartenesse a quest’ultima istituzione (v., in tal senso, sentenze 28 aprile 1998, causa C-120/95, Decker, Racc. pag. I-1831, punti 28 e 29, nonché causa C-158/96, Kohll, Racc. pag. I-1931, punti 26 e 27; 12 luglio 2001, causa C-368/98, Vanbraekel e a., Racc. pag. I-5363, punti 32 e 36; 23 ottobre 2003, causa C- 56/01, Inizan, Racc. pag. I-12403, punti 19 e 20, nonché Watts, cit., punto 48). L’art. 22, secondo comma, n. 2, quanto ad esso, ha il solo scopo di individuare le circostanze in cui è escluso che l’istituzione competente possa negare l’autorizzazione richiesta in base al n. 1, lett. c) (v., in tal senso, sentenza Vanbraekel e a., cit., punto 31). 40 In secondo luogo, occorre parimenti ricordare che, come dichiarato dai governi che hanno presentato osservazioni nella presente causa, è pacifico che il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri ad organizzare i propri sistemi previdenziali e che, in mancanza di un’armonizzazione a livello dell’Unione europea, spetta alla normativa di ciascuno Stato membro determinare le condizioni di concessione delle prestazioni in materia di previdenza sociale. Tuttavia resta fermo che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione, in particolare le disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi, le quali implicano il divieto per questi ultimi di introdurre o mantenere restrizioni ingiustificate all’esercizio di questa libertà in materia di sanità (v. in particolare, in tal senso, sentenze Watts, cit., punto 92 e giurisprudenza ivi citata; 19 aprile 2007, causa C-444/05, Stamatelaki, Racc. pag. I-3185, punto 23, e Commissione/Spagna, cit., punto 53). 41 Benché un’autorizzazione preventiva, quale quella imposta dall’art. 36 della legge bul- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 39 gara in materia di assicurazione malattia, costituisca, sia per i pazienti sia per i prestatori, un ostacolo alla libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenze Kohll, cit., punto 35; 12 luglio 2001, causa C-157/99, Smits e Peerbooms, Racc. pag. I 5473, punto 69; 13 maggio 2003, causa C-385/99, Müller-Fauré e van Riet, Racc. pag. I 4509, punto 44, nonché Watts, cit., punto 98), la Corte ha dichiarato nondimeno che l’art. 49 CE non osta, in linea di principio, al fatto che il diritto di un paziente di ottenere assistenza ospedaliera in un altro Stato membro a carico del sistema cui esso appartiene sia soggetto ad una previa autorizzazione (v., in tal senso, citate sentenze Smits e Peerbooms, punto 82, nonché Watts, punto 113). 42 Infatti, la Corte ha giudicato che non si può escludere che un rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale possa costituire una ragione imperativa di interesse generale tale da giustificare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi. Essa ha parimenti riconosciuto che l’obiettivo di mantenere un servizio medico-ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti può parimenti rientrare nel regime di deroghe giustificate da ragioni di sanità pubblica previsto dall’art. 46 CE, quando un tale obiettivo contribuisca alla realizzazione di un livello elevato di tutela della salute. Essa ha inoltre precisato che l’art. 46 CE consente agli Stati membri di limitare la libera prestazione dei servizi medico ospedalieri qualora la conservazione di un sistema sanitario o di una competenza medica nel territorio nazionale sia essenziale per la sanità pubblica, o addirittura per la sopravvivenza della popolazione (v., in tal senso, citate sentenze Kohll, punti 41, 50 e 51; Smits e Peerbooms, punti 72-74; Müller-Fauré e van Riet, punti 67 e 73, nonché Watts, punti 103-105). 43 La Corte ha rilevato parimenti che il numero di infrastrutture ospedaliere, la loro ripartizione geografica, la loro organizzazione e le attrezzature di cui sono dotate, o ancora la natura dei servizi medici che sono in grado di fornire, devono poter fare oggetto di una programmazione, la quale risponda, in linea di massima, a diverse esigenze. Da un lato, tale programmazione deve perseguire l’obiettivo di garantire nel territorio dello Stato membro interessato la possibilità di un accesso sufficiente e permanente ad una gamma equilibrata di cure ospedaliere di qualità. Dall’altro, essa dev’essere espressione della volontà di garantire un controllo dei costi ed evitare, per quanto possibile, ogni spreco di risorse finanziarie, tecniche e umane. Un tale spreco si dimostrerebbe infatti tanto più dannoso in quanto è pacifico che il settore delle cure ospedaliere genera costi notevoli e deve rispondere a bisogni crescenti, mentre le risorse finanziarie che possono essere destinate alle cure sanitarie, quale che sia la modalità di finanziamento usata, non sono illimitate (citate sentenze Smits e Peerbooms, punti 76-79, nonché Watts, punti 108 e 109). 44 In terzo luogo, va ancora ricordato che, benché il diritto dell’Unione non osti in linea di principio a un sistema di autorizzazione preventiva, è nondimeno necessario che le condizioni dettate per il rilascio di una siffatta autorizzazione siano giustificate alla luce dei criteri imperativi prima citati, che esse non eccedano quanto oggettivamente necessario a tal fine e che il medesimo risultato non possa essere conseguito con norme meno vincolanti. Inoltre, un siffatto sistema dev’essere fondato su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo, in modo da circoscrivere l’esercizio del potere discrezionale delle autorità nazionali affinché esso non sia usato in modo arbitrario (v., in tal senso, citate sentenze Smits e Peerbooms, punti 82 e 90; Müller-Fauré e van Riet, punti 83-85, nonché Watts, punti 114-116). 45 Nel caso di specie, occorre rilevare che una normativa nazionale, la quale esclude in tutti i casi il rimborso delle cure ospedaliere prestate senza autorizzazione preventiva, priva il beneficiario dell’assicurazione sociale il quale, per ragioni connesse al suo stato di salute o alla necessità di ricevere cure urgentemente presso una struttura ospedaliera, si sia trovato 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nell’impossibilità di richiedere una siffatta autorizzazione o, come nel caso del sig. Elchinov, non abbia potuto attendere la risposta dell’ente competente, del rimborso di tali cure da parte di detto ente, anche qualora i presupposti per un tale rimborso siano peraltro soddisfatti. 46 Ebbene, il rimborso di cure siffatte, in situazioni specifiche del tipo di quelle descritte nel punto precedente, non è tale da poter compromettere il conseguimento degli scopi di pianificazione ospedaliera menzionati nel punto 43 della presente sentenza, né può compromettere gravemente l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale. Esso non pregiudica il mantenimento di un servizio ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti, né tanto meno la salvaguardia di un sistema sanitario e di una competenza medica estese a tutto il territorio nazionale. 47 Di conseguenza, una normativa siffatta non è giustificata dai citati criteri imperativi e comunque non soddisfa il principio di proporzionalità ricordato nel punto 44 della presente sentenza. Pertanto, essa comporta una restrizione ingiustificata della libera prestazione dei servizi. 48 Inoltre, in materia di applicazione dell’art. 22, n. 1, lett. c), del regolamento n. 1408/71, nel punto 34 della citata sentenza Vanbraekel e.a. la Corte ha dichiarato che, quando una persona iscritta al regime previdenziale, che ha presentato una domanda di autorizzazione sulla base di detta disposizione, abbia ricevuto un diniego da parte dell’istituzione competente e il carattere infondato di siffatto diniego sia successivamente dimostrato vuoi dalla medesima istituzione competente vuoi da una decisione giudiziaria, tale assicurato ha diritto di ottenere direttamente a carico dell’istituzione competente il rimborso di un importo pari a quello che sarebbe stato normalmente preso a carico se l’autorizzazione fosse stata debitamente concessa fin dall’inizio. 49 Da ciò deriva che la normativa di uno Stato membro non può escludere in tutti i casi il rimborso delle cure ospedaliere fornite senza autorizzazione preventiva in un altro Stato membro. 50 Per quanto riguarda la normativa in questione nella causa principale, come è stato sostanzialmente sottolineato dall’avvocato generale nei paragrafi 49 e 50 delle sue conclusioni, l’art. 36 della legge bulgara in materia di assicurazione malattia è ambiguo. Ad ogni modo, è compito del giudice del rinvio valutare, alla luce delle indicazioni contenute nella presente sentenza, la conformità di detto articolo con gli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71 nell’interpretazione datane dalla Corte e, qualora detto art. 36 possa costituire oggetto di diverse interpretazioni, interpretarlo conformemente all’ordinamento dell’Unione (v., in tal senso, sentenza Melki e Abdeli, cit., punto 50 e giurisprudenza ivi citata). 51 Alla luce di quanto sin qui esposto, occorre risolvere la quinta questione dichiarando che gli artt. 49 CE e 22 del regolamento n. 1408/71 ostano alla normativa di uno Stato membro interpretata nel senso che essa escluda, in ogni caso, il rimborso delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro in assenza di preventiva autorizzazione. Sulle questioni prima, seconda e quarta, relative ai presupposti enunciati dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 52 Con le sue questioni prima, seconda e quarta, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, per quanto concerne le cure mediche che non possono essere prestate nello Stato membro sul cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale, l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 debba essere interpretato nel senso che un’autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), non possa essere negata quando, da un lato, la normativa di tale Stato membro preveda la tipologia di trattamento di cui trattasi, ma non indichi in modo LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 41 espresso e preciso il metodo di cura applicato, e, dall’altro, un trattamento alternativo che presenti lo stesso grado di efficacia non possa essere erogato in tempo utile in questo stesso Stato membro. Esso desidera inoltre sapere se questo stesso articolo debba essere interpretato nel senso che esso osta a che gli organi nazionali incaricati di pronunciarsi su una domanda di autorizzazione preventiva possano presumere, in sede di applicazione di questa disposizione, che le cure ospedaliere che non possono essere prestate in detto Stato membro non rientrano tra le prestazioni il cui rimborso è previsto dalla normativa di questo Stato e, viceversa, che le cure ospedaliere rientranti tra dette prestazioni possono essere fornite in questo Stato membro. 53 L’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 enuncia due condizioni la cui presenza rende obbligatorio il rilascio dell’autorizzazione preventiva richiesta, da parte dell’istituzione competente, in base all’art. 22, n. 1, lett. c), sub i) (v., in tal senso, citate sentenze Inizan, punto 41, e Watts, punto 55). 54 La prima condizione impone che le cure di cui trattasi figurino fra le prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro nel cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale, mentre la seconda condizione impone che le cure che il paziente ha intenzione di ricevere in uno Stato membro diverso da quello sul cui territorio egli risiede, tenuto conto del suo attuale stato di salute e del probabile decorso della sua malattia, non possano essergli fornite entro il lasso di tempo normalmente necessario per ottenere il trattamento in questione nello Stato membro di residenza (citate sentenze Inizan, punti 42 e 44, nonché Watts, punti 56 e 57). 55 Poiché la quarta questione sottoposta alla Corte verte sulla prima di queste condizioni, occorre esaminare anzitutto quest’ultima. In seguito verrà analizzata la seconda questione, che concerne la seconda condizione, e infine verrà esaminata la prima questione, relativa alla presunzione menzionata nella decisione di rinvio, dato che la risposta a quest’ultima questione discende da quelle fornite alle altre due. – Sulla quarta questione, relativa alla prima condizione enunciata dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 56 Al fine di accertare se sia soddisfatta la prima condizione enunciata dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71, occorre verificare se le «cure di cui trattasi», ossia, come ricavabile dalla documentazione prodotta dinanzi alla Corte, il trattamento oculistico debitamente prescritto dal medico, consistente nell’impianto di piastrine radioattive o nell’applicazione di una terapia protonica, rientrino tra le «prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro, nel cui territorio l’interessato risiede», cioè tra le prestazioni per le quali il regime previdenziale bulgaro prevede il rimborso. 57 A questo proposito si deve sottolineare che, come ricordato nel punto 40 della presente sentenza, l’ordinamento dell’Unione non limita la competenza degli Stati membri ad organizzare i rispettivi sistemi previdenziali e che, in mancanza di armonizzazione a livello di Unione, spetta alla normativa di ciascuno Stato membro determinare le condizioni per la concessione delle prestazioni in materia previdenziale. 58 Così, è stato già dichiarato, in linea di principio, che non è incompatibile con l’ordinamento dell’Unione il fatto che uno Stato membro elabori elenchi limitati di prestazioni mediche rimborsabili da parte del suo sistema previdenziale e che detto ordinamento non ha il potere di costringere uno Stato membro ad ampliare un elenco siffatto di prestazioni (v., in tal senso, sentenza Smits e Peerbooms, cit., punto 87). 59 Da ciò deriva che, come sostenuto dai governi che hanno presentato osservazioni nel presente giudizio, spetta a ciascuno Stato membro prevedere le prestazioni mediche rimbor- 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sabili da parte del proprio sistema previdenziale. A questo scopo, lo Stato membro interessato ha il potere di redigere un elenco che menzioni in modo preciso i trattamenti o i metodi di cura, oppure che indichi più genericamente categorie o tipologie di trattamenti o di metodi di cura. 60 In questa cornice, spetta unicamente agli organi nazionali, chiamati a pronunciarsi su una domanda di autorizzazione al fine di ricevere cure erogate in uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale, determinare se dette cure rientrino nelle previsioni di un elenco siffatto. Nel caso di specie, incombe al giudice del rinvio giudicare se le cure ricevute dal sig. Elchinov in Germania rientrino tra i protocolli di cura clinici menzionati nell’allegato 5 al decreto n. 40/2004. 61 Tuttavia, poiché gli Stati membri sono obbligati a non violare l’ordinamento dell’Unione nell’esercizio delle loro competenze, resta valido il dovere di vigilare affinché l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 sia applicato conformemente a detto ordinamento, nel rispetto dei principi ricordati nel punto 44 della presente sentenza. 62 Da ciò discende che, quando l’elenco delle prestazioni mediche rimborsabili non menziona in modo espresso e preciso il metodo di trattamento applicato, bensì definisce alcune tipologie di trattamento, da un lato, spetta all’istituzione competente dello Stato membro di residenza dell’iscritto al regime previdenziale esaminare, in applicazione dei consueti principi ermeneutici e in base a criteri oggettivi e non discriminatori, prendendo in considerazione tutti gli elementi medici pertinenti e i dati scientifici disponibili, se tale metodo di trattamento corrisponda a prestazioni previste dalla normativa di tale Stato membro; dall’altro, qualora ricorra un’ipotesi siffatta, una domanda di autorizzazione preventiva non può essere respinta adducendo che una siffatta metodologia di trattamento non è praticata nello Stato membro di residenza dell’iscritto al regime previdenziale, poiché una siffatta motivazione, qualora fosse ammessa, implicherebbe una restrizione della portata dell’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71. – Sulla seconda questione, relativa alla seconda condizione enunciata dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 63 Al fine di accertare se sia soddisfatta la seconda condizione enunciata dall’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71, occorre verificare se le cure di cui trattasi, tenuto conto dello stato attuale di salute dell’iscritto al regime previdenziale e dell’evoluzione della sua malattia, possano essergli erogate nei termini normalmente necessari per ottenerle nello Stato membro di residenza. 64 Nel caso di specie, il giudice del rinvio rileva che il trattamento in questione non può essere erogato nello Stato membro di residenza dell’interessato, dove si sarebbe proceduto a un intervento chirurgico che non potrebbe essere considerato, a suo parere, come un trattamento identico o avente lo stesso grado di efficacia. Ebbene, benché la circostanza che il trattamento previsto in un altro Stato membro non sia praticato nello Stato membro di residenza dell’interessato non implichi, di per sé, che sia soddisfatta la seconda condizione enunciata dall’art. 22, n. 2, del regolamento n. 1408/71, è giocoforza constatare, al contrario, che tale ipotesi ricorre quando un trattamento che presenti lo stesso grado di efficacia non può essere ivi erogato in tempo utile. 65 Infatti, la Corte ha già dichiarato che l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 dev’essere interpretato nel senso che l’autorizzazione cui si riferisce tale disposizione non può essere negata quando appare evidente che la prima condizione enunciata da quest’ultima è soddisfatta e che un trattamento identico o che presenti lo stesso grado di effi- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 43 cacia non può essere ottenuto in tempo utile nello Stato membro nel cui territorio risiede l’interessato (v., in tal senso, citate sentenze Inizan, punti 45, 59 e 60, nonché Watts, punti 59- 61). 66 La Corte ha precisato che, per valutare se un trattamento che presenti lo stesso grado di efficacia per il paziente possa essere ottenuto in tempo utile nello Stato membro di residenza, l’istituzione competente è tenuta a prendere in considerazione l’insieme delle circostanze che contraddistinguono ogni caso concreto, tenendo nel dovuto conto non solamente il quadro clinico del paziente nel momento in cui è richiesta l’autorizzazione e, all’occorrenza, il grado del dolore o la natura dell’infermità di quest’ultimo, che potrebbe, ad esempio, rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di un’attività professionale, ma anche i suoi antecedenti (citate sentenze Inizan, punto 46, e Watts, punto 62). 67 Pertanto, in una situazione in cui le cure di cui trattasi non possono essere dispensate nello Stato membro nel cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale e in cui le prestazioni previste dalla normativa di questo Stato membro sono oggetto non di un’elencazione precisa di trattamenti o protocolli di cura, bensì di una definizione più generica di categorie o tipologie di trattamento o metodi di cura, l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 implica che, qualora sia dimostrato che il trattamento ipotizzato in un altro Stato membro rientra in una di queste categorie o corrisponde a una di queste tipologie, l’istituzione competente è obbligata a rilasciare all’iscritto al regime previdenziale l’autorizzazione necessaria ai fini del rimborso del costo di questo trattamento, quando il trattamento alternativo che può essere erogato in tempo utile nello Stato membro in cui egli risiede non presenta, come nell’ipotesi descritta dal giudice del rinvio, lo stesso grado di efficacia. – Sulla prima questione, relativa alla presunzione menzionata nella decisione di rinvio 68 Ad integrazione di tale questione, il giudice del rinvio spiega che, in base alle indicazioni fornite nella causa principale dal Varhoven administrativen sad, qualora le cure ospedaliere prese in considerazione non possano essere fornite in Bulgaria, occorre presumere che dette cure non rientrino nei protocolli clinici rimborsabili da parte della NZOK e, viceversa, qualora dette cure siano rimborsate da quest’ultima, occorre presumere che esse possano essere prestate in Bulgaria. Questo giudice si interroga sulla conformità di una siffatta presunzione con l’art. 22 del regolamento n. 1408/71, dato che detta presunzione porta alla conseguenza, a suo parere, che le due condizioni enunciate dall’art. 22, n. 2, secondo comma, possono essere soddisfatte solo nell’ipotesi in cui determinate cure che presentino lo stesso grado di efficacia siano praticate nello Stato membro di residenza, ma non possano esserlo in tempo utile. 69 A questo proposito occorre constatare che dall’interpretazione dell’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71, formulata in occasione dell’esame delle questioni quarta e seconda, si evince che una decisione relativa a una domanda di autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), non può essere basata su una siffatta presunzione. 70 Infatti, in primo luogo, da quanto enunciato nel punto 62 della presente sentenza risulta che, da un lato, in ciascun caso si deve esaminare, in applicazione dei consueti principi ermeneutici e in base a criteri oggettivi e non discriminatori, prendendo in considerazione tutti gli elementi rilevanti e i dati scientifici disponibili, se il metodo di trattamento di cui trattasi corrisponda a prestazioni previste dalla normativa nazionale e che, dall’altro, una domanda di autorizzazione preventiva non può essere respinta per il motivo che un siffatto metodo di trattamento non sia praticato nello Stato membro di residenza dell’iscritto al regime previdenziale. 71 In secondo luogo, da quanto esposto nei punti 64-67 della presente sentenza si desume 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 che una domanda di autorizzazione non può essere respinta quando cure identiche a quelle ipotizzate o che presentino lo stesso grado di efficacia non possono essere erogate nello Stato membro di residenza in tempo utile, circostanza che dev’essere parimenti verificata in ciascun caso. 72 A parte il fatto che l’uso della presunzione menzionata nella prima questione formulata dal giudice del rinvio avrebbe l’effetto di restringere la portata dell’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71, essa porterebbe a introdurre un ostacolo alla libera prestazione dei servizi nel settore della sanità, non giustificato dai motivi imperativi indicati nei punti 42 e 43 della presente sentenza. 73 Alla luce di queste riflessioni, occorre risolvere le questioni prima, seconda e quarta dichiarando che, per quanto concerne le cure mediche che non possono essere prestate nello Stato membro sul cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale, l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71 dev’essere interpretato nel senso che un’autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), non può essere negata: – se, quando le prestazioni previste dalla normativa nazionale sono oggetto di un elenco che non menziona in modo espresso e preciso il metodo di trattamento applicato, bensì definisce alcune tipologie di trattamento rimborsate dall’istituzione competente, è accertato, in applicazione dei consueti principi ermeneutici e in seguito a un esame basato su criteri oggettivi e non discriminatori, prendendo in considerazione tutti gli elementi medici pertinenti e i dati scientifici disponibili, che tale metodo di trattamento corrisponde a tipologie di prestazioni menzionate in detto elenco, e – se un trattamento alternativo che presenti lo stesso grado di efficacia non può essere erogato in tempo utile nello Stato membro in cui risiede l’iscritto al regime previdenziale. Lo stesso articolo osta a che gli organi nazionali incaricati di pronunciarsi su una domanda di autorizzazione preventiva possano presumere, in sede di applicazione di questa disposizione, che le cure ospedaliere che non possono essere prestate nello Stato membro in cui risiede l’iscritto al regime previdenziale non rientrino tra le prestazioni il cui rimborso è previsto dalla normativa di questo Stato e, viceversa, che le cure ospedaliere rientranti tra dette prestazioni possano essere fornite in detto Stato membro. Sulle questioni sesta e settima, relative alle modalità di rimborso all’iscritto al regime previdenziale delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro 74 Con le sue questioni sesta e settima, il giudice del rinvio chiede se il giudice nazionale debba obbligare l’istituzione competente a rilasciare all’iscritto al regime previdenziale il modello E 112 qualora esso ritenga che, persino quando le cure ospedaliere siano terminate nel momento in cui esso si pronuncia, il diniego di rilasciare tale documento sia illegale. Esso inoltre chiede se, in tal caso, le cure ospedaliere debbano essere rimborsate all’iscritto al regime previdenziale dall’istituzione competente o da quella del luogo in cui siano state prestate le cure e sino a che importo debba essere effettuato il rimborso, quando l’ammontare delle prestazioni previste dalla normativa dello Stato membro di residenza dell’iscritto al regime previdenziale sia diverso da quello delle prestazioni previste dallo Stato membro sul cui territorio le cure sono state prestate. 75 A questo proposito occorre osservare che il rilascio di un’autorizzazione preventiva quale quella sotto forma del modello E 112 non sembra possa risultare utile quando le cure ospedaliere siano già state prestate all’iscritto al regime previdenziale, salvo eventualmente l’ipotesi in cui queste ultime non siano state ancora fatturate all’interessato o non siano stati ancora saldate. Al di fuori di quest’ipotesi, come illustrato nel punto 48 della presente sentenza, LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 45 l’iscritto al regime previdenziale ha il diritto, in un caso del genere, ad ottenere direttamente il rimborso, da parte dell’istituzione competente, di un importo equivalente a quello che sarebbe stato normalmente rimborsato da quest’ultima qualora l’autorizzazione fosse stata debitamente rilasciata prima dell’inizio delle cure. 76 In ogni caso, spetta al giudice nazionale obbligare l’istituzione competente, in osservanza delle norme nazionali di procedura, a rimborsare l’importo menzionato nel punto precedente. 77 Quest’importo dev’essere pari a quello determinato in base alle norme della legislazione cui è soggetta l’istituzione dello Stato membro nel cui territorio sono state erogate le cure ospedaliere (v., in tal senso, sentenza Vanbraekel e a., cit., punto 32). 78 Qualora l’importo del rimborso delle spese sostenute per le prestazioni ospedaliere fornite in uno Stato membro diverso da quello di residenza, che risulti dall’applicazione delle norme vigenti in quest’ultimo, sia inferiore a quello che sarebbe stato ottenuto applicando la normativa vigente nello Stato membro di residenza in caso di ricovero ospedaliero in quest’ultimo, l’istituzione competente deve inoltre concedere, in forza dell’art. 49 CE nell’interpretazione datane dalla Corte, un rimborso supplementare, corrispondente alla differenza tra questi due importi (v., in tal senso, citate sentenze Vanbraekel e a., punti 38-52, nonché Commissione/ Spagna, punti 56 e 57). 79 La Corte ha precisato che, nell’ipotesi in cui la normativa dello Stato membro competente preveda la gratuità dei trattamenti ospedalieri erogati nell’ambito di un servizio sanitario nazionale, e in cui la normativa dello Stato membro nel quale un paziente appartenente al detto servizio è stato, o avrebbe dovuto essere, autorizzato a ricevere un trattamento ospedaliero a spese di tale servizio non preveda un’assunzione integrale del costo del detto trattamento, dev’essere concesso a tale paziente, da parte dell’istituzione competente, un rimborso corrispondente alla differenza eventuale tra, da una parte, l’importo del costo, oggettivamente stimato, di un trattamento equivalente in un istituto del servizio di cui trattasi, non eccedente, se del caso, la misura dell’importo globale fatturato per il trattamento offerto nello Stato membro di soggiorno, e, dall’altra, l’importo per cui l’istituzione di tale ultimo Stato membro è tenuta ad intervenire, ai sensi dell’art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71, per conto dell’istituzione competente, in applicazione delle disposizioni della normativa di tale Stato membro (sentenza Watts, cit., punto 143). 80 Occorre aggiungere che, come rilevato dall’avvocato generale nel paragrafo 85 delle sue conclusioni, gli iscritti a un regime previdenziale che ricevano cure ospedaliere in uno Stato membro diverso da quello di residenza senza chiedere un’autorizzazione ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71 possono chiedere il rimborso di dette cure, in base all’art. 49 CE, solo nei limiti della copertura garantita dal regime di assicurazione malattia al quale sono iscritti (v., in tal senso, sentenza Müller-Fauré e van Riet, punti 98 e 106). La stessa regola vale quando il diniego di rilascio di un’autorizzazione preventiva richiesta in base a detto art. 22 è fondato. 81 Alla luce di quanto sin qui esposto, occorre rispondere alle questioni sesta e settima dichiarando quanto segue: – Quando è accertato che il diniego di rilascio di un’autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett.c), sub i), del regolamento n. 1408/71 non era fondato, e nel frattempo le cure ospedaliere siano state completate e le spese ad esse relative siano state sostenute dall’iscritto al regime previdenziale, il giudice nazionale deve obbligare l’istituzione competente, in osservanza delle norme nazionali di procedura, a rimborsare a detto iscritto l’importo che sarebbe stato normalmente saldato da quest’ultima qualora l’autorizzazione fosse stata debitamente rilasciata. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 – Quest’importo dev’essere pari a quello determinato in base alle norme della legislazione cui è soggetta l’istituzione dello Stato membro nel cui territorio sono state erogate le cure ospedaliere. Qualora l’importo sia inferiore a quello che sarebbe stato ottenuto applicando la normativa vigente nello Stato membro di residenza in caso di ricovero ospedaliero in quest’ultimo, l’istituzione competente deve inoltre concedere alla persona iscritta al regime previdenziale un rimborso supplementare, corrispondente alla differenza tra questi due importi, nei limiti delle spese effettivamente sostenute. Sulle spese 82 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) Il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede d’impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. 2) Gli artt. 49 CE e 22 del regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, quale modificato e aggiornato dal regolamento (CE) del Consiglio 2 dicembre 1996, n. 118/97, quale modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 18 dicembre 2006, n. 1992, ostano alla normativa di uno Stato membro interpretata nel senso che essa escluda, in ogni caso, il rimborso delle cure ospedaliere prestate in un altro Stato membro in assenza di preventiva autorizzazione. 3) Per quanto concerne le cure mediche che non possono essere prestate nello Stato membro sul cui territorio risiede l’iscritto al regime previdenziale, l’art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento n. 1408/71, quale modificato e aggiornato dal regolamento n. 118/97, come modificato dal regolamento n. 1992/2006, dev’essere interpretato nel senso che un’autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), non può essere negata: – se, quando le prestazioni previste dalla normativa nazionale sono oggetto di un elenco che non menziona in modo espresso e preciso il metodo di trattamento applicato, bensì definisce alcune tipologie di trattamento rimborsate dall’istituzione competente, è accertato, in applicazione dei consueti principi ermeneutici e in seguito a un esame basato su criteri oggettivi e non discriminatori, prendendo in considerazione tutti gli elementi medici pertinenti e i dati scientifici disponibili, che tale metodo di trattamento corrisponde a tipologie di prestazioni menzionate in detto elenco, e – se un trattamento alternativo che presenti lo stesso grado di efficacia non può essere erogato in tempo utile nello Stato membro in cui risiede l’iscritto al regime previdenziale. Lo stesso articolo osta a che gli organi nazionali incaricati di pronunciarsi su una domanda di autorizzazione preventiva possano presumere, in sede di applicazione di questa disposizione, che le cure ospedaliere che non possono essere prestate nello Stato membro in cui risiede l’iscritto al regime previdenziale non rientrino tra le prestazioni il cui rimborso è previsto dalla normativa di questo Stato e, viceversa, che le cure ospedaliere LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 47 rientranti tra dette prestazioni possano essere fornite in detto Stato membro. 4) Quando è accertato che il diniego di rilascio di un’autorizzazione richiesta ex art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71, quale modificato e aggiornato dal regolamento n. 118/97, come modificato dal regolamento n. 1992/2006, non era fondato, e nel frattempo le cure ospedaliere siano state completate e le spese ad esse relative siano state sostenute dall’iscritto al regime previdenziale, il giudice nazionale deve obbligare l’istituzione competente, in osservanza delle norme nazionali di procedura, a rimborsare a detto iscritto l’importo che sarebbe stato normalmente saldato da quest’ultima qualora l’autorizzazione fosse stata debitamente rilasciata. Quest’importo dev’essere pari a quello determinato in base alle norme della legislazione cui è soggetta l’istituzione dello Stato membro nel cui territorio sono state erogate le cure ospedaliere. Qualora l’importo sia inferiore a quello che sarebbe stato ottenuto applicando la normativa vigente nello Stato membro di residenza in caso di ricovero ospedaliero in quest’ultimo, l’istituzione competente deve inoltre concedere alla persona iscritta al regime previdenziale un rimborso supplementare, corrispondente alla differenza tra questi due importi, nei limiti delle spese effettivamente sostenute. C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E La consultazione elettorale amministrativa e referendaria Le difese dell’Avvocatura e i pronunciamenti dei Giudici: il no allo “election day” IN ALLEGATO: a) memoria difensiva; b) ordinanza TAR Lazio, Sez. II bis, 1 aprile 2011 n. 1190; c) ordinanza Consiglio di Stato, Sez. V, 19 aprile 2011 n. 1736; d) ordinanza Corte costituzionale del 13 maggio 2011 n. 169. All. a) AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO DAVANTI L’ECC.MO T.A.R. LAZIO - SEZ. II Bis R.G. 2389/11 – C.C. 31.3.2011 Cont. 12533/2011 – Avv. Borgo Memoria difensiva PER la Presidenza della Repubblica, in persona del Presidente pro tempore, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, il Ministero dell’Interno – Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, in persona del Ministro pro tempore, e il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso il cui Ufficio, in via dei Portoghesi n. 12, sono legalmente domiciliati - resistenti nel giudizio promosso da: CODACONS, Comitato promotore dei referendum ambientali e per il diritto ad esprimersi nelle consultazioni referendarie di giugno 2011 e dal sig. G.P., tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti C. Rienzi, M. Tabano e M. Ramadori - ricorrenti Ritenuto impugnativamente il ricorso avversario, si eccepisce e deduce quanto segue. INAMMISSIBILITA’ e/o INFONDATEZZA DEL RICORSO AVVERSARIO Il ricorso avversario si appalesa manifestamente inammissibile. Per quanto concerne il sig. G.P., si evidenzia come lo stesso abbia proposto l’odierno ricorso nella sua qualità di elettore. Al proposito, giova osservare che l’art. 130 del codice del processo amministrativo, stabilendo che un cittadino elettore dell’ente della cui elezione si tratta può proporre ricorso riguardo al- 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 l’elezione degli organi dell’amministrazione, delimita la relativa impugnativa agli atti del procedimento elettorale “successivi all’emanazione dei comizi elettorali”. L’azione popolare prevista da tale disposizione (come quella contemplata dal previgente art. 83/11 del D.P.R. n. 570/60, abrogato a fare data dall’entrata in vigore del c.p.a.) non si estende, quindi, all’impugnativa dei provvedimenti di indizione delle elezioni, per la cui impugnabilità occorre una situazione soggettiva legittimante alla proposizione del ricorso costituita dalla contestuale presenza della legittimazione ad agire e dell’interesse al ricorso (cfr. Cons. Stato, sez. V, sentenza 20 maggio 2009, n. 3109). Non configura, all’evidenza, tale situazione soggettiva l’interesse rappresentato dal prefato ricorrente ad “esercitare la partecipazione politica in linea con il disposto dell’art. 1 Cost. che attribuisce la sovranità al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, adottando soluzioni organizzative e procedurali che non sacrifichino la democrazia diretta”. Tale interesse, infatti, che non trova un appiglio in alcuna norma dell’ordinamento, si configura come un interesse di mero fatto, non idoneo a concretizzare una posizione legittimante alla proposizione del ricorso giurisdizionale di cui trattasi. Quanto al Comitato promotore dei referendum ambientali e per il diritto ad esprimersi nelle consultazioni referendarie di giugno 2011, non può non evidenziarsi come la Corte Costituzionale abbia, in svariate occasioni, affermato come il decreto di indizione del referendum non sia idoneo ad incidere, neanche astrattamente, sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite al comitato promotore; ciò in quanto l’art. 34, primo comma, della legge n. 352 del 1970 attribuisce al Consiglio dei ministri un ampio potere di valutazione nell’effettuare la proposta al Presidente della Repubblica – cui spetta l’adozione del relativo provvedimento formale – sia in ordine al momento di indizione del referendum, sia per quanto attiene alla fissazione della data della consultazione referendaria, ponendo quale unico limite indeclinabile che le relative operazioni di voto si svolgano tra il 15 aprile e il 15 giugno; che, pertanto, rientra nella sfera delle attribuzioni del comitato la pretesa allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e della costituzionalità delle relative domande; ma non anche - in assenza di situazioni eccezionali (non rinvenibili nel caso di specie) - la pretesa di interferire sulla scelta governativa, tra le molteplici, legittime opzioni, della data all’interno del periodo prestabilito» (così ordinanze n. 38 del 2008, n. 198 del 2005 e n. 131 del 1997). Più in particolare, con l’ordinanza n. 131/97, la Consulta ha recisamente escluso che il Comitato promotore di un referendum abrogativo possa pretendere il c.d. abbinamento della tornata elettorale referendaria con quella delle elezioni amministrative. Quanto, infine, alla posizione del CODACONS, questa Difesa rileva come le stesse finalità statutarie della prefata associazione (finalità richiamate, peraltro, nello stesso ricorso introduttivo del presente giudizio) escludano, in radice, la sussistenza, in capo al CODACONS, di una situazione soggettiva legittimante alla proposizione dell’odierno ricorso. Non vi è chi non veda, infatti, come il mancato svolgimento del c.d. “election day” non possa tradursi in una lesione degli interessi dei consumatori. Al proposito, non vale evidenziare, come fatto dal CODACONS, che il mancato abbinamento della tornata elettorale referendaria con quella delle elezioni amministrative si traduce in un esborso economico per la collettività in quanto tale pregiudizio non riguarda certamente i consumatori. Il ricorso avversario si appalesa inammissibile anche con riferimento all’oggetto dello stesso, per difetto assoluto di giurisdizione. CONTENZIOSO NAZIONALE 51 Ed invero, sia il Decreto del Ministro dell’Interno che la previa delibera del Consiglio dei Ministri di fissazione della data delle elezioni amministrative sono sottratti al sindacato di qualsivoglia organo giurisdizionale, trattandosi di “atti politici”; questi ultimi atti non possono che essere qualificati come “atti politici”, sia sotto il profilo soggettivo (in quanto provenienti da Organi di Governo preposti all’indirizzo ed alla direzione al massimo livello delle attività pubbliche), sia sotto il profilo oggettivo (in quanto attinenti a scelte di specifico rilevo costituzionale e politico relative al funzionamento in modo organico e coordinato dei pubblici poteri e delle istituzioni dello Stato), come ampiamente sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 2008, n. 1053; Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209; Sez. VI, 22 gennaio 2002, n. 360; Sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397). Al proposito, si evidenzia che l’indizione dei referendum avviene con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 34 della Legge 25 maggio 1970, n. 352. La fissazione della data della consultazione referendaria è frutto, quindi, di valutazioni, di carattere eminentemente politico, dell’esecutivo nella sua totalità e non su proposta del Ministro dell’Interno, nell’ambito della finestra temporale (15 aprile – 15 giugno) prevista dal predetto articolo 34, 1° comma. Il carattere eminentemente politico della scelta della data referendaria si può dedurre anche dal fatto che non esiste nella nostra legislazione alcuna disposizione di legge che consenta l’abbinato svolgimento delle elezioni amministrative con i referendum; il Decreto Legge 3 maggio 1976, n. 161, convertito con Legge 14 maggio 1976, n. 240, prevede l’armonizzazione di diversi procedimenti elettorali e consente lo svolgimento contemporaneo delle elezioni politiche con le regionali e le amministrative, comprese le regionali della Sicilia e le comunali del Trentino Alto Adige, e non dispone alcunché riguardo alla consultazione referendaria. Attualmente, quindi, l’eventuale abbinamento delle elezioni amministrative con i referendum necessita di un’apposita disposizione normativa che renda compatibili ed uniformi alcuni aspetti dei procedimenti elettorali interessati che, altrimenti, trovano in più punti discipline divergenti, quali il riparto delle spese comuni tra o Stato e gli enti locali, il numero degli scrutatori previsti in numero diverso nei procedimenti elettorali in parola, l’ordine dello scrutinio delle schede, oltre alla precisazione delle norme che debbono trovare applicazione presso gli uffici elettorali di sezione in relazione agli adempimenti comuni alle varie consultazioni. L’unico caso di abbinamento tra referendum abrogativi ed elezioni europee ed amministrative è avvenuto nel 2009 ed è stato espressamente consentito, in via transitoria, con la legge 28 aprile 2009, n. 40; in quella occasione, si è reso indispensabile l’abbinamento del turno elettorale per il particolare calendario imposto dalle date delle elezioni europee che, per normativa U.E., si sono svolte nella prima settimana di giugno 2009 e che sono tradizionalmente abbinate alle amministrative. Nella particolare circostanza, il mancato abbinamento del secondo turno di amministrative con i referendum avrebbe comportato la chiamata del corpo elettorale in tre successive e continuative settimane dello stesso mese di giugno, con oggettivi, inevitabili disagi per gli elettori e prevedibile disaffezione nei confronti dell’esercizio del diritto di elettorato attivo. Ma, ove anche si volesse ritenere ammissibile l’avverso ricorso, lo stesso dovrebbe, comunque, essere dichiarato infondato. Ed invero, quand’anche si volesse qualificare alla stregua di un atto amministrativo la proposta del Consiglio dei Ministri emessa nella fase preparatoria di fissazione della data di votazione, tuttavia la decisione di abbinare in un’unica tornata elettorale le amministrative e i referendum 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 non potrebbe prescindere dalla volontà del Legislatore che, nel caso specifico, deve dettare prima la norma. A questo proposito, occorre precisare che proprio per la particolarità del procedimento referendario, nel quale peraltro la partecipazione al voto costituisce di per sé espressione del consenso dell’elettorato ai quesiti proposti, si è cercato in passato di evitare la contemporanea celebrazione di troppe consultazioni di diversa natura, sia per evitare la sovrapposizione di temi di campagna referendaria con la propaganda elettorale, sia per limitare quanto più possibile i disagi ai seggi elettorali; infatti, l’eventuale abbinamento delle amministrative con i quattro referendum popolari abrogativi determinerebbe per un numero elevato di elettori l’esercizio del voto con un numero eccessivo di schede, che in alcuni comuni potrebbero essere anche sei, di cui due per le elezioni provinciali e comunali (o comunali e circoscrizionali) e quattro per i referendum; schede completamente diverse, che sottendono differenti modalità di voto a seconda della consultazione cui si riferiscono, ed il cui numero porterebbe ad un aumento delle difficoltà e dei presumibili errori sia degli elettori nell’esercizio del diritto di voto, sia dei componenti del seggio in sede di scrutinio. La concentrazione del voto amministrativo e referendario determinerebbe inevitabilmente l’allungamento del tempo di permanenza di ciascun elettore all’interno delle cabine elettorali, con il rischio di file e lunghi tempi di attesa. Inoltre, il disorientamento sarebbe accentuato per i cittadini italiani residenti all’estero, i quali potrebbero, contemporaneamente, votare per corrispondenza all’estero per i referendum, dovendo, invece, votare nei seggi elettorali dei comuni di iscrizione per le elezioni provinciali e comunali. Lo spoglio delle schede per le elezioni provinciali, di quelle comunali (queste ultime caratterizzate dall’espressione delle preferenze e dal voto disgiunto nei comuni superiori ai 15.000 abitanti) e in taluni casi anche di quelle circoscrizionali è particolarmente lungo e complesso. L’inserimento nella stessa giornata anche dello scrutinio relativo alle quattro schede dei referendum potrebbe portare in molte sezioni notevoli difficoltà nel concludere le operazioni di scrutinio, con possibili ricadute sui tempi di diffusione dei dati e sulla stessa regolarità dello spoglio. In conclusione, la scelta di natura squisitamente politica che induce il Legislatore in primo luogo a valutare l’opportunità di riunire il turno elettorale (con l’implicita valutazione degli aspetti economici che tale scelta comporta) e in secondo luogo a regolare l’abbinamento, e la susseguente fase anch’essa di natura politica e non amministrativa della fissazione delle date di convocazione dell’elettorato, consentono di superare i motivi riportati nel ricorso. Ciò esposto, si insiste per l’accoglimento delle seguenti CONCLUSIONI Voglia l’adito Tribunale Amministrativo Regionale - respingere l’istanza di sospensione dei provvedimenti impugnati; - nel merito, dichiarare il ricorso avversario inammissibile e/o infondato. Il tutto con vittoria di spese e compensi del giudizio. Roma, 27 marzo 2011 Maurizio BORGO Avvocato dello Stato CONTENZIOSO NAZIONALE 53 All. b) N. 01190/2011 REG.ORD.CAU. N. 02389/2011 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) ha pronunciato la presente ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2389 del 2011, integrato da motivi aggiunti, proposto da: Codacons, “Comitato promotore dei referendum ambientali e per il diritto ad esprimersi nelle consultazioni referendarie di Giugno 2011”, Giovanni Pignoloni, rappresentati e difesi dagli Avv. ti Gino Giuliano, Marco Ramadori, Carlo Rienzi, Mariacristina Tabano, con domicilio eletto presso Ufficio Legale Nazionale del Codacons in Roma, v.le G. Mazzini, 73; contro Presidenza della Repubblica, in persona del Presidente p.t., Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t.; Ministero dell'Interno, in persona del Ministro p.t.; Ministero della Giustizia, in persona del Ministro p.t., costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; Comune di Napoli, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi in giudizio; Comune di Milano, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi in giudizio; Comune di Torino, non costituitosi in giudizio; nei confronti di Pdl - Popolo delle Libertà, non costituitosi in giudizio; Pd - Partito Democratico, non costituitosi in giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum: Italia dei Valori, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Sergio Scicchitano, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso in Roma, via E. Faa' di Bruno, 4; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, - in parte qua del Decreto del Ministro dell'Interno con cui è stata fissata per il 15 - 16 maggio 2011 la data delle elezioni amministrative, nonché della proposta del Ministro dell’Interno e della conseguente deliberazione del Consiglio dei Ministri del 23 marzo 2011, recante la determinazione della data di celebrazione di quattro referendum abrogativi. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Presidenza della Repubblica, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Interno, del Ministero della Giustizia; Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente; Visto l'art. 55 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Ritenuta la propria giurisdizione e competenza; Relatore nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2011 il dott. Francesco Arzillo e uditi 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 per le parti i difensori avv.ti C. Rienzi, G. Giuliano, M. Iavazzo per delega S. Schicchitano e Avv. dello Stato M. Borgo; Considerato in fatto e in diritto: a) che il ricorso è sostanzialmente volto a censurare il mancato accorpamento dei referendum abrogativi con le elezioni amministrative del 2011 in un’unica data (cd. “Election day”); b) che nel contesto del ricorso vanno quindi considerate unitariamente l’impugnazione del D.M. che ha fissato la data delle elezioni amministrative per il 15-16 maggio 2011 e l’impugnazione degli atti aventi ad oggetto la fissazione della data della consultazione referendaria per il 12 e 13 giugno 2011 (vedi comunicato Cons. Min. n. 133 del 23.3.2011), in quanto l’impugnazione del primo atto viene qui in considerazione solo per il profilo omissivo del mancato abbinamento delle date in questione; c) che il ricorso muove dal presupposto della ritenuta estraneità degli atti impugnati dal novero dei cd. “atti politici”, ed è volto a far valere una posizione giuridica prospettata, in buona sostanza, nei termini di un interesse legittimo al corretto e ragionevole esercizio del potere di fissazione delle date delle rispettive consultazioni; d) che in linea di principio - e nonostante alcuni avvisi giurisprudenziali in senso contrario - può ragionevolmente ritenersi che il fatto che il referendum sia suscettibile di incidere con il suo esito finale sulla legislazione primaria (cd. funzione legislativa negativa) non comporti l’estensione di una qualificazione di natura legislativa a tutti gli atti del relativo procedimento (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, sez. VI, 19 maggio 2000, n. 2413/ord., che ha ritenuto sindacabili in linea di principio gli atti del procedimento referendario, segnatamente con riferimento ai profili lesivi della libertà e della segretezza delle scelte degli elettori); e) che gli atti impugnati non paiono - nei limiti della sommaria delibazione propria della sede cautelare - neppure riconducibili al più generale novero degli atti politici, trattandosi di atti applicativi della legislazione primaria, anche se coinvolgenti la partecipazione del Governo e del Presidente della Repubblica, e pur se connotati da un certo margine di discrezionalità temporale, peraltro nei limiti rigidamente prefissati dalla legge; f) che conseguentemente neppure appare configurabile, sotto questo preliminare aspetto, un difetto assoluto di giurisdizione, non potendosi negare l’ammissibilità della tutela giurisdizionale avverso gli atti amministrativi (art. 24 e 113 Cost.); g) che peraltro tutto ciò non esime dalla verifica della sussistenza degli specifici presupposti e delle condizioni per l’esercizio in concreto di siffatta tutela da parte di soggetti determinati, in relazione agli specifici profili azionati in giudizio; h) che la prima questione posta con il ricorso (in particolare con il primo e con il quarto motivo) attiene - in sintesi - alla violazione dell’art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza, a causa del forte aggravio di spesa che deriva dalla scelta di non accorpare la data di celebrazione del referendum con la data prevista per la consultazione elettorale amministrativa; i) che questo tipo di questione comporta un delicato bilanciamento dei vincoli normativi (con le connesse ripercussioni organizzative), nonché delle indicazioni ricavabili dalla prassi finora seguita e dalle non univoche risultanze del dibattito dottrinale, con l’esigenza – sottolineata dai ricorrenti – di non aggravare irragionevolmente lo stato della finanza pubblica; l) che peraltro l’esigenza di non aggravare irragionevolmente lo stato della finanza pubblica, che è posta alla base dell’interesse azionato nel presente giudizio - e della quale il Collegio non disconosce la serietà e la pregnanza - non può fondare un interesse legittimo tutelabile nella presente sede giurisdizionale, in quanto trattasi di interesse non settoriale, pienamente CONTENZIOSO NAZIONALE 55 coincidente con l’interesse dell’intera collettività nazionale e quindi non adeguatamente differenziato o individuato né in capo al singolo elettore né in capo al comitato promotore, e neppure in capo al CODACONS, non prevedendo d’altra parte l’ordinamento alcuna azione popolare al riguardo; m) che quindi sotto questo primo profilo il ricorso, in disparte ogni considerazione circa la sua meritevolezza, appare inammissibile; n) che la seconda questione - posta essenzialmente con il secondo e il terzo motivo di ricorso - attiene alla violazione della normativa costituzionale e ordinaria sui referendum e al connesso sviamento di potere, in relazione alla considerazione che celebrare i referendum dopo le elezioni amministrative significherebbe favorirne indebitamente il fallimento per mancato raggiungimento del quorum legale di partecipazione, determinando anche la violazione del canone della proporzionalità dell’azione amministrativa in relazione alla finalità partecipativa tipica dei meccanismi di democrazia diretta; o) che - a prescindere da ogni altro possibile rilievo preliminare anche in ordine alla legittimazione al ricorso - la questione non appare comunque assistita da consistenti elementi di fumus boni juris, alla luce del chiaro dettato della Corte costituzionale (cfr. da ultimo l’ordinanza n. 38/2008, che richiama le precedenti ordinanze n. 198/2005 e n. 131/1997), secondo cui: - “l'art. 34, primo comma, della citata legge n. 352 del 1970 attribuisce al Consiglio dei ministri un ampio potere di valutazione nell'effettuare la proposta al Presidente della Repubblica - cui spetta l'adozione del relativo provvedimento formale - sia in ordine al momento di indizione del referendum, sia per quanto attiene alla fissazione della data della consultazione referendaria, ponendo quale unico limite indeclinabile che le relative operazioni di voto si svolgano tra il 15 aprile e il 15 giugno”; - “rientra nella sfera delle attribuzioni del comitato la pretesa allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e della costituzionalità delle relative domande; ma non anche - in assenza di situazioni eccezionali - la pretesa di interferire sulla scelta governativa, tra le molteplici, legittime opzioni, della data all'interno del periodo prestabilito”; p) che al riguardo, in sede di sommaria delibazione, appaiono prive di eccezionalità le circostanze consistenti nell’inizio delle vacanze scolastiche e dei primi scaglioni di ferie nell'impiego pubblico e privato (Corte cost. ord. n. 198/2005), né appaiono sussistere altre circostanze eccezionali, fermo restando quanto rilevato in precedenza in ordine alla rilevanza della questione finanziaria; P.Q.M. respinge l’istanza cautelare. Compensa le spese della presente fase cautelare. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2011 con l'intervento dei magistrati: Eduardo Pugliese, Presidente Antonio Vinciguerra, Consigliere Francesco Arzillo, Consigliere, Estensore 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 All. c) N. 01736/2011 REG. PROV. CAU. N. 02760/2011 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2760 del 2011, proposto da: Codacons, Comitato Promotore dei Referendum Ambientali e Giovaannni Pignoloni, rappresentati e difesi dagli avv. Carlo Rienzi e Marco Ramadori, con domicilio eletto presso Ufficio Legale Nazionale Codacons in Roma, viale Giuseppe Mazzini N.73; contro Ministero dell'Interno, Ministero della Giustizia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Presidenza della Repubblica, rappresentati e difesi dall'Maurizio Borgo, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti di Comune di Milano, Comune di Napoli, Comune di Torino, Pdl-Il Popolo delle Libertà, Pd- Partito Democratico, Italia dei Valori; per la riforma dell' ordinanza cautelare del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II BIS n. 01190/2011, resa tra le parti, concernente dell' ordinanza sospensiva del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II BIS n. 01190/2011, resa tra le parti, concernente DECRETO DI FISSAZIONE PER IL 15 E 16 MAGGIO 2011 DELLA DATA DELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE - DETERMINAZIONE DATA DI CELEBRAZIONE DI QUATTRO REFERENDUM ABROGATIVI - MCP Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Ministero della Giustizia e di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Presidenza della Repubblica; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Viste le memorie difensive; Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2011 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati Rienzi e l'Avvocato dello Stato Scaramucci; Rilevato, in punto di fatto, che: con il ricorso di prime cure gli odierni appellanti hanno impugnato, chiedendone la sospensione, il Decreto del Ministro dell'Interno con cui è stata fissata per il 15 ed il 16 maggio 2011 la data delle elezioni amministrative e la proposta del Ministro dell’Interno e della conseguente deliberazione del Consiglio dei Ministri del 23 marzo 2011, recante la determinazione, per i giorni 12 e 13 giugno 2001, della data di celebrazione di quattro referendum abrogativi; il ricorso è sostanzialmente volto a censurare il mancato accorpamento dei referendum abrogativi con le elezioni amministrative del 2011 in un’unica data; con l’Ordinanza impugnata i Primi Giudici hanno negato l’invocata tutela cautelare; CONTENZIOSO NAZIONALE 57 Ritenuto che l’appello cautelare non è suscettibile di accoglimento in ragione delle seguenti considerazioni in punto di diritto: - non merita accoglimento l’eccezione svolta dalla difesa erariale in merito alla natura politica della scelta delle date di celebrazione della consultazione referendaria, posto che si tratta di atti applicativi della legislazione primaria che, nell’ambito della cornice temporale fissata dall’art. 34 della legge 25 maggio 1970, n. 312, sono deputati ad una comparazione di interessi volta ad individuare la data più opportuna sulla scorta dell’esplicazione di una lata discrezionalità amministrativa; -si tratta, in definitiva, di atti di alta amministrazione soggetti alla giurisdizione amministrativa in quanto non sussumibili nel novero degli atti e provvedimenti adottati emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico ai sensi del comma 1 dell’art. 7 del codice del processo amministrativo (cfr., in materia, Consiglio di Stato, sez. VI, 19 maggio 2000, n. 2413/ord., che ha ritenuto sindacabili in linea di principio gli atti del procedimento referendario, segnatamente con riferimento ai profili lesivi della libertà e della segretezza delle scelte degli elettori); -merita condivisione l’affermazione del Primo Giudice in merito all’insussistenza, in capo ai ricorrenti, della legittimazione a fare valere le censure concernenti la violazione dell’art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza, a causa del forte aggravio di spesa che deriverebbe dalla scelta di non accorpare la data di celebrazione del referendum con la data prevista per la consultazione elettorale amministrativa, in quanto l’esigenza di non aggravare irragionevolmente lo stato della finanza pubblica attiene ad un interesse generale della collettività nazionale rispetto al quale non risulta ravvisabile una posizione differenziata in capo alle parti ricorrenti idonea a radicare una posizione di interesse legittimo azionabile innanzi al giudice amministrativo; -non sussistono invece adeguati elementi di fumus con riguardo ai motivi tesi a stigmatizzare lo sviamento di potere evidenziato dal rischio di mancato raggiungimento del quorum - accentuato dalla scelta di celebrare i referendum dopo le elezioni amministrative- in una con la frustrazione del canone di proporzionalità dell’azione amministrativa in relazione alla finalità partecipativa che permea i meccanismi di democrazia diretta; - alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. ordinanze n.n 38/2008, 198/2005 e n. 131/1997), l'art. 34, primo comma, della citata legge n. 352 del 1970 attribuisce, infatti, al Consiglio dei ministri un ampio potere di valutazione nell'effettuare la proposta al Presidente della Repubblica - cui spetta l'adozione del relativo provvedimento formale - sia in ordine al momento di indizione del referendum, sia per quanto attiene alla fissazione della data della consultazione referendaria, ponendo quale unico limite indeclinabile che le relative operazioni di voto si svolgano tra il 15 aprile e il 15 giugno”; - dette pronunce hanno altresì chiarito che “rientra nella sfera delle attribuzioni del comitato la pretesa allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e della costituzionalità delle relative domande; ma non anche - in assenza di situazioni eccezionali - la pretesa di interferire sulla scelta governativa, tra le molteplici, legittime opzioni, della data all'interno del periodo prestabilito”; - nella specie le circostanze dedotte dalle parti ricorrenti, connesse all’ inizio delle vacanze scolastiche e dei primi scaglioni di ferie nell'impiego pubblico e privato, non risultano assistite da detti profili di straordinarietà così come non risultano dedotte e comprovate altre situazioni eccezionali idonee ad inficiare la scelta di non procedere all’accorpamento posta in essere sula scorta di una comparazione degli interessi pubblici connotata dalla lata discrezionalità di cui si è detto in precedenza; 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) Respinge l'appello (Ricorso numero: 2760/2011). Spese compensate. La presente ordinanza è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2011 con l'intervento dei magistrati: Stefano Baccarini, Presidente Aldo Scola, Consigliere Francesco Caringella, Consigliere, Estensore Carlo Saltelli, Consigliere Carlo Schilardi, Consigliere All. d) ORDINANZA N. 169 ANNO 2011 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Paolo MADDALENA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dei decreti del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011, con i quali, viste le sentenze di ammissibilità della Corte costituzionale nn. 24 e 26 del 2011, e vista la deliberazione del Consiglio dei ministri del 23 marzo 2011, sono stati indetti i due referendum, e sono stati convocati i relativi comizi per il giorno di domenica 12 giugno 2011, con prosecuzione delle operazioni di votazione nel giorno successivo, giudizio promosso da C.P., nella qualità di presidente e legale rappresentante del Comitato promotore per il Sì ai referendum per l’Acqua Pubblica, con ricorso depositato in cancelleria l’8 aprile 2011 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2011, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese. Ritenuto che, con ricorso depositato l’8 aprile 2011, P.C., nella qualità di presidente e legale rappresentante del Comitato promotore per il Sì ai referendum per l’Acqua Pubblica – referendum ammessi da questa Corte con sentenze n. 24 e n. 26 del 2011 e riguardanti, il primo, l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di ob- CONTENZIOSO NAZIONALE 59 blighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; il secondo, l’art. 154, comma 1, del decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) – ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Consiglio dei ministri, in riferimento ai decreti del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011 che hanno indetto i referendum, in una data (12-13 giugno 2011) diversa da quella stabilita per le elezioni amministrative (15-16 maggio); che, con riguardo alla ammissibilità del ricorso, sotto il profilo soggettivo, i ricorrenti ritengono pacifica la qualificazione del comitato promotore come potere dello Stato, richiamando l’orientamento costante di questa Corte, che risale all’ordinanza n. 17 del 1978, in base al quale il comitato promotore di un referendum, pur essendo figura soggettiva esterna rispetto allo Stato-apparato, è titolare di funzioni pubbliche tutelate dall’art. 75 della Costituzione; che, sotto il profilo oggettivo, i ricorrenti sostengono che il Governo abbia fatto cattivo uso del potere attribuitogli dall’art. 34 della legge 25 maggio 1970, n. 325 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), non avendo accorpato lo svolgimento dei referendum con le elezioni amministrative indette il 15-16 maggio 2011; che in tal modo, secondo i ricorrenti, il Governo – «lungi dall’implementare il mandato dell’art. 3 Cost.», nella parte in cui richiede la rimozione degli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del paese – avrebbe compiuto una scelta irragionevole, «invasiv[a] e lesiv[a] di attribuzioni di rilievo costituzionale dei ricorrenti in quanto rappresentanti del popolo sovrano», perché il mancato accorpamento rivelerebbe un tentativo di elusione della richiesta referendaria, che contrasta con il principio d’imparzialità nell’esercizio dei pubblici poteri e con il favor che assiste l’istituto referendario (art. 75 Cost.); che la decisione del Governo sarebbe altresì contraria al principio di buon andamento sancito dall’art. 97 Cost., in quanto il mancato accorpamento del referendum con le elezioni amministrative arrecherebbe un notevole danno alle finanze pubbliche, oltre che all’economia nazionale, e perciò violerebbe i criteri di efficienza, efficacia ed economicità che connotano la buona azione amministrativa; che i ricorrenti richiamano le pronunce con le quali questa Corte ha chiarito che la discrezionalità di cui gode il Governo nello scegliere la data delle consultazioni incontra il limite delle ipotesi in cui «sussistano oggettive situazioni di carattere eccezionale [...] idonee a determinare un’effettiva menomazione del diritto di voto referendario» (ordinanze n. 38 del 2008, n. 198 del 2005 e n. 131 del 1997) e affermano che, nel caso specifico, siffatte situazioni oggettive di carattere eccezionale sarebbero rappresentate dalla duplice circostanza che «i comizi elettorali per le elezioni amministrative sono già stati convocati in date interne alla finestra referendaria » e che il Paese sta attraversando una crisi economica di gravità eccezionale, tale da rendere la scelta compiuta dal Governo irragionevole e lesiva dell’esercizio del diritto di voto referendario; che la determinazione da parte del Governo della data dei referendum sarebbe lesiva della sfera di attribuzioni dei ricorrenti perché avvenuta in violazione del principio – immanente nell’ordinamento costituzionale – di leale collaborazione tra poteri, in base al quale tale data dovrebbe essere stabilita in concertazione con il comitato promotore e previa audizione dello stesso; che, poi, sorgerebbero dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 34 della legge n. 352 del 1970, nella parte in cui non prevede il coinvolgimento del comitato promotore nella determinazione della data d’indizione dei referendum, «unica fase di tutto il procedimento in 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 cui esso non è chiamato in causa»; che, in ogni caso, anche se la legge non prevede la consultazione del comitato, «ciò non significa che il Governo non debba attenersi al principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato, che trova applicazione ogni qual volta diversi poteri abbiano in cura il medesimo interesse (che in questo caso non può che essere l’esercizio della sovranità popolare)»; che i ricorrenti chiedono, pertanto, che questa Corte pronunci un’ordinanza di sospensione ex art. 26 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale del 7 ottobre 2008, in considerazione «della durata minima necessaria di tale procedimento e dell’urgenza di una decisione che risolva il conflitto sollevato»; che «sollev[i] davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 della legge n. 352 del 1970 nella parte in cui non prevede che il comitato promotore del referendum partecipi con il Governo alla determinazione della data del referendum»; che «annull[i] i decreti del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011 pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 4 aprile 2011 e indic[hi] la fissazione di una nuova data, coincidente con la data del primo turno delle elezioni amministrative (15-16 maggio) o con quella del secondo turno (29 maggio)»; che, «in subordine, qualora i tempi non consentano l’anticipazione delle consultazioni referendarie, posticip[i] la data delle elezioni amministrative al 12-13 giugno, massimizzando in tal modo il risparmio di denaro pubblico secondo quanto disposto dall’art. 97 Costituzione»; che, con memoria integrativa depositata il 19 aprile 2011, il comitato promotore lamenta che il mancato accorpamento della consultazione referendaria con le elezioni amministrative produrrebbe un ulteriore effetto negativo, consistente nella disinformazione degli elettori circa il suo svolgimento, ulteriormente acuito sia dalla mancata regolamentazione delle tribune referendarie da parte della Commissione per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, sia dall’introduzione – a norma dell’art. 13 della legge 30 aprile 1999, n. 120 (Disposizioni in materia di elezione degli organi degli enti locali, nonché disposizioni sugli adempimenti in materia elettorale) – della tessera elettorale, che, dato il suo carattere permanente, non ha, a differenza del preesistente certificato elettorale, funzione di notifica rispetto alle consultazioni referendarie; che, infine, i ricorrenti formulano due richieste aggiuntive, invitando questa Corte a sollevare davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 120 del 1999, «nella parte in cui istituisce la tessera elettorale per tutte le consultazioni referendarie, senza considerare la particolarità delle consultazioni referendari[e] data dall’elemento costitutivo di validità del quorum», e a «disporre che, anche nelle more della fissazione dell’udienza di merito, sia data agli elettori debita comunicazione, notificata personalmente, delle consultazioni referendarie del 12 e 13 giugno». Considerato che, ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in questa fase questa Corte è chiamata a delibare esclusivamente se il ricorso sia ammissibile, valutando, senza contraddittorio tra le parti, se sussistano i requisiti soggettivi e oggettivi di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato; che, sotto il profilo soggettivo, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che va riconosciuto agli elettori, in numero non inferiore a 500.000, sottoscrittori della richiesta di referendum – dei quali i promotori sono competenti a dichiarare la volontà in sede di conflitto – la titolarità, nell’ambito della procedura referendaria, di una funzione costituzionalmente rilevante e garantita, in quanto essi attivano la sovranità popolare nell’esercizio dei poteri referendari (ex multis, ordinanze n. 172 del 2009, n. 38 del 2008 e n. 17 del 1978); CONTENZIOSO NAZIONALE 61 che, ancora sotto il profilo soggettivo, il conflitto è proponibile nei confronti del Governo; che, in relazione al requisito oggettivo, occorre verificare se gli atti impugnati possano dar luogo a una lesione della sfera di attribuzioni che le norme costituzionali assegnano al comitato promotore; che, a questo proposito, i ricorrenti sostengono che il Governo abbia fatto cattivo uso del potere di fissazione della data del referendum, non avendone accorpato lo svolgimento con le elezioni amministrative e compiendo così una scelta irragionevole che rivelerebbe un tentativo di elusione della richiesta referendaria e che contrasterebbe con il principio di buon andamento sancito dall’art. 97 Cost., in quanto arrecherebbe un notevole danno alle finanze pubbliche; che questa Corte ha già chiarito che «rientra nella sfera delle attribuzioni del comitato la pretesa allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e della costituzionalità delle relative domande, ma non anche la pretesa alla scelta, tra le molteplici, legittime opzioni, della data entro l’arco temporale prestabilito » (ordinanza n. 131 del 1997; ordinanze n. 38 del 2008 e n. 198 del 2005); che, inoltre, questa Corte ha affermato che «l’individuazione di un rigido e ristretto arco temporale, entro il quale deve essere tenuta la votazione, rivela che la valutazione dei possibili interessi coinvolti é stata effettuata dal legislatore, secondo la disciplina, di per sé non irragionevole, dettata dalla legge n. 352 del 1970 in un contesto procedimentale con puntuali scansioni temporali, che rende, nella fisiologia del sistema, non altrimenti vincolata la scelta della data all’interno del predetto arco temporale, salvo che sussistano oggettive situazioni di carattere eccezionale – [...] idonee a determinare un’effettiva menomazione dell’esercizio del diritto di voto referendario» (ordinanza n. 131 del 1997); che le situazioni considerate «eccezionali» dal comitato promotore sono in realtà circostanze ordinarie e, in ogni caso, riferibili a situazioni «esterne» o di contesto: esse non incidono direttamente sul diritto di voto referendario e non ne precludono l’esercizio; che, pertanto, in assenza di tali oggettive situazioni di carattere eccezionale, il mancato accorpamento dei referendum con le elezioni amministrative di per sé non agevola, ma neppure ostacola, lo svolgimento delle operazioni di voto referendario e non è suscettibile di incidere sulle attribuzioni costituzionalmente garantite del comitato promotore; che, non essendo configurabile, in ordine alla scelta della data, una specifica potestà costituzionalmente garantita del comitato promotore, risulta inconferente il richiamo al principio di leale collaborazione: esso in tanto può trovare applicazione in quanto vi sia l’esigenza di coordinare l’esercizio di prerogative analoghe spettanti a poteri diversi che concorrono alla cura di un medesimo interesse costituzionalmente rilevante, né sussistono i presupposti affinché questa Corte sollevi dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 della legge n. 352 del 1970, secondo quanto richiesto dai ricorrenti; che, quanto al presunto contrasto della scelta governativa con il principio di buon andamento, occorre osservare che, in assenza di situazioni oggettive di carattere eccezionale, nella fissazione della data del referendum spetta al Governo, nell’ambito della cornice temporale definita dalla legge, «la valutazione dei possibili interessi coinvolti» (ordinanza n. 131 del 1997), tra i quali rientra anche quello al contenimento della spesa; che anche le circostanze menzionate nella censura secondo cui il mancato accorpamento avrebbe l’effetto di disinformare gli elettori circa lo svolgimento della consultazione referendaria e che tale effetto di disinformazione sarebbe ulteriormente acuito dall’introduzione, a norma dell’art. 13 della legge 30 aprile 1999, n. 120, della tessera elettorale – a prescindere dalla ammissibilità di tale censura, perché avanzata solo nella memoria integrativa – non in- 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 troducono ostacoli che impediscono lo svolgimento delle operazioni di voto referendario e, quindi, non ledono le attribuzioni del comitato promotore costituzionalmente garantite dall’art. 75 Cost.; che, in conclusione, assorbita ogni altra questione, il ricorso per conflitto di attribuzione è inammissibile per mancanza del requisito oggettivo. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Comitato promotore per il Sì ai referendum per l’Acqua Pubblica nei confronti del Consiglio dei ministri con ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 maggio 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 63 Intervento “creativo” delle Sezioni Unite Negata l’applicabilità della regola del foro erariale ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative (Corte di cassazione, sezioni unite civili: ordd. nn. 23285 e 23286 del 18 novembre 2010) SOMMARIO: 1. Il decisum delle Sezioni Unite. - 2. La quaestio iuris (presupposta sul piano logico-giuridico) del rito applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative. - 2.1. La tesi dell’applicazione del rito speciale. - 2.2. La tesi dell’applicazione del rito ordinario. - 2.3. I recenti arresti della Corte di cassazione in favore dell’applicazione del rito ordinario. - 3. Le implicazioni processuali derivanti dall’applicazione del rito ordinario. - 4. Le Sezioni Unite “creano” un nuovo rito a carattere misto: speciale quanto alla competenza ed ordinario quanto alla forma dell’atto introduttivo, alle modalità di svolgimento ed alla necessità della difesa tecnica. - 4.1. La reale portata delle deroghe all’operatività del foro erariale poste dall’art. 7 r.d. 1611/1933. - 4.2. La motivazione sviluppata dalle Sezioni Unite. - 5. Valicati i limiti dell’applicazione analogica. - 6. L’operatività della regola del foro erariale quale necessaria conseguenza dell’applicazione del rito ordinario ai procedimenti di appello relativi a giudizi in materia di sanzioni amministrative. - 6.1. Foro erariale e ripartizione degli affari tra la sede centrale e le sezioni distaccate dei tribunali e delle corti di appello. 1. Il decisum delle Sezioni Unite Con ordinanze nn. 23285/10 e 23286/10, emesse in sede di regolamento di competenza richiesto d’ufficio ex art. 45 c.p.c., le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio di diritto secondo il quale “La regola del foro erariale non è applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative” (1). Nel caso concreto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la competenza del tribunale, in funzione di giudice di appello, si determini secondo le norme ordinarie: deve farsi riferimento, pertanto, al tribunale nella cui circoscrizione ha sede il giudice di pace che ha pronunciato la sentenza di primo grado, con conseguente inapplicabilità, ratione materiae, dell’art. 25 c.p.c. e dell’art. 6 del regio decreto n. 1611 del 1933. L’orientamento recentemente espresso dal Supremo Collegio appare meritevole di rilievi critici, sia sotto il profilo dell’iter motivazionale che nelle conclusioni applicative. 2. La quaestio iuris (presupposta sul piano logico-giuridico) del rito applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative Al fine di procedere ad una corretta individuazione del tribunale compe- (1) Conforme, Cass., SS.UU., ord. n. 23594 del 22 novembre 2010, emessa in sede di regolamento necessario di competenza ex art. 42 del codice di rito. 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tente, in funzione di giudice d’appello, a decidere sul gravame proposto avverso una sentenza del giudice di pace emessa all’esito di un giudizio di opposizione a sanzione amministrativa ex artt. 22 ss. della legge n. 689 del 1981 (2), occorre preliminarmente esaminare, in modo approfondito, la questione giuridica del rito applicabile, nella materia in esame, al procedimento di secondo grado. L’art. 26 del decreto legislativo n. 40 del 2006 – nell’introdurre (mediante l’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981 (3)) l’appellabilità delle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative – non ha espressamente individuato il rito applicabile al procedimento di gravame. Due le opzioni interpretative ipotizzabili: a) quella dell’estensione al secondo grado di giudizio delle regole processuali speciali previste, per il procedimento di prime cure, dagli artt. 22 ss. della legge n. 689 del 1981, in base ad un asserito principio giuridico generale di “ultrattività del rito”; b) quella dell’applicazione al secondo grado di giudizio – in mancanza di una disciplina derogatoria all’uopo dettata dal legislatore – del rito ordinario previsto dagli artt. 341 ss. c.p.c., ritenuto regola generale cui ricorrere ove non diversamente disposto dalla normativa di riferimento. 2.1. La tesi dell’applicazione del rito speciale L’estensione al procedimento di gravame delle speciali regole processuali disciplinanti il primo grado di giudizio è stata sostenuta in dottrina (4) e da una parte minoritaria della giurisprudenza di merito (5). (2) Il problema dell’applicabilità o meno del foro erariale ai procedimenti di appello relativi a giudizi in materia di sanzioni amministrative non si pone, invero, nella sola ipotesi in cui la sentenza di primo grado sia stata pronunciata dal giudice di pace (come nel caso concreto deciso dalla Suprema Corte con le ordinanze in commento), secondo la regola generale di attribuzione della competenza prevista dall’art. 22-bis, comma 1, della legge n. 689 del 1981, bensì, potenzialmente, anche nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 22-bis, commi 2 e 3, della legge n. 689 citata, a decidere in prime cure sia il tribunale. Ove, infatti, ricorra tale ultima fattispecie, occorrerà domandarsi, in termini analoghi, se la cognizione della relativa impugnazione debba essere attribuita, secondo le disposizioni dell’ordinamento giudiziario, alla sede centrale ovvero alla sede distaccata (ove eventualmente istituita) della Corte di appello del distretto, atteso che, in generale, la ripartizione interna degli affari tra sede centrale e sezioni distaccate degli uffici giudiziari è strettamente influenzata, qualora sia parte del giudizio un’amministrazione dello Stato o ad essa equiparata, dal concreto operare della regola del foro erariale, la cui applicazione è idonea a radicare la controversia esclusivamente presso la sede centrale dell’ufficio giudiziario, in quanto coincidente con il luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato: il tema verrà più diffusamente approfondito infra, paragrafo 6.1. (3) Prima dell’abrogazione operata dalla novella legislativa richiamata nel testo, l’ultimo comma dell’art. 23 della citata legge n. 689 così disponeva: “La sentenza è inappellabile ma è ricorribile per cassazione”. (4) Cfr. F. P. LUISO, L’appello in materia di opposizione alle sanzioni amministrative, in Giur. merito, 2007, nn. 7-8, pp. 1906. CONTENZIOSO NAZIONALE 65 In estrema sintesi, le principali argomentazioni addotte dagli assertori dell’approccio ermeneutico in esame possono ricondursi: - all’opportunità di continuità fra rito del procedimento di primo grado e rito del procedimento di appello, al fine di assicurare il perdurante rispetto della volontà del legislatore, che, in considerazione della peculiarità della materia, ha inteso disciplinare con regole processuali speciali il primo grado di giudizio; - alla configurabilità di un principio giuridico generale di “ultrattività del rito”, ricavabile dalla ratio ispiratrice della disciplina normativa di altri riti speciali previsti dall’ordinamento processuale vigente, in cui la specialità del rito contraddistingue sia il primo che il secondo grado di giudizio (si fa l’esempio, tra gli altri, degli artt. 433 ss. c.p.c., disciplinanti con carattere di specialità il secondo grado del processo del lavoro), con la conseguenza che, nella materia delle opposizioni a sanzioni amministrative, la peculiare e specifica procedura dettata dagli artt. 22 ss. della legge n. 689 del 1981 è destinata a trovare applicazione – in mancanza di una disciplina espressa ed in forza dell’esposto principio generale di ultrattività – anche in sede di gravame, eccezion fatta per le norme incompatibili (cfr. art. 359 c.p.c.) con quanto specificamente disposto dagli artt. 341 ss c.p.c. per l’ordinario procedimento di appello (6); - alla ritenuta genericità dell'art. 359 c.p.c. (secondo cui nel procedimento di appello “si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale”, salva l'incompatibilità con le norme specifiche dettate dal legislatore per il giudizio di appello), atteso che tale norma non precisa quali siano le “norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale” applicabili al giudizio di appello: rimane aperta, pertanto, la questione se le norme richiamate siano sempre e comunque quelle del rito ordinario oppure quelle del rito speciale previsto per la materia, giacchè, più propriamente, il rinvio operato da tale norma non sarebbe agli artt. 163 s.s. bensì ad ogni norma dettata per il procedimento di primo grado davanti al tribunale. (5) Cfr. Trib. Viterbo, sent. 24 gennaio 2008, in Giur. merito, 2008, n. 4, p. 973, con nota critica di A. MIRENDA, Sanzioni amministrative: la questione del rito d’appello avverso la sentenza del giudice di pace, ibidem, p. 974; Trib. Bari, sez. III, sent. 18 ottobre 2010 n. 3124; Id., sent. 22 aprile 2010 n. 1410; Id., sent. 8 aprile 2010. (6) Secondo Trib. Bari, sez. III, sent. 18 ottobre 2010, citata, il principio della ultrattività del rito “è stato inoltre espressamente affermato dalla Corte di Cassazione, con portata generale, a proposito della forma con la quale proporre appello avverso le sentenze emesse a seguito di un giudizio possessorio ritualmente introdotto in primo grado con la forma del ricorso. La Suprema Corte, infatti, confermando la proponibilità dell'appello nella forma del ricorso, ha precisato che detto principio trae origine da quanto avviene nelle controversie in materia di lavoro e in quelle in materia di famiglia (Cass. n. 13564/2003)”. Come, tuttavia, meglio si illustrerà infra, 2.2, il precedente di legittimità richiamato in tale pronuncia viene utilizzato, sotto diverso angolo visuale e per giungere a conclusioni opposte a quelle del giudice barese, anche dai sostenitori dell’applicazione del rito ordinario. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 2.2. La tesi dell’applicazione del rito ordinario L’applicazione del rito ordinario di cui agli artt. 341 ss. c.p.c. è stata, viceversa, operata, fin dall’entrata in vigore dell’art. 26 del decreto legislativo n. 40 del 2006, dalla giurisprudenza di merito assolutamente prevalente (7), avallata da recenti arresti nomofilattici (sui quali, vedi infra, 2.3.). I principali argomenti dei fautori della tesi ordinarista si fondano: - sulla valenza sistematica della disciplina dell’appello dettata dagli artt. 339 ss. c.p.c., avente natura di rito generale ordinario di secondo grado, in quanto tale funzionalmente idoneo a regolare tutti i gravami di merito (8), ove difetti (come, per l’appunto, nella materia delle sanzioni amministrative) una diversa previsione di legge, non essendo sussistente, nel nostro ordinamento, un principio generale di omogeneità dei riti nei diversi gradi di giudizio, stante l'assenza di fondamento normativo del c.d. principio di ultrattività del rito, anche se speciale, seguito in primo grado; - sulla ritenuta prevalenza del rito ordinario sui riti speciali, alla luce del combinato disposto degli artt. 359 e 40, comma terzo, c.p.c., tenuto conto, altresì, della settorialità e peculiarità del rito di cui all’art. 23 della legge n. 689 del 1981: ne consegue che il rinvio operato dall’art. 359 c.p.c. è da ritenere limitato alla sola disciplina codicistica di cui agli artt. 163 ss. del medesimo codice; - sulla ritenuta inidoneità delle regole processuali speciali di cui agli artt. 22 ss. della legge n. 689 del 1981 a disciplinare il procedimento di gravame, in quanto incompatibili con la natura e la funzione di quest’ultimo; - sulla qualificazione della mancata espressa estensione all’appello del rito speciale regolatore del procedimento di primo grado in termini di scelta volontaria per il rito ordinario da parte del legislatore, che, ove ha voluto disciplinare con norme speciali il giudizio di gravame, lo ha fatto espressamente (come è avvenuto, ad esempio, nel processo del lavoro: cfr. artt. 433 ss. c.p.c. (9)). (7) Cfr. Trib. Tivoli, sent. 4 febbraio 2011 n. 149; Trib. Catania, ord. 30 settembre – 4 ottobre 2010; Trib. Busto Arsizio, sent. 14 maggio 2010; Trib. Catania, ord. 19-22 febbraio 2010; Trib. Firenze, sent. 17 giugno 2009 n. 2096; Trib. Saluzzo, sent. 27 maggio 2009 n. 224; C. App. Milano, sent. 29 aprile 2009, in Foro Padano, 2010, n. 1, parte I, p. 52; Trib. Ascoli Piceno, sent. 20 marzo 2009, in Dir. e Lav. Marche, 2009, nn. 1-2, p. 93; Trib. Roma, sez. XIII, sent. 6 novembre 2008; Trib. Torino, sez. III, sent. 3 novembre 2008; Trib. Torino, sent. 31 ottobre 2008; Trib. Modena, sez. I, sent. 7 ottobre 2008; Trib. Reggio Calabria, sez. I, sent. 9 luglio 2007; Trib. Torino, sez. III, sent. 18 giugno 2007, in Giur. Merito, 2008, n. 4, p. 970, con nota adesiva di A. MIRENDA, Sanzioni amministrative: la questione del rito d’appello avverso la sentenza del giudice di pace, ibidem, p. 974; C. App. Salerno, ord. 31 maggio 2007; Trib. Verona, sent. 29 marzo 2007; Trib. Torino, sez. III, ord. 15 gennaio 2007. (8) Tale principio, enunciato costantemente dalla giurisprudenza favorevole all’applicazione del rito ordinario, viene ricavato dalla lettura della sentenza della Corte di cassazione n. 13564/2003, dalla quale, pertanto, vengono ricavate indicazioni opposte a quelle ritenute deducibili dalla giurisprudenza favorevole all’applicazione del rito speciale: vedi supra, nota 6. (9) Per una più ampia ricognizione normativa, accompagnata da riferimenti all’elaborazione giurisprudenziale, si rinvia a A. MIRENDA, op. cit., nota 5. CONTENZIOSO NAZIONALE 67 2.3. I recenti arresti della Corte di cassazione in favore dell’applicazione del rito ordinario Come acutamente osservato dalla giurisprudenza di merito (10), la Corte di cassazione sembrava avere avallato l'orientamento favorevole all’applicazione del rito ordinario già con l’ordinanza n. 14520 del 19 giugno 2009. In tale occasione, in effetti, la Suprema Corte ha profilato l'applicabilità delle norme previste dal capo I del titolo III del codice di procedura civile e non già delle disposizioni del rito speciale di cui alla legge n. 689 del 1981, attesa la complessità del giudizio di gravame, per cui esso deve svolgersi dinanzi al tribunale secondo le regole ordinarie, che rendono necessaria la difesa tecnica e che si armonizzano con la disciplina dettata in materia di appello dal capo II del titolo III del codice di procedura civile. Recentemente, i giudici di legittimità hanno preso nettamente posizione in favore del rito ordinario, esplicitamente affermando che “nei giudizi di appello aventi ad oggetto opposizioni a sanzioni amministrative introdotte con il rito di cui alla L. n. 689 del 1981, si applica il rito ordinario, restando esclusa l'ultrattività del rito speciale di cui alla legge citata”(11). 3. Le implicazioni processuali derivanti dall’applicazione del rito ordinario Prima dell’intervento delle Sezioni Unite con le ordinanze in esame, la giurisprudenza, sulla base della ritenuta applicabilità del rito ordinario ha, con esito logico e coerente, affermato che: a) il procedimento di gravame debba essere introdotto con le modalità e le forme dell’atto di citazione (e non del ricorso, come previsto dal rito regolatore del primo grado di giudizio) (12); b) l’individuazione del giudice competente debba essere effettuata con l’osservanza della regola generale del c.d. foro erariale (art. 25 c.p.c.; artt. 6 e 7 r.d. 1611/1933) (13); c) le parti debbano stare in giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente, con espressa esclusione, in sede di gravame, della difesa (10) Cfr. Trib. Busto Arsizio, sent. 14 maggio 2010, citata. (11) In termini: Cass, sez. II civ., ord. 6 aprile 2011 n. 7903; Id., ord. 8 aprile 2011 n. 8105. Tali pronunce, invero, non si soffermano sul dibattito relativo al rito applicabile ai procedimenti di appello, ma motivano l’opzione ermeneutica prescelta attraverso il mero richiamo all’ordinanza delle Sezioni Unite n. 23285 del 18 novembre 2010, in commento, nella parte in cui essa afferma che “nel giudizio di gravame vanno osservate, in quanto applicabili e nei limiti della compatibilità, le norme ordinarie che disciplinano lo svolgimento di quello di primo grado davanti al tribunale, come dispone l’art. 359 c.p.c.. L’introduzione di una deroga a questo generale principio - mediante l’estensione al procedimento di appello di tutte o alcune delle speciali regole dettate per il primo (e allora unico) grado di merito delle cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative - avrebbe potuto essere ravvisata soltanto in presenza di un’esplicita disposizione in tal senso”. (12) Si veda, in tal senso, la giurisprudenza indicata sub note 7 e 11. (13) La questione verrà approfondita infra, paragrafo 6 e 6.1. 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 personale, consentita, per il solo primo grado di giudizio, dall’art. 23, comma 4, della legge n. 689 del 1981 (14). 4. Le Sezioni Unite “creano” un nuovo rito a carattere misto: speciale quanto alla competenza ed ordinario quanto alla forma dell’atto introduttivo, alle modalità di svolgimento ed alla necessità della difesa tecnica Appare necessario ripercorrere i passaggi motivazionali rilevanti della pronuncia del Supremo Collegio (ordinanza n. 23285/10): “... La questione che le sezioni unite sono chiamate a risolvere è se il gravame contro i provvedimenti del giudice di pace, ove sia parte un'amministrazione statale, debba essere proposto al tribunale del circondario, secondo la previsione dell'art. 341 c.p.c., oppure all'eventualmente diverso tribunale del capoluogo del distretto, a norma del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 7. Quest'ultima tesi è contrastata dal Tribunale di Palermo, essenzialmente, in base al principio della "ultrattività del rito”, dal quale viene fatta discendere l'applicabilità, nei giudizi di appello aventi per oggetto sanzioni amministrative, delle particolari norme procedurali stabilite per il primo grado … L'assunto non è condivisibile. Il legislatore si è limitato ad assoggettare ad appello le sentenze e le ordinanze di cui si tratta, senza null'altro disporre. Ne consegue che nel giudizio di gravame vanno osservate, in quanto applicabili e nei limiti della compatibilità, le norme ordinarie che disciplinano lo svolgimento di quello di primo grado davanti al tribunale, come dispone l'art. 359 c.p.c. …”. Proseguono le Sezioni Unite escludendo che, in sede di gravame, possa trovare applicazione la facoltà di difesa personale delle parti, ammessa in primo grado dall’art. 23, comma 4, della legge n. 689 del 1981: e ciò in ragione “… di quanto si è prima osservato a proposito della mancanza di una espressa previsione legislativa di "ultrattività del rito”, che estenda all'appello l'applicabilità delle norme suddette, e in particolare di quella ora in considerazione: mancanza del resto giustificata dal maggiore tecnicismo che caratterizza i (14) In tal senso, cfr. Cass., ord. 19 giugno 2009 n. 14520, che, respingendo il ricorso avverso la sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto dalla parte personalmente, ha affermato il principio secondo cui “In tema di opposizione a sanzione amministrativa … la difesa personale della parte consentita dall’art. 23, quarto comma, della stessa legge è prevista esclusivamente per il giudizio di primo grado, non trovando applicazione anche per il giudizio di appello, per il quale, in assenza di alcuna specifica previsione contraria, si applica la regola generale di cui al terzo comma dell’art. 82 cod.proc.civ., secondo cui davanti al tribunale e alla corte di appello la parte deve stare in giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente”. In senso conforme, cfr. Trib. Tivoli, sent. 4 febbraio 2011; Trib. Torino, sez. III, sent. 15 gennaio 2007. Del resto, la Corte di cassazione aveva già avuto modo di affermare che “la disposizione dell’art. 23 della Legge 24 novembre 1981 n. 689 - che consente la difesa personale delle parti - nel procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione di pagamento di sanzioni pecuniarie per infrazioni amministrative - non è applicabile nel giudizio di cassazione”: Cass., sez. I civ., 19 febbraio 1992 n. 2058, in Giust. civ., 1992, I, p. 2105. CONTENZIOSO NAZIONALE 69 procedimenti di impugnazione e che comporta la necessità del patrocinio professionale, richiesto peraltro dall'art. 82 c.p.c., per tutti i giudizi davanti al tribunale …”. L’inapplicabilità della regola del foro erariale ai procedimenti di appello in materia di sanzioni amministrative viene, allora, fondata dal Supremo Collegio su un mero ed acritico richiamo ad un precedente delle stesse Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 2 luglio 2008 n. 18036), formatosi sulla questione relativa alla perdurante vigenza del primo e secondo comma dell’art. 7 r.d. 1611/1933. Infatti, l’applicazione della “… regola del "foro erariale", stabilita per la generalità delle "cause nelle quali è parte un'amministrazione dello Stato” dall’art. 25 c.p.c. … è tuttavia esclusa dall'art. 7, comma 1 del testo unico sopra citato (regio decreto n. 1611 del 1933, ndr), tra l'altro, "per i giudizi innanzi ai pretori", ma riaffermata dal comma 2 per "l'appello dalle sentenze dei pretori ... pronunciate nei giudizi suddetti”. Investita della questione relativa alla perdurante vigenza di tali disposizioni, che non sono state aggiornate in seguito all'abolizione del giudice unico di primo grado, questa Corte ha deciso che le controversie che, prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 51 del 1988, erano attribuite alla competenza del pretore per limiti di valore e che sono, in base al vigente art. 9 cod. proc. civ. ed al D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 244 di competenza del tribunale in composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale di cui all'art. 25 cod. proc. civ. e al R.D. n. 1611 del 1933, art. 6 dovendosi ritenere implicitamente abrogato per incompatibilità "in parte qua" il R.D. n. 1611 del 1933, art. 7 che stabiliva l'inapplicabilità della regola del foro erariale nelle cause di competenza del pretore, soggiungendo però che ciò non esclude che la disciplina del foro erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie previdenziali, di opposizione a sanzioni amministrative, sulla disciplina dell'immigrazione, di convalida di sfratto), ogni volta che sia manifesto l'intento di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa (Cass. s.u. 2 luglio 2008 n. 18036) ...”. Ciò premesso, il Supremo Collegio, con l’ordinanza in esame, estende ai procedimenti di gravame il sopra enunciato principio, che il citato precedente del 2008 limitava espressamente ai procedimenti davanti al tribunale ove l’esclusione del foro erariale fosse prevista da speciali disposizioni di legge: “… I due commi dell’art. 7 del testo unico sono infatti strettamente collegati, poichè il secondo fa riferimento esclusivamente ai giudizi suddetti, menzionati nell'altro, nel cui ambito non sono comprese le cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative, che sono comunque esenti dalla regola del "foro erariale”. Ad esse risultano pertanto inapplicabili le due disposizioni suddette, che a tale regola apportano una deroga e che ne ripristinano l’operatività, 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 rispettivamente per il primo e il secondo grado di giudizio …”. E’ evidente come, in materia di opposizione a sanzioni amministrative, il Supremo Collegio ritenga applicabile anche ai procedimenti di gravame il criterio di radicamento della competenza davanti al giudice del luogo di commissione della violazione: foro speciale previsto, in realtà, soltanto per il primo grado di giudizio, dall’art. 22 l. 689/1981. Non può tacersi, allora, la palese incongruenza e contraddittorietà del ragionamento articolato dalla Corte di legittimità, che, pur ripudiando chiaramente la tesi dell’ultrattività del rito in favore dell’applicazione del rito ordinario (con coerente affermazione della necessità della difesa tecnica in sede di gravame), attinge, per l’individuazione del giudice d’appello territorialmente competente, al rito speciale disciplinante il procedimento di prime cure, facendo riferimento proprio al luogo della commessa violazione ex art. 22 della legge n. 689 del 1981. Per tale via, le Sezioni Unite sono giunte di fatto a “creare” un nuovo rito a carattere misto: speciale quanto alla competenza ed ordinario quanto alla forma dell’atto introduttivo, alle modalità di svolgimento ed alla necessità della difesa tecnica. 4.1. La reale portata delle deroghe all’operatività del foro erariale poste dall’art. 7 r.d. 1611/1933 Al fine di cogliere l’intrinseca contraddittorietà della motivazione sviluppata dalla Suprema Corte, occorre esaminare, nella sua reale portata, la normativa di riferimento. Per ciò che specificamente rileva in questa sede, l’art. 7 del regio decreto n. 1611 del 1933 dispone, al primo comma, che “Le norme ordinarie di competenza rimangono ferme, anche quando sia in causa un'Amministrazione dello Stato, per i giudizi innanzi ai pretori (15) ed ai giudici di pace (16) …”. Il successivo capoverso precisa, tuttavia, che “L'appello delle sentenze dei pretori e delle sentenze dei tribunali, pronunciate nei giudizi suddetti, è proposto rispettivamente innanzi al tribunale ed alla corte d'appello del luogo dove ha sede l'Avvocatura dello Stato nel cui distretto le sentenze furono pronunciate”. Il primo comma della norma in esame pone, pertanto, espresse eccezioni alla regola del foro erariale (procedimenti davanti ai pretori ed ai giudici di (15) L’art. 1 del decreto legislativo n. 51 del 1998 ha soppresso, a decorrere dal 2 giugno 1999, l’ufficio del pretore, prevedendo che “fuori dei casi in cui è diversamente disposto dal medesimo decreto, le competenze del pretore sono trasferite al tribunale ordinario”. (16) L’originario riferimento ai conciliatori è da intendersi così sostituito ai sensi dell’art. 39 della legge n. 374 del 1991, a norma del quale “in tutte le disposizioni di legge in cui vengono usate le espressioni “conciliatore”, “giudice conciliatore” e “vice conciliatore” ovvero “ufficio di conciliazione”, queste debbono intendersi sostituite rispettivamente con le espressioni “giudice di pace” e “ufficio del giudice di pace””. CONTENZIOSO NAZIONALE 71 pace, procedimenti esecutivi e fallimentari, procedimenti di cui agli attuali artt. 482 ss. e 590 ss. del codice della navigazione). Tali eccezioni sono, tuttavia, chiaramente limitate al procedimento di primo grado. Il secondo comma dello stesso art. 7, infatti, precisa che il foro erariale rivive in sede di appello proposto avverso le sentenze dei pretori e le sentenze dei tribunali pronunciate nei procedimenti di cui al primo comma (nei procedimenti, cioè, per i quali in primo grado è, invece, espressamente esclusa l’applicazione del foro erariale). Si coglie agevolmente la ratio legis sottesa al dato normativo, volto ad assicurare al foro erariale la valenza di regola generale di determinazione della competenza, derogabile soltanto in presenza di norme di legge che espressamente prevedano l’applicazione delle norme ordinarie (è, per l’appunto, il caso dei procedimenti di prime cure di cui al primo comma dell’art. 7 del regio decreto n. 1611 del 1933) o di norme speciali all’uopo dettate (come, ad esempio, avviene per il processo del lavoro: cfr. art. 413, comma 6, c.p.c.) ovvero in presenza di una norma sulla competenza di carattere speciale, indicativa della volontà del legislatore di determinare un peculiare radicamento della competenza in ragione di particolari esigenze di tutela (17). Tale criterio ermeneutico è seguito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, ormai pacificamente, ritiene operante, salve le sopra indicate deroghe espresse di legge, la regola generale del foro erariale: - nei procedimenti di primo grado davanti al tribunale, attinenti a materie prima rientranti nella competenza pretorile (18); - nei procedimenti di appello davanti al tribunale avverso le sentenze pronunciate in primo grado dai giudici di pace (19). (17) Esempi di fori speciali prevalenti sul foro erariale vengono, ad esempio, individuati dalla giurisprudenza nel luogo di commissione della violazione ex art. 22 l. 689/1981 (cfr. Cass civ., ord. n. 14057/2004) e nel luogo di residenza del ricorrente ex art. 30, comma 6, d.lgs. 268/1998 (cfr. Cass. civ., sent. n. 11862/2004). I principi esposti sono stati recentemente ribaditi da Cass., SS.UU., 2 luglio 2008 n. 18036. (18) In tal senso si è orientata la giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente (cfr. Cass., sez. I civ., ord. n. 10415/2005; Cass., sez. I civ., 21 marzo 2003, n. 4212; Cass., sez. I civ., 22 ottobre 2003, n. 15853. Contra, nel senso che il riferimento ai “giudizi innanzi ai pretori” contenuto nel primo comma dell’art. 7 del regio decreto n. 1611 del 1933, in ordine ai quali le norme ordinarie di competenza rimangono ferme anche quando sia in causa un’amministrazione dello Stato, deve oggi intendersi riferito ai “giudizi innanzi ai tribunali in composizione monocratica già attribuiti alla competenza dei pretori”, cfr. Cass. civ., 28 marzo 2006 n. 6992), recentemente avallata dalle sezioni unite (cfr. Cass., SS.UU., 2 luglio 2008 n. 18036). (19) E' stato, infatti, puntualizzato dalla Suprema Corte che sussiste la competenza del foro erariale, ex artt. 25 c.p.c. e 7, comma 2, del regio decreto n. 1611 del 1933, per le cause di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace, pur essendo rimasta immutata la originaria formulazione letterale di detta norma di legge a seguito delle riforme ordinamentali e processuali comportanti l'introduzione dell'ufficio del giudice di pace. Tale conclusione è giustificata dalla interpretazione evolutiva della norma, coerente alla sua ratio legis, consistente nel recupero, in grado di appello, per evidenti esigenze organizzative di concentrazione delle attività dell'Avvocatura dello Stato, della speciale com- 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 4.2. La motivazione sviluppata dalle Sezioni Unite. Come già evidenziato supra, paragrafo 4, il percorso motivazionale delle ordinanze in commento viene sviluppato, essenzialmente, attraverso il richiamo di un precedente delle stesse Sezioni Unite: si tratta, precisamente, della pronuncia del 2 luglio 2008 n. 18036. Ebbene, tale precedente appare, alla luce di quanto esposto al sottoparagrafo precedente, impropriamente citato. A ben guardare, infatti, la decisione a sezioni unite del 2 luglio 2008 n. 18036, nel dirimere un contrasto sorto in giurisprudenza, altro non fa che ribadire l’orientamento già prevalente, secondo cui le controversie che, prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1988, erano attribuite alla competenza del pretore e che sono successivamente transitate nella competenza del tribunale in composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale, precisando, però, che ciò non esclude che la disciplina del foro erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie previdenziali, di opposizione a sanzioni amministrative, sulla disciplina dell'immigrazione, di convalida di sfratto), ogni volta che sia manifesto l'intento di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa (e, in verità, anche sotto questo profilo nessun elemento di novità appare rinvenirsi rispetto alle già consolidate posipetenza del foro erariale di cui all'art. 6 del predetto regio decreto n. 1611 del 1933 (in tal senso, cfr. Cass. 19781/08; Cass. 17579/07). In senso conforme, cfr. Trib. Napoli, 16 gennaio 2004, in Foro Italiano, 2004, 1, p. 2577. Si riporta, in quanto particolarmente significativo, il percorso motivazionale seguito da Cass., sez. III civ., ord. 26 settembre 2008 n. 24245: “… La disposizione di cui al comma 1, dell'art. 7 (del r.d. 1611/1933, nota dell’odierno commentatore), relativamente ai giudizi davanti al giudice di pace (già ai giudizi davanti ai conciliatori) rappresenta una applicazione coerente del principio fissato dall'art. 6 dello stesso testo normativo, secondo cui la competenza per le cause, nelle quali è parte un'amministrazione dello Stato, spetta al tribunale o alla corte d'appello del luogo dove ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il tribunale o la corte d'appello che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, per cui da alcuni il precetto relativo all'esclusione del privilegium fisci per i giudizi davanti al giudice di pace è apparso superfluo, essendo il foro erariale limitato, come principio generale, solo al tribunale ed alla Corte di appello. Il R.D. n. 1611 del 1933, art. 7, comma 2, riconferma il foro erariale in sede di appello avverso le sentenze del pretore e del tribunale emesse nei giudizi di cui al comma 1. Nulla dice in merito all'appello avverso le sentenze del giudice laico (attualmente giudice di pace), ma l'omissione si spiega con il fatto che la disciplina vigente all'epoca del R.D. n. 1611 del 1933, attribuiva tali impugnazioni al pretore, con conseguente esclusione del foro dello Stato. Alla luce del novellato art. 341 c.p.c., stante il quale l'appello avverso le pronunzie del giudice di pace si propone al Tribunale, appare legittimo individuare tale giudice secondo il principio generale di cui all'art. 6 del R.D., in assenza di una norma derogatrice di tale principio, allorchè il tribunale decida quale giudice di appello (senza la necessità di giungere allo stesso risultato attraverso un'interpretazione estensiva del R.D. n. 1611 del 1933, art. 7, comma 2, sostenuta da parte della dottrina). Ne consegue che competente territorialmente per l'appello avverso le sentenze del giudice di pace emesse nei confronti dello Stato è il tribunale del luogo ove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie”. CONTENZIOSO NAZIONALE 73 zioni pretorie). Partendo da tali premesse logiche e coerenti, le Sezioni Unite, con le ordinanze del 18 novembre 2010, in commento, compiono, tuttavia, un passo in avanti, forse eccessivamente ardito, che entra in radicale frizione con la coerenza intrinseca del sistema normativo sopra descritto e con l’interpretazione, altrettanto logica e coerente, che di esso aveva fornito fino ad allora la giurisprudenza. Il Supremo Collegio giunge, infatti, ad estendere ai procedimenti di secondo grado – ai quali, pure, ritiene applicabile il rito ordinario – lo speciale criterio di competenza previsto dall’art. 22 della legge n. 689 del 1981, benché tale criterio sia previsto espressamente dal legislatore con esclusivo riferimento al primo grado di giudizio. E’ evidente l’erroneità di un siffatto argomentare. Viene, infatti, affermato il principio secondo cui la deroga ad una regola generale, quella del foro erariale, può essere operata attraverso l’applicazione analogica di una norma eccezionale, in assenza di una norma espressa di legge. In altri termini, si finisce con il ritenere che la competenza (speciale) dettata per il primo grado di giudizio valga sempre e comunque anche per il secondo grado, pur in difetto di norma che disponga in tal senso (20). L’illogicità della pronuncia delle Sezioni Unite emerge senza margine di dubbio se solo si considera che, a seguirne il ragionamento, si dovrebbe giungere alla inaccettabile conclusione di escludere, sempre e comunque, in contraddizione con il pacifico insegnamento giurisprudenziale (21), l’operatività del foro dello Stato in tutti i giudizi di appello avverso sentenze dei giudici di pace (non soltanto quelli in materia di sanzioni amministrative), e ciò per il solo fatto che, in primo grado, i relativi procedimenti sono soggetti alle norme ordinarie di competenza. (20) Anche sotto tale profilo, la recente posizione delle Sezioni Unite rompe con il passato. In precedenza, infatti, la giurisprudenza, in presenza di una norma speciale sulla competenza dettata soltanto per il primo grado, aveva sempre pacificamente ritenuto la reviviscenza in appello del foro erariale, in quanto regola generale operante in mancanza di espresse norme derogatorie. Si è, ad esempio, ritenuto che “Secondo la disciplina del cosiddetto foro erariale (che prevede una competenza territoriale inderogabile), nel giudizio in cui sia parte, ancorché non abbia origine, un'Amministrazione dello Stato, la competenza a conoscere dell'appello avverso la sentenza emessa dal pretore spetta al tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio della Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il tribunale che sarebbe stato competente secondo le norme ordinarie, ancorché la sentenza impugnata sia stata resa dal pretore in funzione di giudice del lavoro” (in termini, Cass., sez. I, sent. 10 giugno 1983 n. 4002; in senso conforme, Cass., sez. lav., sent. 23 maggio 1984 n. 3155; Cass., sez. II civ., sent. 03 novembre 1998 n. 10983). (21) Cfr. Cass., sez. III civ., ord. 26 settembre 2008 n. 24245, che, nel cassare la sentenza impugnata, sconfessa l’interpretazione fornita dal giudice d’appello, secondo cui, anche in sede di gravame, dovrebbero operare le norme ordinarie di competenza (e non la regola del foro erariale), sulla base di un asserito principio di continuità con il procedimento di primo davanti al giudice di pace, in cui l’applicazione del foro dello Stato è espressamente esclusa dalla legge. 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 E’ palese, allora, l’incongruenza di tale posizione rispetto al dato normativo, se è vero che lo stesso secondo comma dell’art. 7 del regio decreto n. 1611 del 1933 afferma inequivocabilmente l’operatività, in sede di gravame, del foro erariale per i procedimenti che, in primo grado, sono soggetti, ai sensi del primo comma della medesima disposizione, alle regole ordinarie di competenza. La norma appena esaminata è, infatti, espressione della ratio legis (del tutto opposta rispetto a quella ravvisata dalle Sezioni Unite) secondo cui il foro erariale è regola generale, derogabile soltanto in presenza di norme espresse di legge: le norme speciali sulla competenza, pertanto, in quanto norme eccezionali, non sono suscettibili di applicazione analogica. Quest’ultima precisazione appare assumere rilievo decisivo e merita, pertanto, un approfondimento. 5. Valicati i limiti dell’applicazione analogica Come correttamente osservato in giurisprudenza, “… il d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 ha previsto, all'art. 26, l'appellabilità delle sentenze del Giudice di pace in materia di opposizione alle sanzioni amministrative senza nulla disporre in ordine al rito applicabile nel giudizio di appello, che non era però nemmeno disciplinato dalla L. n. 689/81 in considerazione della non appellabilità delle relative sentenze. Né tra le fonti normative vi è una disposizione esplicita che risolva la questione”(22). L’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981, introducendo l’appellabilità delle sentenze pronunciate all’esito delle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione, ha determinato una lacuna normativa in ordine al rito applicabile al procedimento di gravame. L’individuazione della regula iuris non può conseguire, pertanto, ad una mera attività interpretativa, per quanto estensiva (23), ma deve essere frutto di (22) In termini, Trib. Viterbo, sent. 24 gennaio 2008, citata. (23) Secondo la migliore dottrina, l’analogia “si differenzia dall’interpretazione estensiva, per le seguenti caratteristiche: 1) per invocare l’analogia, occorre la mancanza di una norma che regoli la materia di cui si tratta: mancanza di una specifica voluntas legis, oltre che di espressa dichiarazione legislativa; 2) l’interpretazione serve a conoscere ciò che il legislatore ha pensato, l’analogia ciò che il legislatore avrebbe pensato se avesse previsto il caso; 3) l’analogia, infine, scopre (il corsivo è dell’odierno commentatore: il termine “scopre”, usato dall’Autore, è, infatti, particolarmente significativo, in quanto mette in luce non solo la funzione ma anche i limiti del procedimento analogico, sui quali ci si soffermerà più diffusamente infra) nuove norme, mentre ciò non avviene per l’interpretazione estensiva nella quale si ha la scelta di un significato più comprensivo tra i vari possibili risultati di una interpretazione. Conseguenza ne è che, mentre l’interpretazione estensiva è ammessa anche per le norme eccezionali, in quanto mira soltanto a stabilire il vero contenuto del comando, delle stesse norme non è ammessa … l’applicazione per analogia” (A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1992, p. 42). In senso sostanzialmente conforme si esprime la giurisprudenza: cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 112/1982; Cass. pen., n. 11380/1990; Cass. civ. n. 179/1971; Id., n. 10304/1991; Id., 4754/1995; Id., n. 1121/1951; Id., 2404/1965; 6462/1985. CONTENZIOSO NAZIONALE 75 applicazione analogica (24). Occorre soffermarsi, allora, sui principi e sui limiti del procedimento analogico, per valutare se ad essi le Sezioni Unite si siano attenute nelle decisioni in commento. La fattispecie è disciplinata dall’art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. preleggi del codice civile), a norma del quale “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Ai sensi del successivo art. 14 delle preleggi, non sono, tuttavia, suscettibili di applicazione analogica le leggi penali e le leggi c.d. eccezionali (ossia, le leggi che fanno eccezione a regole generali). E’, pertanto, secondo le regole ermeneutiche ed entro i limiti posti dalle norme predette che deve essere risolta la questione giuridica del rito applicabile ai procedimenti di appello relativi ai giudizi di opposizione a sanzioni amministrative. In particolare – trattandosi di questione attinente non semplicemente all’applicabilità o meno di un singolo istituto, nel contesto di un rito già esplicitamente definito, nella sua struttura e nelle sue regole fondanti, dal legislatore, bensì, molto più radicalmente, di colmare una lacuna concernente la stessa natura e tipologia dell’intero rito atto a governare il procedimento di gravame – dovrà farsi ricorso non già alla c.d. analogia legis (cioè alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe), bensì alla c.d. analogia iuris (cioè ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato). In tale angolo visuale si è, del resto, posta, più o meno consapevolmente, la giurisprudenza, che si è divisa proprio sull’individuazione del principio giuridico generale idoneo a fondare la scelta del rito applicabile e, quindi, a colmare la rinvenuta lacuna normativa. Come più diffusamente illustrato nei paragrafi precedenti, due soltanto sono, in mancanza di espressa disciplina legislativa, le possibilità esegetiche in merito all’individuazione del rito applicabile ai procedimenti di appello in materia di sanzioni amministrative: a) quella dell’estensione al secondo grado di giudizio delle regole processuali speciali previste, per il procedimento di prime cure, dagli artt. 22 ss. l. 689/1981, in base ad un asserito principio giuridico generale di “ultrattività del rito”; b) quella dell’applicazione al secondo (24) In tale ottica appare porsi C. App. Salerno, ord. 31 maggio 2007, citata, laddove esclude l’applicabilità, ai procedimenti di appello in materia di opposizione a sanzioni amministrative, del rito espressamente previsto (soltanto) per il primo grado, in quanto “connotato da forti caratteri di specialità e quindi legittimamente qualificabile come eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica” (il corsivo è dell’odierno commentatore). 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 grado di giudizio – in mancanza di una disciplina derogatoria all’uopo dettata dal legislatore – del rito ordinario previsto dagli artt. 341 ss. c.p.c., ritenuto regola generale cui ricorrere ove non diversamente disposto dalla normativa di riferimento. Compito del giudice è, allora, quello di individuare correttamente il principio giuridico generale e farne integrale ed ortodossa applicazione, decidendo sulla base di esso il caso concreto. Il giudice non può, tuttavia, senza violare i limiti posti dalla legge al procedimento analogico (25) e, di conseguenza, senza valicare le stesse attribuzioni della funzione giurisdizionale, manipolare, alterandolo o snaturandolo, il principio giuridico o, addirittura, applicare alla fattispecie, per colmare la lacuna normativa, principi giuridici eterogenei ed inconciliabili. Proprio nell’accennata deviazione da un’ortodossa applicazione analogica sono, ad avviso di chi scrive, incorse le Sezioni Unite nelle decisioni in commento. Il Supremo Collegio, infatti, dopo aver ripudiato il principio della c.d. ultrattività del rito e ritenuto che il procedimento di appello debba essere governato dal rito ordinario, incoerentemente esclude l’applicazione del foro erariale, che, pure, costituisce istituto naturale del processo ordinario e, dunque, ineludibile ed essenziale corollario della tesi ordinarista. Le Sezioni Unite, in altri termini, “creano” un nuovo rito a carattere misto, speciale quanto alla competenza ed ordinario per il resto, mutuando, quale criterio di determinazione della competenza, quello speciale del luogo di commissione della violazione di cui all’art. 22 della legge n. 689 del 1981, dettato dal legislatore per il solo primo grado di giudizio ed esteso analogicamente dai giudici di legittimità al procedimento di appello. In tal modo, il Supremo Collegio ha violato sia il secondo comma dell’art. 12 della preleggi – avendo colmato la lacuna normativa con principi giuridici incompatibili, quali quello dell’ultrattività del rito (quanto alla competenza) e quello del carattere generale del rito ordinario (quanto ai restanti aspetti processuali) – sia il successivo art. 14, avendo applicato analogicamente, sotto il profilo della competenza, norme eccezionali, quali quelle di cui alla legge n. 689 del 1981 (26). (25) Come già evidenziato supra, con l’analogia il giudice “scopre”, e non “crea” la norma. Nel focalizzare i limiti cui il giudice rimane soggetto, pur nell’ambito dell’applicazione analogica, la dottrina precisa, infatti, che “L’analogia, pure esprimendo nuove forme, non le crea (corsivo dell’odierno commentatore), costituisce soltanto uno sviluppo del diritto esistente che si scopre ricercando e applicando l’eadem ratio” (A. TRABUCCHI, op.cit., p. 42). (26) Il carattere eccezionale delle norme dettate dalla legge di depenalizzazione è stato più volte evidenziato in giurisprudenza. La Corte di cassazione ha, ad esempio, affermato che la continuazione degli illeciti, per i quali sono comminate sanzioni amministrative, è prevista dall’art. 8, comma 2, l. 689/1981 solo per la violazione di norme in materia di previdenza e assistenza obbligatorie e non può CONTENZIOSO NAZIONALE 77 Il foro erariale è, infatti, espressione di una regola generale, in quanto tale insuscettibile di deroga se non nei casi tassativamente previsti dalla legge e non certo, anche, attraverso l’applicazione analogica di norme eccezionali, quale quella attributiva della competenza ai sensi dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981, operante soltanto per il procedimento di primo grado. Il giudice della nomofilachia non si è limitato ad applicare una norma già presente nell’ordinamento giuridico e da esso ricavabile, ma, oltrepassando i limiti e le prerogative della funzione giurisdizionale, è giunto a “creare” una nuova norma, più precisamente un nuovo rito, sconfinando in un’attività preclusa al giudice, in quanto riservata al potere legislativo. La Corte di legittimità opera, così, un’abrogazione, nel caso concreto, delle norme di legge sulla competenza dettate dagli artt. 25 c.p.c. e 6 r.d. n. 1611 del 1933, creando un rito processuale anomalo ed acefalo (speciale quanto alla competenza ed ordinario per i restanti aspetti), in alcun modo ricavabile dal sistema normativo ed ordinamentale vigente. 6. L’operatività della regola del foro erariale quale necessaria conseguenza dell’applicazione del rito ordinario ai procedimenti di appello relativi a giudizi in materia di sanzioni amministrative Una coerente applicazione del rito ordinario ai procedimenti di appello relativi a giudizi in materia di sanzioni amministrative non può prescindere, pertanto, dal riconoscimento del foro erariale quale regola generale di competenza ove un’amministrazione dello Stato sia parte in causa. Prima dell’intervento delle Sezioni Unite, l’operatività in sede di gravame degli artt. 25 c.p.c. e 6 r.d. 1611/1933 è stata costantemente affermata nella casistica pretoria che ha optato per l’applicazione del rito ordinario (27), con argomentazioni pienamente condivisibili, in quanto strettamente aderenti al dato normativo e alla ratio legis. La giurisprudenza di merito, in particolare, ha evidenziato che “… la essere applicata analogicamente o estensivamente, al di fuori di tale ambito, atteso il carattere eccezionale della disposizione che ne reca la previsione (cfr. Cass. civ. n. 16620/2003, che ha cassato la sentenza impugnata, che aveva applicato la continuazione a violazioni di norme in materia di collocamento e di lavoro a tempo parziale). Sul medesimo solco, si pone C. App. Salerno, ord. 31 maggio 2007, citata, che esclude l’applicabilità, ai procedimenti di appello in materia di opposizione a sanzioni amministrative, del rito espressamente previsto (soltanto) per il primo grado, in quanto “connotato da forti caratteri di specialità e quindi legittimamente qualificabile come eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica” (il corsivo è dell’odierno commentatore). (27) Una posizione difforme è stata assunta – sulla base del non condivisibile assunto di partenza della sussistenza di un principio di ultrattività del rito, ma, quanto meno, con intrinseca coerenza rispetto a tale principio – dai sostenitori dell’applicazione del rito speciale nella sua integralità (e, quindi, anche sotto il profilo della competenza) anche in grado di appello: è questa, ad esempio, la posizione assunta dal Tribunale di Palermo nel richiedere d’ufficio il regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c. sul quale si sono pronunciate le Sezioni Unite con le ordinanze in commento. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 competenza a conoscere dell’appello avverso le sentenze del giudice di pace è necessariamente il Tribunale (art. 341 c.p.c.) … Essendo, dunque, convenuta in giudizio un’amministrazione statale, l’individuazione del Tribunale competente avviene secondo le regole dettate dagli artt. 25 c.p.c. e 6 R.D. n. 1611/33, non essendovi, rispetto alle impugnazioni che interessano, nessuna deroga di legge. Tale deroga non è ravvisabile nell’art. 7, 1° c., R.D. n. 1611/33, che fa salve le specifiche previsioni per i vari giudizi, tra i quali anche il giudizio davanti ai giudici di pace ai sensi della legge n. 689/81, rinviando così agli artt. 22 e 23 della legge, norme che, tuttavia, disciplinano esclusivamente il primo grado dei giudizi stessi … Pur considerando, dunque, l’art. 22 della l. n. 689/81 norma speciale rispetto al R.D. n. 1611/33, il combinato disposto dell’art. 22 l. n. 689/81 e dell’art. 6, 1° c., R.D. n. 1611/33 riguarda esclusivamente il primo grado di giudizio: l’appello non è disciplinato espressamente, e nemmeno lo è, come già visto, dal secondo comma del medesimo art. 7. Quindi le regole speciali valgono solo per il primo grado, e in secondo grado, nel silenzio del legislatore, si applicano le norme ordinarie del processo di cognizione, e, in conclusione, la regola del foro erariale” (28) . La giurisprudenza di legittimità ha avallato l’orientamento emerso in sede di merito. In particolare, prima del recente intervento del Supremo Collegio con le ordinanze in commento, la Corte di cassazione – a seguito delle innovazioni apportate dall’art. 26 del d.lgs. 40/2006, che ha introdotto nell’ordinamento l’appellabilità delle pronunce di primo grado conclusive dei giudizi di opposizione di cui all’art. 23 della legge 689/1981 – ha inequivocabilmente ed espressamente affermato che “sussiste la competenza del foro erariale, ai sensi dell’art. 7, secondo comma, r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, per le cause di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace …” (29), evidenziando che “alla luce del novellato art. 341 c.p.c., stante il quale l’appello avverso le pronunzie del giudice di pace si propone al tribunale, appare legittimo individuare tale giudice secondo il principio generale di cui all’art. 6 del r.d., in assenza di una norma derogatrice di tale principio allorché il tribunale decida quale giudice di appello … Ne consegue che competente territorialmente per l’appello avverso le sentenze del giudice di pace emesse nei confronti dello Stato è il tribunale del luogo ove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie”(30). (28) In termini, Trib. Modena, sez. I, sent. 7 ottobre 2008. Conformi, Trib. Benevento, sent. 11 febbraio 2009; Trib. Padova, sez. II, sent. 29 gennaio 2009; Trib. Novara, sent. 6 ottobre 2008; Trib. Mondovì, sent. 22 maggio 2008; Trib. Verona, sent. 29 marzo 2007; Trib. Mondovì, sent. 21 dicembre 2006. (29) Cass., sez. II, ord. 9 agosto 2007 n. 17579. CONTENZIOSO NAZIONALE 79 6.1. Foro erariale e ripartizione degli affari tra la sede centrale e le sezioni distaccate dei tribunali e delle corti di appello Come già evidenziato supra, nota 2, il problema dell’applicabilità o meno del foro erariale ai procedimenti di appello relativi a giudizi in materia di sanzioni amministrative non si pone nella sola ipotesi in cui la sentenza di primo grado sia stata pronunciata dal giudice di pace (come nel caso concreto deciso dalla Suprema Corte con le ordinanze in commento), secondo la regola generale di attribuzione della competenza prevista dall’art. 22-bis, comma 1, della legge n. 689 del 1981, bensì, potenzialmente, anche nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 22-bis, commi 2 e 3, della legge n. 689 citata, a decidere in prime cure sia il tribunale. Ove, infatti, ricorra tale ultima fattispecie, occorrerà domandarsi, in termini analoghi, se la cognizione della relativa impugnazione debba essere attribuita, secondo le disposizioni dell’ordinamento giudiziario, alla sede centrale ovvero alla sede distaccata (ove eventualmente istituita) della Corte di appello del distretto, atteso che, in generale, la ripartizione interna degli affari tra sede centrale e sezioni distaccate degli uffici giudiziari (secondo le disposizioni di ordinamento giudiziario) è strettamente influenzata, qualora sia parte del giudizio un’amministrazione dello Stato o ad essa equiparata, dal concreto operare della regola del foro erariale. L’applicazione di tale regola, in combinato disposto con l’art. 83-ter disposiz. attuaz. c.p.c., è, infatti, idonea a radicare la controversia, ai sensi dell’art. 48-quater dell’Ordinamento giudiziario, esclusivamente presso la sede centrale dell’ufficio giudiziario, in quanto coincidente con il luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato. La Corte di cassazione, in fattispecie concernente l’attribuzione alla sede principale ovvero alle sedi distaccate di corte d’appello dei giudizi di gravame in cui sia parte un’amministrazione statale, ha esplicitamente concluso per la cognizione della sede principale (31). Le medesime conclusioni sono rinvenibili in fattispecie concernente la ripartizione interna degli affari tra la sede centrale e le sezioni distaccate di tribunale (32). (30) Cass. ord. n. 579/2009. (31) Cfr. Cass. 7 aprile 1982 n. 2139, la quale testualmente afferma: “Le disposizioni della l. 1 marzo 1968, n. 172 e del d. p. r. 2 ottobre 1968, n. 1154, relative all'istituzione della sezione distaccata di Salerno della corte di appello di Napoli, non introducono deroghe all'art. 7, 2° comma r. d. 30 ottobre 1933, n. 1611 (modificato dalla l. 25 marzo 1958, n. 260), sulla rappresentanza e difesa dello stato, sicché, nelle controversie in cui sia parte un'amministrazione dello stato, rientranti nella previsione di tale ultima norma, l'appello contro pronuncia del tribunale di Salerno è devoluto alla cognizione della corte d'appello di Napoli, sede dell'avvocatura dello stato, e non della predetta sezione distaccata”. (32) Cfr. Tribunale Napoli, sent. 15 febbraio 2000, ove si legge: “Per le cause in cui è parte 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Soltanto la sede principale è, infatti, il “luogo” ove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato (“luogo” che costituisce il criterio di radicamento della competenza ai sensi dell’art. 25 c.p.c. e dell’art. 6 r.d. 1611/1933) (33). Dott. Giuseppe Zito* Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ., ordinanza del 18 novembre 2010 n. 23285 – Pres. P. Vittoria, Rel. E. Bucciante. (Omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza del 4 maggio 2007 il Giudice di pace di Misilmeri ha respinto l’opposizione proposta da G.V. avverso il verbale con cui gli era stata contestata la violazione di norme in materia di circolazione stradale. Adito in appello dal soccombente, il Tribunale di Termini Imerese, con ordinanza del 29 ottobre 2007, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio, rilevando che il gravame, a norma dell’art. 7 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, avrebbe dovuto essere rivolto al Tribunale di Palermo. Quest’ultimo, davanti al quale la causa era stata riassunta, con ordinanza del 26 marzo 2008 ha richiesto di ufficio a questa Corte il regolamento delle competenza, ritenendo che nella specie non fosse applicabile la regola del “foro erariale”. La Prefettura di Palermo ha presentato una memoria, concludendo per la dichiarazione della competenza del Tribunale di Palermo. G.V. non ha svolto attività difensiva in questa sede. MOTIVI DELLA DECISIONE La disciplina dei giudizi di opposizione ai provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative, dettata dagli art. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sanciva originariamente la diretta ricorribilità per cassazione delle sentenze e delle ordinanze di inammissibilità o di convalida pronunciate dal pretore, al quale in via esclusiva era demandata la cognizione un'amministrazione dello Stato sussiste la competenza esclusiva non delle sezioni distaccate, ma solo della sede principale del tribunale, essendo questa il "luogo" ove, alla stregua della normativa tuttora vigente, anche successivamente al d.lg. n. 51 del 1998, ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie” (nella specie, il presidente del tribunale ha assegnato ad una sezione della sede centrale la causa di opposizione a ordinanza ingiunzione emessa dal Ministero delle finanze, e originariamente proposta innanzi ad una sezione distaccata). (33) In tal senso, cfr. Trib. Bari, sent. 28 ottobre 2009, ove si precisa: “Non può, in senso contrario, addursi che le sezioni distaccate sono una mera articolazione interna del tribunale, sulla quale non può incidere la competenza territoriale del foro erariale (rectius “l’attribuzione” degli affari), in quanto, se è vero che la sezione distaccata è una articolazione del tribunale così come lo sono le sezioni della sede principale, tale interpretazione non considera che la ratio che sta alla base della individuazione di un foro speciale per le amministrazioni difese dalla Avvocatura erariale è quella di evitare che l’ufficio dell’Avvocatura, che è chiaramente meno dotato di personale rispetto all’avvocatura del libero foro, sia costretto a patrocinare innanzi ad una pluralità di Uffici giudiziari sparsi nell’ambito del distretto di Corte d’Appello ove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura”. In senso conforme, cfr. Trib. Catania, ord. 19-22 febbraio 2010. . (*) Procuratore dello Stato – Avvocatura distrettuale dello Stato di Catania. CONTENZIOSO NAZIONALE 81 di quelle cause. Successivamente, in seguito all’istituzione del giudice unico di primo grado, l’art. 22-bis della stessa legge, inserito dall’art. 98 del decreto legislativo 30 novembre 1999, n. 507, ha distribuito la competenza, secondo criteri di materia e di valore, tra il giudice di pace e il tribunale, mantenendo ferma quella per territorio del “giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione”. Infine, l’art. 26, del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, modificando l’art. 23 della legge n. 689/1981, ha disposto che le sentenze e le ordinanze di convalida (ma non anche quelle di inammissibilità) sono soggette ad appello. La questione che le sezioni unite sono chiamate a risolvere è se il gravame contro i provvedimenti del giudice di pace, ove sia parte un’amministrazione statale, debba essere proposto al tribunale del circondario, secondo la previsione dell’art. 341 c.p.c., oppure all’eventualmente diverso tribunale del capoluogo del distretto, a norma dell’art. 7 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Quest’ultima tesi è contrastata dal Tribunale di Palermo, essenzialmente, in base al principio della “ultrattività del rito”, dal quale viene fatta discendere l’applicabilità, nei giudizi di appello aventi per oggetto sanzioni amministrative, delle particolari norme procedurali stabilite per il primo grado: “l’opposizione si propone mediante ricorso”, anziché con citazione; la sua notificazione avviene “a cura della cancelleria”; anche a tutte le altre “notificazioni e comunicazioni occorrenti si provvede d’ufficio”; le parti “possono stare in giudizio personalmente” e l’amministrazione “può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati”; “nel corso del giudizio il giudice dispone, anche d’ufficio, i mezzi di prova che ritiene necessari e può disporre la citazione di testimoni anche senza la formulazione dei capitoli”; dopo la precisazioni delle conclusioni si dà corso di regola “nella stessa udienza alla discussione della causa” e la sentenza è pronunciata “subito dopo … mediante lettura del dispositivo”. L’assunto non è condivisibile. Il legislatore si è limitato ad assoggettare ad appello le sentenze e le ordinanze di cui si tratta, senza null’altro disporre. Ne consegue che nel giudizio di gravame vanno osservate, in quanto applicabili e nei limiti della compatibilità, le norme ordinarie che disciplino lo svolgimento di quello “di primo grado davanti al tribunale”, come dispone l’art. 359 c.p.c. L’introduzione di una deroga a questo generale principio – mediante l’estensione al procedimento di appello di tutte o alcune delle speciali regole dettate per il primo (e allora unico) grado di merito delle cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative – avrebbe potuto esser ravvisata soltanto in presenza di un’esplicita disposizioni in tal senso. Appunto esplicite disposizioni hanno infatti inserito elementi di specialità, per il secondo grado, in procedimenti che già nel primo ne erano dotati, com’è avvenuto con riguardo alle controversie di lavoro (artt. 433 ss. c.p.c.), di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 c.p.c.), di locazione, comodato e affitto (art. 447 bis c.p.c.), di usucapione speciale (art. 3 della legge 10 maggio 1976, n. 346), di separazione e divorzio (art. 4 deal legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74), di società (artt. 20 ss. del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5). D’altra parte, le particolari norme procedurali dettate in materia di sanzioni amministrative, seppure fossero applicabili anche in appello, risulterebbero evidentemente del tutto ininfluenti ai fini dell’individuazione del giudice cui proporre il gravame, tranne semmai quella che consente la difesa personale delle parti: se ne potrebbe in ipotesi desumere che non 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sussista l’esigenza di accentrate i giudizi di secondo grado presso il tribunale del capoluogo del distretto, per agevolare l’avvocatura erariale nella difese delle amministrazioni statali, dato che queste possono avvalersi di propri funzionari. Ma l’argomento – già di per sé debole, poiché la difesa personale è puramente facoltativa e eventuale – è destinato a cedere, a fronte di quanto si è prima osservo a proposito della mancanza di una espressa previsione legislativa di “ultrattività del rito”, che estenda all’appello l’applicabilità delle norme suddette, e in particolare di quella ora in considerazione: mancanza del resto giustificata dal maggiore tecnicismo che caratterizza i procedimenti di impugnazione e che comporta la necessità del patrocinio professionale, richiesto peraltro dall’art. 82 c.p.c., per tutti i giudizi davanti al tribunale, “salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti”. La ragione per la quale va dichiarata la competenza del Tribunale di Termini Imerese risiede invece nella estraneità dei giudizi in materia di sanzioni amministrative alla regola del “foro erariale”, stabilita per la generalità delle “cause nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato” dall’art. 25 c.p.c. L’applicazione di questa norma è tuttavia esclusa dal primo comma dell’art. 7 del testo unico sopra citato, tra l’altro, “per i giudizi innanzi ali pretori”, ma riaffermata dal secondo comma per “l’appello dalle sentenze dei pretori …pronunciate nei giudizi suddetti”. Investita della questione relativa alla perdurante vigenza di tali disposizioni, che non sono state aggiornate in seguito all’abolizione del giudice unico di primo grado, questa Corte ha deciso che “le controversie che, prima dell’entrata in vigore del d.lgs n. 51 del 1988, erano attribuite alla competenza del pretore per limiti di valore e che sono, in base al vigente art. 9 cod. proc. civ. ed all’art. 244 del d.lgs n. 51 del 1998, di competenza del tribunale in composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale di cui agli art. 25 cod. proc. civ. e 6 del r.d. n. 1611 del 1933, dovendosi ritenere implicitamente abrogato per incompatibilità “in parte qua” l’art. 7 del r.d. n. 1611 del 1933, che stabiliva l’inapplicabilità della regola del foro erariale nelle cause di competenza del pretore”, soggiungendo però che “ciò non esclude che la disciplina del foro erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie previdenziali, di opposizioni a sanzioni amministrative, sulla disciplina dell’immigrazione, di convalida di sfatto), ogni volta che sia manifesto l’intento di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa” (Cass. S.U. 2 luglio 2008 n. 18036). Alla luce di questo precedente, dal quale non vi è ragione di dissentire, si deve ritenere che l’esenzione al “foro erariale”, per le cause qui in considerazione, ab origine derivava non dall’essere stabilita la competenza per materia del pretore, ma quella per territorio del giudice “del luogo in cui è stata commessa la violazione per un’esigenza di “prossimità” rimasta attuale anche dopo la soppressione delle preture: perciò questa Corte ha ritenuto che l’esenzione suddetta non è venuta meno, per il campo delle sanzioni amministrative. L’affermazione si riferisce espressamente soltanto al primo grado, ma può senz’altro essere estesa anche all’appello. I due commi dell’art. 7 del testo unico sono infatti strettamente collegati, poiché il secondo fa riferimento esclusivamente ai “giudizi suddetti”, menzionati nell’altro, nel cui ambito non sono comprese le cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative, che sono comunque esenti dalla regola del “foro erariale”. Ad esse risultano pertanto inapplicabili le due disposizioni suddette che a tale regola apportano una deroga e che ne rispistinano l’operatività, rispettivamente per il primo e il secondo grado di giudizio. CONTENZIOSO NAZIONALE 83 Il principio da enunciare è dunque: “la regola del “foro erariale” non è applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative”. Dal che consegue che va dichiarata la competenza del Tribunale di Termini Imerese. Non vi è da provvedere sule spese di giudizio, essendo stato il regolamento richiesto d’ufficio (Cass. 19 gennaio 2007 n. 1167). DISPOSITIVO La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Termini Imerese. Roma, 12 ottobre 2010 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Sugli appalti di servizio di refezione scolastica (Corte di appello di Roma, Sez. II civ., sentenza 2 dicembre 2010 n. 5101) 1. La competenza e la delega “contra legem” Competenza in materia di assistenza scolastica (servizio di refezione) – Delegazione amministrativa – Necessità di una legge di copertura – Delegazione amministrativa intersoggettiva “contra legem” – Responsabilità esclusiva del delegato verso l’esterno – Indifferenza per i terzi dei sottostanti rapporti tra il delegante e il delegato – Ragioni. (artt. 97 e 117 Cost.; artt. 42 e 45 del D.P.R. 616/1977 legge regionale Lazio 6 settembre 1975 n. 77, artt. 2 e 5 e legge regionale Lazio 30 marzo 1992, n. 29, artt. 4 e 9). La delegazione amministrativa intersoggettiva (nella specie: dal Comune allo Stato, di cui i Circoli didattici erano al tempo articolazioni) nella materia dell’assistenza scolastica, riservata alle Regioni (e dalla Regione Lazio delegata per legge ai Comuni) è nulla. Tuttavia il contratto stipulato dal Soggetto, delegato contra legem, lo obbliga per il principio di tutela dell’affidamento del terzo. La sentenza oggetto della presente disamina suscita interesse, in primo luogo, nella parte in cui la Corte di Appello di Roma ha statuito che: “deve ritenersi, come esattamente deduce la difesa erariale, che la delegazione amministrativa intersoggettiva, che si è attuata dal Comune ai Circoli, è, “contra legem”, importante l’incapacità negoziale del Circolo, in relazione alla sicura operatività dei limiti della competenza stabiliti da norme imperative (Cass. n. 5234/00); ma è anche vero (Cass. n. 1621/03, ma soprattutto Cass. n. 9284/06) che “va affermato che l’istituto, peculiare del diritto pubblico, della delegazione amministrativa (sia nella forma interorganica che intersoggettiva), realizza un’ipotesi di conferimento, da parte dell’ente (o dell’organo) - in via originaria investito della competenza a provvedere in una determinata materia -, del relativo potere ad altro soggetto (o organo), in virtù del quale quest’ultimo diviene, nei confronti dei terzi medesimi, unico titolare delle situazioni soggettive, attive e passive, correlate all’esercizio delle attribuzioni delegate, così rispondendo in proprio delle obbligazioni che, non rientranti nell’ambito dell’esercizio delle suddette attribuzioni, il soggetto delegato abbia comunque assunto nei confronti dei terzi. Infatti, se la delegazione amministrativa dà luogo, verso l’esterno, ad una responsabilità esclusiva del delegato, in virtù della quale restano del tutto indifferenti per i terzi i sottostanti rapporti delegante – delegato, deve “a priori” ritenersi che tale indifferenza comporti la validità dei rapporti instaurati tra il delegato e i terzi, ancorché propiziati e sorti in occasione dell’espletamento delle attribuzioni anzidette”. Al fine di comprendere la portata della decisione e prima di procedere all’esame di quest’ultima è bene conoscere la fattispecie concreta e la normativa ad essa applicabile. Orbene, l’art. 117, comma 1, della Costituzione, nel CONTENZIOSO NAZIONALE 85 testo previgente alla modifica del titolo V, assegnava alle Regioni la materia dell’assistenza scolastica, nel cui ambito si situa anche il servizio di refezione scolastica di cui si discute. In adempimento a ciò, l’art. 42 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, determinava l’ambito delle relative funzioni amministrative. In particolare, l’art. 45 del citato D.P.R. attribuiva tali funzioni amministrative ai Comuni, come disposto dall’art. 118 Cost., i quali le esercitano secondo le modalità previste dalla legge regionale. Al riguardo, la Regione Lazio interveniva in sede legislativa con la L. 6 settembre 1975, n. 77, artt. 2 e 5, e con la L. 30 marzo 1992, artt. 4 e 9. Tale ultimo articolo, al comma 3, stabiliva che “il comune può gestire il servizio o direttamente, anche in forma consorziale, o mediante convenzione con il comune sede della scuola frequentata dai propri alunni, o mediante convenzione che affidi ad altri enti l’esecuzione del servizio”. Nonostante la disciplina ora esposta, il Comune di Roma “delegava” tutte le funzioni di bandire, esperire la gara, aggiudicarla e stipulare i contratti relativi al servizio di mensa per gli alunni, ai Circoli didattici rientranti nel proprio territorio, che allora erano meri uffici periferici del Ministero della Pubblica Istruzione. A seguito di ciò, diversi Circoli didattici addivenivano alla stipulazione di contratti per il servizio di refezione. Inevitabile, a tal punto, è il richiamo all’art. 97 Cost. che sancisce il principio di legalità dell’azione amministrativa, secondo cui l’allocazione delle funzioni amministrative deve essere effettuata dalla legge e non può essere derogata in alcun modo. In altre parole, in forza della riserva di legge consacrata dall’art. 97 Cost., la delegazione amministrativa intersoggettiva è legittima solo nel caso in cui una previa norma di legge la autorizzi. Alla luce del quadro normativo vigente all’epoca della controversia (che risale al 1997 - 1998), dunque, l’unica delegazione amministrativa coperta da legge e perciò legittima era, quella disposta dalla Regione in favore del Comune, unico soggetto competente a concludere il contratto di appalto del servizio di refezione scolastica. Per quanto detto e considerato, l’esperienza di “autogestione” del servizio di refezione scolastica attuata dal Comune di Roma dovrebbe configurare un’ipotesi di delegazione amministrativa intersoggettiva radicalmente nulla poiché priva di base normativa e, quindi, in contrasto con norme imperative, quali quelle sulla competenza. Sul fatto che la delegazione amministrativa necessiti di una copertura legislativa e che dunque non sia ammessa se non nei casi espressamente previsti dalla legge, dottrina e giurisprudenza sono da sempre concordi. Nello specifico, la dottrina amministrativistica ha di volta in volta etichettato il provvedimento di delegazione amministrativa come “istituto giuridico attraverso il quale l’ordinamento autorizza un’autorità amministrativa a non esercitare la propria funzione, permettendo che altri la svolga” (FRANCHINI, La delegazione amministrativa, Milano 1950, p. 21), ovvero come “atto 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 con il quale un’autorità amministrativa, quando la legge le attribuisce espressamente il potere, sostituisce a sé un’altra autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni appartenenti alla propria competenza” (COLZI, Delegazione amministrativa, voce del Novissimo digesto, Torino, 1962, p. 351). Circa il rapporto tra l’atto di delega e la norma di legge su cui questo si fonda, altra parte della dottrina, disponeva che “non è già che la competenza dell’organo o ente delegato derivi direttamente dalla legge che consente la delega, ma è che la legge conferisce il potere all’organo od ente, competente in ordine ad un determinato oggetto, di rendere competente altro organo od ente in ordine all’oggetto medesimo, risultando così l’effetto della delega il prodotto dell’esercizio del potere di delegazione” (MIELE G., Delega, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1962, p. 909). Sempre sulla scorta di tale orientamento, la dottrina più recente ha ribadito che “la creazione della competenza derivata, in cui si sostanzia il fenomeno delegatorio, abbisogna, alla luce della riserva relativa di legge di cui all’art. 97 Cost., di una previsione normativa che abiliti l’ente titolare della competenza originaria ad operarne lo spostamento, pur se solo sul versante dell’esercizio, in favore del soggetto delegato” (CARINGELLA F., nota a Cass., sez. I, n. 1651, del 2 marzo 1996, in Foro Italiano, 1996, p. 2102). Inoltre, è stato previsto che “l’ordine legale delle competenze è inderogabile se non per espressa autorizzazione di legge” poiché “ il potere di delega, in quanto altera l’ordine delle competenze degli organi … stabilite con atto normativo … necessita di un supporto normativo almeno pari … diversamente opinando si renderebbe arbitra l’Amministrazione di spostare caso per caso e senza alcuna previsione di limiti oggettivi e soggettivi, le competenze precostituite, con l’effetto di privare l’amministrato delle garanzie che sono insite nelle attribuzioni di uno specifico organo” (Cons. St., V, 24 novembre 1978 n. 1170) (CERULLI IRELLI V., Corso di diritto amministrativo, Giappichelli Editore – Torino, 2001). La definizione più pregnante di delegazione amministrativa si rinviene, però, in quella maturata, non di recente, in ambito pretorio e tutt’ora seguita dalle più recenti pronunce giurisprudenziali. Secondo consolidata giurisprudenza, infatti, la delegazione “è uno strumento in virtù del quale, consentendolo la legge, l’organo o l’ente investito in via originaria della competenza a provvedere in una determinata materia conferisce, autoritativamente ed unilateralmente, ad altro organo o a altro ente una competenza (derivata) in quella stessa materia. E sotto questo aspetto essa attribuisce al delegato la legittimazione all’esercizio, entro i limiti prefissati nell’atto di conferimento, di poteri e di funzioni spettanti al delegante”. (Cassazione, S.U., sent. 20 gennaio 1964, n. 128, in Foro Italiano 1964, p.1208; conformi Cass., sent. 19 aprile 1966, n. 986, Foro Italiano, Rep. 1966, voce Atto amministrativo, n. 26; Cass., sez. I, sent. 29 ottobre 2003, n. 16281 in Juris Data). CONTENZIOSO NAZIONALE 87 Asserita dunque l’invalicabilità dell’art. 97 Cost. circa la necessità di una legge di copertura che autorizzi la delegazione amministrativa, esaminiamo ora l’iter argomentativo dei giudici capitolini al riguardo. A bene vedere, il ragionamento posto alla base della sentenza non è del tutto coerente; il punto di partenza della parabola argomentativa, attraverso il quale i giudici hanno disposto che “la delegazione amministrativa intersoggettiva, che si è attuata dal Comune ai Circoli, è, “contra legem”, importante l’incapacità negoziale del Circolo, in relazione alla sicura operatività dei limiti della competenza stabiliti da norme imperative”, invero, si pone in aperto contrasto con le conclusioni raggiunte dai giudici sul punto. La Corte d’Appello di Roma, infatti, dopo aver riconosciuto l’incapacità negoziale del Circolo derivante da una delegazione amministrativa attuata in violazione delle norme imperative sulla competenza, non prosegue la motivazione dichiarando la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. (sul punto Cass., sez. II, 2 aprile 2000 n. 5234, in Juris Data) ma ritiene, sotto questo profilo, che il contratto stipulato dal soggetto delegato contra legem sia valido e obblighi quest’ultimo in virtù del principio di affidamento del terzo. A sostegno di tale teoria, la Corte deduce che, in ragione dell’istituto della delegazione amministrativa, il soggetto delegato diviene, nei confronti dei terzi, unico titolare delle situazioni correlate all’esercizio delle attribuzioni delegate, rispondendo in proprio anche delle obbligazioni che, seppur non rientranti nell’ambito delle suddette attribuzioni, il soggetto delegato abbia comunque assunto nei confronti dei terzi. Premesso che la controversia in esame non riguardi il caso di obbligazioni assunte dal soggetto delegato, nei confronti del terzo, che esulino dalle attribuzioni delegate, le conclusioni tratte dalla Corte d’Appello secondo cui “la delegazione amministrativa dà luogo, verso l’esterno, ad una responsabilità esclusiva del delegato, in virtù della quale restano del tutto indifferenti per i terzi i sottostanti rapporti delegante – delegato” e secondo cui “deve “a priori” ritenersi che tale indifferenza comporti la validità dei rapporti instaurati tra il delegato e i terzi” non possono essere condivise nel caso di specie in cui la delegazione amministrativa intersoggettiva è stata attuata in assenza di una legge di copertura. Se è vero, infatti, che mediante la delegazione amministrativa la titolarità delle funzioni si trasferisce in capo al soggetto delegato e a quest’ultimo viene imputata la relativa responsabilità verso i terzi, è altrettanto vero che la delegazione amministrativa per essere valida e, dunque, per produrre gli effetti ora esposti, necessita di una copertura legislativa, inesistente nel caso di specie. In ultimo, i giudici d’appello hanno ritenuto che rispetto al rapporto tra Circolo didattico e il Comune “il terzo è ovviamente indifferente ignaro e quindi salvo dalle conseguenze negative che l’incompetenza del delegato per sé considerata, senza la necessaria considerazione dell’affidamento del terzo, potrebbe determinare”. Al riguardo, oltre a quanto già dedotto in precedenza, è necessario veri- 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ficare la posizione assunta dal terzo rispetto alla conoscenza o conoscibilità della norma imperativa e della violazione della medesima. La Corte, infatti, nel dare rilevanza all’affidamento del terzo definito “indifferente ignaro” circa i rapporti tra Circolo e Comune sembra non considerare che l’ordinamento “non prende in favorevole considerazione … la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano consapevolmente o colposamente aderito alla iniziativa illegittima dell’Amministrazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 3 febbraio 2011 n. 780 in www.giustizia-amministrativa.it). In altre parole, considerate le circostanze, nessun legittimo affidamento del terzo poteva essersi formato, poiché l’esistenza e la conseguente violazione delle norme imperative, conosciute o comunque conoscibili dal terzo, escludono, già di per sé, la buona fede e di conseguenza il legittimo affidamento del terzo stesso. 2. L’infungibilità del contraente Divieto di cessione del contratto d’appalto pubblico - Nullità della cessione del contratto - Applicabilità della disciplina ai contratti di pubbliche forniture e agli appalti di servizio - Cessione del contratto e affitto di ramo d’azienda - Ratio della norma: evitare la fungibilità dei contraenti. (L. n. 55/90, art. 18, comma 2; D.Lgs. n. 258/92, art. 16, comma 3; D.Lgs. n. 157/95 art. 18, comma 3; artt. 116 e 118 D.Lgs. 163/2006). La disciplina prevista dall’art. 18, comma secondo, L. n. 55/90, laddove pone il divieto di cedere il contratto di appalto a pena di nullità, si estende, ai sensi dell’art. 16, comma 3, D.Lgs n. 358/92, anche ai contratti di pubbliche forniture, nel cui ambito rientra il servizio di refezione scolastica. La sanzione della nullità si applica non solo al caso di cessione del contratto ma anche nell’ipotesi di contratto d’affitto d’azienda o di ramo di essa poiché quel che la normativa intende impedire è la fungibilità del contraente e che ciò dipenda dall’affitto di ramo d’azienda o dalla cessione del contratto è del tutto irrilevante. Ciò che maggiormente interessa, però, è la parte della sentenza che dispone la nullità del contratto di affitto di ramo d’azienda in base all’art. 18, comma 2, della legge 19 marzo 1990, n. 55, oggi abrogato dall’art. 256 del D.Lgs. 163/2006. I giudici della Corte di Appello di Roma, nell’argomentare al riguardo, hanno specificamente disposto che “già il capitolato (86) speciale per la gestione del servizio di refezione scolastica per le scuole materne, elementari e medie del Comune di Roma, richiamato dal contratto “de quo” di refezione scolastica, impegnava … a non cedere l’attività ad altri soggetti; in più l’art. 18, l. n. 55/90 ha stabilito il divieto di cessione del contratto di appalto, con previsione espressa della nullità anche nei confronti dei contraenti (l’art. 16, co. 3, D.lgs. n. 358/92 prevede l’applicabilità ai contratti di pubbliche forni- CONTENZIOSO NAZIONALE 89 ture ed in tale ambito rientra anche il servizio di refezione scolastica), ma non diversa è la disciplina ove lo si considerasse un appalto di servizio ex art. 18, co. 3, l. n. 157/95. Quel che la normativa ha inteso impedire è la fungibilità del contraente, e che ciò dipenda dall’affitto dell’azienda è del tutto irrilevante”. Le ragioni della Corte poggiano essenzialmente su due argomenti. Il primo, che i giudici traggono dall’art. 16, co. 3, D.lgs. n. 358/92 e dall’ art. 18, co. 3, D.Lgs. n. 157/95, consiste nella applicabilità dell’art. 18, L. 55/90, relativo al contratto di appalto, anche ai contratti di pubbliche forniture e di appalto di servizio. Il secondo, che si desume dalla ratio della disciplina dettata dall’art. 18, L. 55/90, che è quella di impedire la fungibilità del contraente, si sostanzia nell’applicazione di tale norma non solo nel caso di cessione del contratto ma anche nell’ipotesi di affitto di ramo d’azienda. Entrambi gli assunti, come vedremo, sono il frutto di una lunga e non facile evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria della normativa in esame. Prendendo le mosse dal caso concreto, è utile precisare che la disciplina dettata dal contratto di refezione scolastica, tramite rinvio al capitolato speciale d’appalto per la gestione del servizio di refezione scolastica per le scuole materne, elementari e medie del Comune di Roma (del. G.C. 4591/89), impegnava la società appaltatrice a non cedere l’attività ad altri soggetti, pena la risoluzione del contratto (art. 86 del Capitolato). Per aggirare tale previsione, l’appaltatrice stipulava un contratto d’affitto di ramo d’azienda a favore di un’altra società. Tale contratto, concretante la cessione o comunque la sostituzione del contraente è stato dichiarato nullo dai giudici capitolini per contrasto con la disciplina dei pubblici appalti, applicabile al caso di specie. Invero, l’art. 18, comma 2, della L. 19 marzo 1990, n. 55 “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”, come modificato dall’art. 22, comma 2, del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, sanciva che “le imprese, le associazioni, i consorzi obbligatori aggiudicatari sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori compresi nel contratto. Il contratto non può essere ceduto, a pena di nullità”. Come anticipato, la norma si inseriva nel corpo di una normativa esplicitamente indirizzata alla repressione del fenomeno mafioso e ad una più ampia prevenzione delle infiltrazioni della malavita organizzata nel tessuto imprenditoriale e finanziario del Paese. Alla luce di ciò, parte della dottrina riteneva che la norma possedesse un respiro di gran lunga più ampio rispetto allo stretto tenore letterale del divieto e, dunque, un ambito di applicazione più vasto. Netto, al riguardo, è stato l’atteggiamento assunto dall’Avvocatura generale dello Stato (consultazione del 25 maggio 1992, n. 55935) secondo cui la ratio della disposizione era quella di scongiurare qualsiasi tipo di mutamento 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 soggettivo nel rapporto contrattuale di appalto in corso fra imprese private ed enti pubblici, di evitare, cioè, che nel corso dell’esecuzione del contratto di appalto pubblico, all’originario contraente si sostituissero altri soggetti. Alla luce di quanto detto, la regola che obbligava ad “eseguire in proprio le opere o i lavori” doveva abbracciare l’intero spettro di ipotesi concrete che la realtà economica proponeva, senza lasciare spazi ad accomodamenti sia bilaterali (realizzati cioè mediante accordi fra cedente e cessionario del contratto di appalto) che trilaterali (con l’intervento consenziente della mano pubblica). In tal modo, infatti, la disponibilità del rapporto contrattuale veniva sottratta tanto al privato quanto all’Amministrazione, essendo vietato ciò che di regola l’art. 1406 c.c. ammette: la facoltà, per ciascuna parte contrattuale, di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, sempre che l’altra parte contrattuale lo consenta. Come noto, infatti, la L. 55/90 aveva comportato l’abrogazione dell’art. 339 della L. 20 marzo 1865, all. F, che, dopo aver sancito il divieto di cessione, sotto la comminatoria dell’immediata rescissione del contratto e di una multa pari al ventesimo del corrispettivo pattuito, consentiva la cessione di appalto di opere pubbliche in presenza di formale approvazione da parte della P. A. committente. Detto ciò, ne conseguiva che l’inciso finale “il contratto non può essere ceduto a pena di nullità” doveva essere letto in stretta connessione logica con la regola che lo precedeva, che obbligava gli aggiudicatari ad “eseguire in proprio le opere o i lavori compresi nel contratto”. Se si procede con questa lettura logico–sistematica, si comprende come il significato di << cessione >> fosse, in realtà, equiparato a quello di << trasferimento >>, volto ad indicare più il risultato che la procedura utilizzata per raggiungerlo, smarrendo così “i connotati di istituto tipico, tecnicamente circoscritto e legislativamente disciplinato, per assumere quelli di un’accezione generica, indeterminata nelle sue numerose variabili”. (V. AZZONI, La cessione del contratto d’appalto nel regime antimafia, in Nuova Rassegna, 1994, n. 18, p. 2122). D’altro canto, si evidenziava, anche a voler argomentare sulla sola base letterale dell’art. 18 L. 55/90, non si può negare che l’espressione “il contratto non può essere ceduto” non equivalga a dire “è vietata la cessione del contratto”; solo nel caso in cui la norma avesse contenuto tale ultima dizione, infatti, il dato letterale sarebbe stato più condizionante in sede di interpretazione della norma stessa. Secondo questa impostazione, conforme al pensiero dell’Avvocatura generale dello Stato, dunque, il divieto di cedere il contratto di appalto pubblico doveva estendersi ad ipotesi che, seppur ontologicamente diverse, fossero finalisticamente assimilabili alla cessione del contratto. Non sfugge, infatti, che il medesimo risultato pratico che si ottiene mediante la cessione del contratto, possa essere ottenuto attraverso l’utilizzazione di altre fattispecie giuridiche come la cessione d’azienda (che, secondo l’art. 2558 c.c., comporta, salvo CONTENZIOSO NAZIONALE 91 tempestivo recesso del soggetto ceduto, il subentro dell’acquirente dell’azienda nei contratti stipulati per l’esercizio della stessa che non abbiano carattere personale), la fusione di società (o per costituzione di una nuova o per incorporazione in altra già esistente, con conseguente perdita, in entrambi i casi, della pregressa identità in capo ad alcuni o a tutti i soggetti originari) o qualunque altra operazione che comporti la sostituzione nella titolarità del singolo rapporto negoziale. (V. AZZONI, La cessione del contratto d’appalto nel regime antimafia, cit. pp. 2122 – 2123). Una simile lettura, inoltre, appariva in linea con l’art. 19, commi 3 e 4, della L. 55/90 (anch’essi abrogati), che vietavano di costituire associazioni, anche in partecipazione, o raggruppamenti temporanei, in concomitanza o successivamente all’aggiudicazione della gara, colpendo la violazione di tale regola con l’annullamento dell’aggiudicazione o, nel caso in cui il contratto di appalto fosse già concluso, con la nullità dello stesso, nonché con l’esclusione delle imprese riunitesi in tali associazioni dalle nuove gare bandite per l’aggiudicazione dei medesimi lavori. (TRAVAGLINI, Legislazione antimafia e i suoi aggiornamenti, in Nuova Rassegna, 1992, p. 598). A conferma di tale interpretazione, già in vigenza della formula originaria dell’art. 18, L. 55/90 (priva, dunque, della dizione finale per cui il “contratto non può essere ceduto a pena di nullità”), parte della dottrina aveva osservato con lungimiranza che la norma in esame si riferisse implicitamente alle diverse forme attraverso cui si realizza il trasferimento totale o parziale del rapporto instaurato tra l’Amministrazione committente e l’appaltatore. Tale autorevole dottrina, nello specifico, rinveniva le ragioni di tali restrizioni nelle seguenti motivazioni: “1) il rapporto esclusivamente fiduciario che si instaura tra la pubblica Amministrazione e l’appaltatore, tanto da consentire alla stessa di invitare imprese di sua fiducia e per le quali, comunque, abbia accertato il possesso dei requisiti necessari; 2) la opportunità di evitare ogni forma di speculazione sull’appalto che si affida alla impresa aggiudicataria; 3) l’opportunità di eliminare il pericolo potenziale, e consequenziale alle considerazioni di cui al punto precedente, che la riduzione del margine di remunerazione possa influire negativamente sulla esecuzione dell’appalto; 4) quella di evitare o quanto meno contenere il rischio che, per effetto di tali istituti, si inseriscano nella esecuzione dell’appalto imprese di stampo mafioso”. (TABARRINI, Le sostanziali innovazioni introdotte in materia di antimafia dalla legge 19 marzo 1990, n. 55, nel campo degli appalti pubblici, ne L’ufficio tecnico, 1990, n. 7 e 8, pp. 957 e ss.). Della questione, inoltre, era stata investita anche la II Sez. del Consiglio di Stato che, attraverso il parere n. 53, reso nell’adunanza del 3 febbraio 1993, aderiva alla tesi propinata dall’Avvocatura generale dello Stato. Il Consiglio di Stato, in particolare, affermava la diversa natura degli istituti della cessione del contratto (artt. 1406 ss c.c.) e del trasferimento d’azienda 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 o di un ramo di essa (art. 2558 c.c.). Mentre la cessione del contratto, infatti, costituisce un negozio tipico, voluto dunque dalle parti, la successione nei contratti, ex art. 2558 c.c., è un effetto naturale del trasferimento d’azienda, che può essere escluso solo mediante espressa pattuizione. Dal punto di vista civilistico si è dunque in presenza di due fattispecie diverse tra loro. Il legislatore, però, attraverso l’art. 18 L. 55/90 (come modificato dalla novella del 1991), aveva voluto disciplinare il fenomeno della sostituzione soggettiva della persona dell’appaltatore, prevedendo così una disciplina unitaria e comune tanto alla cessione del contratto quanto al trasferimento d’azienda. In altre parole, ciò che il legislatore aveva inteso evitare con tale normativa era la fungibilità e l’ambulatorietà della posizione del contraente dell’Amministrazione. Al riguardo si era quindi ritenuto che: a) il divieto sancito dall’art. 18, comma 2, L. 55/90 non avesse natura eccezionale ma che costituisse principio generale che, in quanto tale, si applicava anche al trasferimento d’azienda; b) anche qualora fosse stato riconosciuto il carattere eccezionale dell’art. 18, comma 2, in questione, esso si sarebbe applicato ugualmente al trasferimento d’azienda. Per ciò che concerne la natura non eccezionale del divieto di cessione del contratto d’appalto, la Sez. II del Consiglio di Stato, nel citato parere, evidenziava che fin dal 1865, mediante l’art. 339 della L. n. 2248/1865, all. F, nel nostro ordinamento era stato sancito il divieto di cedere il contratto d’appalto a pena dell’immediata rescissione, salva l’autorizzazione dell’Amministrazione. A ben vedere, dunque, salvo il venir meno della possibilità per l’Amministrazione di acconsentire alla cessione del contratto, la disciplina era rimasta sostanzialmente invariata. Se si considera, quindi, che nel settore delle opere pubbliche l’immutabilità dell’esecutore delle opere ha sempre rivestito per l’Amministrazione particolare importanza, si comprende che ciò che l’art. 18, comma 2, L. 55/90, intendeva evitare non era la cessione del contratto come negozio tipico bensì la cessione del contratto come effetto di ogni contratto, anche del trasferimento d’azienda o di ramo di essa. D’altro canto, secondo il Consiglio di Stato, tale conclusione non sarebbe mutata anche qualora si fosse riconosciuta la natura eccezionale dell’art. 18, comma 2, in esame. Infatti, il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali, posto dall’art. 14 delle preleggi, non esclude una loro interpretazione estensiva che, come è noto, consente l’utilizzazione delle norme regolanti casi simili. Orbene, tanto la cessione del contratto quanto la successione nei contratti, comportando una successione a titolo particolare in preesistenti rapporti giuridici contrattuali, operano una sostituzione soggettiva che lascia immutati gli elementi oggettivi del singolo contratto o dei contratti aziendali. CONTENZIOSO NAZIONALE 93 In ambedue le fattispecie, dunque, nonostante la differenza tra le manifestazioni di volontà da cui discendono gli effetti (nella cessione del contratto gli effetti derivano in via diretta mentre nella successione ex art. 2558 c.c. gli effetti derivano in via indiretta), gli effetti in questione sono però identici. Inoltre, l’applicabilità dell’art. 18, comma 2, L. 55/90, anche alle fattispecie di successione nel contratto e, dunque, alla cessione di azienda, risultava chiaro dal fatto che il divieto di cessione seguiva la previsione secondo cui “le imprese, le associazioni, i consorzi obbligatori aggiudicatari sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori compresi nel contratto”. Insomma, l’art. 18 L. 55 del 1990 “ha vietato ogni forma di sostituzione della qualità di contraente, inibendo la cessione non solo come nomen iuris di uno schema contrattuale, bensì come effetto giuridico che si verifica quando vi è successione di un terzo in un contratto preesistente”. (Consiglio di Stato sent. n. 761, 13 maggio 1995, in Consiglio di Stato, 1995, I, pp. 725 – 727). Con l’inciso “il contratto non può essere ceduto, a pena di nullità” il legislatore, dunque, non aveva inteso restringere l’ambito di applicazione della norma alla sola ipotesi di cessione del contratto, poiché, indipendentemente da tale ultimo inciso, la norma, nel momento in cui obbligava le imprese ad eseguire “in proprio” il contratto, vietava già di per sé qualsiasi forma di sostituzione soggettiva del contraente. In altre parole, l’art. 18 L. 55/90, obbligando l’aggiudicatario ad eseguire “in proprio le opere o i lavori compresi nel contratto”, con o senza l’inciso finale di cui sopra, conduceva comunque alla medesima conseguenza di vietare la fungibilità della posizione di contraente dell’Amministrazione. Ora, nonostante l’autorevolezza e la logicità delle ragioni poste alla base di tale filone dottrinario, che riteneva che il legislatore, nell’essersi riferito alla cessione del contratto, non avesse alluso ad un nomen iuris preciso, inestensibile in sede ermeneutica, ma all’effetto giuridico che si verifica in tutti i casi di successione di un terzo nella titolarità di un contratto preesistente, non è mancato chi abbia cercato di ridimensionare e circoscrivere l’ambito di operatività della disposizione al solo dato letterale. In particolare, sul fronte diametralmente opposto a quello dell’Avvocatura generale dello Stato si era posta l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, la quale, nel parere reso con nota 3 dicembre 1992 (n. 1255/92 Cons.) su richiesta della Presidenza della Regione Sicilia, aveva disposto che “nel caso di fusione fra due società si ha un fenomeno di successione della società risultante dalla fusione nei rapporti giuridici facenti capo alle società fuse che non è assolutamente riconducibile allo schema giuridico della cessione del contratto”. Nel motivare tale posizione, l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo osservava che la fusione tra società non implica, in realtà, il trasferimento dei vincoli contrattuali ad un diverso soggetto economico da parte di chi precedentemente investito se ne liberi, bensì una << assimila- 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zione>> del secondo nel primo, il che non comporterebbe la violazione dell’art. 18 L. 55/90 nella parte in cui obbliga ad “eseguire in proprio le opere o i lavori compresi nel contratto”. La riflessione valeva sia nell’eventualità in cui titolare originario fosse la società incorporante sia qualora lo fosse la società incorporata. Avverso tale impostazione si era rilevato, però, che nel caso di una nuova società sorta sulle ceneri di una preesistente, la personalità viene attribuita ad una entità diversa da quella originaria; nell’ipotesi di incorporazione, invece, mutano, quanto meno, i rapporti interni alla persona giuridica. Nel tentativo di arginare l’ambito di applicazione della disciplina in questione, inoltre, l’Avvocatura distrettuale spostava la sua attenzione anche sulla sanzione della nullità che colpiva la violazione del divieto di cessione. Posto, infatti, che il legislatore prevedesse la nullità in caso di violazione del divieto di cessione, l’Avvocatura distrettuale di Palermo si chiedeva a quale nullità il legislatore stesso si riferisse. Nullità di quale contratto? Dell’originario, quello di appalto stipulato tra il privato e la P.A.? O del nuovo, successivo all’appalto, che ne comporti il trasferimento a terzi: e cioè, a seconda del caso concreto, del negozio di cessione del contratto di appalto o del negozio di fusione tra due società, con la conseguenza che il contratto di appalto avrebbe continuato ad intercorrere fra le parti originarie? L’Avvocatura distrettuale rilevava che infliggere la sanzione della nullità del negozio di fusione tra due società, per il solo fatto che una di esse fosse aggiudicataria di un contratto di appalto pubblico, fosse conseguenza “talmente abnorme da apparire concettualmente impraticabile”, salvo che non si considerasse la nullità come nullità parziale, riguardante non la fusione nella sua totalità ma il solo rapporto giuridico concernente il pubblico appalto in corso. L’Avvocatura dello Stato di Palermo osservava che, in tale ultimo caso, però, a seguito della fusione, viene meno il soggetto che dovrebbe continuare a rispondere dell’esecuzione dell’appalto. (V. AZZONI, La cessione del contratto d’appalto nel regime antimafia, cit., pp. 2122 – 2124). Sul punto, ossia su quale contratto dovesse essere colpito dalla sanzione della nullità, dottrina e giurisprudenza non sono state però unanimi. La dottrina sosteneva, infatti, che “l’espressione << il contratto non può essere ceduto a pena di nullità >> può infatti significare – ed è anzi questa la lettura più lineare e consona con la sequenza e con la connessione delle parole usate, così come raccomanda l’art. 14 preleggi – che il contratto di appalto deve azzerarsi se appena la parte privata ne fa oggetto di negoziazione. A tal punto preme al legislatore l’intuitus personae che il trasferimento contra legem del contratto ne comporta la nullità: nullità da intendersi in senso stretto, perché determinata – ex art. 1418 C.C. – dal contrasto con norme imperative di legge, oppure come causa di risoluzione del vincolo stante l’ormai accertato disegno di controparte di non adempiere alle proprie obbligazioni. In entrambi i casi la P.A. potrà rivendicare pieno titolo al ristoro dei danni CONTENZIOSO NAZIONALE 95 subiti, reclamandoli eventualmente anche presso il terzo avente causa”. Detto ciò, l’opinione dell’Avvocatura palermitana, che rinveniva nella tesi ora esposta un inammissibile divieto assoluto per le società aggiudicatarie dei contratti di appalto pubblico di partecipare a negozi di fusione, era del tutto errata. Nessuna norma, infatti, vietava a tali società di fondersi o di cedere l’azienda o il ramo di essa riconducibile all’appalto; l’operazione aveva tuttavia un costo, quello di rinunciare al contratto d’appalto pubblico. (V. AZZONI, La cessione del contratto d’appalto nel regime antimafia, cit., p. 2124). Conformemente alla teoria ora esposta, sempre in dottrina, si è detto anche che “sembra, in ogni caso, preferibile l’interpretazione che riferisce la nullità … direttamente al contratto d’appalto oggetto dell’illecita cessione, piuttosto che al negozio di cessione vero e proprio, e ciò per mantenere la ricordata evidente analogia con il fenomeno – e l’attuale disciplina repressiva delineata dall’art. 19, commi 2 e 3, della legge n. 55 del 1990 – della costituzione di associazioni temporanee contestualmente o successivamente all’aggiudicazione. Del resto, la nullità del negozio di cessione non abbisogna di espressa statuizione normativa, fondandosi di per sé sull’art. 1418 C.C., che tra le cause di nullità del contratto menziona la contrarietà di quest’ultimo a norme imperative”. (TRAVAGLINI, Legislazione antimafia e i suoi aggiornamenti, cit., p. 599). Secondo la giurisprudenza, invece, “la previsione della << nullità >> non è stata certo riferita all’originario contratto d’appalto stipulato tra l’Amministrazione e l’aggiudicatario: se vi è una cessione vietata dall’art. 18, secondo comma, il contratto di appalto stipulato con l’aggiudicatario continua a comportare la sua responsabilità, sotto ogni aspetto, della realizzazione dei lavori. La << nullità >> non si riferisce al << contratto ceduto >>, ma al contratto che viola il divieto, cioè a quello che intende comportare la sostituzione soggettiva del contraente dell’Amministrazione. Il legislatore ha reso nullo il contratto ( qualsiasi sia il suo nomen iuris ) con cui l’appaltatore trasferisca ad un terzo la sua posizione contrattuale di appaltatore di opere pubbliche, e cioè per la parte in cui tale contratto (se non vi fosse la previsione della nullità) andrebbe ad incidere sugli effetti del contratto d’appalto stipulato dall’Amministrazione. Pertanto, se l’appaltatore conclude un contratto di cessione dell’appalto, vi è la violazione di una norma imperativa che comporta la nullità del contratto di cessione, ai sensi dell’art. 1418, primo comma Cod. civ. Se l’appaltatore invece conclude un contratto (quale quello di cessione dell’azienda), dal quale in via derivata si verifica l’effetto della cessione, l’art. 18 secondo comma in esame impedisce la successione ex lege nel contratto d’appalto di opere pubbliche, ma non è in discussione la validità del trasferimento di azienda in quanto tale. Va rilevato, sotto quest’ultimo aspetto, che la cessione di azienda non è stata vietata in quanto tale dal novellato art. 18, secondo comma, della legge n. 55 del 1990: la legge inibisce unicamente 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 la produzione degli effetti della cessione nei confronti dell’Amministrazione. Quanto precede è altresì confermato dalla natura personale del contratto di appalto di opere pubbliche: tale natura, tenuto conto del citato art. 18, secondo comma, impedisce che si produca con la cessione di azienda la automatica successione nel relativo contratto”. (Consiglio di Stato sent. n. 761, 13 maggio 1995, in Consiglio di Stato, 1995, I, pp. 727 – 728). Anche la sentenza in esame si pone sulla medesima lunghezza d’onda. Consapevoli che ciò che il legislatore avesse inteso impedire con la normativa in questione fosse la fungibilità del contraente, anche i giudici della Corte di Appello di Roma, seppur non argomentando al riguardo, hanno ritenuto che ad essere nullo, ai sensi dell’art. 18, comma secondo, L. 55/90, sia il contratto di affitto di ramo d’azienda e non il contratto originario stipulato tra Amministrazione e privato. Passando al secondo argomento su cui poggia la parte di sentenza in esame, l’applicabilità dell’art. 18, comma 2, L. 55/90 (che disponeva specificamente il divieto di cessione del contratto di appalto) al contratto di refezione scolastica è stata possibile mediante il rinvio operato all’art. 16, comma 3, D.Lgs. 358/92 e all’art. 18, comma 3, L. 157/95, anch’essi abrogati dall’art. 256 del D. Lgs. 163/2006. I giudici della Corte di Appello di Roma, infatti, al fine di applicare una norma espressamente prevista per il contratto di appalto al contratto di refezione scolastica hanno fatto rientrare quest’ultimo nella categoria dei contratti di pubbliche forniture e di conseguenza hanno applicato l’art. 16, comma 3, D.Lgs. 358/92 che disponeva che la disciplina prevista dall’art. 18 L. 55/90 si applicasse anche nel settore delle pubbliche forniture. Secondo consolidata giurisprudenza, infatti, il servizio di refezione scolastica “è contratto di fornitura di beni e non appalto di servizi” (Consiglio di Stato, sez. V, n. 289/2000 in Juris Data). La Corte afferma che, comunque, anche se si volesse ritenere il contratto di refezione scolastica un contratto di servizio la disciplina non muterebbe poiché l’applicabilità dell’art. 18, comma secondo, L. 55/90 deriverebbe dall’art. 18, comma 3, D.Lgs. 157/95 che sottoponeva anche gli appalti di servizio al divieto di cui all’art. 18 L. 55/90. Ora, accertato che il divieto di cessione del contratto ex art. 18, comma 2, L. 55/90 costituisse principio generale volto ad evitare non la cessione del contratto come contratto tipico ma come effetto giuridico di qualsiasi contratto, è doveroso procedere all’esame dell’attuale disciplina della cessione del contratto pubblico contenuta nel Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163), in particolare, nell’art. 116, che ha sostanzialmente ripreso quanto già disposto dagli artt. 35 e 36 della L. n. 109 del 1994 e nell’art. 118. Attualmente, dunque, il divieto di cedere a terzi il contratto d’appalto pubblico a pena di nullità, formalizzato dall’art. 118, comma 1, D.Lgs. CONTENZIOSO NAZIONALE 97 163/2006, è un divieto solo tendenzialmente assoluto; il codice dei contratti pubblici, infatti, garantisce le dovute eccezioni nei casi in cui un’eccessiva rigidità comporterebbe il pregiudizio degli interessi pubblici perseguiti. L’odierna disciplina, in particolare, consente la modifica dell’appaltatore sia a livello di “titolarità” del rapporto, ex art. 116 D.Lgs. 163/2006, che a livello di “esecuzione” delle prestazioni, ex artt. 117 e 118 D.Lgs. 163/2006. (CLARICH, Commentario al codice dei contratti pubblici, Giappichelli Editore – Torino, 2010, p. 595). Orbene, l’art. 116 D.Lgs 163/2006, rubricato “vicende soggettive dell’esecutore del contratto”, dispone infatti che: “1. Le cessioni di azienda e gli atti di trasformazione, fusione e scissione relativi ai soggetti esecutori di contratti pubblici non hanno singolarmente effetto nei confronti di ciascuna stazione appaltante fino a che il cessionario, ovvero il soggetto risultante dall'avvenuta trasformazione, fusione o scissione, non abbia proceduto nei confronti di essa alle comunicazioni previste dall'articolo 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 maggio 1991, n. 187, e non abbia documentato il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal presente codice. 2. Nei sessanta giorni successivi la stazione appaltante può opporsi al subentro del nuovo soggetto nella titolarità del contratto, con effetti risolutivi sulla situazione in essere, laddove, in relazione alle comunicazioni di cui al comma 1, non risultino sussistere i requisiti di cui all'articolo 10-sexies della legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni. 3. Ferme restando le ulteriori previsioni legislative vigenti in tema di prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, decorsi i sessanta giorni di cui al comma 2 senza che sia intervenuta opposizione, gli atti di cui al comma 1 producono, nei confronti delle stazioni appaltanti, tutti gli effetti loro attribuiti dalla legge. 4. Le disposizioni di cui ai commi che precedono si applicano anche nei casi di trasferimento o di affitto di azienda da parte degli organi della procedura concorsuale, se compiuto a favore di cooperative costituite o da costituirsi secondo le disposizioni della legge 31 gennaio 1992, n. 59, e successive modificazioni, e con la partecipazione maggioritaria di almeno tre quarti di soci cooperatori, nei cui confronti risultino estinti, a seguito della procedura stessa, rapporti di lavoro subordinato oppure che si trovino in regime di cassa integrazione guadagni o in lista di mobilità di cui all'articolo 6 della legge 23 luglio 1991, n. 223”. Nell’attuale contesto normativo, dunque, il trasferimento della posizione dell’esecutore del contratto a seguito di cessione o affitto d’azienda o di un ramo di essa o di altre vicende dell’impresa (trasformazione, fusione e scissione) è direttamente disciplinato dall’art. 116 del codice dei contratti pubblici. Come accennato, la citata disposizione ha in sostanza ricalcato la disciplina contenuta negli artt. 35 e 36 L. 109/1994 che aveva attenuato il divieto 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 di cessione del contratto, consentendo, a determinate condizioni, le modificazioni riguardanti l’organizzazione aziendale dell’appaltatore (cessione d’azienda, trasformazione, fusione e scissione). Nello specifico, l’iniziale interpretazione restrittiva dei citati artt. 35 e 36 aveva ceduto il passo ad un’interpretazione estensiva degli stessi che ne consentiva l’applicazione anche agli appalti di forniture e servizi. Premesso ciò, il divieto di cessione del contratto ex art. 18, comma 2, L. 55/90, da un lato, e la disposizione che consente l’opponibilità alla stazione committente del trasferimento d’azienda e fattispecie analoghe (art. 35 L. 109/94), dall’altro, non erano tra loro antitetiche. Le due disposizioni, infatti, si integravano reciprocamente laddove l’immutabilità della posizione di contraente veniva temperata dalla possibilità del subentro di un altro soggetto, previa la valutazione necessaria dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo in capo a quest’ultimo, richiesti dall’art. 35 L. 109/94. Il legame tra le due disposizioni è attualmente esplicitato dal codice dei contratti pubblici che, riaffermando il generale divieto di cessione del contratto, (l’art. 118, comma 1, dispone infatti che “I soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto. Il contratto non può essere ceduto, a pena di nullità, salvo quanto previsto nell'articolo 116”) fa tuttavia espressamente salve le modificazioni soggettive dell’appaltatore previste dall’art. 116 citato. Come in precedenza esposto, l’art. 116 D.Lgs. 163/2006, sulla falsariga dell’art. 35 L. 109/94, disciplina le modifiche del soggetto esecutore derivanti da cessione d’azienda, trasformazione, fusione o scissione di società. A differenza della previgente normativa, però, l’art. 116 in questione trova espressa applicazione anche per gli appalti di forniture e di servizi. (SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, V, I settori speciali l’esecuzione, Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 2008, pp. 3433-3438). Proseguendo all’esame dell’art. 116 D.Lgs. 163/2006, si nota che quest’ultimo nulla dice a proposito della cessione del ramo di azienda o dell’affitto della medesima. Tuttavia, se si considera che la cessione d’azienda (in conformità alla definizione di azienda ex art. 2555 c.c.) comporta il trasferimento di un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, l’art. 116 non potrà non trovare applicazione anche in relazione a tali ulteriori fattispecie giuridiche. Infatti, essendo il ramo d’azienda un insieme di beni e persone dotato di autonomia produttiva, finalizzato allo svolgimento di una determinata attività d’impresa, il suo trasferimento andrà assoggettato alla stessa disciplina disposta per la cessione d’azienda. Per ciò che concerne l’affitto d’azienda o di un ramo di essa, da tempo ormai ne è stata riconosciuta l’opponibilità alla stazione committente (Cons. St., sez. VI, 6 aprile 2006, n. 1873 in Juris Data). CONTENZIOSO NAZIONALE 99 Circa l’opponibilità delle vicende modificative in esame, l’art. 116 D.Lgs. 163/2006 subordina l’efficacia di tali modificazioni nei confronti della stazione appaltante ad alcuni adempimenti a carico del cessionario. Il soggetto subentrante, infatti, ai sensi dell’art. 116, comma 1, in esame è tenuto a procedere nei confronti dell’Amministrazione committente “alle comunicazioni previste dall’articolo 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 maggio 1991 n. 187 (1)” e a documentare “il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal presente codice”. Secondo la dottrina, quest’ultima espressione non è riferita solo alle certificazioni SOA di cui all’art. 40 D.Lgs. 163/2006, ma a tutti i requisiti richiesti ai fini dell’ammissione alla gara d’appalto dal codice dei contratti pubblici sia di ordine generale (art. 38) che speciale, come la capacità professionale (art. 39), quella economica e finanziaria (art. 41) o quella tecnica (art. 42). Si ritiene, inoltre, che, nonostante l’art. 116 non preveda che il soggetto subentrante sia tenuto a trasmettere alla stazione committente anche gli atti di cessione, trasformazione, fusione o scissione, tali documenti siano necessari per accertare se si sia in presenza di un’effettiva cessione d’azienda o di un negozio che comporti in realtà una cessione del contratto vietata dall’art. 118 del codice. Infine, l’art. 116 D.Lgs. 163/2006 non pone alcun termine entro il quale l’impresa subentrante debba provvedere agli adempimenti di cui sopra. Difatti, fin quando tali comunicazioni non avvengono il negozio giuridico rimarrà improduttivo di effetti nei confronti dell’Amministrazione, con la conseguenza che l’esecutore continuerà ad essere l’originario aggiudicatario del contratto d’appalto. Come già rilevato, l’art. 116, comma 2, D.Lgs. 163/2006 dispone che, entro i successivi sessanta giorni dalla ricezione della documentazione di cui al comma 1 dell’art. 116, l’Amministrazione possa opporsi alla successione nel contratto d’appalto qualora “non risultino sussistere i requisiti di cui all’articolo 10 sexies della l. 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni”. Nell’eventualità in cui il possesso di tali requisiti non sia dimostrato, dunque, la stazione appaltante non potrà fare altro che opporsi al subentro con conseguenti “effetti risolutivi sulla situazione in essere”. (SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, cit. p. 3447). (1) Ai sensi dell’art. 1 D.P.C.M., n. 187 del 1991 il soggetto subentrante sarà tenuto a comunicare “la propria composizione societaria, l'esistenza di diritti reali di godimento o di garanzia sulle azioni "con diritto di voto” sulla base delle risultanze del libro dei soci, delle comunicazioni ricevute e di qualsiasi altro dato a propria disposizione, nonché l'indicazione dei soggetti muniti di procura irrevocabile che abbiano esercitato il voto nelle assemblee societarie nell'ultimo anno o che ne abbiano comunque diritto”. Qualora il soggetto subentrante sia un consorzio, i dati di cui sopra dovranno essere “riferiti alle singole società consorziate che comunque partecipino alla progettazione ed all'esecuzione dell'opera”. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Tale ultimo inciso viene interpretato nel senso che, da un lato, il negozio giuridico che ha generato la modificazione aziendale non produce effetti nei confronti della stazione appaltante e, dall’altro, che “il contratto di appalto di risolve ipso iure”. Inoltre, nonostante l’art. 116, comma 2, D.Lgs. 163/2006 consenta espressamente l’opposizione al subentro nel rapporto contrattuale solo nel caso in cui l’impresa subentrante non abbia dimostrato il possesso dei requisiti “antimafia”, è indubbio che l’opposizione possa fondarsi anche sull’assenza delle qualificazioni richieste dal comma 1 dell’art. 116 in questione (SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, cit. pp. 3440 – 3447). Infine, l’art. 116 D.Lgs. 163/2006 non sembra indicare con certezza il momento in cui si perfeziona il subentro nel rapporto contrattuale. Se per un verso, infatti, il comma 1 dell’art. 116 D.Lgs. 163/2006 dispone che le cessioni di azienda e gli atti di trasformazione, fusione e scissione non hanno effetto nei confronti della singola stazione appaltante fino a che il soggetto subentrante non abbia provveduto alle comunicazione di cui all’art. 1 del D.P.C.M. n. 187 del 1991 e non abbia documentato il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal codice dei contratti pubblici; per altro verso, il comma 3 del medesimo articolo prevede che, “decorsi i sessanta giorni di cui al comma 2 senza che sia intervenuta opposizione, gli atti di cui al comma 1 producono, nei confronti delle stazioni appaltanti, tutti gli effetti loro attribuiti dalla legge”. Al riguardo, parte della dottrina ritiene preferibile l’interpreazione secondo cui il subentro abbia effetto a partire dalla ricezione da parte della stazione appaltante delle comunicazioni e della documentazione sopra menzionata. Si ritiene, infatti, che nelle more del decorso dei sessanta giorni di cui sopra, “gli effetti della cessione comunque si producono, solo che essi sono risolutivamente condizionati alla mancata opposizione del committente” (CLARICH, Commentario al codice dei contratti pubblici, cit., p. 597). Secondo alcuni autori, in particolare, l’eventuale opposizione della stazione appaltante può essere assimilata alla reazione del contraente ceduto. L’art. 2558 c.c. prevede, infatti, che la cessione dell’azienda abbia effetto immediato, salva la possibilità riservata al contraente ceduto di “recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”; “giusta causa” che nel caso di specie si rinviene nell’assenza in capo al soggetto subentrante dei requisiti necessari per l’esecuzione del contratto. (SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, cit. pp. 3448 – 3449). In senso opposto si pone chi ritiene che le comunicazioni di cui al comma 1 dell’art. 116 D. Lgs. 163/2006 costituiscano “condizione necessaria ma non sufficiente al prodursi degli effetti” che dunque si producono solo al decorre del termine di sessanta giorni previsto dal comma 3 del citato art. 116 (Codice CONTENZIOSO NAZIONALE 101 dei contratti pubblici, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 1121). E’ utile rilevare, infine, che l’attuale posizione del legislatore riguardo le vicende modificative dell’impresa esecutrice è dovuta anche al fatto che i contratti in esame non sono più considerati di natura fiduciaria/personale, “ma tutt’al più negozi “a rilevanza personale”, nei quali le qualità dell’appaltatore, pur essendo prese in esame dalla stazione appaltante, non sono però determinanti per l’assegnazione dell’appalto. Il c.d. intuitus personae, infatti, sembra aver mutato di significato: “mentre nell’accezione tradizionale esso implicava l’impossibilità di trasferire a un altro soggetto l’esecuzione del contratto, oggigiorno pare emergere un’esigenza di immodificabilità del contraente riferita, tuttavia, non più alla figura di un determinato imprenditore, bensì a un determinato complesso aziendale”. Ed è proprio perché destinato a seguire il complesso aziendale che il contratto è oggi divenuto, entro certi limiti, trasferibile (SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Trattato sui contratti pubblici, cit. pp. 3449 – 3452). Concludendo, è possibile affermare che il divieto di cessione del contratto, oggi previsto dall’art. 118, comma 1, D.Lgs. 163/2006, pur ricalcando l’ormai abrogato art. 18, comma 2, L. 55/90, si inserisca in un contesto normativo che, in linea con i principi di diritto europeo e con l’art. 41 della Costituzione, si mostra più mite e tendenzialmente aperto, qualora ricorrano i presupposti richiesti dalla legge, alla sostituzione soggettiva del contraente dell’Amministrazione. Invero, il presente quadro normativo, se da un lato, esclude la cessione “diretta” del contratto ai sensi dell’art. 118, comma 1, a pena di nullità, dall’altro, consente la cessione come “effetto indiretto” di atti successori o di trasferimento che non riguardino direttamente il contratto ma l’intera azienda e ciò a garanzia degli interessi della stazione appaltante, interessi che sarebbero vanificati qualora l’aggiudicatario potesse liberamente cedere il contratto a terzi. Tale disciplina, tuttavia, è criticata da chi preme per una generale ammissibilità della cessione del contratto che, previe le necessarie verifiche dell’Amministrazione sull’idoneità e affidabilità del cessionario, oltre a prevenire i fenomeni elusivi determinati dal rigore della normativa in questione, favorirebbe una maggiore trasparenza e un maggior rispetto della normativa comunitaria e della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost.. Secondo tale dottrina, dunque, il legislatore del 2006 avrebbe perso l’occasione di rimuovere un limite che, nella forma in cui è posto, risulta ingiustificato e in contrasto con le tendenze europee (CLARICH, Commentario al codice dei contratti pubblici, cit., pp. 596 – 598). A ben vedere, però, un simile modo di argomentare non tiene conto di quelle che sono le esigenze concrete del nostro Paese, non tiene conto, cioè, della criminalità organizzata. Al riguardo, è utile ricordare che il divieto di 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 cessione del contratto d’appalto pubblico consacrato nell’art. 18, comma 2, L. 55/90 (“Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”) si inseriva nel corpo di una normativa esplicitamente indirizzata alla repressione del fenomeno mafioso e ad una più ampia prevenzione delle infiltrazioni della malavita organizzata nel tessuto imprenditoriale e finanziario del Paese. Generalizzare l’ammissibilità della cessione del contratto significherebbe, dunque, non solo dimenticare la ratio del divieto di cessione ma soprattutto lasciare ampi margini di operatività alle organizzazioni criminali che, come l’esperienza insegna, sono sempre pronte a sfruttare le possibili vie di invasione e infiltrazione dell’economia legale. Dott ssa Lucia Sara* Corte di appello di Roma, Sez. II civ., sentenza 2 dicembre 2010 n. 5101 - Pres. Rel. Sorace. (Omissis) Svolgimento del processo e motivi della decisione Con citazione del 12 giugno 1998 il Ministero della Pubblica Istruzione propose opposizione tardiva al decreto ingiuntivo con il quale il Presidente del Tribunale di Roma aveva ingiunto al 42° Circolo Didattico di pagare all’istante “S.r.l. Colosseum – La Ristorazione” (affittuaria del ramo di azienda della C.R.M. Soc. a r.l. appaltatrice della ristorazione scolastica per gli anni 1995/96 e seguenti) la somma di lire 450.837.567 ed accessori quale corrispettivo della refezione scolastica prestata dalla concessionaria dal settembre al dicembre dell’anno 1997. Nel corso del giudizio si costituì la curatela fallimentare in luogo della Soc. Colosseum, intanto dichiarata fallita, insistendo nella domanda. Intervenne in causa anche la Soc. a r.l. Bella Roma, alla quale la Soc. Colosseum aveva a sua volta ceduto il credito con atto del 15 aprile 1998 - notaio Palmieri di Roma. Il Tribunale rigettò l’opposizione. Propose appello il suddetto Ministero con atto notificato sia alla curatela del fallimento “Colosseum s.r.l.” sia alla soc. Bella Roma. Resistettero al gravame entrambi gli appellati richiedendone il rigetto; la cessionaria Soc. Bella Roma richiese, con impugnazione incidentale, che il Ministero fosse dichiarato carente di legittimazione passiva e, nel merito, che fosse accolta la sua domanda di pagamento diretto in conseguenza della cessione del credito. Con sentenza emessa il 26 novembre 2001, la Corte di appello di Roma pronunciò come segue: a) dichiarò inammissibile il gravame incidentale della Soc. Bella Roma; b) rigettò l’appello principale del Ministero che, con l’unito motivo di gravame, aveva riproposto la tesi dell’avvenuta risoluzione del contratto per le violazioni (mancato versamento dei contributi Inps – cessione del contratto di fornitura posta in essere con la fittizia cessione del ramo di azienda) addebitate alla originaria appaltatrice. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 103 Osservò sul punto la Corte che la causa aveva ad oggetto le prestazioni effettuate dalla soc. Colosseum in epoca successiva alla cessione del rapporto; che lo stesso comune di Roma, con lettera del 10 settembre 1997, aveva invitato il Circolo Didattico a proseguire il rapporto con la soc. Colosseum prendendo atto della cessione del ramo di azienda; che la controversia riguardava un contratto ad esecuzione continuata sicchè a norma dell’art. 1458 c.c., la risoluzione invocata dal Ministero avrebbe potuto riguardare soltanto le prestazioni non ancora seguite, concludendo nel senso che: “mancando un esplicito richiamo alla clausola risolutiva espressa, ed anzi essendo stato accettato il contratto di affitto di azienda, le prestazioni effettuate in proprio dalla soc. Colosseum dovevano essere pagate” e che (con argomento esplicitamente definito “ad abundantiam”) “con delibera del 16 marzo 1998 il Consiglio del Circolo, dato atto della mancata contestazione delle violazioni del contratto da parte del Comune di Roma e ritenuta regolare la refezione scolastica, aveva deciso di liquidare quanto dovuto alla soc. Colosseum per il periodo settembre/dicembre 1997”. c) infine la Corte ritenne che nessuna decisione poteva essere presa riguardo alla posizione dell'appellata soc. Bella Roma 2000, cessionaria del credito in contestazione, per la ragione che la cessione era stata oggetto di un’azione revocatoria promossa dalla curatela fallimentare. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con unico atto, il Ministero della Pubblica Istruzione, nonché il Circolo scolastico di Roma 42 in persona l’uno del Ministro l’altro del Direttore pro-tempore. Le controparti non svolsero attività difensiva. La Corte di Cassazione con la sentenza 10 maggio 2005 riconosceva fondato il motivo proposto “sotto il profilo, assorbente, dell’omessa pronuncia sulle questioni relative alla nullità (per violazione di norme imperative) del contratto ex art. 18 della legge n. 55/1990, effettivamente dedotte dal Ministero appellante all’udienza del 18 maggio 2001 (v., il verbale relativo), illustrate con la comparsa conclusionale e non disaminate dalla Corte di Appello” e cassava la sentenza impugnata rinviando alla Corte di merito per la valutazione delle questioni anzidette trascurate. Riassumeva la causa, in sede di rinvio, con le conclusioni in epigrafe il Ministero della Istruzione ed il Circolo didattico concludendo come in epigrafe. Nessuno si costituiva per i Fallimenti di cui in epigrafe. L’appello è fondato per quanto appresso indicato. La Corte di Cassazione ha in buona sostanza, cassato la sentenza di appello di questa Corte per non aver rilevato le questioni rilevabili di ufficio appresso indicate dedotte dal Ministero in appello in sede di comparsa conclusionale e riproposte in sede di legittimatà. Questa Corte, anzitutto, deve rilevare che nessuna preclusione può ritenersi operante con riguardo alle eccezioni appresso indicate nei confronti del’opponente ora riassumente, in quanto è ben noto che solo con riguardo alle eccezioni non rilevabili di ufficio può valere il principio della decadenza nei confronti dell’opponente (giurisprudenza costante); nella specie, trattandosi ad evidenza di eccezioni rilevabili di ufficio, non opera la decadenza. In più rispetto a tali questioni nessun giudicato interno è rilevabile, perché si tratta di questioni mai dedotte se non in sede di compersa conclusionale sulle quali alcun giudice si è pronunziato nel presente giudizio. In realtà, deve ritenersi che la nullità del contratto concluso con la Cooperativa Centro Ristoro mense soc. coop. r.l. dal Circolo didattico di Roma 42° per difetto di competenza di tale Circolo con riguardo alla mancanza della delegazione amministrativa in favore dello stesso Cir- 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 colo - alla stregua della giurisprudenza più recente - non sussiste. Invero, la competenza in materia di assistenza scolastica, quindi, per il servizio di refezione è attribuita alle Regioni e ai Comuni. Le leggi regionali Lazio n. 77 del 6 settembre 1975 artt. 2 e 5, e n. 29 del 30 marzo 1992 artt. 4 e 9, hanno devoluto al Comune la gestione abilitando lo stesso Comune ad affidare a terzi l’esecuzione del servizio per mezzo di convenzioni strette dallo stesso Comune. Si è, invece, nella Regione Lazio verificato, a seguito di tale normativa regionale, che il Comune ha delegato tutte le funzioni di bandire, esperire la gara, aggiudicarla e stipulare i contratti relativi al servizio mensa ai Circoli didattici rientranti nel proprio territorio. Tali Circoli didattici all’epoca di tale delega erano peraltro meri uffici periferici del Ministero della P.I. privi di ogni personalità giuridica (acquisita dai Circoli solo successivamente ex art. 14 D.P.R. n. 275/99 dal 1 settembre 2000). Deve ritenersi, come esattamente deduce la difesa erariale, che la delegazione amministrativa intersoggettiva, che si attua dal Comune ai Circoli, è , “contra legem”, importante la incapacità negazione del Circolo, in relazione alla sicura operatività dei limiti della competenza stabiliti da norme imperative (Cass. n. 5234/2000); ma è anche vero (Cass. n. 16281/03, ma soprattutto Cass. n. 9284/06) che “va affermato che l’istituto, peculiare del diritto pubblico, della delegazione amministrativa (sia nella forma interorganica, sia in quella intersoggettiva), realizza un ipotesi di conferimento da parte dell’ente (o dell’organo) in via originaria investito della competenza a provvedere in una determina materia-, del relativo poter ad altro soggetto (o organo), in virtù del quale quest’ultimo diviene, nei confronti dei terzi medesimi, unico titolare delle situazioni soggettive, attive e passive, correlate all’esercizio delle attribuzioni delegate, così rispondendo in proprio delle obbligazioni che, non rientranti nell’ambito dell’esercizio delle suddette attribuzioni, il soggetto delegato abbia comunque assunto nei confronti dei terzi. Infatti, se la delegazione amministrativa dà luogo, verso l’esterno, ad una responsabilità esclusiva del delegato, in virtù del quale restano del tutto differenti per i terzi i sottostanti rapporti delegante-delegato, deve “a priori” ritenersi che tale indifferenza comporti la validità dei rapporti instaurati tra il delegato ed i terzi, ancorché propiziati e sorti in occasione dell’espletamento delle attribuzioni anzidette”. Ne consegue che va ritenuto il contratto in questione tra Circolo didattico e la sopra indicata Cooperativa idoneo ad obbligare il Circolo rispetto al rapporto del quale con il Comune il terzo è ovviamente indifferente ignaro e quindi salvo dalle conseguenze negative che l’incompetenza del delegato per sé considerata, senza la necessaria considerazione dell’affidamento del terzo, potrebbe determinare. In più si deve osservare che la acquisita personalità giuridica del Circolo (cfr. ante) rende lo stesso (- e non il Ministero - oramai soggetto distinto rispetto al Circolo) obbligato (unico contemplato nel decreto opposto) (e quindi sicuramente il Ministero da assolvere di ogni pretesa per diversità di soggetto). Ma, a tal punto, si propone la ulteriore questione della nullità della cessione del contratto in favore della Colosseum ex art. 18, co. 2, l. n. 55/90 e art. 16, co. 3, D.lgs n. 258/92 oltre che art. 18, co. 3, D.lgs n. 157/95. Già il capitolato (art. 86) speciale per la gestione del servizio di refezione scolastica per le scuole materne, elementari e medie del Comune di Roma, richiamato dal contratto “de quo” di refezione scolastica, impegnava la CRM a non cedere l’attività ad altri soggetti; in più l’art. 18, l. n. 55/90 ha stabilito il divieto di cessione del contratto d’appalto, con previsione espressa della nullità anche nei confronti dei contraenti (l’art. 16, co. 3, D.lgs n. 358/92 prevede l’ap- CONTENZIOSO NAZIONALE 105 plicabilità ai contratti di pubbliche forniture ed in tale ambito rientra anche il servito di refezione scolastica), ma non diversa è la disciplina dove lo si considerasse un appalto di servizio ex art. 18, co. 3, l. n. 157/95. Quel che la noramtiva h inteso impedire è la fungibilità del contraente, e che ciò dipenda dall’affitto dell’azienda è del tutto irrilevante. E’, d’altra parte, resterebbe incogruamente comprensibile una disciplina che prima circonda di cautele la scelta del contraente e poi nei consentirebbe la sostituzione. Ciò posto, la Colosseum, in virtù della nullità della cessione “de quo”, non può ritenersi assolutamente aver acquisito diritto in questione “ex contractu” nei confronti del Circolo didattico, perché la cessione che gielo trasmetteva è irrimediabilmente nulla. Pertanto, deve ritenersi, alla stregua dei rilievi che precedono, per il Colosseum e, ovviamente per l’avente causa dal Colosseum, Bella Roma (la cessione tra tali soggetti non è priva d’oggetto perché al Colosseum nessun credito – per effetto della nullità della cessione del contatto di cui sopra – si era trasferito, e quindi dal Colosseum alcun diritto poteva essere ceduto), la cessione nulla “ex lege”, nulla ha a sua volta trasferito; va quindi, assolto il Circolo dalla domanda monitoria e da quella di merito nel giudizio di opposizione avanzata dal Colosseum che non ha mai acquisito il diritto vantato. Il Ministero va assolto perché, operante la normativa introduttiva della personalità giuridica per il Circolo, è ovviamente a quest’altro soggetto, contemplato dal contratto e dal decreto che le obbligazioni fatte valere in virtù del contratto fanno capo. In tale senso va riformata la gravata sentenza del Tribunale. La spese vanno compensate per tutti i gradi, tenuto conto del fatto che la problematica assorbente e stata proposta addirittura successivamente all’appello; per il primo giudizio di rinvio stante la contumacia delle parti convenute in riassunzione, i rilievi che precedono, stante l’impossibilità di compensare, comportano la declaratoria della mancanza delle condizioni per una pronuncia sulle spese. PQM La Corte giudicando in sede di rinvio, in riforma della gravata sentenza assolve il Ministero della Pubblica Istruzione ed il Circolo didattico Roma n. 42 dalla domanda monitoria e da quella proposta nella sede del giudizio di opposizione a suo tempo proposta dal Fallimento Colsseum la Ristorazione s.r.l. e per quanto occorre, da quella a suo tempo proposta dal fallimento Bella Roma 2000 srl, così accogliendo l’opposizione dell’impugnato decreto ingiuntivo, che revoca; compensa le spese di lite di tutti i gradi, eccetto che per il presene giudizio di rinvio, per il quale si dà atto che non ricorrono le condizioni per una pronuncia sulle spese. Roma, 20 maggio 2010 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 In tema di danno ambientale Legittimazione ad agire, natura dell’illecito, componenti del danno (Tribunale di Napoli, Sez. XXII pen., ordinanza del 5 novembre 2010; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. II pen., ordinanza dell’1 febbraio 2011; Corte di appello di Napoli, Sez. I civ., sentenza del 24 aprile 2008 n. 1495; Corte di appello di Napoli, Sez. I civ., sentenza del 19 gennaio 2011 n. 90) I provvedimenti in rassegna rivestono profili di particolare interesse su vari aspetti. L’ordinanza del tribunale di Napoli – Ufficio GIP del 5 novembre 2010 e l’ordinanza del tribunale di S. Maria C. V. dell’1 febbraio 2011 sono intervenute – in sede di ammissione delle costituende parti civili – in due diverse fasi di un complesso procedimento penale nel quale ai prevenuti si imputa, tra l’altro, la violazione degli aa. 256 e 260 sul D.L.vo 3 aprile 2006 n. 152. Invece la sentenza non definitiva n. 1495/2008 del 24 aprile 2008 e la sentenza definitiva n. 90/2011 del 19 gennaio 2011, entrambe della Corte di Appello di Napoli, sono intervenute in grado di appello, nel giudizio civile azionato dallo Stato contro una società assunta responsabile dell’attività di costruzione e gestione di un complesso compendio nel comune di Castelvolturno cagionante danno ambientale; la sentenza di I grado è già stata pubblicata su questa rassegna (Rass. Avv. Stato 2004, pp. 1263-1270). 1. Legittimazione ad agire In prima analisi, sia nella vigenza dell’art. 18 L. 8 luglio 1986 n. 349 che nella vigenza del cd. Codice dell’Ambiente (art. 311 del D.L.vo 3 aprile 2006 n. 152), la legittimazione ad agire viene individuata prioritariamente - tanto nelle ordinanze sopracitate quanto nella sentenza di primo grado del Tribunale di Napoli confermata sul punto in appello con le sentenze in rassegna - in capo al Ministero dell’Ambiente. Ambedue le ordinanze estendono la legittimazione anche agli enti territoriali cui è affidata la cura del territorio e dell’ambiente e alle associazioni ambientaliste. All’uopo l’ordinanza del tribunale di S. Maria C.V. precisa: “Come chiarito dalla Suprema Corte, infatti, tale costituzione è pur sempre ammissibile laddove venga lamentata la lesione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo […] che derivi dalla commissione del reato e che sia diverso dal danno ambientale. A tale conclusione si perviene dalla considerazione della dimensione plurioffensiva del danno al bene–ambiente nel quale confluiscono anche profili inerenti la persona e le formazioni sociali ove si sviluppa la personalità. Ne deriva che, quanto alla domanda di costituzione di parte civile degli enti territoriali, essa appare ben possibile laddove l’ente lamenti la lesione di interessi propri e/o espressivi delle funzioni istituzionali dello stesso, CONTENZIOSO NAZIONALE 107 diversi dal danno all’ambiente nella sua dimensione pubblicistica. Quanto alla legittimazione alla costituzione di parte civile delle associazioni ecologiste o operanti nel settore dell’ambiente, deve rilevarsi che essa, in conformità ad un orientamento oramai consolidato della Suprema Corte [...] può essere ravvisata laddove tali associazioni si atteggino ad enti esponenziali di interessi ambientali concretamente individualizzati e, cioè, di interessi collettivi legittimi e non di meri interessi diffusi. A tal fine, peraltro, il Collegio ritiene necessario individuare i criteri da seguire nella valutazione dell’interesse allegato dall’ente, onde verificare se tale situazione giuridica soggettiva sia differenziata e qualificata rispetto al mero interesse collettivo, di natura diffusa. Ebbene, seguendo ancora le indicazioni della Suprema Corte, è necessario che l’associazione abbia come fine essenziale statutario la tutela dell’ambiente, che essa sia radicata nel territorio anche attraverso sedi sociali, che sia rappresentativa di un gruppo significativo di consociati e che abbia dato prova di continuità del suo contributo a difesa del territorio […] ”. 2. Natura dell’illecito Con la sentenza non definitiva in rassegna la condotta pregiudizievole all’ambiente viene qualificata come illecito permanente, confermandosi quella del giudice di I grado. La qualificazione del tipo di illecito rileva – per il giudicante – al fine della individuazione del dies a quo in ordine alle pretese collegate alla condotta pregiudizievole per l’ambiente. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza non definitiva, sul punto enuncia: “[…] deve affermarsi che l’illecito, che provoca il danno all’ambiente, ha carattere di illecito permanente, poiché consiste nella creazione di una situazione di per sé capace di produrre continuamente ulteriore nocumento al diritto tutelato consistente nell’interesse collettivo alla conservazione, alla razionale gestione, al miglioramento, al recupero (per via naturale o grazie all’intervento umano di ripristino) ed al godimento individuale e collettivo dell’ambiente naturale (onde non si dubita del fatto che costituisce danno ambientale civilmente risarcibile anche quello derivante medio tempore dall’indisponibilità della risorsa ambientale intatta, sino a quando lo stato dei luoghi non sia stato ripristinato, le c.d. “perdite provvisorie” di cui alla direttiva 2004/35/CE […], mentre l’effetto lesivo è sostenuto nel tempo della violazione dell’obbligo di ripristinare secundum ius i luoghi che grava sull’autore, con la conseguenza che lo Stato (quale ente esponenziale della collettività lesa) da una parte può agire in ogni tempo per il ripristino […], non essendo neppure concepibile l’usucapione del diritto (che non è riconosciuto dall’ordinamento) a mantenere in atto stati di fatti dannosi per l’ambiente, e d’altra parte acquista giorno per giorno il diritto al risarcimento per equivalente della perdita consistente nel fatto che la collettività continua ad esser privata della possibilità di godere dell’ambiente nella situazione in cui si trovava prima che l’autore dell’illecito lo deteriorasse o aggiun- 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 gesse ulteriore deterioramento a quello già provocato da altri […] ”. 3. Componenti del danno Per le sopradescritte condotte nel Comune di Castelvolturno, nel I grado del giudizio, il Tribunale di Napoli aveva riconosciuto la spettanza allo Stato solo del danno patrimoniale all’ambiente e non anche del relativo danno non patrimoniale; sul punto il giudicante ritenne che, poiché il danno ambientale è frutto della lesione di un bene immateriale ed è oggetto di una liquidazione equitativa, svincolata da una concezione aritmetico-patrimoniale, nella relativa liquidazione doveva intendersi compreso anche il danno non patrimoniale, mentre doveva escludersi che lo Stato, in quanto persona giuridica, potesse aver patito un danno morale; nulla dunque poteva liquidarsi a tale titolo. L’Amm.ne sul punto ha proposto appello incidentale. All’uopo nella seconda comparsa conclusionale ha evidenziato che: “la condotta illecita della società Fontana Bleu ha determinato un danno patrimoniale (disciplinato, tra l’altro, dall’art. 2043 c.c. e dalla norma ricognitiva dell’art. 18 L. n. 349/86,(...)) ed altresì un danno non patrimoniale (art. 259 c.c.) all’ambiente. (…) In ordine al danno non patrimoniale all’ambiente si osserva quanto segue. Com’è noto, alla luce della rilettura costituzionale dell’art. 2059 c.c. (iniziata con le sentenze n. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 della Corte di Cassazione e ribadita ex multis da Cass. 14 febbraio 2006 n. 3181, Cass. 14 giugno 2007 n. 13953, Cass. 6 agosto 2007 n. 17180, Cass. 10 ottobre 2008 n. 15010) il danno non patrimoniale non coincide solo con il danno morale soggettivo: il limite dell’art. 185 c.p. non opera in caso di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti; vi è il superamento quindi della tradizionale visione dell’art. 2059 c.c. che da norma sanzionatoria, ancorata sostanzialmente alla riserva di legge penale, si trasforma in una norma tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale, tra i quali, la lesione dell’ambiente. Il danno non patrimoniale presenta quindi diverse tipologie: danno morale, danno per lesione del prestigio della P.A. e dell’ordinato svolgimento delle attività pubblicistiche; danno per il pregiudizio alla capacità di tenuta dell’ordinamento giuridico a fronte di illeciti connotati da pervasività, gravità e molteplicità. Adattando tali dati al caso ne consegue: 1) Sussiste un danno non patrimoniale. Ciò alla stregua della sopracitata rilettura costituzionale, atteso che nel caso di specie, (…) la condotta della società Fontana Bleu ha leso – in contrasto, tra l’altro, con l’art. 2043 c.c. – valori della persona costituzionalmente garantiti, protetti dagli aa. 2 ,3, 9, 32, 41 e 42 della costituzione. Quanto or rilevato trova conferma nell’orientamento in materia del giudice di legittimità il quale enuncia che: “il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell’ambiente, non presuppone che il responsabile sia condannato per danno ambientale, in quanto il danno non patrimoniale conseguente all’ingiusta lesione di un interesse costituzionalmente garantito, quale CONTENZIOSO NAZIONALE 109 è l’ambiente, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. e non presuppone pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, in tema di diritti inviolabili relativi alla persona aventi natura economica” (Cass. 10 ottobre 2008 n. 25010. 2) Il danno consiste nel danno morale (quale effetto lesivo costituito dal discredito subito dallo Stato in conseguenza dell’attività illecita posta in essere dalla Fontana Bleu), nella grave perdita di prestigio e nel grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica dello Stato, nella lesione dell’ordinato svolgimento dell’attività pubblicistica, nel pregiudizio della capacità di tenuta dell’ordinamento giuridico a fronte degli illeciti commessi della società Fontana Bleu. Nella condotta dell’appellante Soc. Fontana Bleu, sussistono gli estremi dell’illecito cagionante danno non patrimoniale, danno morale; tale danno consiste nelle conseguenze – or descritte al numero 2 – del pregiudizio ad un interesse meritevole di tutela (quale è l’ambiente) non suscettibile di esatta e precisa quantificazione ma pur tuttavia suscettibile – in base a criteri di valutazione socialmente tipici (stimolanti il potere del giudice ex aa. 1226 e 1056 c.c.) – di essere determinato in un certo ammontare. Pregiudizio all’evidenza, distinto dal danno patrimoniale all’ambiente come comprovato dal fatto che i tre criteri ex art. 18 L. n. 349/86 (spese di ripristino, profitto conseguito e gravità della colpa) non sono idonei a ristorarlo. I menzionati tre criteri di determinazione del danno connotano il danno come patrimoniale ancorché disciplinato con elementi specializzanti. Dai tre criteri si evince che – nella sostanza – vi è la disciplina di un ristoro per equivalente del pregiudizio arrecato all’ambiente con l’aggiunta – con caratterizzazione vagamente pubblicistica – di una penalità. Difatti: a) La spesa per la rimessione in pristino costituisce una tipica individuazione del quantum del danno patrimoniale per equivalente; b) Anche l’entità del profitto conseguito è da ricondurre nell’alveo della determinazione del danno patrimoniale. Il legislatore ha tipizzato, per il danno ambientale, il ristoro dell’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto affermato – in linea generale – in dottrina da un autorevole autore (R. SACCO. L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto, UTET, 1959). Il legislatore con una propria determinazione politica ha imposto il ristoro di tale pregiudizio – del quale si discute in linea generale – da ricondurre al danno patrimoniale: All’uopo R. SACCO op. cit. pag. 3 evidenzia “Si osservi ancora che il problema della restituzione dell’arricchimento non ha nulla a vedere con il problema del risarcimento dei danni morali, né dei danni valutati in termini di ofelimità soggettiva […]. Ma il danno morale non va confuso con l’arricchimento. A tacer d’altro, il danno morale non varia con il variare dell’arricchimento dell’autore della lesione”; c) La gravità della colpa individuale non è che una penale sui generis ex aa. 1382-1384 c.c. IL QUAN- 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 TUM ritraibile da una clausola penale ha la funzione di ristorare un danno patrimoniale, come pacificamente evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, anche quando manchi la prova del danno (art. 1382 co.2 c.c.) o in concreto non si sia verificato quel danno ex ante determinato nella clausola (arg. ex art. 1382 co.1 c.c.). Come detto sopra il ristoro del danno patrimoniale all’ambiente è nettamente distinto dal ristoro danno non patrimoniale […]. All’evidenza nei consociati è germinato un senso di sfiducia nelle Istituzioni: in contrasto con svariate norme è stata costruita e gestita una città abusiva. La condotta illecita della Fontana Bleu ha determinato, per decenni, la percezione nei consociati dell’impotenza delle varie Amministrazioni Pubbliche competenti nella materia. Ossia si è generato un danno non patrimoniale del tutto distinto, autonomo, da quello patrimoniale e non assorbibile in quest’ultimo. Nel caso di specie la lesione del bene ambiente ha, come detto, fatto germinare un danno patrimoniale (precisato, tra l’altro, dall’art. 2043 c.c. e con la norma ricognitiva dell’art. 18 L. n. 349/86) ed altresì un danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Con il danno patrimoniale vi è il ristoro del pregiudizio patrimoniale per la lesione all’ambiente in sé considerato applicando – per la quantificazione – i tre criteri delineati dal legislatore nell’art. 18 n. 349/86. Con il danno non patrimoniale vi è il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione dell’ambiente”. La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza definitiva in rassegna, ha riconosciuto – in accoglimento della prospettazione dell’Amministrazione – la spettanza anche del danno non patrimoniale per lesione dell’ambiente. Avv. Michele Gerardo* Tribunale di Napoli, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Sezione XXII, ordinanza del 5 novembre 2010. Il GUP Dott. Pietro Carola sciogliendo la riserva sull’ammissione delle parti offese o danneggiate che hanno chiesto di costituirsi parte civile all’udienza del 22 settembre 2010; sentiti il PM e i difensori degli imputati osserva quanto segue. Il Ministero dell’Ambiente è individuato dall’art. 311 del D.L.vo 12 luglio 2006 n. 152 come unico legittimato a esercitare l’azione civile in sede penale per il risarcimento del danno ambientale. La Suprema Corte, nonostante questa riserva, ha però più volte ribadito la legittimazione degli enti territoriali cui è affidata la cura del territorio e dell’ambiente. Ciò premesso, il Ministero dell’Ambiente è senz’altro legittimato a costituirsi parte civile nei confronti di D.R.F. e B.S. La Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Comune di Napoli sono legittimati a costituirsi (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 parte civile contro D.R.F. e B.S.; la prima perchè ha gestito, attraverso il commissario straordinario, la fase dell’emergenza rifiuti nella regione Campania; il secondo perché è uno degli enti territoriali cui è affidata la tutela dell’ambiente e del territorio. (...) P.Q.M. Ammette la costituzione di parte civile del Ministero dell’Ambiente, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Comune di Napoli nei confronti di D.R.F. e B.S.; (...) Napoli 5 novembre 2010 Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Seconda Sezione Penale, ordinanza del 1° febbraio 2011 - Pres. L. Picardi. (Omissis) OSSERVA Ai fini della valutazione dell’ammissibilità delle dichiarazioni di costituzione di parte civile occorre brevemente ricordare, in questa sede, che essa richiede all’organo giudicante esclusivamente un vaglio preliminare in ordine ai requisiti formali della costituzione e alla sussistenza della legittimazione all’azione. Resta, invero, rimessa all’esito dell’istruttoria dibattimentale ogni valutazione nel merito inerente la fondatezza della domanda civile. Tanto premesso, occorre rilevare, in punto di regolarità formale degli atti di costituzione delle indicate pp.oo., che non emergono profili di inammissibilità nè, peraltro, sono state sollevate eccezioni a riguardo. Quanto alla valutazione della legittimazione sostanziale alla domanda civile, occorre ricordare che la costituzione di parte civile nel processo penale è consentita sia alla persona offesa dal reato (quale titolare del bene-interesse protetto dalla norma) sia a chiunque assuma la qualità di danneggiato dal reato e, dunque, a colui che alleghi (e poi dimostri) un danno derivante dalla condotta del soggetto agente. Con riguardo specifico alla domanda di risarcimento del danno ambientale, deve rilevarsi che essa compete esclusivamente al Ministero dell’Ambiente ex art. 311 D.Lvo 152/06. Ciò non vale, di per sé, a rendere inammissibile la dichiarazione di costituzione di parte civile né degli enti territoriali né delle associazioni ambientaliste, ma impone di valutare in concreto la domanda formulata. Come chiarito dalla Suprema Corte, infatti, tale costituzione è pur sempre ammissibile laddove venga lamentata la lesione di un diritto soggettivo o di un intesse legittimo (quest’ultimo risarcibile secondo il principio oramai consolidato e affermato dalle SS.UU. con la nota sentenza n. 500/99) che derivi dalla commissione del reato e che sia diverso dal danno ambientale. A tale conclusione si perviene dalla considerazione della dimensione plurioffensiva del danno al bene-ambiente nel quale confluiscono anche profili inerenti la persona e le formazioni sociali ove si sviluppa la personalità. Ne deriva che, quanto alla domanda di costituzione di parte civile degli enti territoriali, essa appare ben possibile laddove l’ente lamenti la lesione di interessi propri e/o espressivi delle funzioni istituzionali dello stesso, diversi dal danno all’ambiente nella sua dimensione pubblicistica. Quanto alla legittimazione alla costituzione di parte civile delle associazioni ecologiche operanti nel settore dell’ambiente, deve rilevarsi che essa, in conformità ad un orientamento ormai con- 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 solidato della Suprema Corte (e non smetito dalla recente pronuncia resa in data 22 novembre 2010 dalla Cassazione Penale Sezione III n. 41015 invocata dalla difesa di F.), può esser ravvisata laddove tali associazioni si atteggino ad enti esponenziali di interessi ambientali concretamente individualizzati e, cioè, di interessi collettivi legittimi e non di meri interessi diffusi. A tale fine, peraltro, il Collegio ritiene necessario individuare i criteri da seguire nella valutazione dell’interesse allegato dall’ente, onde verificare se tale situazione giuridica soggettiva sia differenziata e qualificata rispetto al mero interesse collettivo, di natura diffusa. Ebbene, seguendo ancora le indicazioni della Suprema Corte, è necessario che l’associazione abbia come fine essenziale statutario la tutela dell’ambiente, che essa sia radicata nel territorio anche attraverso sedi sociali, che sia rappresentativa di un gruppo significativo di consociati e che abbia dato prova di continuità del suo contributo a difesa del territorio (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14828 dell’11 febbraio 2010, nonché ex plurimis Sezione terza sentenza 33887/2006). Così delineati i criteri seguiti dal Collegio nella valutazione dell’ammissibilità della domanda di parte civile, verranno ora valutate le singole domande di costituzione di parte civile e di seguito quelle di esclusione delle parti civili già costituite. 1. La domanda della Regione Campania La Regione Campania ha dichiarato di costituirsi parte civile nei confronti di tutti gli imputati, per tutti i reati loro ascritti, chiedendo il risarcimento di danni patrimoniali e non, sia in prorpio sia quale ente esponenziale di interessi della collettività regionale, con riguardo a danni patrimoniali e morali, genericamente indicati. A tale fine ha lamentato la lesione all’immagine, all’ambiente, alle funzioni istituzionali in materia di rifiuti e di promozione e sviluppo di vari settori dell’economia (beni di cui la regione è titolare in proprio) nonché, quale ente esponenziale, la lesione del diritto alla libera iniziativa economica dei cittadini campani. Tale domanda deve ritenersi ammissibile, facedono riferimento alla lesione di situazioni soggettive direttamente riconducibili alle funzioni istituzionali del suddetto ente, sia alla personalità e all’immagine dello stesso, solo in relazione ai reati di cui ai capi da b1) e b7), nei confronti dei soggetti cui sono rispettivamente imputate le condotte. (...) 2. La domanda presentate dall’Avvocatura dello Stato nell’interese della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare,.... Con riguardo alle richieste di costituzione di parte civile in esame si osserva quanto segue. Per il reato di cui al capo b1) (art. 260 D.Lgs 152/06 e art. 7 L. 203/91) è stato allegato, dal Ministero dell’Ambiente il danno all’ambiente e territorio e dalla P.C.M. il pregiudizio al corretto svolgimento della attività straordinaria diretta al superamento della emergenza rifiuti in Campania. Le domande sopra indicate vanno ammesse essendo configurabile una lesione diretta agli interessi prospettati. Sul punto, si richiama quanto già osservato in linea generale in tema di danno ambientale. Quanto, invece, alla tutela della attività straordinaria diretta al superamento della emergenza rifiuti in Campania, si evidenzia come a seguito della costituzione del sodalizio criminoso possano astrattamente derivare lesioni, anche di natura patrimoniale alla funzione di corretto svolgimento dell’attività straordinaria diretta al superamento della emergenza rifiuti in Campania, di cui lo Stato è titolare in persona della P.C.M. Tale ultime considerazioni fondano un giudizio di ammissibilità per tutti gli illeciti di cui al D.Lgs 152/06 per i quali il Ministero dell’Ambiente ha proposto domanda (b1), b5) e b7)). (...) CONTENZIOSO NAZIONALE 113 3. La domanda del Comune di Napoli Il Comune di Napoli ha presentato domanda di costituzione di parte civile in ordine ai reati di cui ai capi b3) (art. 323 c.p. commesso in Napoli) e b4) (640 comma 2 c.p. commesso in Napoli), nei confronti di tutti gli imputati, lamentando danni non patrimoniali per lesioni all’immagine ed all’identità morale, nonché un eventuale danno ambientale, se emergente in corso di istruttoria. In primo luogo è inammissibile la domanda concernente un eventuale danno ambientale in quanto generica e riferita ad un danno futuro ed incerto. Quanto al resto, ritiene il collegio che, pur non essendo il Comune titolare dei beni giuridici tutelati in via diretta dalle fattispecie in esame, sia comunque astrattamente configurabile un danno derivato all’immagine ed all’identità dell’ente. Infatti, le condotte in contestazione appaiono commesse nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso concernente una più complessa vicenda di stabile gestione illecita di rifiuti nell’ambito della Regione Campania, di cui il comune istante è capoluogo. 4. La domanda del Comune di Capodrise Il Comune di Capodrise ha presentato domanda di costituzione di parte civile in ordine ai reati di cui ai capi b1), b7) (artt. 256 – 260 D.Lgs 152/06) … In relazione alle condotte di cui ai capi b1) e b7) appare astrattamente configurabile il danno lamentato e consistente nel mancato recupero dei siti del territorio comunale che avrebbe dovuto esser effettuato per conto della Regione. (...) 5. La domanda del Comune di San Marco Evangelista Il Comune di San Marco Evnagelista ha presentato domanda di costituzione di parte civile in ordine ai reati di cui ai capi da b1) a b7) (artt. 256 – 260 D.Lgs 152/06) (...) In relazione alle condotte di cui ai capi da b1) e b7) appare astrattamente configurabile il danno lamentato e consistente nell’alterazione dell’attività di gestione dei rifiuti nell’ambito del territorio comunale, trattandosi di ipotesi tutte riconducibili e strumentali all’attuazione di un medesimo disegno criminoso. (...) 6. La domanda di Legambiente Campania Legambiente Campania ha dichiarato di costituirsi parte civile nei confronti di tutti gli imputati per tutti i reati loro ascritti, lamentando un danno ai propri interessi statutari quali la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, come conseguenza della costituzione di un’associazione finalizzata alla commissione di illeciti in materia ambientale e dell’illecita attività di trasporto dei rifiuti. Si premette che le situazione giuridiche vantate rientrano nelle finalità statutarie dell’ente. Inoltre, le stesse presentano una valenza autonoma e differenziata in relazione alle ipotesi in esame, essendo l’ente radicato nel territorio in oggetto (anche attraverso sedi sociali), rappresentativo di un gruppo significativo di consociati ed avendo fornito un contributo con carattere di continuità nell’ambito del medesimo territorio (cfr. al riguardo la domanda di costituzione di parte civile e gli allegati). Tale domanda deve ritenersi ammissibile, facendo riferimento alla lesione di situazioni soggettive direttamente riconducibili alle funzioni statutarie del suddetto ente, solo in relazione ai reati di cui ai capi da b1) e b7), nei confronti dei soggetti cui sono rispettivamente imputate le condotte. Invero, la costituzione di un’organizzazione di cui all’art. 416 bis c.p., al fine di commettere reati nella gestione abusiva di rifiuti, radicatasi in vari comuni del territorio della Regione, nonché varie condotte, anche lesive di beni giuridici diversi, commesse nell’ambito del me- 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 desimo disegno criminoso, sono fattispecie di per sé astrattamente idonee a danneggiare i suddetti interessi, di cui la Legambiente Campania, è portatrice in proprio. Per il resto, invece, la domanda è inammissibile perché generica e priva della allegazione di un danno diretto. 7. La domanda delle associazioni ambientaliste L.I.D.A. e A.N.P.A.N.A. Le associazione L.I.D.A. e A.N.P.A.N.A. hanno presentato domanda di costituzione di parte civile in relazione a tutti i capi oggetto di contestazione nei confronti di tutti gli imputati lamentando un pregiudizio alle proprie finalità statutarie (tutela dell’ambiente e protezione dell’ecosistema) e, per tal via, alla propria personalità. Sul punto, si richiamano le considerazione già svolte in generale in ordine ai presupposti richiesti per la costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche (come enucleati dal consolidato orientamento della Suprema Corte, sopra riportato). Tanto premesso, deve evidenziarsi che le associazioni in oggetto non hanno dimostrato di essere portatrici di una automa posizione soggettiva, distinta dall’interesse diffuso alla tutela dell’ambiente. In particolare, le stesse non hanno fornito prova di un collegamento con il territorio della regione Campania, né hanno fornito prova di essere rappresentative di un gruppo significativo di consociati campani, né di aver contribuito con carattere di continuità nell’ambito del medesimo territorio. Pertanto appaiono inammissibile le esaminate domande di costituzione di parte civile. (...) P.Q.M. Ammette alla costituzione di parte civile e dispone l’esclusione delle parti civili costituite nei termini indicati in parte motiva (...) Santa Maria Capua Vetere, 1 febbraio 2011 Corte di appello di Napoli, Sez. I civ., sentenza 24 aprile 2008 n. 1495 - Pres. M. Gallo, Rel. G. de Donato - Fontana Bleu S.p.A. (avv. G. Olivieri) c. Ministero dell’Ambiente, Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. Stato M. Gerardo) ed altri. Sent. Trib. Napoli n. 11235/04. (Omissis) Svolgimento del processo 1. Con citazione notificata il 15 settembre 1999 il Ministero dell’Ambiente e la Presidenza del Consiglio dei Ministri esposero che la Fontana Bleu S.p.a. aveva realizzato e gestito dal 1981 in poi un’ampia serie di complessi immobiliari fabbricati abusivamente sulle p.lle 2 e 3 del foglio 49 del Comune di Castelvolturno, località Pinetamare, invadendo ed occupando in modo arbitrario vaste estensioni di terreni appartenenti ad demanio forestale e costruendo numerosi edifici (analiticamente descritti ed individuati) destinati a civili abitazioni, ad attività commerciali, alberghiere, scolastiche e di culto, nonché a parcheggio, il tutto con relativo sbancamento di suolo e sottosuolo, formazione di rilevati e cumuli temporanei, realizzazione di strade ed opere permanenti, deviazione di corsi d’acqua, interramento di corsi idrici, realizzazione di scarichi idrici, uso di mezzi ed utilizzazione di materiale proveniente da cave. Aggiunsero che quell’area, oltre ad essere demaniale e quindi inalienabile ed indisponibile, in virtù dei D.M. 19 maggio 1965 era sottoposta a vincolo ai sensi della legge n. 1497/39 ed inoltre era vincolata ai sensi della legge n. 431/85, che gli immobili costruiti erano stati adibiti CONTENZIOSO NAZIONALE 115 a civili abitazioni in mancanza delle prescritte licenze d’abitabilità, che l’attività alberghiera, che comportava il confezionamento di sostanze alimentari, era stata esercitata in difetto dell’autorizzazione richiesta dalla legge n. 283/62, che era stato anche violato il D.M. 13 luglio 1977, che aveva classificato quel territorio come riserva naturale dello Stato. Tutto ciò aveva irrimediabilmente compromesso l’ambiente marino e terrestre, danneggiando le specie naturali ivi esistenti, modificando l’habitat preesistente, artificializzando il paesaggio naturale, aumentando la criticità degli ecosistemi, sconvolgendo l’idrografia superficiale e determinando la produzione di r.s.u. Chiesero, pertanto che la società convenuta fosse condanna al ripristino dello stato dei luoghi e, ove ciò non fosse stato possibile al risarcimento dei danni patrimoniali, da liquidare tenendo conto delle spese necessarie per il ripristino (esposte per £ 14.700.000.000), del profitto conseguito dalla convenuta (esposto in £ 30.500.000.000) e di un’aliquota aggiuntiva commisurata al turbamento dell’ambiente (esposta in £ 14.700.000.000), per un importo complessivo di £ 60.000.000.000 (€ 30.987.413,94), nonché al risarcimento dei danni non patrimoniali da liquidare equitativamente in altre £ 60.000.000.000 (€ 30.987.413,94); il tutto oltre interessi rivalutazione monetaria e spese di giudizio. La società convenuta si costituì, chiedendo il rigetto della domanda. Dedusse, in particolare che, essendosi costituita il 5 agosto 1981, non poteva rispondere dei danni ambientali prodotti da attivatà svolte in precedenza da altri soggetti; che era ancora in contestazione innanzi al Tribunale di Napoli la titolarità dei terreni, che si assumeva essa avesse occupato abusivamente; che molti degli immobili realizzati erano stati venduti a terzi, che erano contraddittori necessari riguardo alla domanda di riduzione in pristino, mentre altri erano stati dati in locazione al Comune di Castelvolturno, che li aveva adibiti a scuole; che le leggi n. 177/92 e 579/93, prevedendo specificatamente per quel comprensorio una procedura di regolarizzazione degli interventi abusivi, mediante trasferimento dei beni al Comune e poi da questo agli attuali utilizzatori, escludevano l’antigiuridicità dell’edificazione e quindi rendevano non configurabile il danno ambientale; che la risarcibilità del danno ambientale era stata introdotta nel nostro ordinamento solo dalla legge n. 349//85, onde l’opera di edificazione ascrittale, conclusasi entro il 1983, non era sanzionabile, posto che gli interventi operati in realtà avevano bonificato una zona in precedenza acquitrinosa e paludosa, migliorandone l’assetto ambientale; che tutte le costruzioni erano state realizzate in base a regolari concessioni edilizie, mentre alcune di esse erano state requisite per dare ospitabilità ai cittadini di Pozzuoli in occasione del fenomeno del bradisismo, onde erano state destinate a scopi di pubblica utilità; che già prima dell’esecuzione delle opere indicate in citazione sul litorale esistevano lidi balneari regolarmente autorizzati, onde dovevano già esistere le strade d’accesso e gli impianti idrici e fognari; che, essendo state completate le opere nel 1983, le amministrazioni invocavano senza fondamento la legge n. 431/85, entrata in vigore dopo i fatti; che, per lo stesso motivo, il diritto al risarcimento dei danni era ampiamente prescritto, trattandosi di illecito istantaneo con effetti permanenti e comunque di illecito permanente la cui consumazione era cessata con il completamento delle opere; che in ogni caso non poteva non riconoscersi un contributo causale nella determinazione del danno da parte delle varie amministrazioni, che avevano autorizzato le costruzioni, le avevano utilizzate e con condotta omissiva rispetto all’attività di repressione, che ad esse spettavano, non avevano impedito che l’evento dannoso si realizzasse; onde queste dovevano risponderne almeno per la metà. Chiese pertanto il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti. Chiese, inoltre, ed ottenne di chiamare in causa il Comune di Castelvolturno, il Comune di Pozzuoli, il Sindaco di Poz- 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zuoli nella sua veste di Commissario Straordinario del Ministero per la Protezione Civile per l’emergenza del bradisismo, il Ministero per la Protezione Civile, il Ministero dell'Interno ed il Ministero della Marina Mercantile, affinché fosse accertato il loro contributo alla determinazione del danno ambientale o, in via subordinata, affinché fossero condannati, in via solidale o secondo le singole responsabilità, a rivalersi di quanto essa fosse costretta a pagare alle amministrazioni attrici, in misura pari almeno al 50%. I chiamati in causa, ad eccezione del Sindaco di Pozzuoli nella ricordata veste, si costituirono chiedendo il rigetto delle domande proposte nei loro confronti. Intervenne in causa, sposando le tesi delle amministrazioni attrici, il WWF Italia. La causa subì diversi rinvii per la pendenza di trattative, sino a quando le amministrazioni attrici con la memoria di cui all’art. 183, u.c., c.p.c. dedussero che si era pervenuti ad un accordo transattivo sottoscritto il 18 giugno 2002, con il quale era stata definita ogni controversia relativa alla proprietà ed al possesso delle aree oggetto di causa, col riconoscimento che alcune delle opere realizzate, da non demolire, erano acquisite al patrimonio dello Stato, mentre erano rimasti esclusi dall’accordo i profili di carattere edilizio, urbanistico, paesaggistico ed ambientale. Pertanto esse modificarono le conclusioni della citazione, nel senso di rinunziare alla domanda di riduzione in pristino e di insistere in quella di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali nella misura già indicata in citazione. La convenuta eccepì che si trattava di domanda nuova e chiese, invece che si dichiarasse cessata la materia del contendere, poiché la transazione aveva posto fine al contenzioso relativo al danno ambientale. 2. Istruita la causa mediante la produzione di documenti, il Tribunale di Napoli con sentenza n. 11235/2004, pubblicata il 3 novembre 2004, accolse la domanda di risarcimento dei danni proposta dal Ministero dell’Ambiente e condannò la convenuta al pagamento in suo favore di € 30.000.000,00 oltre gli interessi al tasso legale dalla pubblicazione della sentenza al saldo; respinse, per difetto di legittimazione attiva, la domanda proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri; respinse le domande proposte dalla convenuta nei confronti dei chiamati in causa; regolò le spese secondo il principio di soccombenza. Il primo giudice ritenne, in estrema sintesi e per ciò che ancora qui rileva che: a) rinunziando alla domanda di riduzione in pristino e mantenendo ferme quelle di risarcimento, le amministrazioni attrici non avevano compiuto una mutatio libelli, ma solo una consentita emendatio, poiché, pur avendo reso principale quella di risarcimento del danno patrimoniale, che originariamente era stata proposta in via subordinata, per il caso che la riduzione in pristino non fosse possibile, esse non avevano modificato la causa petendi né il petitum; b) non era cessata la materia del contendere, poiché la lettera del protocollo d’intesa era ben chiara nel senso che la transazione non riguadava i profili ambientali e paesaggistici del contenzioso in atto; c) pur emergendo dagli atti che parte delle opere indicate in citazione risaliva ad epoca anteriore alla costituzione della Fontana Bleu S.p.a. (1981), tuttavia lo stesso protocollo d’intesa confermava che vi era partecipazione di tale società all’edificazioen ed era pacifico che essa era in seguito divenuta proprietaria di tutte le opere ed aveva poi rinvenduto a terzi gran parte delle unità abitative ed utilizzato direttamente le altre per l’attività alberghiera, sicchè, oltre ad aver partecipato alla attività edificatoria successiva al 1981, essa aveva fruito della precedente edificazione per trarne profitti economici e già ciò era sufficiente a costituire condotta lesiva dell’ambiente, posto che il danno ambientale si identifica anche nella lesione dell’interesse della collettività alla conservazione, alla razionale gestione ed al miglioramento delle risorse ambientali (C. cost. n. 210/87), mentre lo sfruttamento economico di opere incidenti sull’ambiente impedisce che simili interessi possano essere perseguiti; d) pertanto, la conve- CONTENZIOSO NAZIONALE 117 nuta ben poteva rispondere dell’intero danno ambientale, che aveva concorso a provocare insieme alle altre società del gruppo Coppola, come corresponsabile solidale; e) era chiara la sussistenza del danno ambientale, posto che lì dove vi era vegetazione sino al lido del mare, con zone umide che facevano parte dell’habitat e ne costituivano una caratteristica soggetta a protezione da parte dell’autorità preposta, ora sorgeva un contesto urbano totalmente antropizzato; f) tale trasformazione era stata realizzata (come richiede il primo comma dell’art. 18 della legge n. 349/86) mediante violazione colposa di una serie di norme di ordine generale (art. 822 c.c.; legge n. 765/67; legge n. 10/70; legge n. 47/85; art. 221 r.d. n. 1265/34; art. 2 legge n. 283/62) o poste a protezione dell’ambiente (legge n. 1497/39; D.M. 19 maggio 1965; D.M. 13 luglio 1977; leggi sugli scarichi di acque reflue); g) l’art. 18 della legge n. 349/86 ha funzione solo ricognitiva della tutela, anche risarcitoria, che il nostro ordinamento già riconosceva all’ambiente, onde anche le condotte precedenti a tale legge sono sanzionabili; per di più la condotta illecita si è protratta, nella forma della gestione delle opere esistenti, ben oltre il 1986; h) il diritto al risarcimento del danno non era prescritto, poiché si tratta di illecito permanente, che si protrae sino a quanto non si opera la riduzione in pristino dell’ambiente danneggiato; i) il danno poteva essere liquidato in base ai dati dettagliatamente esposti dalle attrici, che poi erano stati oggetto di specifiche contestazioni, mentre non era congrua la richiesta della convenuta di procedere alla liquidazione in base ai criteri fissati dal D.M. 26 settembre 1997, che riguardano la determinazione delle indennità sanzionatorie da applicare ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497/39 e cioè sanzioni amministrative ben diverse dal risarcimento dei danni; andavano perciò liquidate £ 14.700.000.000 per le spese di ripristino e £ 30.500.000.000 per il profitto ricavato dalla vendita delle unità abitative e dalla gestione dell’attività alberghiera, per un totale di £ 45.200.000.000 pari ad € 23.343.851,83 da incrementare poi sino alla somma di € 30.000.000,00 in considerazione della gravità del comportamento colposto dell’agente; l) tale importo non poteva essere decurtato del valore degli immobili ceduti allo Stato in virtù del protocollo d’intesa del 18 giugno 2002, poiché tale trasferimento costituiva una delle reciproche concessioni che le parti si erano fatte per definire le controversie relative alla proprietà ed al possesso delle aree controverse e non poteva esser considerato ai fini del danno ambientale, escluso dalla transazione; m) poiché il danno ambientale è frutto delle lesioni di un bene immateriale ed è oggetto di una liquidazione equitativa svincolata da una concezione aritemetico – patrimoniale, nella relativa liquidazione doveva intedersi compreso anche il danno non patrimoniale, mentre doveva escludersi che lo Stato, in quanto persona giuridica, potesse aver patito un danno morale; nulla dunque poteva liquidarsi a tale titolo; n) le domande proposte dalla convenuta e dai chiamati in causa non erano fondate, giacchè il Ministero dell’Interno e della Marina non erano proprietari dei beni occupati, né erano titolari di poteri repressivi riguardo agli illeciti commessi; il Ministero per la Protezione Civile si era limitato (tramite il Commissario Straordinario) alla semplice utilizzazione di alcuni dei beni realizzati dalla società convenuta ed aveva compiuto interventi legittimi attuati anche in virtù dei poteri di deroga all’ordinamento vigente di cui era investito per affrontare l’emergenza creata dal bradisismo; al Comune di Pozzuoli non erano imputabili gli atti posti in essere dal suo sindaco in veste di commissario straordinario; il comune di Castelvolturno aveva esercitato in varie occasioni i suoi poteri repressivi ed in ogni caso il regresso nei suoi confronti costituiva una forma di abuso di diritto, tendente a scaricare su altri le conseguenze dell’illecito posto in essere dalla convenuta. 3. Contro tale sentenza, non notificata, la Fontana Bleu S.p.a. ha proposto appello con atto tempestivamente notificato il 22 e 23 dicembre 2004, con il quale ha chiesto la dichiarazione 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 di nullità della sentenza impugnata, e, nel merito, il rigetto delle avverse domande, deducendo che: (...) D) il primo giudice è incorso in vizio di ultrapetizione, poiché le amministrazioni attrici hanno posto a fondamento della domanda il fatto che la Fontata Bleu S.p.a. aveva posto in essere da sola (e quindi come unica responsabile) dal 1981 in poi le attività di realizzazione e gestione delle opere abusive, da cui era derivato il danno ambientale, e solo in comparsa conclusionale hanno affacciato il tema della responsabilità solidale, per aver concorso a produrre il danno in parola insieme alle altre società del gruppo Coppola, che a partire dagli anni ’60 avevano operato in zona, mentre egli ha fondato la dichiarazione di responsabilità su quest’ultimo tema d’indagine, che era estraneo all’originaria formulazione della domanda. E) il Tribunale ha errato nel ritenere che il nostro ordinamento riconoscesse tutela risaricitoria per il danno ambientale anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 18 della legge n. 349/86, poiché così ragionando si riduce tale norma ad una scatola vuola con funzione meramente ricognitiva, mentre essa ha introdotto il concetto di ambiente come bene immateriale avente autonoma rilevanza; pertanto, non avrebbe dovuto limitarsi ad assimilare l’azione proposta a quella ex art. 2043 c.c. ed avrebbe dovuto accertare non se vi era stata lesione dei singoli beni, ma se vi era stata compromissione dell’ambiente nel suo complesso considerato; tale indagine sarebbe del tutto mancata. F) l’identificazione tra danno patrimoniale all’ambiente e quello risarcibile ex art. 2043 c.c. ha indotto, inoltre il Tribunale a non considerare che sarebbe stato necessario individuare i danni patrimoniali all’ambiente e distinguerli da quelli derivanti dall’occupazione di terreni demaniali, che sono stati considerati e definiti in sede transattiva. G) il rigetto dell’eccezione di prescrizione è errato, poiché l’illecito per il quale si procede è un illecito istantaneo con effetti permanenti, posto che il comportamento contra ius dell’agente si esaurisce con il verificarsi dell’evento dannoso, anche se questo poi protrae autonomamente nel tempo i propri effetti lesivi, senza che tale protrarsi sia sostenuto dal proseguire della condotta lesiva; pertanto cessata l’attivià di edificazione che ha modificato l’ambiente, l’illecito si è consumato ed il termine di prescrizione ha cominciato a decorrere, mentre l’attività di gestione delle opere realizzate (vendita degli immobili ed esercizio dell’attività alberghiera), al contrario di quanto affermato dal Tribunale, non è idonea a produrre danno all’ambiente, né, comunque, l’amministrazione ha provato che in concreto abbia prodotto danni. H) anche a voler ritenere che si tratti di illecito permanente, il Tribunale non ha tenuto conto del fatto che la relativa prescrizione decorre giorno per giorno dalla data di inizio dell’illecito e non da quella della sua cessazione, onde quanto meno andava riconosciuta la prescrizione di tutti i danni maturati in epoca più remota del quinquennio anteriore alla proprosizione della domanda (prima cioè del 15 settembre 1994). (...) Il Ministero dell’Ambiente e la Presidenza del Consiglio dei Ministeri si sono costituiti, chiedendo il rigetto del gravame e proponendo appello incidentale, con il quale hanno chiesto che: a) la liquidazione del danno patrimoniale all’ambiente sia rapportata a quanto richiesto (€ 30.987.413,94), non giustificandosi l’arrotondamento operato dal Tribunale dopo aver dichiarato che potevano assumersi in decisione i dati esposti dalle attrici; b) siano riconosciuti interessi e rivalutazione monetaria degli illeciti, negati senza motivo dal primo giudice; c) sia liquidato anche il danno non patrimoniale all’ambiente, posto che la condotta della Fontana Bleu S.p.a. ha certamente leso interessi non patrimoniali dello Stato diversi da quelli considerati ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, come quelli al prestigio, al decoro, alla considerazione ed alla capacità di tenuta dell’ordinamento a fronte delle condotte illecite di alcuni consociati (...) CONTENZIOSO NAZIONALE 119 Motivi della decisione (...) 4. Con il quarto motivo di gravame l’appellante principale deduce il vizio di extrapetizione riguardo a quel passo della impugnata sentenza nel quale si assume che il fatto che parte dell’attività di edificazione sull’area oggetto di giudizio sia avvenuta in epoca anteriore al 1981 ed è irrilevante poiché la Fontana Bleu S.p.a., avendo contrihutio con la condotta (edificazione successive alla sua costituzione, vendita delle unità immobiliari realizzate dalle altre società del gruppo Coppola, che le erano state trasferite, esercizio dell’attività alberghiera) alla produzione del danno, risponde in solido con gli altri soggetti che hanno in precedenza deteriorato l’ambiente per l’intero danno a questo arrecato. Tale deduzione è fondata, anche se non comporta il rigetto integrale della domanda, ma solo una più ridotta definizione dei danni di cui l’appellante è stata chiamata a rispondere. Ai sensi dell’art. 112 c.p.c. il giudice non deve pronunciare oltre i limiti della domanda e, poiché, com’è noto, la domanda, è individuata da tre elementi strutturali (personae, petitum e causa petendi), tale principio implica, per quel che qui interessa, che il giudice non può pronunziarsi su di una causa petendi diversa o più ampia di quella dedotta dall’attore. Questa si identifica con il titolo giustificativo dell’istanza di tutela rivolta al giudice, che come si evince dall’art. 163, n. 4, c.p.c., non consiste solo nel rapporto giuridico come fonte del diritto azionato, ma comprende anche i fatti costitutivi di tale rapporto, con la conseguenza che almeno per i c.d. diritti eterodeterminati (quali sono i diritti di obbligazione ad una prestazione generica, come il diritto al risarcimento dei danni, ed i diritti di garanzia), l’allegazione dei fatti costitutivi costituisce parte integrante della causa petendi, onde, scaduto il termine per le eventuali modificazioni ed integrazioni della domanda, (art. 183 c.p.c.) non possono esserne allegati di nuovi ed il giudice deve limitare la sua pronunzia al thema decidendum individuato dalle allegazioni originarie e da quelle eventualmente integrative tempestivamente fatte, senza poter prendere in considerazione altri fatti costitutivi. Nel caso in esame l’atto di citazione indica a chiare lettere la Fontana Bleu S.p.a. come unica autrice delle attività lesive dell’ambiente ivi analiticamente elencate (in sintesi realizzazione dell’insediamento urbano e turistico con sconvolgimento del precedente habitat di pineta e macchia mediterranea e sua successiva gestione con vendita del realizzato ed esercizio dell’attività alberghiera), senza fare alcun riferimento al fatto che in zona avessero operato in precedenza altre società del gruppo Coppola, che avevano realizzato parte delle opere indicate, ed in particolare senza allegare il “fatto” che la convenuta era subentrata ad esse, acquistando – grazie all’incorporazione di altra società, la Agrimmobiliare Sp.a., alla quale era stato in precedenza conferito il ramo d’azienda della Coppola Pinetamare S.n.c. avente ad oggetto la realizzazione dell’insediamento – il compendio immobiliare, provvedendo al suo completamento e poi alla gestione di ciò che non era stato già in precedenza alienato a terzi. Tale impostazione non è stata modificata nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., benché la convenuta si fosse subito difesa, precisando di non poter rispondere di ciò che altri soggetti avevano fatto prima della sua costituzione, e solo in comparsa conclusionale la questione è stata rivisitata per dedurre che, in virtù dei principi che regolano la responsanbilità solidale, la convenuta poteva esser chiamata a rispondere per l’intero danno ambientale, avendo concorso con altri a determinarlo. Appare, allora, evidente che, accogliendo quest’ultima prospettazione, il Tribunale ha finito per prendere in considerazione fatti forieri di responsabilità solidale, che non erano stati allegati dalle attrici in sede di definizione del thema decidendum, spingendosi in tal modo oltre i limiti della domanda posta al suo esame. Avrebbe dovuto, invece, prendere in considerazione 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 solo i fatti di edidicazione e gestione compiuti dalla società convenuta, respingendo la domanda per la parte in cui attribuiva alla convenuta comportamenti lesivi dell’ambiente compiuti da altri soggetti e limitando l’affermazione di responsabilità e la condanna al risarcimento ai soli danni provocati direttamente dalla Fontana Bleu s.p.a con la condotta tenuta dal momento della sua costituzione in poi. 4.1. Appare il caso di osservare, in proposito, che (a parte l’errore di individuazione delle opere realizzate dalla convenuta, che aveva solo completato e non integralmente realizzato l’insediamento immobiliare sulle p.lle n. 2 e 3 del foglio 49 di Castelvolturno) l’impostazione data alla domanda dalle amministrazioni attrici non sembra il frutto di una svista o di un’incompleta conoscenza della storia di quell’insediamento, che ben emergeva, oltre che da numerosi procedimenti penali (tra i quali, da ultimo, quello avviato con decreto di citazione a giudizio del P.M. presso la Pretura Circondariale di S. Maria C.V. del 20 marzo 1999, nel quale le amministrazioni attrici si sono costituite parte cvile, definito in primo grado con sentenza del Tribunale di S. Maria C.V. dell’8 luglio 2005 ed in appello con sentenza di questa Corte del 9 luglio 2007, in atti), dalla ricostruzione operata dall’U.T.E. di Caserta già nel 1986 e trasmessa a tutte le amminisrazioni interessate ed all’Avvocatura erariale, ma appare come adeguamento della domanda al principio fissato dal settimo comma dell’art. 18 della legge n. 349/86, secondo cui “nei casi di concorso nelle stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale”. Si tratta di una deroga espressa al princio di solidarietà fissato in via generale dall’art. 2055 c.c., che, per il principio di unitarietà dell’illecito permamente disciplina anche la condotta tenuta dalla convenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma che ho ha introdotto (v.: con riferimento all’ordinamento penale, nel quale il principio di irretroattività della legge più sfavorevole al reo, al quale si riferiscono le sentenze citate, è intangibile: Cass. Pen. 10 novembre 2005 n. 1032; id. 3 novembre 1993, Rizzi; id. 1 marzo 1993, Verdoliva; id. 28 gennaio 1993, Guadalupi). Sicchè, da una parte, appare plausibile che la domanda sia stata formulata nel modo che si è detto proprio per adeguarsi alla citata disposizione legislativa e, d’altra parte, riportando la pronunzia nei limiti di ciò ch’è stato chiesto, si opera anche in modo che essa non risulti in contrasto con la disciplina legislativa, che tuttora la regola, nonstante l’entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006 (che ha abrogato l’art. 18 della legge n. 349/86 ed il cui art. 311 non prevede analoga limitazione della responsabilità solidale) posto che la sua norma non è retroattiva e quindi non disciplina la condotta dedotta in giudizio, che è espressamente limitata sino all’epoca di proposizione della domanda (momento al quale si arresta il computo dei profitti derivati dall’illecito, senza alcun accenno a quelli successivi, ai quali non fanno alcun riferimento neppure le successive difese delle attrici, che anche in appello si sono astenute dal chiedersi che si considerassero uleriori danni), sicchè se la si applicasse si modificherebbe la disciplina giuridica del fatto generatore del rapporto controverso, disconoscendo gli effetti già verificatisi del fatto passato (Cass. 28 settembre 2002 n. 14073; id. 3 febbraio 2000 n. 2433). 4.2. Da quanto detto discende cha la sentenza impugnata va riformata nel senso di considerare esclusivamente l’attività illecita direttamenta compiuta dalla società appellante e di liquidare solo i danni provocati da tale attività, senza considerare quelli prodotti dalla precedente attività di edificazione di altre società. Che poi, l’attività ascritta in citazione all’odierna appellante sia stata da essa posta in essere (dalla data della sua costituzione in poi) emerge con chiarezza dagli atti. Essa stessa, infatti, ammette che l’attività edilizia è proseguita sino al 1983, sicchè almeno per quello scorcio di CONTENZIOSO NAZIONALE 121 tempo risulta pacificio che essa abbia direttamente provveduto al completamento dell’insediamento edilizio. Inolre il confronto tra la foto aerea del 4 giugno 1982 prodotta dalle amministrazioni attrici, le foto aeree più recenti e le planimetrie in atti dimostra che a quell’epoca esistesse (oltre alla linea di nove fabbricati tutti aventi l’identica pianta molto articolaata immeditamente prospicente sul mare, che però incide quasi per intero sul foglio 47 del catasto di Castelvolturno ed in parte sul demanio marittimo, onde non riguarda che in minima misura l’area alla quale si riferisce la domanda) solo una parte dei fabbricati oggi esistenti, il che conferma che molto del patrimonio edilizio oggi esistente è stata realizzato direttamente dalla Fontana Bleu S.p.a. D’altra parte dal prospetto “A” allegato alla comparsa di risposta emerge che almeno uno dei complessi immobiliari (il Parco Acquatico Rio Blu) è stato ralizzato in epoca successiva al luglio 1990 (la concessione edilizia, infatti, è del 21 luglio 1990) ed è stato costruito quanto meno in difformità del progetto approvato, posto che tutte le unità immobiliari sono state oggetto di domanda di condono edilizio ai sensi della legge n. 724/94 (onde sussiste la violazione di legge, che consente di ritenere tali opere rilevanti come fonte di danno ambientale, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 349/86). Altrettanto vale per tutte le altre unità immobiliari costruite in precedenza, per le quali è stata presentata domanda di condonno edilizio ai sensi della legge n. 47/85, poi reiterata ai sensi della legge n. 349/94, onde per tutte sussistono violazioni urbanistiche, che rendono rilevanti quelle realizzate dalla società appellante, alle quali, come si è detto, è limitata la domanda, ai fini del danno ambientale. V’è, dunque, prova di un’attività ediliza posta in essere direttamente dall’appellante, che ovviamente ha inciso sull’ambiente, ulteriormente alterandolo ed allontanandolo dall’originaria consistenza di habitat naturale caratterizzato dalla presenza di macchia mediterranea, pinete, zone umide, e praterie, in modo da render ancora più difficle il suo recupero dall’originaria destinazione esente dall’antropizzazione, in violazione di vincoli paesaggistici esistenti (legge n. 1497/39; D.M. 19 maggio 1965; D.M. 13 luglio 1977 e per l’edificazione del 1990 legge n. 431/85, trattandosi di opere comprese nella fascia di m. 300 dalla battigia) delle norme in materia urbanistica, di quelle sugli scarichi di acque reflue. Per altro verso è dedotto dalla stessa appellante (v. prospetto “B” allegato alla comparsa di risposta in primo grado) che un gran numero delle unità immobiliari realizzate sull’area in contestazione (diverse centinaia) è stato venduto (con incremento della presenza umana sul posto e tutte le relative ricadute sull’originario assetto naturalistico del sito, sui cui ci si soffermerà in seguito) dalla società appellante, che anche con quest’attività (che è compresa tra quelle indicate in citazione) ha direttamente arrecato un danno all’ambiente. E’ pacifico, infine, che la società appellante ha gestito per tutto l’arco di tempo considerato in citazione l’attività alberghiera svolta nell’albergo e negli hotels recidences realizzati sull’arera in contestazione (ultilzzando e ponendo a disposizione del pubblico dei turisti centinaia di camere ed appartamenti, con i relativi riflessi di ulteriore antropizzazione dell’ambiente, di incremento degli scarichi idrici, del traffico con le relative emissioni in atmosfera e della produzione di rifiuti). E’ dunque, facilmente identificabile un’attività lesiva dell’ambiente direttamente compiuta (da sola) dalla società convenuta, per la quale questa può essere chiamata a rispondere, a prescindere dai danni in precedenza cagionati da altri soggetti. Sicchè, entro tale limite, la domanda delle amministrazioni attrici può trovare accoglimento senza che sorgano difficoltà. 5. Con il quinto motivo di gravame l’appellante critica la sentenza di primo grado per il fatto che abbia ritenuto che il danno ambientale fosse tutelabile anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 349/86, ma la Corte ritiene corretta l’impostazione data alla questione dal giudice di primo grado, posto che la tutela dell’ambiente, inteso come bene immateriale, 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 che trascenda i singoli beni che in esso sono compresi (e di cui è indifferente, ai fini della tutela in esame, la titolarità, che può ben appartenere ad una pluralità di soggetti e non allo Stato, al quale, invece, è attribuito il compito di valorizzare e proteggere l’ambiente) ed esprime un autonomo valore collettivo del complesso delle risorse ambientali e degli esseri viventi, che caratterizzano un determinato habitat, specificatamente tutelato in quanto tale dall’ordinamento (Cass. 9 aprile 1992 n. 4362) , trova la sua fonte genetica nei precetti costituzionali, che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale ed ambientale (artt. 2, 3, 9, 41 e 42 Cost.) ed elevano l’ambiente ad interesse pubblico fondamentale, primario ed assoluto, imponendo allo Stato una adeguata predisposizione di mezzi di tutela, ed assicurando per concorso alla collettività il godimento di tale bene e la sua tutela contro le condotte illegittime, che lo deteriorino; sicchè la norma sanzionatoria generica posta dall’art. 2043 c.c. consentiva di certo già prima del 1986 agli enti esponenziali della collettività ed in primis allo Stato di ricorrere (oltre che alla repressione penale ed amministrativa) alla tutela risarcitoria (anche in forma specifica, ex art. 2058 c.c.) contro coloro che, agendo in violazione delle norme specificatamente poste a tutela dell’ordinato sviluppo dell’attività di sviluppo ed uso del territorio (posto che il danno, per essere risarcibile deve essere ingiusto, onde forme di sfruttamento del territorio consentite dall’ordinamento e poste in essere in conformità delle regole all’uopo fissate non potevano già allora esser considerate fonte di responsabilità per i danni ingiusti che eventualmente l’ambiente ne ricevesse). Deve dunque aderirsi all’insegnamento della giurisprudenza richiamata dal giudice di primo grado (in particolare Cass., 19 giugno 1996 n. 5650 e id. 3 febbraio 1998 n. 1087), che attribuisce all’art. 18 della legge n. 349/86 una funzione di ricognizione e riordino (in termini di ripartizione della tutela tra Stato, enti territoriali ed associazioni ambientalistiche e di indicazione di regole per la liquidazione del danno, per sua natura difficile da quantificare) della disciplina risarcitoria già esistente nel nostro ordinamento e esclude che essa abbia innovato in modo sostanziale la natura, avendo invece in gran parte sanzionato e riconosciuto una realtà giuridica già presente nell’ordinamento ed ampiamente riconosciuta, con la conseguenza che deve esludersi che la condotta della società appellante anteriore all’entrata in vigore della legge n. 349/86 non sia sanzionabile sul piano risarcitorio. Tale impostazione non riduce la norma in esame ad una scatola vuota priva di contenuto originale, come sostiene l’appellante, posto che il sanzionare in modo esplicito ciò che poteva ricavarsi solo in via di coordinamento di varie disposizioni, il definire in modo chiaro il concetto di danno ambientale, la precisa individuazione dei poteri attribuiti ai vari enti esponenziali della collettività, così superando le incertezze operative che derivano dal precedente assetto fondato su norme di carattere generale e l’indicazione di regole per la liquidazione del danno costituiscono elementi di tutto rilievo, che rendono tutt’altro che superflua la norma stessa e consentono di assegnarle un ruolo rilevante di chiarificazione e precisazione del sistema. Di certo l’art. 18 della legge n. 349/86 non è norma retroattiva, ma poiché, come si dirà, l’illecito oggetto del presente giudizio è un illecito permanente, che era ancora in corso al momento della sua entrata in vigore e lo è stato anche in seguito, per il principio di unitarietà dell’illecito permanente, che si è già richiesto al paragrafo 4.1, la relativa disciplina è applicabile all’intera condotta dannosa ascritta alla convenuta, onde non si pone un problema di legittimazione attiva del Ministero dell’ambiente riguardo ai danni prodotti dall’attività svolta prima del 30 luglio 1986. Il tema, peraltro, assume in concreto scarso rilievo, atteso quanto si dirà a proposito della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni prodotti da un illecito CONTENZIOSO NAZIONALE 123 permanente, che circoscriverà i danni risarcibili a quelli prodottisi dopo il 15 settembre 1994, tutti ampiamente dopo l’entrata in vigore della suddetta norma. 5.1. L’appellante sostiene, inoltre, che, fuorviato dall’equiparazione dell’azione proposta a quella ex art. 2043 c.c., il Tribunale avrebbe omesso ogni indagine tesa ad accertare che si fosse verificato un danno non ai singoli beni di proprietà demaniale, ma all’ambiente come bene immateriale e complesso in sé considerato. L’affermazione è del tutto destituita di fondamento. Infatti il primo giudice ha compiuto una meticolosa indagine tesa ad accertare l’esistenza degli elementi costitutivi del danno all’ambiente. In primo luogo ha individuato ed indicato le norme in violazione delle quali la condotta dell’appellante è stata tenuta (art. 822 e segg. c.c., riguardanti le condizioni e la tutela del demanio; leggi in materia urbanistica ed in particolare la n. 1070 e la n. 47/1985; la legge ed i provvedimenti sui vincoli ambientali: legge n. 1497/39 ed i DD.MM. 19 maggio 1965 e 13 luglio 1977; le leggi che regolano gli scarichi di acque reflue; la norma sulla licenza di abitabilità; le norme sul confezionamento di sostanze alimentari), sicchè ha precisato quale sia la violazione dolosa o colposa di leggi e provvedimenti, che qualifica come illegittima la condotta dell’appellante e la rende rilevante ai fini del risarcimento del danno ambientale. Sul punto va, inoltre, osservato che nessuna critica è stata mossa dall’appellante in ordine all’individuazione di tali norme ed in ordine al fatto che esse siano state in concreto violate dalla sua condotta, onde la questione non è passata all’esame della Corte. In secondo luogo, avendo ben delineato il concetto di ambiente come bene immateriale che si distingue ontologicamente dai singoli beni che ne fanno parte (pagg. 25 e 26 della motivazione), ha ben individuato l’attività dannosa ascritta all’appellante consistente “nella trasformazione edilizia e successiva gestione ai fini di profitto economico di un tratto demaniale del litorale domizio, quello oggi denominato “Riviera Fontana Bleu”, dove un tempo, per circostanza pacifica, vi erano solo pinete sino alla spiaggia, terreni per il pascolo di animali, specie animali tipiche allo stato selvaggio (vedi anche i rilievi aerei prodotti dala PA)”, aggiungendo che non vale ad escludere il danno “il fatto che in quel territorio vi erano in precedenza zone paludose, perché anche tali zone facevano parte dell’habitat complessivo e ne costituivano una caratteristica e la loro eliminazione, non decisa dall’autorità competente ma collegata ad un progetto di speculazione edilizia, ha ugualmente inciso sul territoio, alterandone le qualità e caratterisiche originarie; e tale alterazione costituisce presupposto sufficiente per la configurazione del danno ambientale (Cass. 94/439 e Cass. 99/13716)”. Il primo giudice, dunque, non si è per nulla soffermato sul danno subito dai beni demaniali o ad altri singoli beni, ma sia pure con sintesi espositiva, ha (correttamente) individuato la lesione subita dall’ambiente nel fatto che ad un orignario ambiente naturale incontaminato (ed ancora solo parzialmente alterato nel 1981 quando iniziò l’attività della convenuta, come si è detto emergere dalle fotografie aereee) sia stato sostituito un insediamento abitativo formato da molteplici edifici destinati ad abitazione e ad attività commerciali ed alberghiere, con un’opera completa di antropizzazione, che ha del tutto sconvolto l’habitat naturale originario, considerato appunto nel suo insieme e senza che sia stato dato alcun rilievo al danno patrimoniale subito dallo Stato per l’occupazione illegittima dei beni demaniali. L’ampia documentazione fotografica e planimetrica dell’attuale stato dei luoghi e le fotografie aeree, che ritraggono lo stesso in cui si trovava l’area in contestazione nel 1968, nel 1974, nel 1982 e l’attuale completa urbanizzazione della stessa prodotte dalle amministrazioni attrici, le descrizioni ed elencazioni di fabbricati, che si evincono dai documenti prodotti da ambo le parti e quelle dell’originario stato dei luoghi che emergono dalle risalenti sentenze penali allegate 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 alla relazione dell’ing. Race, e dalla ricostruzione storica dell’evolauzione della zona operata dall’U.T.E. di Caserta con relazione del 2 agosto 1986, allegata alla ricordata relazione, danno ampiamente conto di tale radicale trasformazione dell’ambiente, che in realtà non è stata mai posta in discussione in punto di fatto dalla convenuta, che si è difesa sostendo, essenzialmente, di non doverne rispondere poiché essa era in gran parte già avvenuta prima della sua costituzione, mentre l’attività successiva di gestione non era lesiva dell’ambiente, e che il danno ambientale è stato riconosciuto dall’ordinamento solo dal 1986 in poi, quando la trasformazione era già completamente avvenuta, oltre a sostenere che la trasformazione di una zona incolta, paludosa ed umida in un contesto urbano non è un deterioramento dell’ambiente, ma anzi un suo miglioramento (tesi che è stata confutata con il passaggio di motivazione che è stato sopra riporato, al quale l’appellante non muove critiche di merito). Non si vede, pertanto, come possa sostenersi che è mancata l’indagine (sia come acquisizione istruttoria di dati di fatto sui cui fondarla, sia come esame degli stessi alla luce della norma e dei concetti giuridici da applicare) circa l’esistenza del danno ambientale. 6. L’appellante sostiene, ancora, che sarebbe stato necessario individuare il danno all’ambiente, per distinguerlo da quelli subiti dai beni demaniali oggetto di occupazione illegittima, il cui risarcimento è stato definito in via transattiva, ma basta richiamare quanto si è detto ai paragrafi 3.2, 3.3 e 5.1 per evidenziare come in realtà non v’è alcuna sovrapposizione tra i danni subiti dallo Stato per la lesione del suo patrimonio demaniale (facoltà di godimento e di amministrazione lese dall’occupazione illegittima, la cui lesione è stata ristorata valutando in sede transattiva il valore d’uso delle aree, di cui è stata concordemente accertata l’illegittimità dell’occupazione) ed i danni subiti dalla collettività dei consociati, fatto valere allo Stato come ente esponenziale degli interessi diffusi dei cittadini (e non come proprietario dei singoli beni ricadenti nell’ambienete deteriorato), per la lesione del bene immateriale “ambiente”. Appare evidente, ad esempio che, nell’ipotesi in cui un soggetto, invadendo arbitrariamente un altrui fondo collinare coperto da boschi, vi realizzi in assenza delle necessarie autorizzazioni e concessioni una cava, resteranno ben distinti, non confondibili e non sovrapponibili il danno subito dal proprietario per la lesione del suo diritto di proprietà sul fondo invaso ed il danno subito dall’ambiente per l’alterazione del paesaggio e la distruzione del preesistente habitat boschivo, il cui risarcimento potrà esser chiesto dallo Stato quale ente esponenziale della collettività dei cittadini lesi e il proprio interesse ad un ambiente integro e gestito in conformità alle leggi che ne regolano e tutelano i vari aspetti. Il fatto che nel caso in esame i beni materiali danneggiati appartengano al patrimonio immobiliare dello Stato non deve far perder di vista tale chiara distinzione e non può portare a confodere la lesione del patrimonio immobiliare dello Stato con quella dell’ambiente. Anche sotto questo profilo la transazione di cui si è discusso in precedenza, non assume alcun rilievo, poiché riguarda un danno del tutto diverso da quello ambientale, onde non v’è nulla che debba esser detratto dal risarcimento spettante allo Stato, come ente esponenziale della collettività interessata, per tale danno. D’altra parte il giudice di primo grado ha correttamente individuato il danno ambientale solo nella radicale trasformazione subita dall’ambiente che esisteva in zona prima dell’urbanizzazione provocata anche dall’opera della convenuta e non ha per nulla considerato (neppure in sede di liquidazione) il danno subito dallo Stato per il mancato godimento dei beni occupati, sicchè anche in concreto non v’è sta alcuna sovrapposizione con il risaricimento concordato in sede transattiva per gli aspetti dominicali e possessori della vicenda e non vi sono detrazioni da operare. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 7. Con il settimo motivo di gravame l’appellante si duole del rigetto dell’eccezione di prescrizione e tale doglianza in sede di sommario esame ai fini dell’esame dell’istanza di sospensiva è stata considerata meritevole di favorevole valutazione, tanto da indurre alla sospensione dell’efficaca esecutiva della sentenza impugnata, tuttavia l’esame più approfondito della questione induce a ritenere infondate le deduzioni dell’appellante, poiché deve ritenersi che correttamente il Tribunale abbia qualificato l’illecito ascritto alla Fontana Bleu S.p.a. come illecito permanente. E’ vero che, in applicazione dei princici elaborati in sede penale per la definizione del reato permanente, in linea di principio anche in sede civile si afferma che l’illecito permanente postula non solo il protrarsi della situazione lesiva, nel senso che questa viene a cessare con la cessazione della condotta, onde può dirsi che la condotta alimenta continuamente l’evento dannoso e che si ha nessaria consistenza della condotta e dell’evento, con la conseguenza che non integra tale fattispecie la cessazione della condotta illecita, ma sia ncessario il compimento di una nuova e distinta azione di ripristino (Cass. 1 febbraio 1995 n. 1156; id. 9 febbraio 1991 n. 1346; id. 7 ottobre 1980 n. 5358). Tuttavia la giurisprudenza è orientata a ritenere che, quando l’illecito consista nella creazione di uno stato di fatto in sé e per sé dannoso, che si protragga nel tempo continuando a far pesare le sue conseguenze sul bene che ne subisce lesione ed al quale sia dato reagire sia con la domanda di risarcimento in forma specifica, tendente alla rimozione di quello stato di fatto, sia con quelle di risarcimento per equivalente per il ristoro delle conseguenze negative che quella situazione continua a produrre (come avviene per il danno ambientale), l’illecito si connota come permanente, sicchè, mentre la domanda di riduzione in pristino la prescrizione non comincia a decorrere dall’ultimazione delle opere che hanno creato la stuazione dannosa e neppure successivamente, finchè si protrae la situazione dannosa, di cui può essere chiesta la rimozione in ogni tempo, sino a quanto l’eventuale usucapione del diritto corripondente allo stato di fatto creato legittimi (con effetto retroattivo. Cass. n. 19294/06; id. 3153/98) la situazione, per la domanda di risarcimento del danno per equivalente, la prescrizione decorre giorno per giorno dalla data d’inizio dell’illecito, poichè la situazione dannosa produce nocumento in continuazione e quindi giorno per giorno sorge il diritto al ristoro del danno quotidianamente subito e comincia a decorrere la relativa prescrizione (Cass. 13 marzo 2007 n. 5831; id. 2 aprile 2004 n. 6512; id. 20 dicembre 2000 n. 16009; id. 17 febbraio 1997 n. 1439; id. 30 gennaio 1990 n. 594; id. 11 marzo 1980 n. 1624). Applicazioni correnti di tale principio si hanno anche in materia di illegittima occupazione di un fondo per la realizzazione di un acquedotto o di un elettrodotto pubblico, che non dà luogo ad accessione invertita, poiché non produce irreversibile trasformazione del fondo, e determina il sorgere di un illecito permanente, che si protrare sino all’eliminazione dell’opera o sino a quando essa venga resa legittima con l’emissione del decreto d’asservimento o con l’acquisto per usucapione della relativa servitù (Cass., ss.uu., 27 giugno 2005 n. 13714; id. 14 marzo 1991 n. 2724; Cass. 25 marzo 1998 n. 3135; id. 24 giugno 1994 n. 6082; id. 18 gennaio 1991 n. 9726; T.S.A.P. 21 gennaio 2002 n. 6; id. 4 giugno 1999 n. 80), nonché in tema di c.d. occupazione usurpativa (ex plurimis: Cass. ss.uu., 19 febbraio 2007 n. 3723; TAR Campnia, Napoli, 4 febbraio 2004 n. 1582). Anche la giurisprudenza amministrativa è nettamente orientata a ritenere che l’illecito per violazione del vincolo paesaggistico è illecito di caratere permanente, la cui consumazione cessa solo con il ripristino dello stato dei luoghi, posto che l’effetto lesivo è sostenuto nel tempo dalla violzione dell’obbligho di ripristinare secundum ius i luoghi, onde il potere dell’amministrazione di infliggere la sanzione prevista dall’art. 15 della legge n. 1479/39 non inizia a prescriversi sino a quando resta in essere la situazione di abuso (C. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 St., sez. V, 13 luglio 2006 n. 4420; id., sez. IV, 3 novembre 2003 n. 7025; TAR Basilicata, Potenza, 12 giugno 2007 n. 471; TAR Umbria, Perugia, 1 giugno 2007 n. 477; TAR Lombardia, Brescia, 16 maggio 2007 n. 418; TAR Piemonte, Torino, 25 ottobre 2006 n. 3836; TAR Lazio, Roma, 2 maggio 2005 n. 3230). Pertanto, in adesione a tale preponderante indirizzo giurisprudenziale, deve affermarsi che l’illecito, che provoca il danno all’ambiente, ha carattere di illecito permanente, poiché consiste nella creazione di una situazione di per sé capace di produrre continuamente ulteriore nocumento al diritto tutelato consistente nell’interesse collettivo alla conservazione, alla razionale gestione, al miglioramento, al recupero (per via naturale o grazie all’intervento umano di ripristino) ed al godimento individuale e collettivo dell’ambiente naturale (onde non si dubita del fatto che costiuisce danno ambientale civilmente risarcibile anche quello derivante medio tempore dall’indisponibilità della risorsa ambientale intatta, sino a quanto lo stato dei luoghi non sia stato ripristinato, le c.d. “perdite provvisorie” di cui alla direttiva 2004/35/CE: Cass. Pen. 6 marzo 2007 n. 16575; id. 15 ottobre 1999 n. 13716; Cass. civ. 19 giugno 1996 n. 5650; TAR Sicilia, Catania, 20 luglio 2007 n. 1254; App. Milano 15 aprile 1994), mentre l’effetto lesivo è sostenuto nel tempo dalla violazione dell’obbligo di ripristinare secundum ius i luoghi che grava sull’autore, con la conseguenza che lo Stato (quale ente esponenziale della collettività lesa) da una parte può agire in ogni tempo per il ripristino (art. 18, c. 8°, legge n. 349/86), non essendo neppure concepibile l’usucapione del diritto (che non è riconosciuto dall’ordianamento) a mantenere in atto stati di fatto dannosi per l’ambiente, e d’altra parte acquista giorno per giorno il diritto al risarcimento per equivalente della perdita consistente nel fatto che la collettività continua ad essere privata della possibilità di godere dell’ambiente nella situazione in cui si trovava prima che l’autore lo deteriorasse (o aggiungesse ulteriore deterioramento a quello già provocato da altri). Ne discende che la tesi dell’appellante, secondo cui, essendo stata completata l’attività di edificazione entro il 1983 (o anche prima del 31 dicembre 1993: data di riferimento per l’applicazione del condono edilizio di cui all’art. 39 della legge n. 724/94, entro la quale, in macanza di altri elementi probatori, deve ritenersi sia stata completata l’edificazione del parco acquatico Rio Blu iniziata dopo il mese di luglio 90), il diritto al risarcimento dei danni sarebbe integralmente prescritto, non può trovare accoglimento. 7.1. Anche la tesi proposta dall’appellante con la seconda articolazione del motivo di gravame in esame, secondo cui l’attività di gestione delle opere realizzate (manifestatasi nella vendita degli edifici, nel godimento diretto ed indiretto degli stessi e nell’esercizio dell’attività d’impresa alberghiera) indicata in citazione come ulteriore fonte di danno ambientale in realtà non è idonea a cagionare tale danno, onde il Tribunale avrebbe errato nel prenderla in considerazione come fonte di responsabilità e condotta protrattasi nel tempo in coesistenza con l’evento dannoso e tale da alimentarlo continuamente, non merita adesione. A prima vista parrebbe che, una volta sconvolto l’ambiente naturale con la crezione al suo posto di un centro urbano, tutto sia consumto e non vi sia null’altro che possa esser danneggiato attraverso la semplice gestione delle opere realizzate, ma un’analisi più attenta mostra che non è così. Va, infatti, considerato che se quelle costruzioni fossere rimaste vuote e inutilizzate al loro impatto fisico sull’ambiente (che non è costituito solo dal suolo radicalmente trasformato e dalle essenze vegetali ed animali distruttue o allontanate dal loro habitat in occasione dell’edificazione, ma anche dall’atmosfera, dal vicino mare, dalle risorse idriche sotterranee, dalle aree circostanti, come la confinante riserva naturale di Castelvolturno, e dalla flora e fauna che ivi si trovano) non si sarebbe aggiunto l’impatto derivante dalla presenza di CONTENZIOSO NAZIONALE 127 migliaia di persone, con picchi elevatissimi nella stagione estiva, che è a sua volta foriera di utleriore degrado dell’ambiente. Basta pensare al traffico automobilistico, che una così massiccia presenza umana provoca, con le sue conseguenze di inquinamento atmosferico, di inquinamento acustico e di nocumento alle specie animali e vegetali della vicina riserva; agli scarichi di acque reflue provenienti da centinaia di appartamenti e da centinaia di camere di albergo, oltre che dai servizi e dagli insediamenti commerciali (ai quali la citazione fa specifico riferimento); alla produzione di notevoli quantità di rifiuti solidi urbani (anch’essa prospettata in citazione); all’inquinamento luminoso e elettromagnetico; alla impossibilità, per l’opera di minuta manutenzione che ciascun proprietario causa e per quella delle aree di uso pubblico curata secondo le regole del regolamento generale del villaggio Coppola (la cui esitenza emerge dalla lettura del verbale dell’assemblea straordinaria del 7 aprile 1981 dell’Agrimmobliare Spa allegato allal relazione dell’ing. Race prodotta dall’appellante), che le specie vegetali ed animali autoctone si riapproprino gradualmente dell’ambiente loro sottratto, recuparendolo in qualche misura e in via naturale. Basta alllora oservare che: a) con l’alienazione degli appartamenti e degli immobili destinati ad attività commerciali si è moltiplicata la presenza umana, stanziale e stagionale, sul posto, acuendo l’antropizzazione dell’area con le conseguenze che si sono dette; b) altrettanto è avvenuto con il loro godimento diretto ed indiretto (mediante locazione) in attesa della vendita; c) altrettanto è avvenuto con l’esercizio dell’attività albergiera e con quella commericale di utilizzazione degli edifici destinati a parcheggio. Tutto ciò, certamente ha ulteiriormente compromesso l’ambiente, al di là della cellula (che non è chiusa ma comunica costantemente con tutto il territorio, l’atmosfera ed il mare circostante) costituita dall’insediamento abitativo ed ha senz’altro leso l’interesse alla razionale gestione ed al miglioramento e recupero dell’ambiente. Resta solo da aggiungere che l’ampia presenza della società convenuta costituisce un dato pacifico (oltre che notorio presso la comunità napoletana, che da circa un trentennio frequenta quei luoghi, come l’intero litorale domizio, almeno durante la bella stagione) ed è comunque dimostrata dalle stesse indicazioni della convenuta circa le vendite di centinaia di appartamenti (essendo ovvio che chi ha comprato quelle unità immobiliari le utilizzi per abitarvi o per locarle a terzi, per l’intero anno o almeno durante la stagione estiva), dalla documatazione fotografia in atti (che fa rilevare l’ampia presenza di automobili e quindi indirettamente delle persone che le utilizzano), dalle relazioni dell’U.T.E. in atti e dagli accertamenti svolti in sede penale (dalla sentenza n. 1104/2006 del Tribunale di S. Maria C.V., si evince, ad es., che nella zona vi è una rete telefonica al servizio di circa diecimila utenze), mentre le sue conseguenze possono esser desunte in via logica in base alla comune esperienza, onde non si vede cosa di più l’amministrazione avrebbe dovuto dimostrare al riguardo. Pertanto non puo’ che condividersi la valutazione operata dal primo giudice ed anche sotto questo profilo il gravame va repinto. 8. Basta richiamare quanto si è detto al paragrafo 7 per coglier l’esatteza del rilievo mosso dall’appellante con l’ottavo motivo di gravame. E’ costante insegnamento della giurisprudenza quello, secondo cui nell’ipotesi di illecito permanente la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni comincia a decorrere dalla data d’inizio dell’illecito e giorno per giorno, poiché quotidianamente il danneggiato acquista il diritto ad essere risarcito del nocumento patito per il protrarsi della situazione dannosa e può esercitarlo, con la conseguenza che la prescrizione opera (estinguendo il relativo diritto) per tutti i danni maturati prima del quinquennio anteriore alla domanda di risarcimento o del precedente atto di costituzione in mora (v. oltre alla giurisprudenza già citata: Cass. 18 settembre 2007 n. 19359; id. 24 agosto 2007 n. 17985; 25 no- 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 vembre 2002 n. 16564; id. 16 novembre 2000 n. 14861). Il Tribunale, pertanto, come ha errato nel considerare il danno prodotto all’ambiente prima della costituzione della società convenuta (1981) da altri soggetti (come si è detto nei paragrafi 4 e 4.1), così ha errato nel considerare e liquidare anche i danni prodottisi prima del 15 settembre 1994, onde si impone la decurtazione del risaricimento liquidato. 8.1. Avendo riguardo alle tre voci di risarcimento considerate dall’art. 18 della legge n. 349/86, sulle quali è stata articolata la domanda ed alle quali si è attenuta la liquidazione operata dal Tribunale, sembra evidente che si possa tener conto solo dei profitti conseguiti dalla società appellante dal 15 settembre 1994 in poi, poiché quelli precedenti esprimono (nell’approccio equitativo alla liquidazione adottato dal legislatore un’ottica di passaggio dalla rilevanza del danno-conseguenza, tipica della disciplina generale della responsabilità extracontrattuale, e quella del danno-evento, inteso come lesione in sé di un bene costituzionalmente garantito, qual è l’ambiente, in modo da parametrare il risarcimento non al pregiudizio patrimoniale subito, ma a parametri di diverso e maggior respiro atti a cogliere sotto il profilo sanzionatorio tutte le varie sfaccettature della fattispecie - Cass. 1 settembre 1995, n. 9211 -, superando la funzione compensativa del risarcimento, non legandolo alle sole perdite finanziarie dello Stato e svincolandolo da una concezione aritmetico-contabile) una parte dell’equivalente monetario del pregiudizio subito dai singoli, dalla collettività dei cittadini e dallo Stato amministrazione per l’insorgere, l’aggragravarsi ed il protrarsi del danno ambientale sino a quel momento. Altrettanto vale per l’altra voce di danno da ragguagliare alla “gravità della colpa individuale”, nel senso che la relativa valutazione dovrà essere fatta considerando solo la condotta dell’appellante successiva alla data sino alla quale è maturata la prescrizione. 8.2. Quanto alla voce rappresentata dal costo del ripristino, dovrebbe osservarsi che la necessità di ripristino si è mantenuta inalterata nel tempo continuando in ogni momento ed anche dopo il 15 settembre 1994 a riguardare l’intero complesso residenziale ed in particoalre (per quel che può assumere rilievo nel presente giudizio, che riguarda solo la posizione della Fontana Bleu S.p.a.) tutte le opere realizzate o completate da tale società, sicche parrebbe che essa non possa subire decurtazioni in considerazione della prescrizione che ha colpito parte del diritto al risarcimento. Tuttavia la situazione che si è creata in corso di giudizio a seguito della transazione intervenuta tra la società appellante e lo Stato (che, pur avvenuta, si trova ad essere contemporaneamente proprietario di beni specificatamente lesi dalle opere realizzate, come tale interessato alla reintegrazione del proprio patrimonio in relazione al nocumento subito dai beni e per la compressione delle sue facoltà di godimento degli stessi ed ente esponenziale della collettività lesa nei propri interessi individuali e collettivi alla conservazione ed al godimento dell’ambiente), che ha determinato la rinunzia da parte delle amministrazioni attrici (che hanno acquistato l’interese a conservare le opere trasferite al demanio in esecuzione della transazione ed a render possibile l’attuazione di quella parte della transazione che attribuisce le rimanenti opere alle società del gruppo Coppola) alla domanda di riduzione in pristino, fa si che non sia necessario approfondire il tema. Infatti, come si osservato in precedenza (paragrafo 2), v’è coincidenza e quindi ncessaria alternatività tra la tutela ripristinatoria comtemplata dall’art. 18 della legge n. 349/86 e quella parte della tutela risarcitoria, che si esprime nella voce di danno che va liquidata tenendo conto delle spese di ripristino, essendo evidente che la contemporanea condanna del convenuto a ripristinare a priorie spese lo stato dei luoghi ed a corrispondere allo Stato, a titolo di risarcimento, il costo delle medesime opere di ripristino (che costituirebbe oggetto di recupero da CONTENZIOSO NAZIONALE 129 parte dello Stato in caso di esecuzione forzata di quell’obbligo di fare: art. 614 c.p.c.) costituirebbe una duplicazione illogica e ingiusta della sanzione, con la conseguenza che una lettura adeguata della norma, tesa ad evitarne l’irrazionalità e quindi la violazione dell’art. 3 cost., impone di ritenere che tale voce di danno possa esser presa in considerazione solo nelle ipotesi in cui non essendo in concreto possibile disporrre il ripristino, si debba sanzionare il responsabile solo per equivalente. Ne discende che, avendo lo stato rinunziato alla riduzione in pristino e non essendovi quindi più alcun costo di ripristino da affrontare nell’interesse della collettività (che le amministrazioni interessate hanno ritenuto poter essere sacrificato rispetto all’interese a definire in modo equilibrato tutte le controversie insorte circa la proprietà ed il possesso dei beni demaniali interessati, tanto da rinunziare alla relativa domanda), in sede di risarcimento non si può tener conto di tale (ormai inesistente) voce di danno. Se lo si facesse si determinerebbe un’ingiusta locupletazione dello Stato, prendendo in considerazione l’unica voce di risarcimento che tiene conto della perdita finanziaria subita dallo Stato per dover provvedere al ripristino dei luoghi, benché sia certo che nessun intendimeto di ripristino potrà mai essere eseguito, per effetto della ricordata transazione. 8.3. Risulta, in definitiva, fondato il rilievo fatto dall’appellante con la prima parte del decimo motivo di gravame (paragrafo 8 della citazione in appello), di cui si è anticipato l’esame per organicità di trattazione, e deve riformarsi la sentenza impugnata nel punto in cui ha considerato tra le voci di liquidazione del danno anche quella relativa al costo del ripristino, che per volontà dello stesso Stato non avverrà più. Per completezza d’esame si osserva subito anche che l’aver limitato il danno risarcibile solo a quello direttamente prodotto dall’appellante dal 15 settembre 1994 in poi assorbe la doglianza sollevata con la seconda parte del decimo motivo di gravame, con il quale l’appellante lamenta che si siano considerati tutti i profitti esposti dalle attrici, senza che fosse dimostrato che essi si fossero davvero riversati nel suo patrimonio. Resta assorbita da quanto già deciso anche la terza doglianza avanzata con il suddetto motivo di gravame, nel senso che la terza voce di danno dovrà esser quantificata (con la sentenza definitiva) avendo riguardo solo all’attività lesiva dell’ambiente posta in essere dal 15 settembre 1994 in poi ed esprimendo opportune valutazioni al riguardo. 8.4. In conclusione, confermata (per esser stati respinti tutti i motivi di gravame che la riguardavano) la dichiarazione di responsabilità della Fontana Bleu S.p.a. per i danni arrecati da essa personalmente all’ambiente, deve però affermarsi che essa può rispondere (per il fatto di non esser stata chiamata a rispondere, come eventuale concorrente solidalmente responsabile, dei danni arrecati dalle altre società del gruppo Coppola; per la prescrizione che ha estinto il diritto al risarcimento dei danni maturato sino al 15 settembre 1994; per la rinunzia operata dalle amministrazioni attrici alla domanda di riduzione in pristino) solo dei danni provocati all’ambiente dal 15 settembre 1994 in poi e che essi vanno liquidati tenendo conto solo dei profitti che essa ha tratto dalla propria attività di gestione delle opere lesive dell’ambiente da quella data in poi e della gravità della sua colpa individuale valutata limitatamente a tale scorcio della sua attività. Ciò impone di affidare ad un c.t.u. il compito di individuare le vendite stipulate dopo tale data e di stimarne, in base all’ampia documentazione prodotta dalle amministrazioni attrici ed alle eventuali indagini integratici che si rilevassero opportune, il progetto che da esse la società ha tratto, nonché di rielaborarte i dati relativi al profitto tratto dall’attività alberghiera per il periodo dal 15 settembre 1994 al 15 settembre 1999 (data alla quale, come si è detto, si arresta 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 la domanda delle amministrazioni, che neppure in appello hanno chiesto che si tenga conto del danno ambientale maturato successivamente), sicchè l’odierna pronunzia non potrà definire il giudizio, dovendo arrestarsi alle pronunzie sull’an debeatur e rinviare quella sul quantum (con le delimitazioni appena precisate) all’esito dell’indagine tecnica. 9. Le doglianze sollevate dall’appellante con il nono motivo di gravame in ordine alla liquidazione del danno operata dal primo giudice sono in qualche misura assorbite da quanto si è detto in precedenza. (...) 11. L’appello incidentale proposto dal Ministero dell’Ambiente (…) riguarda aspetti particolari della liquidazione del risarcimento, sicchè appare opportuno rinviarne l’esame alla sentenza definitiva, con la quale la questione potrà essere più coerentemente trattata in tutti i suoi aspetti. (...) P.Q.M. La Corte d’Appello di Napoli, prima sezione civile, pronunziando sull’appello proposto dalla Fontana Bleu S.p.a. contro la sentenza n. 11235/2004, pubblicata il 3 novembre 2004, pronunziata dal Tribunale di Napoli nel giudizio promosso contro di essa dal Ministero dell’Ambiente e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel quale sono stati chiamati in causa il Comune di Pozzuoli, il Comune di Castelvolturno, il Sindaco di Pozzuoli, in qualità di commissario straordinario del Ministero per la Protezione Civile, il Ministero per la Protezione Civile, il Ministero dell’Interno ed il Ministero della Marina Mercantile ed è intervenuto il W.W.F. Italia, nonché sull’appello incidentale proposto dal Ministero dell’Ambiente e dalla Presidenza dl Consiglio di Ministri e sugli appelli incidentali condizionanti proposti dal Comune di Castelvolturno e dal Comune di Pozzuoli, così provvede con sentenza non definitiva nei rapporti tra l’appellante ed il Ministero dell’Ambiente e con sentenza definitiva nei rapporti tra l’appellante e tutte le altre parti: 1) in riforma della sentenza impugnata, condanna la Fontana Bleu S.p.a. al risarcimento dei danni provocati all’ambiente con la sua sola condotta personale e per il solo periodo dal 15 settembre 1994 al 15 settembre 1999, mediante pagamento in favore del Ministero dell’Ambiente della somma, che sarà determinata in prosieguo di giudizio, con esclusione delle spese di ripristino: 2) respinge per il resto l’appello principale: 3) rinvia alla sentenza definitiva la decisione sull’appello incidentale proposto dal Ministero dell’Ambiente ed il regolamento delle spese nei rapporti tra tale Ministero e la Fontana Bleu S.p.a. (...) 11) Provvede con separata ordinanza per il prosieguo del giudizio tra la Fontana Bleu Sp.a. e il Ministero dell’Ambiente ed il W.W.F. Italia. Così deciso in Napoli il 21 marzo 2008 Corte di appello di Napoli, sentenza del 19 gennaio 2011 n. 90 - Pres. M.R. Castiglione Morelli - Fontana Bleu S.p.a. (avv. G. Olivieri) c. Ministero dell’ambiente (avv. Stato M. Gerardo), W.W.F. Italia (avv.ti R. Razzano e M. Ballet). (Omissis) Motivi della decisione (…) Ai fini della valutazione si è ritenuto di far ricorso ad una ctu, alle cui risultanze questa Corte ritiene di potersi fondamentalmente attenere, (...) CONTENZIOSO NAZIONALE 131 Il Ctu dott. ing. Lo Presti, rispondendo ai quesiti conferitigli dalla Corte ha preliminarmente identificato gli immobili rientranti nell’area alla quale si è riferita la domanda delle appellate (p.lle 2 e 3 foglio 49 di Castelvolturno), provvedendo ad individuare gli immobili costruiti sulla medesima area e ad individuare, nell’elenco di vendite di unità immobiliari indicati dal Ministero dell’ambiente e dalla Fontana Bleu, le sole vendite afferenti immobili rientranti nella predetta area, vendite concluse in epoca successiva al 15 settembre 1994, individuando infine il ricavo ottenuto dalle medesime vendite, adottando a tale fine, come criterio di calcolo, la differenza tra il probabile valore di mercato al momento della vendita ed il costo sostenuto per l’esecuzione degli stessi immobili, conformemente al metodo indicato dall’art. 2 del decreto 26 settembre 1997 del Ministero dei beni culturali ed ambientali apparendo congrui i valori dichiarati nei rispettivi atti di vendita. (…) Lo stesso ausiliare ha, invece, rilevato che il finale profitto dell’attività alberghiera ricavato dalla società appellante in base agli atti dei bilanci della stessa società, mentre era positivo per gli anni 1994, 1995 e 1996, è risultato negativo fortemente per i successivi anni 1997, 1998 e 1999 per le vicende giudiziarie notorie, i sequestri penali che hanno influito negativamente sull’attivà alberghiera, in relazione alla quale negli anni precedenti vi era stato invece un notevole investimento poi non recuperato, anche per le condizioni di degrado del litorale di Pinetamare, arrivando a quantificare un profitto negativo di lire 255.499.000 pari ad € 131.954,22 (vedi pag. 50 e seg. elaborato ctu). In definitiva, il danno può essere liquidato, a parere della Corte, sulla base del profitto conseguito ammonante a € 369.259,23. Il suindicato importo può essere riconosciuto per intero in ragione della notevole gravità della colpa della società, peraltro da parametrare solo per il periodo 15 settembre 1994 - 15 settembre 1999 quando le conseguenze dannose per l’ambiente si erano già in gran parte verificate, risalendo i fatti per cui è causa al 1981. Tale criterio di liquidazione è stato scelto in quanto non determina una indebita duplicazione, come ipotizzato dalla difesa appellante, ma semplicemente, come secondo addendo da calcolare in funzione della gravità della colpa, non tiene conto della passività dell’ultimo periodo relativo al settore alberghiero, di cui, in un’ottica generale che pur aveva visto guadagni considerevoli nel tempo, appare equo non tener conto per determinare il danno patrimoniale da addossare all’appellante principale. Il suddetto criterio appare più equo rispetto a quello indicato dalla difesa erariale parametrato sull’importo degli interessi legali sulle spese indicate per il ripristino per ciascuno dei cinque anni o sul criterio del 10% del fatturato annuo della stessa Fontana Bleu, criterio quest’ultimo avanzato ammissibilmente solo in comparsa conclusionale con un riferimento del tutto nuovo ai bilanci sociali, laddove invece il primo criterio appare non applicabile, in quanto si basa su un ripristino dello stato dei luoghi di cui in corso di causa il Ministero ha rinunciato per intervenuta transazione, come rilevato dalla pregressa sentenza n. 1495/08. Tale somma complessiva, attenendo a debito di valore, andrà poi rivalutata dal 15 settembre 1994 - data del fatto coincidente con l’inizio della prescrizione - e sulla somma via via rivalutata andranno calcolati gli interessi legali fino all’effettivo pagamento, in accoglimento dell’appello incidentale del Ministero. Un altro punto dell’appello incidentale proposto dal Ministero dell’ambiente da esaminare riguarda poi, il danno non patrimoniale, che, essendo attinente ad aspetti particolari della liquidazione del risarcimento, si è ritentuo opportuno affrontare con la presente sentenza definitiva. In proposito, si rileva che, in primo luogo, si è negata la risarcibilità del danno non patrimo- 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 niale all’ambiente, oltre quello liquidato ex art. 2043 c.c. e ex art. 18 L. 349/86, che esaurirebbe ogni tutela e si è esclusa la risarcibilità del danno morale allo Stato come persona giuridica in quanto non capace di sofferenza psichica in base a indirizzo allora consolidato giurisprudenziale. Ora, a parere di questa Corte, la liquidazione del danno ambientale ex art. 18 L. 349/86, non esaurisce l’interea sfera del danno non patrimoniale liquidabile in favore dello Stato. La giurisprudenza, è attualmente, concorde nello stabilire che anche le persone giuridiche, che subiscono una lesione alla loro immagine e che dalla commissione dei reati vedono compromesso il prestigio derivante dall’affidamnto di compiti di controllo e di gestione, subiscono un danno non patrimoniale. La stessa lesione, in altri termini, dell’immagine dello Stato, che, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall’affidamento di compiti di controllo e di gestione, non costituisce danno risarcibile autonomamente, ma dà vita ad ipotesi risarcibile come aspetto non patrimoniale, quando, come appunto nel caso in esame, risulti correttamente accertato un danno ambientale al quale sia collegata la menomazione del rilievo istituzionale dell’Ente (vedi Cass. Sez. III 1471/2002 n. 1145). Nel caso in esame non può dubitarsi che sia provato, oltre un danno ambientale di valore patrimoniale, anche un collegato aspetto di danno non patrimoniale, consistente nella menomazione del rilevo istituzionale dello Stato, inteso come pregiudizio arrecato al prestigio, alla considerazione stessa della tutela dell’ordinamento nei confronti di una condotta illecita protrattasi negli anni, palese e notoria, capace di minare lo stesso giudizio dei cittadini sulla stessa capacità di tenuta dello Stato. Tale voce di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., potrà e dovrà esser liquidata equitativamente con il ricorso ad una percentuale di un quarto del danno patrimoniale già riconosciuto secondo gli usuali sistemi di liquidazione del danno morale, tenendo conto di tutte le circostanze del caso in esame ed in paricolare del fatto che deve aversi a riferimento l’unico periodo di cinque anni non coperto dalla prescrizione, come si è già più volte affermato, e quindi si può riconoscere l’ulteriore importo di € 133.380,01 (92.314,80 x 1,4448 coef. settembre 1994), espresso con riferimento ai valori attuali, mentre sull’importo originario, via, via rivalutato, andranno riconosciuti gli interessi legali dal settembre 1994 al soddisfo. Le spese seguono la soccombenza nella misura di cui al dispositivo ed a carico dell’appellante principale vanno poste anche le già liquidate spese di ctu. P.Q.M. La Corte d’Appello di Napoli, prima sezione civile, definitivamente pronunziando sull’appello proposto dalla Fontana Bleu S.p.a. contro la sentenza n. 11235/2004, pubblicata il 3 novembre 2004, pronunziata dal Tribunale di Napoli nonché sull’appello incidentale proposto dal Minisitero dell’Ambiente, vista la sentenza non definitiva del 21 marzo 2008, così provvede. 1) in riforma della sentenza impuganta, condanna la Fontanta Bleu S.p.a. al riarcimento dei danni provocati all’ambiente con la sua sola condotta personale e per il solo periodo dal 15 settembre 1994 al 15 settembre 1999, mediante pagamento in favore del Ministero dell’ambiente delle somme indicate in motivazione, oltre rivalutazione ed interessi come sempre specificato in motivazione. (…) Così deciso in Napoli il 7 gennaio 2011 CONTENZIOSO NAZIONALE 133 Accelerazione processuale e deflazione del contenzioso in tema di custodia di veicoli sequestrati (Giudice di pace di Caserta, ordinanza del 18 gennaio 2010) In data 22 luglio 2010, la (...) s.a.s. notificava al Ministero della Difesa circa novanta decreti ingiuntivi, asserendo di essere creditrice dell’indennità di custodia di una serie di veicoli (uno per ciascun decreto ingiuntivo) precedentemente ad essa affidati. Dalla documentazione trasmessa dalla Prefettura di Napoli all’Avvocatura Distrettuale risultava che la medesima – in attuazione del provvedimento del 3 agosto 1999, con cui l’Autorità giudiziaria disponeva la demolizione e la rimozione da specifici siti di deposito dei veicoli sottoposti a sequestro amministrativo, degradati a residuato ferroso e quindi ritenuti inquinanti dai competenti organi sanitari – aveva stipulato, in data 23 febbraio 2000, con la società (...) s.a.s., un contratto di vendita avente ad oggetto 2158 veicoli precedentemente affidati in custodia alla medesima e destinati alla rottamazione: tra questi veicoli rientravano anche quelli per i quali la società aveva ottenuto i decreti ingiuntivi di cui in premessa. Più specificamente, in base a tale contratto, la (...) s.a.s. acquistava tali veicoli e si obbligava gratuitamente a provvedere alla demolizione dei medesimi dietro pagamento di un corrispettivo per la custodia svolta fino a tale vendita. Sempre dalla documentazione trasmessa dalla Prefettura risultava inoltre che il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8359/2003, confermata dalla Corte di appello di Napoli con sentenza 573/2010, aveva dichiarato risolto tale contratto per inadempimento della Prefettura e aveva condannato quest’ultima a pagare “a titolo di risarcimento del danno, la somma di euro 1.787.931,00 oltre interessi legali […] pari alle maturate indennità di custodia richieste e non pagate” alla (...) s.a.s.; tale somma era dunque determinata “considerata l’entità delle somme che essa (...) avrebbe ottenuto a titolo di indennità di custodia se la Prefettura avesse adempiuto” e come tale era da ritenersi sostituita – come oggetto del diritto di credito vantato dalla (...) S.a.s. verso la Prefettura – alla citata indennità di custodia che la (...) pretendeva con i decreti ingiuntivi in oggetto. In altre parole, se fino alla risoluzione del suindicato contratto, la (...) poteva vantare il diritto al corrispettivo della custodia sulla base del contratto medesimo, a seguito della risoluzione, tale diritto era venuto meno essendo stato sostituito dal diritto al risarcimento dei danni, riconosciuto e quantificato in forza della citata sentenza: solo quest’ultima, in definitiva, costituiva il titolo rappresentativo del diritto di credito vantato dalla (...). Si riteneva pertanto opportuno proporre opposizione a tutti i decreti ingiuntivi di cui alla premessa. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Diverse sono le questioni procedurali che sono state affrontate nell’atto di opposizione - integralmente riportato in calce alla nota in rassegna - a tali decreti. Innanzitutto, in un ottica di accelerazione processuale e di deflazione del potenziale contenzioso, si è ritenuto di dover e poter proporre una unitaria opposizione avverso i molteplici decreti ingiuntivi in quanto notificati ad istanza di un unico soggetto (la (...) s.a.s.), presunto creditore, nei confronti di un unico soggetto, presunto debitore (il Ministero della Difesa). La procedibilità dell’unica opposizione a più decreti ingiuntivi è stata sostenuta sulla base del seguente ragionamento. Con sentenza n. 7294 del 26 marzo 2007, la Suprema Corte di cassazione - ribadendo un orientamento ormai consolidato ed inaugurato con la sentenza n. 3683 del 10 agosto 1977 - ha affermato la regola secondo cui “Dal principio di economia processuale consegue l'ammissibilità di un unico atto di opposizione avverso più ingiunzioni emesse su ricorso del medesimo creditore nei confronti dello stesso debitore”. In particolare, con tale sentenza i giudici di legittimità hanno precisato che “una volta ritenuta la parificazione, dal punto di vista formale, dell'opponente all'attore dell'ordinario giudizio di cognizione, cosi come si è pure costantemente affermato, non sembrano sussistere ostacoli a che l'opponente con un'unica opposizione possa domandare il rigetto di più pretese creditorie avanzate nei suoi confronti con distinte ingiunzioni, secondo quanto dispone l'art. 104 c.p.c. L'opponente, che - come si è detto - è attore nel giudizio di opposizione, propone una domanda di rigetto e non si vede perché non debba essergli lasciata l'opportunità, nella ipotesi di decreti ingiuntivi proposti dallo stesso creditore nei suoi confronti, di cumulare in un unico processo più domande contro il medesimo creditore; ciò anche per un evidente principio di economia processuale, con risparmio di spese e di attività”. Aggiungasi che l’ammissibilità di un’unica opposizione avverso più decreti ingiuntivi è affermata altresì dalla recente Cass. Civ., Sez. III, n. 24539 del 20 novembre 2009. Alla luce del suddetto consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in considerazione della identità delle parti opponente e opposta nonché della causa petendi e del petitum, si è dunque ritenuto la procedibilità della opposizione avverso i più decreti ingiuntivi. In secondo luogo, con domanda riconvenzionale, si è chiesto al giudice adito di accertare l’insussistenza del diritto di credito della (...) s.a.s. anche con riguardo a tutti gli altri veicoli in precedenza affidati dalla Prefettura alla medesima e per i quali la prima non aveva ancora attivato il procedimento d’ingiunzione. In tal modo si è resa la competenza di valore indeterminabile e dunque si è chiesto al giudice di dichiarare la propria incompetenza per valore a favore del tribunale di Napoli che diveniva competente in base al principio del foro erariale. In via subordinata, per l’ipotesi in cui il Giudice adito non avesse accolto CONTENZIOSO NAZIONALE 135 l’eccezione d’incompetenza alla luce della formulata domanda riconvenzionale, alla luce delle ragioni esposte in premessa, si è eccepita l’inammissibilità del procedimento ingiuntivo instaurato dalla (...), per violazione del ne bis in idem sostanziale, essendo i decreti ingiuntivi volti ad ottenere un nuovo titolo di pagamento per le medesime ragioni di credito contenute nella suindicata sentenza del Tribunale di Napoli. Si è ulteriormente eccepito, in ogni caso, l’inammissibilità di tutti i ricorsi per decreto ingiuntivo alla luce del ben noto orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 23726/2007, Cass. 28719/2008 e Cass. 1706/2010) e di merito (G.d.P. di Trentola Ducenta, sentenza 3823/2008, pronunciata in analogo giudizio tra la (...) s.a.s. e il Ministero della Difesa) che ritiene precluso al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, il frazionamento del credito in plurime richieste giudiziali di adempimento – come, nella specie, più decreti ingiuntivi – contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione si pone in contrasto con il principio di correttezza e buona fede processuale nonché con il principio costituzionale del giusto processo, con conseguente abuso del processo: nel caso oggetto del giudizio de quo, infatti, l’opposta (...) s.a.s. ha notificato all’opponente Amministrazione i suindicati decreti ingiuntivi, tutti basati sullo stesso “presupposto giuridico e fattuale” e cioè l’asserito diritto al corrispettivo per la custodia di veicoli sequestrati dal Ministero della Difesa e ad essa affidati, veicoli, tutti oggetto del suindicato contratto di compravendita in seguito risolto giudizialmente. Nelle conclusioni dell’atto di opposizione si chiedeva al G.d.P., previa revoca dei decreti ingiuntivi opposti, in via preliminare di pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale, rimettendo l’intera causa ex art. 36 c.p.c. in relazione agli artt. 25 c.p.c. e 6 del Regio Decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, alla cognizione del Tribunale di Napoli; in via subordinata di dichiarare l’inammissibilità e/o l’infondatezza della domanda proposta con l’esperita procedura ingiuntiva per assenza del titolo azionato e, comunque, per l’inesigibilità delle somme oggetto dei decreti ingiuntivi. Il G.d.P. di Caserta, con provvedimento del 18 gennaio 2011, ritenendo preliminarmente procedibile l’unico atto di opposizione a più decreti ingiuntivi, ha accolto la domanda riconvenzionale, affermando la propria incompetenza a favore del Tribunale di Napoli. La decisione del G.d.P. di Caserta rappresenta certamente un utile precedente nella giurisprudenza del G.d.P. (non si rinvengono in quest’ultima precedenti analoghi). Dalla lettura del provvedimento si evince che il giudice non si è espressamente pronunciato in merito alla procedibilità dell’unitario atto di opposizione a plurimi decreti ingiuntivi; trattandosi, peraltro, di questione necessariamente preliminare rispetto alla conseguente domanda riconvenzio- 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nale ed essendosi pronunciato su quest’ultima, deve ritenersi che sul punto il Giudice adito abbia implicitamente statuito, ritenendo quindi ammissibile la proposizione di un’unica opposizione a fronte dei molteplici decreti ingiuntivi; aggiungasi che il proprio provvedimento è motivato innanzitutto sulla base del fatto che il giudizio “ha ad oggetto opposizione a decreti ingiuntivi”. La pronuncia, sebbene favorevole alle ragioni erariali quantomeno in punto di competenza per territorio, risulta peraltro criticabile nella misura in cui il Giudice avrebbe forse dovuto – in virtù della competenza funzionale dell’Autorità giudiziaria da cui promana il decreto ingiuntivo a conoscere delle eventuali opposizioni (Cass. civ. 21737/04) – trattenere la decisione quanto ai motivi di opposizione e rimettere al Giudice superiore la domanda di accertamento proposta in via riconvenzionale. Tuttavia, non è da sottovalutare la circostanza che, alla luce del carattere pregiudiziale della domanda riconvenzionale, il giudizio di opposizione (in ipotesi trattenuto dal Giudice di Pace di Caserta) sarebbe andato incontro ad una ipotesi di sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. Ragioni di economia processuale hanno dunque forse indotto il Giudice dell’opposizione a rimettere l’intera controversia all’Autorità giudiziaria superiore, intravedendosi in ciò una ragionevole deroga al principio della competenza funzionale del giudice dell’opposizione. Dott. ri Mariano Valente e Alessandro Ferri* Giudice di pace di Caserta, ordinanza del 18 gennaio 2011. (Omissis) Il G.d.P. Con lo scioglimento della riserva che precede, questo giudicante decide le sorti del giudizio, atteso che per le questioni preliminari sollevate, in ordine all’incompetenza di questo ufficio a decidere la presente controversia, è preclusa l’indagine nel merito. Ed invero, rilevato che il giudizio de quo ha ad oggetto opposizione a decreti ingiuntivi nei confronti del Ministero della Difesa; rilevato che in base all’art. 25 c.p.c. competente a decidere le controversie ove è parte un’amministrazione dello Stato è l’ufficio del Giudice ove ha sede l’Avvocatura distrettuale dello Stato, considerata altresì la spiegata domanda riconvenzionale di valore indeterminabile. P.Q.M. Dichiara l’incompetenza funzionale e per valore di questo ufficio a decidere la controversia de qua e rimette le parti nei termini di legge per la riassunzione della causa davanti al Tribunale di Napoli, rimettendo a Questo la decisione in ordine al governo delle spese. Così deciso in Caserta il 9 dicembre 2011 IL GIUDICE DI PACE Dott. Ivana Catozza (*) Procuratori dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 137 CT. 14418/10 UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI CASERTA ATTO DI CITAZIONE IN OPPOSIZIONE A DECRETI INGIUNTIVI CON DOMANDA RICONVENZIONALE per il Ministero della Difesa, in persona del Ministro p.t., rappr.to e difeso ex lege dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso cui ope legis domicilia alla via Diaz, 11; CONTRO SOCIETÀ (...) s.a.s., in persona del legale rapp.te p.t., rappr.ta e difesa dagli avv.ti Stefano di Foggia e Anna Coppola ed el.te dom.ta in Caserta via Giotto 13; AVVERSO e per la revoca dei decreti ingiuntivi emessi dal Giudice di Pace di Caserta, di seguito indicati: (...) PREMESSO Che la ricorrente notificava i decreti ingiuntivi indicati in epigrafe, resi dal Giudice di pace di Caserta, con i quali viene ingiunto il pagamento delle seguenti somme: (...) oltre interessi legali, nonché spese per le intraprese procedure monitorie, con attribuzione al procuratore anticipatario. Che le somme in questione, ad avviso della ricorrente, sarebbero dovute ex art. 11, 1° comma del D.P.R. n. 571/82, quale rimborso per "le spese di custodia di cose sequestrate dalla pubblica amministrazione"; in particolare ogni decreto ingiuntivo ha ad oggetto la pretesa di un compenso per l’attività di custodia di veicoli precedentemente sequestrati da agenti dell’Arma dei Carabinieri ed affidati alla (...) S.a.s. Tanto premesso, l'Amministrazione ingiunta, così come rappresentata e difesa, intende opporsi, come con questo atto formalmente si oppone, ai decreti ingiuntivi di cui trattasi, per le seguenti ragioni in DIRITTO 1) AMMISSIBILITA’ DI UN UNICO ATTO DI OPPOSIZIONE AVVERSO MOLTEPLICI DECRETI INGIUNTIVI. In via preliminare e per mero scrupolo difensivo, si evidenzia che l’esponente Avvocatura, in un ottica di accelerazione processuale e di deflazione del potenziale contenzioso, ha ritenuto di dover proporre una unitaria opposizione avverso i molteplici decreti ingiuntivi notificati ad istanza di un unico soggetto presunto creditore (l’ingiungente (...) S.r.l.) nei confronti di un unico presunto debitore (l’opponente Ministero della Difesa). A tal riguardo, sia consentito sottolineare che con sentenza n. 7294 del 26 marzo 2007 (doc. n. 11), la Suprema Corte di cassazione - ribadendo un orientamento ormai consolidato ed inaugurato con la sentenza n. 3683 del 10 agosto 1977 - ha affermato la regola secondo cui “Dal principio di economia processuale consegue l'ammissibilità di un unico atto di opposizione avverso più ingiunzioni emesse su ricorso del medesimo creditore nei confronti dello stesso debitore”. In particolare, con la suddetta sentenza i giudici di legittimità hanno precisato che “una volta ritenuta la parificazione, dal punto di vista formale, dell'opponente all'attore dell'ordinario giudizio di cognizione, cosi come si è pure costantemente affermato, non sembrano sussistere ostacoli a che l'opponente con un'unica opposizione possa domandare il rigetto di più pretese 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 creditorie avanzate nei suoi confronti con distinte ingiunzioni, secondo quanto dispone l'art. 104 c.p.c. L'opponente, che - come si è detto - è attore nel giudizio di opposizione, propone una domanda di rigetto e non si vede perché non debba essergli lasciata l'opportunità, nella ipotesi di decreti ingiuntivi proposti dallo stesso creditore nei suoi confronti, di cumulare in un unico processo più domande contro il medesimo creditore; ciò anche per un evidente principio di economia processuale, con risparmio di spese e di attività”. L’ammissibilità di un’unica opposizione avverso più decreti ingiuntivi è affermata altresì dalla recente Cass. Civ., Sez. III, n. 24539 del 20 novembre 2009. Alla luce del suddetto consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in considerazione della identità delle parti opponente e opposta nonché della causa petendi e del petitum, questa difesa erariale evidenza la piena proponibilità e procedibilità della presente opposizione avverso i più decreti ingiuntivi ottenuti dalla società Cars. S.r.l. avverso il Ministero della difesa. *** 2) INAMMISSIBILITÀ DELLA PRETESA OGGETTO DEL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE PER ASSENZA DEL DIRITTO DI CREDITO AZIONATO. In data 23.02.2000, in attuazione del provvedimento del 3 agosto 1999, con cui l’Autorità giudiziaria disponeva la demolizione e la rimozione da specifici siti di deposito dei veicoli sottoposti a sequestro amministrativo, degradati a residuato ferroso e quindi ritenuti inquinanti dai competenti organi sanitari, la Prefettura di Napoli stipulava con la convenuta società CARS s.a.s. di Crispino Giuseppe, mediante atto pubblico, il contratto di vendita di veicoli destinati alla rottamazione avente ad oggetto la vendita dei 2158 veicoli precedentemente affidati in custodia alla medesima e destinati alla rottamazione: tra questi veicoli, rientrano anche quelli per i quali la convenuta società ha ottenuto i decreti ingiuntivi qui opposti (v. atto di vendita con n. di repertorio 18655 del 23.02.2000 ed allegato elenco dei veicoli alienati, che si allegano in copia, doc. 2 e 3). In base a tale contratto, la Cars s.a.s. si obbligava gratuitamente a provvedere alla demolizione dei beni mobili acquisiti e veniva pattuito un corrispettivo per la custodia svolta fino a tale vendita (cfr artt. 3, 4 e 8 del contratto, doc. 2). In data 5.3.2003, il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8359/2003, confermata dalla Corte di appello di Napoli con sentenza 573/2010, dichiarava risolto tale contratto per inadempimento della Prefettura e condannava quest’ultima a pagare “a titolo di risarcimento del danno, la somma di euro 1.787.931,00 oltre interessi legai […] pari alle maturate indennità di custodia richieste e non pagate” alla (...) s.a.s. (v. sentenza 8359/2003 del Tribunale di Napoli e sentenza n. 573/2010 della Corte d’Appello di Napoli che si allegano in copia, rispettivamente doc. 4 e 5). Tale somma era dunque determinata “considerata l’entità delle somme che essa (...) avrebbe ottenuto a titolo di indennità di custodia se la Prefettura avesse adempiuto” e come tale si è sostituita – come oggetto del diritto di credito vantato dalla (...) S.a.s. verso la Prefettura – alla citata indennità di custodia (v. le citate sentenze che si allegano in copia, rispettivamente doc. 4 e 5). In altre parole, se fino alla risoluzione del suindicato contratto, la (...) poteva vantare il diritto al corrispettivo della custodia sulla base del contratto medesimo, a seguito della risoluzione, tale diritto è venuto meno ed è stato sostituito dal diritto al risarcimento dei danni, riconosciuto e quantificato in forza della citata sentenza: solo quest’ultima, in definitiva, costituirebbe il titolo rappresentativo del diritto di credito vantato dalla (...) S.r.l, titolo che nel giudizio de CONTENZIOSO NAZIONALE 139 quo non risulta però azionato (!). La citata sentenza di condanna già ottenuta dalla (...) S.r.l. precedentemente al deposito dei ricorsi per decreto ingiuntivo, assorbe dunque la pretesa creditoria della società odierna opposta e determina l’inammissibilità, per violazione del ne bis in idem sostanziale, dei decreti ingiuntivi volti ad ottenere un nuovo titolo per le medesime ragioni di credito. In definitiva, se gli opposti decreti ingiuntivi fossero messi in esecuzione, si avrebbe l’aberrante conseguenza che la Prefettura dovrebbe, da un lato, in esecuzione della sentenza citata, pagare alla (...) S.a.s. la suindicata somma a titolo di risarcimento danni per mancata percezione delle indennità dovute e, dall’altro, pagare alla (...) S.a.s. le medesime indennità a diverso titolo (non più dovute, data la sostituzione con i danni) con illegittima duplicazione del debito e indebito arricchimento dell’ingiungente (!). Essendo evidente che controparte, pur perfettamente consapevole della inesistenza del titolo di credito azionato, ha agito in virtù del medesimo, si palesa un altrettanto evidente intento di ottenere una illegittima duplicazione delle somme oggetto del proprio credito. La mala fede o, comunque, la colpa grave che traspare dalla condotta tenuta dalla società odierna opposta costringe questa difesa a richiedere, in applicazione dell’art. 96 c.p.c., la condanna di controparte al risarcimento del danno (sul punto, si veda Cass. Civ., Sez. III, 5 maggio 2003, n. 6796 secondo cui “All'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria non osta l'omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale, ma dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l'ingiustificata iniziativa dell'avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune esperienza”. Ad ogni modo, si insta codesto Giudice affinchè voglia, in applicazione dell’art. 96, ultimo comma, c.p.c. condannare parte opposta al pagamento a favore dell’Amministrazione opponente di una somma equitativamente determinata. *** 3) INAMMISSIBILITÀ DEL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE PER INESIGIBILITÀ DEL DIRITTO DI CREDITO AZIONATO. Con decreto n. 3232/Cont. Rott. del 21.3.2006, la Prefettura di Napoli, ha disposto il fermo amministrativo “di ogni somma richiesta in pagamento dalla (...) s.a.s. […] in relazione agli oneri di custodia riguardanti i veicoli di cui la società si è resa acquirente con il contratto n. 18655 ed altri veicoli comunque da essa detenuti in custodia […] a garanzia del credito vantato da questa Amministrazione a titolo di penali, per gli accertati inadempimenti contrattuali, di importo pari ad euro 66.211.891,93” (v. decreto n. 3232/Cont. Rott. del 21.3.2006, allegato in copia, doc. 6). Tale provvedimento amministrativo, confermato dal Tar per la Campania con sentenza n. 2622 del 2006, confermata, a sua volta, dal Consiglio di Stato con decisione n. 5672/2008 (v. provvedimenti giurisdizionali allegati in copia, doc. 7 e 8), rende in ogni caso inesigibile il credito azionato dalla Cars s.a.s. con il decreto che qui si oppone. Anche da tali ulteriori deduzioni emerge in modo palese la temerarietà della lite già evidenziata, per cui si reiterano le medesime richieste espresse al punto 2). *** 4) INAMMISSIBILITÀ DEL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE, PER ILLEGITTIMO FRAZIONAMENTO DEL CREDITO (Cass. Sez. un. n. 23726/2007, Cass. n. 28719/2008, Cass. 1706/2010, G.d.P. di Trentola Ducenta, 3823/2008). 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Com’è noto, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 23726/2007, Cass. 28719/2008 e Cass. 1706/2010 che si allega in copia, doc. 9) e di merito (v. sentenza del G.d.P. di Trentola Ducenta, 3823/2008, pronunciata in analogo giudizio tra la (...) s.a.s. e il Ministero della Difesa, che si allega, doc. 10), ritiene precluso al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, il frazionamento del credito in plurime richieste giudiziali di adempimento – come, nella specie, più decreti ingiuntivi – contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione si pone in contrasto con il principio di correttezza e buona fede processuale nonché con il principio costituzionale del giusto processo, con conseguente abuso del processo. Da ciò deriva, secondo la citata giurisprudenza, l’inammissibilità di tutti i ricorsi per decreto ingiuntivo (“tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto la frazione di un unico credito sono da dichiarasi improponibili”) notificati all’Amministrazione opponente: nel caso oggetto del giudizio de quo, infatti, l’opposta (...) s.a.s. ha notificato all’opponente Amministrazione i suindicati decreti ingiuntivi, tutti basati sullo stesso “presupposto giuridico e fattuale” e cioè l’asserito diritto al corrispettivo per la custodia di veicoli sequestrati dal Ministero della Difesa e ad essa affidati, veicoli, lo si ripete, tutti oggetto del suindicato contratto di compravendita in seguito risolto giudizialmente. Sia consentito evidenziare, infine, che il suddetto frazionamento pare comunque contrario all’art. 49 del Codice Deontologico Forense secondo cui “L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita”. Anche da tali ulteriori deduzioni emerge in modo palese la temerarietà della lite già evidenziata, per cui si reiterano le medesime richieste espresse al punto 2). *** 5) PRESCRIZIONE DEL CREDITO AZIONATO. Si evidenzia che il credito riguarda prestazioni risalenti a dieci anni prima della notifica del ricorso. La relativa pretesa è quindi prescritta ai sensi dell’art. 2946 c.c. *** DOMANDA RICONVENZIONALE Da ultimo, l’Amministrazione, come sopra rappresentata e difesa, alla luce delle ragioni di fatto e di diritto esposte sub 2) del presente atto, intende proporre in questa sede contestuale domanda riconvenzionale, chiedendo che l’adito giudice accerti l’inesistenza di qualsivoglia debito del Ministero della difesa nei confronti della (...) S.a.s. non solo in relazione all’attività di deposito dei veicoli oggetto dei decreti ingiuntivi che si oppongono ma anche in relazione a tutti gli altri veicoli custoditi dalla (...) S.a.s. e ricompresi nel più volte citato contratto di compravendita n. di repertorio 18655 del 23.02.2000 (v. contratto n. di repertorio 18655 del 23.02.2000 ed allegato elenco dei veicoli alienati, in doc. 2 e 3), poi risolto con la più volte citata sentenza n. 8359/2003 del Tribunale di Napoli, confermata dalla Corte di appello di Napoli con sentenza n. 573/2010; sentenza che, alla luce di quanto sinora esposto, rappresenta l’unico titolo azionabile dalla società medesima (nei riguardi però del Ministero dell’Interno, quale organo di vertice della Prefettura di Napoli e non più nei riguardi del Ministero della Difesa, il quale in definitiva nulla più deve in relazione all’attività di custodia svolta dalla (...) S.a.s.). Alla luce, della spiegata domanda riconvenzionale avente valore indeterminato e che pertanto eccede la competenza per valore del Giudice adito, l’opponente Amministrazione chiede che, in applicazione dell’artt. 7, 10, 36 e 40, co. 6 e 7, c.p.c., l’adito Giudice di Pace rimetta l’intera CONTENZIOSO NAZIONALE 141 causa al Giudice superiore che, nella specie, in applicazione del principio del cd. Foro erariale sancito dall’art. 25 c.p.c. e art. 6 del Regio Decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, dovrà essere individuato nel Tribunale di Napoli. Sul punto, la giurisprudenza è pacifica: ex multis, si cita Cass n. 14858 del 23.11.2001: “Ne consegue, ancora, che qualora, come nella presente causa, l'attore chieda una decisione entro il limite di due milioni, ex art. 113, secondo comma, c.p.c., ed il convenuto, in via riconvenziale, proponga ulteriore, autonoma domanda eccedente tale limite, si determina, in ordine al valore, una somma tale da configurare sia, sicuramente, l'impossibilità di un giudizio secondo equità, sia, eventualmente (qualora l'intera controversia superi il valore massimo di trenta milioni) lo spostamento della competenza dal Giudice di Pace al Tribunale”. *** Tanto premesso, l’Amministrazione indicata in epigrafe, come sopra rappresentata, difesa e domiciliata, CITA La (...). s.a.s., in persona del legale rapp.te p.t., rappr.ta e difesa dagli avv.ti Stefano di Foggia e Anna Coppola ed el.te dom.ta in Caserta via Giotto n. 13, a comparire davanti al Giudice di Pace di Caserta, all’udienza che sarà tenuta il 15.12.2010 ore di rito, con l'invito a costituirsi nel termine e nelle forme stabilite dalla legge e con l’avviso che, in difetto, si procederà in sua contumacia, per ivi sentire accogliere le seguenti CONCLUSIONI “Voglia l’adito Giudice, previa revoca e/o dichiarazione di nullità dei decreti ingiuntivi opposti: 1) In via preliminare, pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale, rimettendo l’intera causa ex art. 36 c.p.c. in relazione agli artt. 25 c.p.c. e 6 del Regio Decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, alla cognizione del Tribunale di Napoli; 2) Dichiarare l’inammissibilità e/o l’infondatezza della domanda proposta con l’esperita procedura ingiuntiva per assenza del titolo azionato e, comunque, per l’inesigibilità delle somme oggetto dei decreti ingiuntivi; 3) In subordine, dichiarare l’intervenuta prescrizione del diritto di credito fatto valere dal creditore ingiungente; 4) Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa, con ulteriore condanna della società (...) S.a.s. al pagamento di una somma a titolo risarcimento del danno ex art. 96, comma 1, c.p.c. o, comunque di una somma equitativamente determinata ai sensi dell’art. 96, ultimo comma, c.p.c.”. Si dichiara che il valore della presente controversia, alla luce della spiegata domanda riconvenzionale, assume valore indeterminato e che pertanto il contributo unificato, da prenotarsi a debito, è di euro 187,00 Si allegano i seguenti documenti: (...) Napoli, 14 ottobre 2010 IL PROCURATORE DELLO STATO IL PROCURATORE DELLO STATO ALESSANDRO FERRI MARIANO VALENTE 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Sulle variazioni tariffarie dei pedaggi autostradali Legittimazione attiva per la tutela degli interessi adespoti e autonomia negoziale della PA. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza del 9 dicembre 2010 n. 8686) Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato interviene, ancora una volta, sul delicato tema degli incrementi delle tariffe autostradali. Quest’ultima pronuncia risulta peraltro di particolare rilievo in quanto, in essa, il collegio affronta alcune tra le più critiche tematiche del diritto amministrativo. Esamina infatti, da un lato, la vexata quaestio della legittimazione attiva per la tutela degli interessi adespoti, giungendo a riconoscerne la sussistenza a seguito di un complesso percorso argomentativo che si snoda attraverso quattro direttrici teoriche, e che segna il superamento degli indirizzi precedentemente espressi sul punto (1). Dall’altro, affronta il delicato profilo, evidentemente connesso al precedente, della autonomia negoziale della pubblica amministrazione e della natura paritetica del rapporto – regolato da strumenti tipicamente privatistici – intercorrente tra la parte pubblica concedente e il privato concessionario. La vicenda processuale e la decisione del TAR La vicenda decisa dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento trae origine da due distinti ricorsi proposti dalla Provincia di Teramo avverso gli incrementi tariffari applicati da Strada dei Parchi s.p.a. previa autorizzazione dell’ANAS. Con il primo ricorso (2) la Provincia contestava gli aumenti tariffari disposti per l’anno 2006; con il secondo la stessa ricorrente censurava le variazioni del pedaggio relative all’anno 2008. Il Tar Lazio (3), dopo aver disposto la riunione dei due ricorsi, procede (1) Cfr. CdS, Sez. IV, n. 399/07. (2) Parallelamente a tale ricorso, venivano presentati altri tre ricorsi (rispettivamente dalla Regione Lazio, dalla Regione Abruzzo e dalla Comunità Montana del Gran Sasso Zona O) aventi ad oggetto i medesimi aumenti tariffari disposti a decorrere dal 1° gennaio 2006 sulle reti A24 e A25. Di tali ricorsi, quello promosso dalla Regione Lazio veniva accolto dal TAR Lazio con la sentenza n. 9917/07. Quest’ultima tuttavia veniva riformata in grado d’appello, con la sentenza n. 399/07, per difetto di legittimazione attiva dell’ente proponente. Gli altri ricorsi venivano invece inizialmente proposti avanti al TAR Abruzzo, per poi essere successivamente rimessi al TAR Lazio, individuato come giudice territorialmente competente. Da ciascuno dei tre giudizi scaturivano altrettante sentenze con le quali il Tribunale accoglieva i relativi ricorsi aventi ad oggetto i medesimi aumenti tariffari già esaminati dal Consiglio di Stato nella predetta pronuncia n. 399/07. Tali sentenze venivano poi tutte riformate in appello (Cfr. CdS, Sez. IV, Sent. n. 8683/2010 Comunità montana del Gran Sasso - zona O; Sent. n. 8685/2010 Regione Abruzzo; Sent. n. 8686/2010 Provincia di Teramo). CONTENZIOSO NAZIONALE 143 in via preliminare all’esame delle questioni sollevate dalle parti resistenti in merito al difetto di legittimazione attiva della ricorrente. In aperto contrasto con una precedente sentenza del Consiglio di Stato avente ad oggetto i medesimi aumenti tariffari (4), il collegio afferma la sussistenza della legittimazione attiva in capo all’ente territoriale. Il giudice di prime cure, ritenendo di non aderire a quel precedente orientamento, sottolinea come la legittimazione attribuita ex lege alle associazioni rappresentative di utenti e consumatori non sia un’ipotesi eccezionale introdotta ex novo dal Codice del Consumo (5), bensì il risultato della graduale evoluzione giurisprudenziale (6) in tema di tutela degli interessi diffusi. Il TAR Lazio, sulla base di tali principi, ritiene di poter affermare la sussistenza della legittimazione degli enti territoriali, i quali, a seguito della riforma del Titolo V, si pongono come enti non solo esponenziali ma altresì rappresentativi (7) degli interessi della Comunità. Inoltre con specifico riferimento all’ente pubblico ricorrente, il giudice di prime cure, a conferma di quanto già sostenuto, richiama la normativa del (3) Sez. III, sent. 5108/2010. (4) Cfr. CdS, Sez. IV, Sent. 399/07, del 31 gennaio 2007. In quella occasione il Collegio aveva affermato il difetto di legittimazione attiva in capo alla Regione – ritenuta viceversa sussistente dalla sentenza di primo grado poi annullata in appello – sulla base dei seguenti argomenti: da un lato il rilievo secondo cui dall’attribuzione di competenze legislative e amministrative generali (ex art. 118 Cost.) in materia di trasporti e reti di comunicazione non deriverebbe, per ciò solo, la legittimazione ad agire; dall’altro la circostanza per la quale, essendo il ricorso teso ad accertare l’inadempimento della convenzione, si perverrebbe in tal modo al riconoscimento di una non prevista legittimazione di un terzo rispetto a tali obblighi convenzionali; infine l’affermazione secondo la quale mentre la legittimazione ad agire per utenti e consumatori a tutela di interessi collettivi e diffusi è prevista dalla legge, per l’ente pubblico territoriale, tale posizione, non può derivare direttamente dal ruolo di portatore di interessi generali della collettività. (5) Art. 139, D.lgs 206/2005. (6) Gli albori di tale processo vengono individuati nei primi tentativi giurisprudenziali – risalenti agli anni settanta ed ottanta – volti al riconoscimento della legittimazione attiva degli enti esponenziali per la tutela di interessi collettivi e diffusi, e che, solo negli anni successivi, avrebbero poi trovato riscontro sul piano del diritto positivo (Legge 349/1986 per le associazioni ambientaliste; d.lgs n. 206/2005 codice del consumo per le associazioni dei consumatori e degli utenti). Profilo critico di tale processo evolutivo, una volta agevolmente superato il problema relativo agli enti esponenziali muniti di personalità giuridica e a cui l’ordinamento attribuiva formalmente la cura di tali interessi, era rappresentato dalla legittimazione degli enti a base associativa costituiti dall’autonomia privata, come le associazioni di tutela ambientale. Alla luce della rilevanza costituzionale di tali interessi, la giurisprudenza cominciò ad affermare che il riconoscimento della legittimazione attiva ad associazioni locali per la tutela dell’ambiente andasse vagliato caso per caso, alla stregua dei criteri progressivamente elaborati per verificare, nel caso concreto, la sussistenza del discusso presupposto processuale. (7) Il TAR Lazio afferma sul punto che “con la riforma del titolo V della Costituzione è stata esplicitata la funzione degli enti territoriali di cura concreta degli interessi della collettività di riferimento; ciò sia in relazione alla autonomia di cui all’art. 114 della Costituzione (I Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione), sia in relazione alla espressa previsione del principio di sussidiarietà (art. 118 della Costituzione) che affida all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta di interessi”. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 TUEL che individua le specifiche funzioni della Provincia (8), dalle quali deriverebbero importanti conferme sul piano della legitimatio ad causam degli enti territoriali. Nel merito il giudice di prime cure ritiene fondate le doglianze di parte ricorrente, stante la ravvisata illegittimità, per difetto di istruttoria e motivazione, degli atti con cui ANAS ha autorizzato gli aumenti relativi all’anno 2006. Del pari affetta da vizio di istruttoria e motivazione viene ritenuta l’autorizzazione alla variazione del pedaggio autostradale disposta, nell’agosto 2008, a seguito del raddoppio della carreggiata nel tratto Basciano Teramo. Le difese in grado d’appello La motivazione brevemente illustrata si presentava censurabile principalmente sotto due dirimenti e connessi profili: da un lato, quello preliminare e attinente alla legittimazione attiva in capo agli enti territoriali ricorrenti; dall’altro, quello di merito e relativo alla natura della posizione giuridica soggettiva dei due contraenti ANAS e Strada dei Parchi. Ed è su tali nodi problematici che si sono prevalentemente attestate le posizioni delle parti appellanti. Sotto il profilo della carenza di legittimazione, tali difese sottolineano infatti la non ravvisabilità, nel caso di specie, di un collegamento necessitato tra la residenza dei cittadini nell’ambito regionale su cui la tratta autostradale insiste e il pagamento del relativo pedaggio su cui gli incrementi vanno ad impattare (9). Per quanto attiene invece al merito, la parte più corposa delle argomentazioni delle parti appellanti si staglia sul piano della natura giuridica delle posizioni soggettive delle due parti contraenti. Le tesi sostenute muovono dal rilievo secondo cui gli aumenti relativi (8) Si tratta in particolare degli artt. 19 e 20 del D.lgs. 267/2000 (TUEL). Tali disposizioni fanno riferimento alla funzione di “viabilità e trasporto” nonché alla funzione, da svolgersi in collaborazione con i comuni, di promozione e coordinamento delle attività, e di realizzazione di opere di rilevante interesse provinciale nel settore economico, produttivo, commerciale, turistico, sociale, culturale e sportivo. (9) A ciò la difesa erariale aggiunge il rilievo secondo cui la giurisdizione amministrativa resta pur sempre una giurisdizione soggettiva a tutela di specifiche situazioni di interesse differenziato e qualificato. Viceversa l’ente territoriale risulta affidatario di interessi generali “tout court pubblici”, cioè non qualificati e, come tali, inidonei a configurare l’interesse a ricorrere in un giudizio amministrativo. In quest’ottica – prosegue l’Avvocatura – il ragionamento del TAR, se portato alle estreme conseguenze, comporterebbe la legittimazione dello Stato – ente esponenziale della collettività nazionale – ad impugnare tutti gli atti che incidono sul proprio territorio, trasformando la giurisdizione amministrativa in un giudizio di natura prevalentemente oggettiva. Infine, ponendosi nel solco tracciato dal Consiglio di Stato, le parti appellanti, premessa la natura contrattuale degli aumenti oggetto di causa, sostengono il difetto di legittimazione attiva degli enti territoriali, in quanto soggetti terzi rispetto a contestazioni ricadenti su atti di natura negoziale. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 all’anno 2006 traggano fondamento dalla convenzione stipulata tra concedente e concessionaria, le cui particolarità riflettono imperative esigenze di carattere economico-finanziarie onde poter far fronte alla delicata situazione contabile ereditata della precedente gestione (10). Da tali rilievi si fa derivare la natura di mero adempimento rivestita dagli aumenti autorizzati per l’anno 2006, i quali sarebbero quindi stati autorizzati dall’ANAS in esecuzione di un’obbligazione dalla stessa assunta in sede di stipula della convenzione. In riferimento invece agli aumenti disposti nell’agosto 2008 le parti appellanti osservano come trattasi di fattispecie materialmente diversa dalla precedente e non ricadente nell’ambito di operatività del principio del price cap, integrando un’ipotesi di semplice incremento del pedaggio e non già di tariffa autostradale, la quale viceversa risulta inalterata. La pronuncia del Consiglio di Stato n. 8686/2010. Brevi riflessioni: la legittimazione degli enti territoriali e la natura convenzionale degli aumenti disposti Con la pronuncia n. 8686/2010, il Consiglio di Stato, in via preliminare, ritiene sussistente la legittimazione attiva degli enti territoriali ricorrenti attraverso un complesso iter argomentativo che tiene conto delle innovazioni normative medio tempore sopraggiunte (11) e che si snoda attraverso quattro diverse direttrici teoriche (12). (10) Nel 1963, infatti, la società S.A.R.A. (Società Autostrade Romane e Abruzzesi) veniva incaricata della costruzione e dell’esercizio dell’autostrada Roma – L’Aquila. Venutasi poi a trovare in una situazione di grave esposizione debitoria veniva dichiarata decaduta dalla concessione (D.L 19/77 convertito nella L. 106/77) con successione dell’Anas in tutti i rapporti atti e passivi in corso, ad esclusione di quelli concernenti il personale dipendente e quelli derivanti da responsabilità civile per violazione di norme penali. Tale “gestione per conto Anas”, pur protrattasi per lungo tempo (e precisamente dal 1977, anno in cui la concessionaria fu dichiarata decaduta, fino al 2000 anno di pubblicazione del nuovo bando di concessione) mantenne tuttavia carattere di gestione provvisoria, per ciò caratterizzata da una politica principalmente volta al risanamento del dissesto finanziario, più che a nuovi investimenti. (11) Si richiama in particolare il decreto legislativo 20 dicembre 2009 n. 198 – Attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici. (12) Il primo di questi “snodi concettuali” consiste nel ritenere che “i diritti dei cittadini in tema di interessi diffusi possano trovare modi di esercizio paralleli ed ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dell’attribuzione della loro cura ad uno soggetto pubblico predeterminato sia esso già esistente o costituito ad hoc”. Dalla ricognizione effettuata dal giudice di prime cure deriva infatti, da un lato, la costante ricerca di un criterio di collegamento tra gli interessi adespoti, che appartengono ontologicamente a tutti i componenti di una collettività, e le regole di un determinato sistema processualistico, le quali richiedono che l’interesse sotteso all'azione sia strutturato secondo i tratti della qualificazione e differenziazione. Vengono in particolare richiamati quegli indici esteriori di elaborazione giurisprudenziale (personalità del soggetto agente, conformità dell’azione proposta ai suoi fini statutari, collegamento stabile con l’interesse protetto, etc.) che hanno consentito il riconoscimento della legittimazione attiva in capo a determinati soggetti, 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Tale complessa ricostruzione (su cui Vedi nota n. 12) appare però prestare il fianco a vari rilievi critici. In particolare l’analisi sembra dover prendere le mosse dal secondo dei quattro snodi concettuali attraverso cui si sviluppa il percorso argomentativo del Consiglio, e cioè quello attinente “alla possibilità di riconoscere, sic et simpliciter ed in assenza di un'espressa disposizione normativa, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei o, nel caso in esame, agli enti territoriali in virtù del loro collegamento con la collettività ivi stanziata e facendo perno sull'unico cardine della rappresentatività”. Muovendo da tale ipotesi di lavoro occorre allora stabilire se l’ente in questione esprima un adeguato grado di rappresentatività degli interessi coinvolti e se possa, per ciò stesso, farsene portatore e qualificarsi come ente esponenziale di un interesse collettivo o diffuso. Sul punto si era negativamente espresso il Consiglio di Stato nella citata pronuncia del 2007. Secondo quel precedente indirizzo, infatti, mentre per i singoli utenti e per le associazioni di consumatori la legittimazione ad agire è espressamente prevista dalla legge, nel caso dell’ente pubblico territoriale – in assenza di un tale espresso riconoscimento – tale legittimazione non può derivare direttarispondendo a quelle istanze di tutela ancora prive di soddisfazione sul piano del diritto positivo. Dall’altro il Consiglio evidenzia come, in tal modo, la giurisprudenza amministrativa abbia ritenuto che tali interessi non fossero di esclusiva pertinenza dell’azione pubblica, lasciando viceversa ai singoli la possibilità di attivare ulteriori istanze di tutela. Il secondo snodo concettuale attiene alla possibilità di riconoscere, in assenza di un’espressa disposizione normativa, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei – o come nel caso di specie agli enti territoriali – sulla base del criterio della rappresentatività. Gli enti territoriali – secondo il Collegio – si presentano, in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione, come soggetti cui è stata assegnata la cura concreta degli interessi della collettività di riferimento. Sul punto il Collegio richiama, da un lato, il novellato art. 114 Cost. ai sensi del quale i Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione, dall’altro, l’art. 118 Cost. contenente la previsione del principio di sussidiarietà, che vede affidato all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta degli interessi. Ciò consentirebbe, con la ricorrenza di altri presupposti, di riconoscere la loro legittimazione attiva anche in assenza di un riconoscimento normativo esplicito. Il problema allora è quello di individuare il collegamento tra l’ente e l’interesse che si intende tutelare, ricercando nei “criteri usuali e [in] quelli che discendono dall’analisi del tessuto ordinamentale”. Il terzo snodo concettuale è allora rappresentato dalla valorizzazione del D.lgs. 198/2009 “Attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”. Tale normativa, sopravvenuta rispetto alla decisione n. 399/07 e non ancora del tutto applicabile in assenza dei decreti di attuazione, è tuttavia, secondo il collegio, in grado di fornire precisi criteri per l’imputazione della legittimazione, tali da determinare e giustificare il superamento di quel precedente orientamento ad opera della pronuncia in commento. Infine, il quarto ed ultimo snodo teorico consiste nell’esame, da parte del collegio, delle argomentazioni proposte dagli appellanti in ordine alla natura convenzionale degli aumenti tariffari, cui sarebbe sotteso un rapporto tra concedente e concessionaria – paritetico e di natura privatistica – tale da escludere la legittimazione di terzi estranei a detto rapporto in ordine alla corretta esecuzione del contratto. CONTENZIOSO NAZIONALE 147 mente dal ruolo di portatore di interessi generali della collettività territoriale. Del resto, in assenza – anche – di una disposizione che espressamente attribuisca la cura di una determinata funzione ad un ente territoriale – volendo ritenere in essa compresa anche l’attribuzione della legittimazione per la tutela della funzione assegnata – questo rimane infatti portatore di un generico interesso pubblico, che non può dirsi né “concreto” né “speculare”. Partendo da tali premesse, al fine di riconoscere la legittimazione dell’ente territoriale, occorre allora ricercare elementi ulteriori in grado di fondare il necessario collegamento tra ente ed interesse azionato, non risultando a ciò sufficiente il generico richiamo ai poteri generali di cui gli enti territoriali risultano attributari. In apparente continuità rispetto a tali considerazioni, nella sentenza n. 8686/2010 il collegio sostiene che, mentre laddove vi è una specifica disposizione di legge che attribuisce all’ente una determinata funzione, vi sarebbe anche il riconoscimento esplicito della legittimazione ad agire per la relativa tutela, qualora viceversa, una siffatta previsione manchi, non vi sarebbe tuttavia ragione per trattare questi enti generali in maniera difforme e deteriore rispetto a qualsiasi associazione privata. Ma se così è allora, dovendo il riconoscimento della legittimazione risultare ancorato al criterio della rappresentatività dell’ente, l’indagine dovrebbe essere condotta, come peraltro riconosciuto nella stessa pronuncia in commento (13), alla stregua di quei parametri che hanno guidato la giurisprudenza nella predetta evoluzione. Come noto, in base a tali criteri l’attenzione dovrebbe focalizzarsi, in primo luogo, sul fine istituzionale perseguito dal soggetto, dovendo esso consistere – per espressa previsione statutaria – nella protezione di quel determinato bene o interesse. In secondo luogo dovrebbe analizzarsi il grado di rappresentatività e la stabilità della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere tale da consentire lo svolgimento della specifica attività istituzionale in modo continuativo ed efficace rispetto alle istanze collettive di tutela. Da ultimo rileverebbe il criterio della cd. vicinitas, in grado di valorizzare il necessario stabile collegamento tra l’area di afferenza dell’attività dell’ente ed il territorio in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso. In disparte ogni considerazione circa la possibilità di sopperire all’assenza (13) “Come si è sopra notato, la giurisprudenza amministrativa, nel tentativo di strutturare l'interesse adespota, ha cercato di individuare una serie di elementi tali da dare dimostrazione del collegamento tra interesse azionato e soggetto agente, enucleando una serie di principi ancora fondamentalmente validi ed applicabili. Ritiene la Sezione che un tale criterio, che richiede una pluralità ed una contestualità di elementi, possa valere anche in relazione alla legittimazione degli enti territoriali in fattispecie in cui gli stessi non risultino attributari ex lege di specifiche competenze in materia”, Cfr. CdS, 399/07, par. 1.1. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 di una espressa previsione normativa (14) attraverso l’applicazione di tali criteri giurisprudenziali, questi appaiono comunque di dubbia applicabilità agli enti territoriali in giudizio. Calando gli stessi nella fattispecie per cui è causa i primi dubbi sorgono, infatti, già con riferimento alla sussistenza, nel caso di specie, del primo dei tre requisiti individuati, e cioè quello relativo al fine istituzionale previsto dallo statuto. Onde vagliarne la ricorrenza, occorre allora preliminarmente individuare il bene o l’interesse che con l’azione si intende tutelare, per poi verificarne la coincidenza con il fine istituzionale che, alla stregua delle previsioni statutarie, il soggetto persegue. Così il giudice di prime cure, individuato nella “congruità delle tariffe autostradali” il bene che si intende tutelare attraverso il proposto ricorso, ricollega la legittimazione dell’ente territoriale ad azionare tale interesse, alle attribuzioni in tema di viabilità o di trasporti di cui l’ente stesso risulta affidatario. Tuttavia l’interesse alla congruità delle tariffe appare difficilmente riconducibile alle competenze che, in tema di viabilità o trasporti, risultano attribuite all’ente locale. Tali funzioni, previste dall’art. 19, comma 1, lett. d) del D.lgs 267/00 (TUEL) e richiamate dai giudici di primo e secondo grado, si caratterizzano infatti, per espressa volontà del legislatore, per la loro “territorialità”, e cioè per la loro natura di “funzioni amministrative di interesse provinciale”. Ciò significa che la funzione attribuita non ha carattere generale, ma in tanto può essere esercitata in quanto presenti un ineliminabile collegamento con il territorio. Tale collegamento richiede, da un punto di vista oggettivo, che la funzione riguardi beni collocati nel territorio provinciale e, da un punto di vista soggettivo, che i destinatari della funzione amministrativa debbano necessariamente presentare un legame con il territorio – provincia. Tale collegamento non sembra tuttavia riscontrabile nel caso di specie, stante il rilievo secondo cui l’incidenza degli atti di determinazione delle tariffe autostradali evidentemente eccede i confini provinciali. Da un lato infatti la tratta in questione insiste su un’area che non coincide con il territorio della provincia (né con quello della regione) travalicandone i confini; dall’altro l’interesse azionato non corrisponde a quello di tutti i residenti, né solo a quello (14) Si allude in particolare al rilievo secondo il quale attraverso il Codice del Consumo il legislatore ha provveduto a fissare in termini analitici i requisiti minimi di rappresentatività, prevedendo specificamente le categorie soggettive cui riconoscere tale legittimazione, mediante una formulazione che non ricomprende gli enti territoriali nel novero dei soggetti legittimati. Dovrebbe, in altri termini, anche vagliarsi se una tale previsione normativa lasci i necessari margini di manovra per la ricostruzione operata nella pronuncia in commento. CONTENZIOSO NAZIONALE 149 dei residenti nel territorio provinciale. Del resto le reti infrastrutturali della A24 e della A25 sono destinate, per la loro localizzazione, ad una mobilità significativamente più ampia del mero traffico locale. Conseguentemente l’interesse alla congruità delle tariffe presenta, del pari, portata che esorbita dalla dimensione provinciale. Le riserve testé formulate sembrano valere, escludendone la sussistenza, anche in riferimento al connesso presupposto della cd. vicinitas. Né tali requisiti potrebbero ritenersi soddisfatti dal generico richiamo ai “poteri generali di tutela degli interessi rilevanti per la collettività stanziata” di cui gli enti risultano affidatari nel quadro costituzionale scaturente dalla modifica del titolo V (15). Un tale richiamo, infatti, vale esclusivamente a radicare, in capo agli enti de quibus, la sola titolarità di un interesse pubblico tout court che, in assenza di un collegamento con le specifiche funzioni da essi perseguite, non riesce ad assumere la consistenza di un interesse diffuso o collettivo, presentandosi quindi inidoneo ad integrare i caratteri della qualificazione e differenziazione necessari ai fini dell’azionabilità di un siffatto interesse (16). Estremamente chiara sul punto appare, del resto, la precedente posizione assunta dai Giudici di Palazzo Spada, nella quale fermamente si esclude che la legittimazione ad agire da parte dell’ente pubblico territoriale (regione, provincia o comune) possa derivare direttamente dal ruolo di portatore di interessi generali della collettività territoriale. Inoltre a ciò osterebbe comunque quella sorta di limite interno, ricavabile dal quadro delineato dallo stesso TUEL, nel quale la Provincia non assurge ad ente a competenza generale o residuale in quanto le sue funzioni incontrano un limite non solo nella dimensione provinciale dell’interesse ma anche nella elencazione di materie contenuta nell’art. 19. Da ciò deriva che la tipologia degli interessi la cui cura può ritenersi affidata alla Provincia riflette – e sconta – gli stessi limiti territoriali cui soggiacciono le funzioni ad essa ascritte. Ma v’è di più. Da quanto detto, infatti, sembra emergere la necessità di spostare il baricentro dell’indagine sul diverso piano della compatibilità con (15) Cfr. sul punto CdS, Sez. IV, n. 399/07 secondo la quale “il richiamo alla ripartizione di competenze generali, sia legislative che amministrative, non è sufficiente a radicare in capo alla Regione Lazio l’interesse ad agire a tutela dell’utenza; né vale osservare che essa può agire nell’interesse della collettività regionale, in quanto la vicenda non necessariamente e non solo coinvolge i soli residenti nella Regione interessata (o i soli residenti in ambiti territoriali minori)”. (16) Cfr. sul punto CdS, Sez. IV, n. 399/07 secondo la quale “la legittimazione ad impugnare gli atti generali di determinazione delle tariffe va riconosciuta sul piano astratto delle tipologie soggettive, agli utenti, alle associazioni di consumatori e di categorie ad enti esponenziali di interessi diffusi e collettivi; va nella specie esclusa la legittimazione a ricorrere da parte di ente esponenziale di interesse non già collettivo o diffuso (pur sempre concreto e speculare) ma tout court pubblico, quale l’ente territoriale regione”. 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 l’assetto ordinamentale dell’affidamento di un siffatto interesse agli enti territoriali. In altri termini, stante la dimensione ultra-provinciale dell’interesse azionato (il quale per il vero non sembra presentare alcun collegamento necessitato con l’elemento “territorio”) il problema sembra essere non tanto – o non solo – l’assenza di una legge che espressamente attribuisca all’ente territoriale una determinata funzione con la relativa legittimazione ad agire per la sua tutela, quanto piuttosto la presenza, nel diritto positivo, di disposizioni che sembrano escludere una tale legittimazione così come ricostruita dal collegio. Appare dunque dubbia la riferibilità dell’interesse azionato al soggetto agente, sia che si cerchi di ricondurre tale interesse alle funzioni assegnate alla Provincia, sia che si intenda radicare un siffatto collegamento nei generali poteri attribuiti agli enti territoriali. Il collegio allora, consapevole di tali difficoltà e a fronte della perentorietà dell’indirizzo precedentemente espresso, dopo aver affermato la matrice costituzionale dei poteri generali di cui gli enti territoriali risultano affidatari ai sensi degli artt. 117 e 118 Cost., riconosce la necessità di cercare aliunde il fondamento della legittimazione di tali enti, e segnatamente “nell’analisi del tessuto ordinamentale”. Tale preoccupazione evidentemente tradisce, confermandola, l’insufficienza del dato relativo al ruolo costituzionale degli enti in questione, che spinge il collegio alla predetta peregrinazione verso il D.lgs. 198/09. In disparte ogni considerazione circa la differente dimensione dell’interesse sotteso a tale normativa e le conseguenti riserve formulabili in ordine alla stessa conferenza di un siffatto richiamo, il citato decreto contiene criteri che, a ben vedere, ripropongono problemi analoghi a quelli già affrontati. In particolare l’art. 1 del D.lgs. 198/09 fonda la legittimazione ad agire sulla sussistenza di tre presupposti: a) l’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori; b) la riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare; c) l’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi. Ora, il requisito sub b) ripropone la necessità di verificare l’esistenza di un collegamento tra soggetto agente ed interesse azionato, che a ben vedere rappresenta esattamente il punto di partenza dell’indagine. La questione dunque sembra in tal modo avvitarsi su se stessa, posto che una tale operazione dovrebbe ancora avvenire alla stregua dei criteri tradizionali già analizzati (fine perseguito – stabilità – vicinitas) i quali, come detto, non sembrano tuttavia applicabili alla fattispecie in esame. Il collegio viceversa, assumendo per dimostrato proprio quello che invece si cercava di dimostrare, ha ritenuto sussistenti “ex se i primi due elementi della fattispecie, stante il ruolo costituzionale prima esaminato”. CONTENZIOSO NAZIONALE 151 Tale ruolo costituzionale, pertanto, da semplice punto di partenza da cui muovere alla ricerca di presupposti ulteriori, diventa, di fatto, il fondamento principe della legittimazione. Sicché, nella sentenza in commento, se da un lato si afferma che anche laddove un’espressa legittimazione manchi, “non si vede ragione per trattare questi enti generali in maniera difforme e deteriore rispetto a qualsiasi altra associazione privata”, dall’altro si finisce, effettivamente, per trattare tali enti generali in maniera difforme – ma non deteriore – rispetto alle associazioni private (17). Mentre infatti l’ente esponenziale di interessi collettivi deve caratterizzarsi per una organizzazione funzionalmente orientata alla protezione degli specifici interessi perseguiti, una tale funzionalizzazione non sembra possa in alcun modo predicarsi con riferimento agli enti territoriali. Ciò significa che l’interesse azionato nel caso di specie non vede nell’ente territoriale il proprio riferimento istituzionale. Proseguendo nell’analisi intrapresa, sembra allora che il valore aggiunto apportato dal citato decreto sia dato esclusivamente dal terzo dei requisiti previsti, e cioè quello attinente all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale (salvo poi verificarne il peso effettivo in vista della risoluzione della fattispecie in esame). Tale requisito sub c) – secondo il collegio – può considerarsi integrato da un danno, “diffuso seppure di entità contenuta, che possa ricadere sull’intera collettività e che, non giustificando l’intervento del singolo cittadino, autorizza tuttavia l’ente esponenziale a farsene carico, secondo la logica del contrasto al fenomeno delle cd. small claims ”. Tuttavia, a ben vedere, tale requisito attiene al diverso profilo dell’interesse ad agire, quale generale condizione dell'azione di annullamento di- (17) Rispetto alle associazioni di categoria, si segnala peraltro la modifica dell’ampiezza della legittimazione attiva, intervenuta ad opera dell’art. 49, comma 1, l. 99/2009. Il testo previgente a tale modica riconosceva la legittimazione ad agire, da un lato, alle associazioni rappresentative degli interessi dei consumatori e degli utenti di cui all’art. 139 Codice del Consumo (cioè quelle inserite nell’elenco di cui all’art. 137) dall’altro, alle associazioni e ai comitati che fossero adeguatamente rappresentativi degli interessi coinvolti. Tale disposizione sembrava pertanto introdurre una sorta di “doppio binario”, al pari di quanto affermatosi, in tema di ambiente e per mano giurisprudenziale, in riferimento all’elenco nazionale individuato dal Ministero dell’Ambiente ai sensi dell’art. 13, l. 349/86. Il nuovo art. 140bis, attualmente rubricato “Azione di classe” si limita a disciplinare la “nuova azione”, senza nulla prescrivere in ordine alla relativa legittimazione, la quale pertanto rimane disciplinata dal solo – ed invariato – art. 139, il quale, prevede la legittimazione ad agire per le sole associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’art. 137. Da ciò potrebbe quindi argomentarsi che mentre sotto il vigore del testo precedente fosse comunque possibile l’opera giurisprudenziale tesa a valutare, caso per caso, la rappresentatività di un ente, un tale percorso debba viceversa considerarsi escluso a seguito dell’intervento del 2009, con cui il Legislatore ha inteso restringere i cordoni della legittimazione attiva. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nanzi al G.A., che, come noto, deve essere personale, attuale e concreto in quanto dettato da uno specifico pregiudizio arrecato ad un proprio bene della vita. Tale condizione, che appare come un posterius logico rispetto al differente profilo della legittimazione al ricorso, non può quindi essere confusa con questa, la quale coincide con la titolarità della situazione soggettiva sulla quale si innesta l'interesse legittimo che si vuol far valere in giudizio (18). Del resto risulta pacifico che la necessaria presenza dell’interesse al ricorso, scaturente da una lesione immediata ed attuale, costituisce fondamentale principio del vigente sistema processuale nonché ineludibile condizione dell’azione anche nell’ambito della giurisdizione amministrativa (19). Conseguentemente tale normativa sopravvenuta non sembra apportare elementi idonei a giustificare il superamento del precedente orientamento espresso dal Consiglio di Stato sulla legittimazione attiva degli enti territoriali. Ravvisare dunque, in ultima analisi, il collegamento tra soggetto agente e interesse azionato nel solo ruolo costituzionale degli enti territoriali, appare una pericolosa forzatura interpretativa idonea ad allargare eccessivamente le maglie della legittimazione attiva. Del resto, come sottolineato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 399/07, la stessa Adunanza Plenaria n. 1/2007, in tema di tutela della utenza e dei consumatori, avrebbe operato nel senso di limitare e non ampliare la legittimazione ad agire, ritenendola “sussistente per le associazioni a tutela di interessi collettivi o diffusi, perché consentita dal c.d. codice del consumo, ma non già quella di enti pubblici portatori di interessi pubblici” (20). Sembra pertanto doversi condividere quel precedente orientamento, maggiormente rispondente al vigente quadro normativo, con cui il Consiglio di Stato ha escluso la legittimazione dell’ente territoriale ricorrente (21). Né minori perplessità sembra poi destare il quarto snodo concettuale in cui il collegio esamina le argomentazioni degli appellanti in ordine alla natura convenzionale degli aumenti tariffari, tale da escludere la legittimazione di terzi estranei a detto rapporto in ordine alla corretta esecuzione del con- (18) Cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 10 aprile 2009, n. 2235. (19) Cfr. sul punto TAR Piemonte Torino, Sez. I, sent. 2848/2010 nella quale si legge che “è ignoto al nostro sistema processuale un generalizzato controllo della legalità, affidato alle iniziative di soggetti che non abbiano sofferto un pregiudizio immediato ed attuale, chiarendo che […] è preclusa ai soggetti collettivi, alla stessa stregua dei soggetti individuali, la tutela giudiziale della astratta legalità dell’azione amministrativa, non essendo le associazioni, allo stato attuale, legittimate ad agire a difesa obiettiva dell’ordinamneto violato, ma solo a presidio di situazioni soggettive concretamente e direttamente incise dalle violazioni del diritto (Consiglio di Stato, Sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 416, p. 3.4 motivo)”. (20) Cfr. CdS, Sez, IV, Sent. 8686/2010, par. 4. (21) In quel caso si trattava di una Regione, ma, come espressamente affermato dal Consiglio, le argomentazioni illustrate risultano applicabili anche a comuni e province. CONTENZIOSO NAZIONALE 153 tratto. L’esistenza di un rapporto paritetico, convenzionale o contrattuale, infatti non escluderebbe – secondo il Consiglio – la possibilità di un controllo sulle modalità con cui tale rapporto è gestito. Una tale conclusione sarebbe imposta dallo stesso sistema del diritto amministrativo, pena viceversa la sterilizzazione di “qualsiasi possibilità di valutazione del comportamento della pubblica amministrazione che, con il facile impiego di strumenti privatistici, potrebbe agevolmente sottrarsi addirittura ai suoi compiti istituzionali ”. Il Consiglio indaga quindi la peculiare natura della autonomia privata dei soggetti pubblici, sottolineando come, mentre per i privati questa si sostanzi nella capacità di autodeterminarsi relativamente ai fini da perseguire, per la PA i fini sono comunque eterodeterminati dalla legge, con tutte le riserve che questo comporta in ordine alla stessa configurabilità dell’autonomia privata nelle scelte amministrative. Pertanto, conclude il collegio, “quando si verte in un rapporto paritetico, l’azione del contraente pubblico, sebbene limitata dal regolamento contrattuale, non si sottrae, nella sua concreta esplicazione, agli usuali meccanismi di controllo tipici del diritto amministrativo, atteso che si agisce in attività di concreta gestione degli interessi pubblici affidati all’ente, la cui cura è svolta tramite strumenti non di diritto amministrativo”. In altri termini, nonostante si verta in un rapporto di natura paritetica, nella fase di esecuzione di tale contratto, troverebbero comunque spazio gli usuali meccanismi di controllo tipici del diritto amministrativo, con conseguente possibilità, in capo a soggetti terzi rispetto a tale rapporto, di censurare le concrete modalità di esecuzione di un contratto. Dopo aver affermato la neutralità della natura dello strumento contrattuale rispetto alla possibilità di un suo impiego per fini pubblicistici, il collegio afferma la sussistenza, anche sotto questo profilo, della legittimazione degli enti locali. Ora, pur essendo pacifico che l’autonomia della PA presenta caratteri del tutto peculiari rispetto a quella dei soggetti privati, con particolare riferimento alla funzionalizzazione e al vincolo di scopo che comunque deve caratterizzarne l’attività, non sembra tuttavia da ciò possibile far discendere quanto dal collegio sostenuto. Con la fase esecutiva del contratto si entra infatti nella dimensione strettamente privatistica, tanto da segnare, in tema di appalti, anche il confine tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria. Che poi, nel caso di specie, permangano rilevanti momenti pubblicisitici, che si sostanziano, esaurendosi in esso, nel potere di vigilanza attribuito all’ANAS, non significa che un tale momento pubblicistico possa ragionevolmente estendersi fino a riconoscere, in capo a soggetti terzi, il potere di 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sindacare le concrete modalità di esecuzione del contratto (22). Non convince quindi il corredo motivazionale della pronuncia in commento nella parte in cui, da un lato afferma la natura paritetica del rapporto contrattuale intercorrente tra concedente e concessionario e, dall’altro, ammette la sindacabilità della corretta esecuzione di tale rapporto da parte di soggetti ad esso estranei, travolgendo i più elementari fondamenti civilistici. Delle due l’una: o si riconosce la natura contrattuale del rapporto limitando alle sole parti la possibilità di censurarne l’esecuzione, oppure dovrebbe affermarsi, in modo del tutto anacronistico, la natura di provvedimento amministrativo della determinazione delle tariffe. E tale ultima alternativa non sembra condivisibile. Tralasciando tutti i rilievi in ordine alle definizioni legislative della concessione di servizi come “contratto”, preme osservare come la nuova struttura di regolamentazione delle tariffe, oggetto delle delibere CIPE del 1996, rappresenti il significativo passaggio da tariffe stabilite per via amministrativa (e per mano ministeriale) ad una situazione in cui la determinazione dei prezzi viene rimessa, nel rispetto di limiti e criteri stabiliti, alle società concessionarie. Dovrebbe quindi concludersi, come peraltro sostenuto dagli appellanti, che la natura convenzionale della fonte è tale da limitare la legittimazione attiva alle sole parti contraenti (23). Conseguentemente, nel caso di specie, l’unico soggetto titolato a pretendere una riduzione della tariffa sarebbe stata la sola concedente ANAS, essendo la sola a possedere la qualità di parte e la relativa legittimazione che ne consegue. Dovrebbe invece escludersi la legittimazione attiva degli enti territoriali, i quali viceversa, alla stregua di quanto detto, dovrebbero essere configurati come soggetti terzi rispetto al rapporto negoziale e, come tali, privi della capacità di incidere sulle relative clausole contrattuali. Per altro verso, non sembra esimersi da censure neanche la parte motiva relativa al merito. Sul punto può osservarsi quanto segue. Pienamente condivisibile appare l’affermazione secondo cui il fondamento degli aumenti tariffari debba essere ravvisato nella stessa convenzione stipulata tra le parti e nelle peculiarità che hanno caratterizzato il momento (22) Secondo il Consiglio di Stato “pare difficile sostenere che sussistano la legittimazione dell’interesse ad agire da parte di ente pubblico territoriale (terzo) nella ipotesi in cui la natura delle censure riguardi pretesi inadempimenti, che tuttavia non risultano esistenti secondo le parti della concessione e, anzi, l’aumento tariffario sia autorizzato e/o consentito dall’ente pubblico concedente. Si pone cioè (anche) il problema della legittimazione e interesse ad agire del terzo per fare valere l’inadempimento in un rapporto nel quale tra le parti – e secondo le parti – vi è soddisfazione” (Cfr. CdS, Sez. IV, sent. n. 399/07). (23) Nello stesso senso si esprime la citata pronuncia n. 399/07 del Consiglio di Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 155 genetico del rapporto tra di esse intercorrente (24). Al fine di sanare la precedente situazione contabile, infatti, l’Anas indiceva una licitazione privata per l’affidamento della concessione (25), ponendo tra i criteri di aggiudicazione, non solo la tariffa di pedaggio proposta, ma anche il corrispettivo da offrirsi al concedente. Veniva predisposto anche uno schema di piano finanziario in cui si prevedeva che i soggetti concorrenti potessero stabilire una variazione tariffaria tale da garantire un aumento cumulato della tariffe non inferiore al 50%, lasciando ai singoli concorrenti la facoltà di fissare, nelle condizioni di offerta, l’effettiva entità di tale incremento e le relative modalità di applicazione (e cioè se disporlo in un’unica o più soluzioni). In tale prospettiva tanto l’entità dell’aumento tariffario quanto le concrete modalità di applicazione dello stesso, costituivano parte dell’offerta e, come tali, oggetto di valutazione, sia da parte della concessionaria, in ordine alla convenienza dell’assunzione della gestione oggetto di gara, sia della concedente, in relazione alla preferenza accordata alla aggiudicataria rispetto agli altri concorrenti. Successivamente la convenzione, recependo quanto stabilito sul punto dal bando e dalla conseguente lettera di offerta di Strada dei Parchi, stabiliva che l’applicazione di tale aumento fosse spalmato sul successivo quinquennio, incorporandolo, in ossequio alle delibere del CIPE, nella formula del price cap mediante la fissazione, nella convenzione, dei valori predeterminati da assegnare alla variabile X. Ciò del resto rappresentava solo una delle possibili modalità operative di applicazione dell’incremento pattuito (incremento che, come detto, avrebbe potuto anche essere disposto in un’unica soluzione e già a partire dal primo anno di concessione). Gli artt. 7 e ss. della Convenzione, stabilendo poi i criteri e le procedure di determinazione del progressivo aumento dei pedaggi, mostravano chiaramente la stretta correlazione con lo specifico rapporto sottostante, rispetto al quale l’incremento tariffario assume la veste di diritto soggettivo del concessionario a fronte di una corrispondente obbligazione del concedente. Ora, il giudice d’appello ha ritenuto errata la ricostruzione effettuata dal TAR Lazio, nella misura in cui l’indagine veniva in quella sede focalizzata sulla correlazione tra gli aumenti tariffari e l’effettuazione degli investimenti (24) Il collegio ripercorre infatti le vicende storiche, esposte dagli appellanti, rilevando come “fin dalla predisposizione della disciplina della gara ad evidenza pubblica, l’ente concedente aveva operato una valutazione di carattere tecnico – discrezionale, dalla quale emergeva come l’equilibrio finanziario della gestione si sarebbe potuto raggiungere solo attraverso un incremento delle tariffe di pedaggio, incremento da attuarsi nella misura minima del 50% rispetto a quelle dell’epoca, anche in considerazione della situazione pregressa, che vedeva le dette tariffe invariate dal 1997”. (25) Inoltre il collegio rileva come la convenzione recepisse la formula di revisione della tariffa media ponderata, in ossequio alle delibere CIPE del 24 aprile 1996 e 20 dicembre 1996. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 programmati sulla rete autostradale. I due profili – secondo il collegio – sarebbero invece distinti e non sovrapponibili, proprio in virtù del fatto che l’aumento di cui si discute deriverebbe direttamente dal rapporto genetico del rapporto intercorrente tra concedente e concessionario e dalle esigenze economico-finanziarie sottese allo stesso affidamento del servizio. Da ciò discenderebbe il difetto degli stessi presupposti fondanti gli obblighi di vigilanza dell’ANAS, la cui mancata attivazione era stata posta a fondamento della decisione di primo grado. Ed è proprio tale ultima affermazione ad apparire non convincente. In primo luogo deve preliminarmente osservarsi come la delibera CIPE non introduca alcun esplicito o implicito riferimento al collegamento tra incremento tariffario e realizzazione degli interventi già pattuiti. Ciò significa che la variabile X non risulta in alcun modo ancorata, come invece affermato dal giudice di prime cure, alla realizzazione (o mancata realizzazione) degli investimenti, bensì a differenti parametri (26), essendo piuttosto improntata al conseguimento di una maggiore efficienza del servizio prestato sotto la spinta della possibilità di extra-profitti per il concessionario. Conseguentemente il rilievo che il caso di specie non debba essere deciso alla stregua di un giudizio sulla esistenza o meno di un siffatto collegamento non deriva dalle illustrate peculiarità della vicenda storica – come invece sostenuto nella pronuncia in commento – bensì discende semplicemente dal fatto che né la formula del price cap di cui alle delibere CIPE, né la convenzione stipulata, contengono alcun riferimento a tale correlazione. In secondo luogo né il fondamento convenzionale degli aumenti tariffari né la singolarità della vicenda ad essi sottesa sembrano poter escludere la vigilanza dell’ANAS in merito agli obblighi convenzionali. L’ANAS risulta infatti attributaria di penetranti poteri di vigilanza e controllo in ordine al rispetto degli obblighi contenuti nelle convenzioni di concessione, potendo peraltro irrogare sanzioni amministrative nel caso di riscontrate inosservanze. Da ciò deriva che, qualora l’ANAS – parte del rapporto contrattuale nonché soggetto in capo al quale gravano tali poteri di vigilanza – avesse ritenuto insufficienti gli investimenti effettuati, avrebbe dovuto contestare, nelle mo- (26) Con specifico riferimento alla variabile X la delibera stabilisce che essa rappresenta il tasso di produttività attesa, da stabilirsi in forma specifica per ogni singola impresa, tenendo conto di valutazioni relative ai seguenti aspetti: - remunerazione congrua del capitale investito; - progetto di investimenti futuri; - modifiche attese della produttività; - variazione attesa della domanda e quindi sviluppo delle condizioni competitive dei mercati in cui l’impresa opera. CONTENZIOSO NAZIONALE 157 dalità e nei tempi previsti dalla convenzione, il relativo inadempimento alla concessionaria (come peraltro fatto per gli aumenti relativi agli anni antecedenti al 2006). Ma se, ad esito dell’attività istruttoria espletata dall’ANAS, ciò non è stato, appare allora difficile sostenere che un terzo possa censurare un preteso inadempimento che invece risulta inesistente per le parti del rapporto, per le quali anzi vi sarebbe soddisfazione (27), essendo l’aumento tariffario stato autorizzato dalla stessa concedente. Una volta esclusa la presenza dell’inadempimento della concessionaria, la corresponsione degli incrementi tariffari si pone quindi come una mera esecuzione di obbligazioni contrattuali. Nella motivazione illustrata sembra pertanto ravvisabile un duplice ordine di contraddizioni (28), il cui portato risulta essere una soluzione del caso concreto distonica rispetto alle affermazioni di principio sul punto sostenute. Infine appare invece pienamente condivisibile la sentenza in commento nella parte in cui riscontra l’errore di fatto in cui è incorso il giudice di primo grado, in riferimento al ricorso proposto per gli aumenti disposti nell’anno 2008. In tal caso infatti il Consiglio di Stato ritiene che non vi sia stato un aumento delle tariffe, ma solamente “un adeguamento del pedaggio consequenziale all’apertura al traffico di un nuovo tratto autostradale. Infatti, i pedaggi sono calcolati in relazione alla tariffa chilometrica unitaria, che non risulta invariata, moltiplicata per il numero di chilometri percorsi. Nel caso in esame, l’evento che ha determinato la nuova valutazione del pedaggio è stata l’apertura della seconda carreggiata nel tratto autostradale tra gli svincoli di Basciano e Teramo Cartecchio, legittimando in questo modo l’automatismo dell’adeguamento del costo complessivo dovuto per la fruizione del percorso”. Il collegio quindi correttamente rileva i differenti presupposti fattuali su cui si fondano i due diversi ricorsi e dai quali derivano effetti di non poco momento in punto di individuazione della disciplina applicabile al caso concreto, trattandosi di ipotesi chiaramente non riconducibile al sistema regolatorio informato al principio del price cap. Conclusivamente, e alla luce di quanto evidenziato, sembra potersi osservare come le peculiarità della vicenda esaminata derivino non solo dalla illustrata criticità della pregressa situazione economico-finanziaria ma, più in generale, dalle caratteristiche strutturali del modello di gestione scaturente dal (27) Cfr. citata sentenza CdS, Sez. IV, n. 399/07. (28) Il collegio, da un lato, ammette la natura paritetica del rapporto intercorrente tra ANAS e Strada dei Parchi, affermando tuttavia al contempo la persistenza del controllo amministrativo nelle sue forme ordinarie e pervenendo così a riconoscere la legittimazione attiva degli enti; dall’altro, afferma il fondamento convenzionale degli aumenti oggetto di scrutinio, escludendo la rilevanza, nel caso de quo, del potere di vigilanza dell’ANAS. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sistema, nel quale si devono conciliare istanze lato sensu privatistiche derivanti dalle dinamiche contrattuali tra concedente e concessionaria (e scaturenti dal bando) con il rispetto del sistema regolatorio delle tariffe informato alla formula del price cap e caratterizzato dai poteri autoritativi che, comunque, permangono in capo all’ANAS. Dott.ssa Federica Angeli* Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza del 9 dicembre 2010 n. 8686 - Pres. Numerico, Est. Sabatino - Strada dei Parchi s.p.a. (avv.ti M. Sanino e G. Ruggiero) c. Provincia di Teramo (avv.ti P. Grassi, S. Mangiameli e A. Zecchino) e nei confronti di Anas S.p.A., (avv. gen. Stato) ed altri - Sent. TAR Lazio, sezione terza, n. 5108 del 30 marzo 2010. (Omissis) DIRITTO 1. - In via preliminare, la Sezione deve farsi carico dell’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, proposta dall’appellante Strada dei parchi s.p.a. in relazione all’asserito difetto di legittimazione attiva della Provincia di Teramo. Il T.A.R. del Lazio ha ritenuto esistente il presupposto processuale in capo all’ente territoriale, ponendosi in questo senso esplicitamente in contrario avviso alla decisione di questa Sezione n° 399 del 2007. In quella occasione, la Sezione aveva rilevato il difetto di legittimazione attiva in capo alla Regione, che invece la sentenza di primo grado aveva giustificato, sia perché l’attribuzione di competenze legislative e amministrative generali (ex art 118 Cost.) in materia di trasporti e reti di comunicazione non comporta ex se la legittimazione ad impugnare i provvedimenti in materia tariffaria incidenti sulle autostrade, sia perché il ricorso, tendente ad accertare l’inadempimento della convenzione, porterebbe ad una non prevista legittimazione di un terzo rispetto a tali obblighi convenzionali. La Sezione poneva quindi in evidenza la differenza che intercorre tra la legittimazione ad agire per utenti e consumatori a tutela di interessi collettivi e diffusi, prevista e disciplinata per legge, e quella attribuibile ad un ente pubblico territoriale, che non potrebbe derivare direttamente dal ruolo di portatore di interessi generali della collettività. Al contrario, il giudice di prime cure ribadisce come la legittimazione attribuita dalla legge alle associazioni rappresentative di utenti e consumatori non sia un’ipotesi eccezionale introdotta ex novo nell’ordinamento dal codice del consumo (art. 139 del d.lgs. n° 206 del 6 settembre 2005), ma sia il frutto maturo dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia di tutela di interessi diffusi, la quale, sin dagli anni settanta e ottanta, aveva già riconosciuto la legittimazione degli enti esponenziali di interessi collettivi o diffusi, e che solo successivamente tale legittimazione ha conseguito altresì un avallo legislativo (legge n. 349 dell’8 luglio 1986 per le associazioni ambientaliste; d.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, codice del consumo per le associazioni dei consumatori e degli utenti). In detto processo evolutivo, superato subito il problema per quanto attiene agli enti esponenziali muniti di personalità giuridica e a cui l’ordinamento attribuiva formalmente la cura di tali interessi, si era altresì affrontato il nodo della legittimazione degli enti a base associativa, (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 159 costituiti dall’autonomia privata, come le associazioni di tutela ambientale. La legittimazione di tali figure soggettive è stata infine ammessa e la giurisprudenza, valutata la rilevanza costituzionale degli interessi ivi oggetto di difesa, ha affermato che si può rinvenire, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi a tutela dell'ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), qualora queste perseguano, statutariamente ed in modo non occasionale, obiettivi di tutela ambientale, dimostrino un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e si collochino in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 14 giugno 2007, n. 3191), in disparte l’appartenenza o meno della figura soggettiva all'elenco delle associazioni a carattere nazionale individuate dal Ministero dell'Ambiente ai sensi dell'art. 13 della Legge 8 luglio 1986, n. 349, poiché tale norma dà vita ad un ulteriore e diverso criterio di legittimazione, aggiuntivo ma non sostitutivo di quelli in precedenza elaborati. Sulla base di tali principi, il T.A.R. del Lazio ritiene che “anche solo facendo riferimento a tali principi affermati da orientamenti ormai risalenti non si potrebbe dubitare della legittimazione degli enti territoriali rispetto agli interessi della Comunità e del territorio di cui sono enti non solo esponenziali ma, altresì, rappresentativi” e ciò in quanto “con la riforma del titolo V della Costituzione è stata esplicitata la funzione degli enti territoriali di cura concreta degli interessi della collettività di riferimento; ciò sia in relazione alla autonomia di cui all’art. 114 della Costituzione (I Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione), sia in relazione alla espressa previsione del principio di sussidiarietà (art. 118 della Costituzione) che affida all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta di interessi”. Le ragioni venivano poi precisate, in relazione all’ente pubblico appellante, facendo una ricognizione delle disposizioni vigenti in relazione agli interessi specifici oggetto del ricorso e quindi sulle diverse attribuzioni in tema di viabilità o di trasporti, per poi concludere che “tale legittimazione degli enti territoriali sul piano astratto non può essere negata”. Ad un successivo livello, più concreto, il giudice di prime cure riteneva poi che l’interesse azionato nel giudizio fosse costituito dalla congruità delle tariffe autostradali, per cui la legittimazione dovesse fondarsi sulla circostanza che l’autostrada rappresenti una fondamentale via di comunicazione per i cittadini residenti nel territorio. Avverso tale impostazione insorge l’appellante Strada dei Parchi s.p.a., che nell’appello si scaglia contro tutti i profili sopra ricordati e utilizzati dal T.A.R. a sostegno della propria posizione, evidenziando come nel caso in specie ci si trovi di fronte ad una convenzione, per cui l’intervento del terzo, e qui dell’ente territoriale, sia sarebbe concettualmente escluso, trattandosi di un rapporto di natura privatistica. Sotto altro verso, viene negata la rilevanza dell’atto gravato quale fatto lesivo di interessi direttamente ed inscindibilmente collegati al territorio dell’ente appellato. Infine, viene sindacata la ricostruzione delle diverse attribuzioni in materia di viabilità e di trasporti che, a dire del giudice di prime cure, fonderebbero la legittimazione stessa. Le posizioni delle ulteriori parti seguono fondamentalmente l’una o l’altra ricostruzione, a seconda della rispettiva posizione processuale, e possono quindi essere esaminate congiuntamente. 1.1. - La censura dell’appellante va respinta e la legittimazione dell’ente territoriale va ritenuta esistente, sebbene per ragioni diverse da quelle indicate nella sentenza gravata. Ritiene, infatti, la Sezione che, al fine di individuare esattamente limiti e possibilità ricono- 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sciute agli enti territoriali ai fini della tutela degli interessi dei propri amministrati, debba farsi riferimento non solo all’elaborazione consolidata della giurisprudenza ma anche, come si dirà appresso, alle innovazioni normative sopraggiunte medio tempore e, soprattutto, ai nuovi profili di intervento riconosciuti ad ogni tipologia di figura soggettiva esponenziale di interessi omogenei ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009 n.198 “Attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”. Per giungere allora ad affermare l’esistenza della legittimazione dell’ente territoriale nella fattispecie di cui si tratta, deve compiersi un tragitto concettuale che si snoda su quattro diversi snodi teorici. Il primo di questi snodi parte proprio dalla disamina della giurisprudenza amministrativa in tema di riconoscimento della legittimazione in capo ad associazioni private per agire a tutela di interessi diffusi. Al contrario di quanto affermato dalla difesa appellante, la ricognizione operata dal T.A.R. sull’evoluzione dottrinale in materia non è inconferente, ma diviene utile per svelare le ragioni fondanti che mossero, in maniera illuminata, i giudici amministrativi nella direzione dell’ampliamento delle forme di tutela per tipologie di interessi che, in quel torno d’anni, non apparivano adeguatamente garantiti. Queste ragioni possono cogliersi in due strade convergenti. Da un lato, vi è stata la ricerca di un criterio di collegamento tra gli interessi adespoti, che appartengono ontologicamente a tutti i componenti di una collettività, e i meccanismi processuali, che richiedono che l’azione sia portata avanti da un ben individuato soggetto dell’ordinamento. In questo senso, la soluzione adottata è stata quella di ricercare una serie di elementi (personalità del soggetto agente, conformità dell’azione proposta ai suoi fini statutari, collegamento stabile con l’interesse protetto, ecc.) che tendessero a dare struttura all’interesse stesso. Questa soluzione, del tutto condivisibile ed attenta, ha permesso di incanalare entro i consolidati ambiti del processo amministrativo le nuove esigenze di tutela a cui il legislatore non aveva ancora dato una soddisfacente risposta. Dall’altro lato, l’attribuzione della legittimazione a figure soggettive che si ponevano anche in contrasto con i soggetti pubblici normalmente incaricati della tutela degli interessi generali della collettività ha evidenziato come la giurisprudenza amministrativa ritenesse che gli interessi adespoti non fossero di esclusiva pertinenza dell’azione pubblica. In questa direzione, il richiamo alla fonte costituzionale della protezione di tali interessi ha permesso di affermare, più o meno esplicitamente, che il meccanismo tradizionale di tutela (creazione di un ente pubblico ed attribuzione allo stesso della tutela dell’interesse, inteso come canone di comportamento nella sua attività) non fosse esaustivo delle possibilità rimesse ai cittadini. Pertanto, per usare una terminologia più tecnica, la creazione di un ente pubblico ai fini della tutela di un interesse diffuso non espropriava i singoli e le comunità della possibilità di attivare ulteriori istanze di tutela. Infatti, nell’ordinamento, luogo in cui va rinvenuto il catalogo degli interessi meritevoli di tutela, solo in casi episodici e ben determinati possono individuarsi situazioni in cui questo aspetto espropriativo e privativo è presente, e sono quelli in cui, attribuita la tutela di un determinato interesse all’azione pubblica, viene contestualmente vietato al privato di procedere autonomamente (si pensi ai casi di esercizio delle proprie ragioni al di fuori del circuito giurisdizionale, che sono sanzionati addirittura penalmente). Ne deriva che, grazie al riconoscimento diretto derivante dalla Costituzione, si deve ritenere che i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi possano trovare modi di esercizio CONTENZIOSO NAZIONALE 161 paralleli ed ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura ad un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc. Il secondo snodo concettuale attiene alla possibilità di riconoscere, sic et simpliciter ed in assenza di un’espressa disposizione normativa, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei o, nel caso in esame, agli enti territoriali in virtù del loro collegamento con la collettività ivi stanziata e facendo perno sull’unico cardine della rappresentatività. Come si è sopra notato, la giurisprudenza amministrativa, nel tentativo di strutturare l’interesse adespota, ha cercato di individuare una serie di elementi tali da dare dimostrazione del collegamento tra interesse azionato e soggetto agente, enucleando una serie di principi ancora fondamentalmente validi ed applicabili. Ritiene la Sezione che un tale criterio, che richiede una pluralità ed una contestualità di elementi, possa valere anche in relazione alla legittimazione degli enti territoriali in fattispecie in cui gli stessi non risultino attributari ex lege di specifiche competenze in materia. Anche in questo caso, l’affermazione si fonda su una serie di presupposti impliciti. In primo luogo, va evidenziato come gli enti territoriali siano effettivamente soggetti a cui, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, è stata assegnata la funzione di cura concreta degli interessi della collettività di riferimento. Una tale affermazione appare agevolmente riscontrabile sulla base della lettura del novellato art. 114 della Costituzione ( I Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione) e sulla previsione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118 della Costituzione, che affida all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta di interessi. Pertanto, mentre nelle materie la cui tutela è loro affidata dalla legge vi è un riconoscimento normativo esplicito sulla loro legittimazione, dove tale riconoscimento manca non si vede ragione per trattare questi enti generali in maniera difforme e deteriore rispetto a qualsiasi associazione privata. In secondo luogo, se è ben vero che la natura di ente territoriale consente di riconoscere per implicito la natura di soggetto di riferimento della comunità locale, ciò non esclude la permanente necessità di ricercare, in analogia con le associazioni private, gli ulteriori elementi che fondino la legittimazione. Ad un livello di maggior dettaglio, deve necessariamente rilevarsi che la decisione di agire in giudizio è espressione della volontà politica dell’ente stesso che, selezionando tra i tanti interessi ad esso non attribuiti quelli di cui vuole farsi portatore, si fa interprete della presunta volontà del corpo elettorale. Tuttavia l’equivalenza tra rappresentatività politica e capacità di esprimere i reali intendimenti della collettività è del tutto dubbia, come dimostra la difficoltà di ricondurre alla figura privatistica del mandato il rapporto tra elettori ed eletto e come è confermato dai più recenti studi in merito ai sistemi di espressione delle scelte collettive, che dimostrano l’impossibilità logica che una competizione elettorale possa dare una precisa e coerente rappresentazione degli interessi e delle preferenze degli elettori. Pertanto, premesso che gli enti territoriali sono, per norma costituzionale, attributari di poteri generali di tutela degli interessi rilevanti per la collettività stanziata, la loro legittimazione, per le materie non direttamente conferitegli dalla legge, va individuata secondo i criteri usuali e quelli che discendono dall’analisi del tessuto ordinamentale. In questo senso, e si giunge al terzo snodo concettuale, ritiene la Sezione di dover dare adeguato rilievo ad una normativa recente, sopravvenuta alla precedente decisione n° 399 del 2007, ed in grado di giustificare il mutato orientamento qui assunto. Ci si riferisce all’ema- 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nazione del decreto legislativo 20 dicembre 2009 n.198 “Attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”, normativa ancora non del tutto applicabile, in assenza dei decreti di attuazione, ma dalla quale possono cogliersi criteri testuali cui ancorare la ricerca degli elementi ulteriori di legittimazione valevoli, in questo caso, per gli enti territoriali. Afferma l’art. 1 del testo normativo in esame che: “Al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi”. Nei limiti dell’attuale disamina, e fermo rimanendo che in questo giudizio non viene esplicata l’azione permessa dal D.Lgs. 198 del 2009, che permette addirittura di incidere sui profili organizzativi della pubblica amministrazione, emerge dal testo come la legittimazione ad agire venga correlata, per un verso, all’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, per altro verso, alla riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare, ed infine, all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi. Orbene, nel caso in esame che attiene agli enti territoriali, per le ragioni sopra esaminate, non pare dubbio che sussistano ex se i primi due elementi della fattispecie, stante il ruolo costituzionale prima esaminato. È invece da vagliare la presenza del terzo elemento, che connota concretamente la legittimazione ed ancora la pretesa legittimazione ad un fatto direttamente riscontrabile, come appunto la lesione diretta, concreta ed attuale. La scelta normativa, che la Sezione ritiene ragionevolmente idonea a separare le iniziative di tutela fondate da quelle che appaiono esiti di decisioni non strettamente connesse al ruolo degli enti territoriali, permette di collegare la legittimazione all’esistenza di un danno, diffuso seppure di entità contenuta, che possa ricadere sull’intera collettività e che, non giustificando l’intervento del singolo cittadino, autorizza tuttavia l’ente esponenziale a farsene carico, secondo la logica di contrasto al fenomeno delle cd. small claims. Su questa base argomentativa, non pare dubbio che gli enti esponenziali di collettività territoriali qui evocati in giudizio abbiano agito davanti al giudice di primo grado per difendere i singoli cittadini da loro amministrati dalle conseguenze economiche dell’aumento del costo dell’utilizzo dell’autostrada. Si è cioè in presenza di un danno economico che configura pienamente quella lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, a cui fa riferimento il testo normativo. Da qui il riconoscimento, in concreto, della legittimazione ad agire degli enti territoriali coinvolti. Tuttavia, ed è il quarto snodo concettuale, si evidenzia, da parte appellante, come nella fattispecie in esame l’aumento del costo sia conseguenza, come si vedrà in seguito, dell’esistenza di un rapporto convenzionale tra la parte pubblica ANAS e quella privata Strada dei Parchi s.p.a.. Trattandosi di un rapporto paritetico e di natura privatistica, ammettere la possibilità di un controllo esterno, come quello praticabile nel giudizio amministrativo ad opera dei terzi, verrebbe a violare - si dice in appello - il principio contrattuale della rilevanza del contratto unicamente tra le parti. L’argomento prova troppo e non considera che lo strumento contrattuale in sé appare neutro rispetto alla possibilità del suo impiego anche a fini pubblicistici. Non può, infatti, che rilevarsi come l’impiego di strumenti paritetici appaia sempre più diffuso, CONTENZIOSO NAZIONALE 163 anzi cogente, nel quadro ordinamentale attuale. Si pensi, ad esempio, all’utilizzo della convenzione quale modo di regolazione dei servizi pubblici (come da ultimo generalizzato dal d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168) o alla necessità dell’uso del contratto nei rapporti tra soggetti pubblici per l’acquisizione di beni o servizi (Corte di giustizia CE, 23 dicembre 2009, causa C-305/08). Affermare quindi che l’esistenza di un rapporto paritetico, convenzionale o contrattuale, anche quando diretto all’organizzazione ed al funzionamento di prestazioni pubbliche, escluda la possibilità di un controllo sulle modalità con cui tale rapporto è gestito è un’affermazione che, nella sua dirompenza, si scontra contro il sistema del diritto amministrativo, di fatto sterilizzando qualsiasi possibilità di valutazione del comportamento della pubblica amministrazione che, con il facile impiego di strumenti privatistici, potrebbe agevolmente sottrarsi addirittura ai suoi compiti istituzionali. Simile linea di pensiero, qui contestata, oltre che essere incompatibile con i principi, appare inconciliabile con i concreti assetti ordinamentali. Essa, infatti, postula, ed anzi in ricorso è affermato espressamente, che la pubblica amministrazione operi, nei rapporti privatistici, nell’ambito dell’esplicazione della sua autonomia privata. Tale ipotesi appare suscettibile di maggiore attenzione. In disparte le posizioni dottrinali che negano in radice che possa predicarsi un tale attributo nei confronti della pubblica amministrazione, è comunque vero che, qualora esista davvero l’autonomia privata dei soggetti pubblici, questa ha natura del tutto diversa da quella delle figure soggettive private. Infatti, mentre nel privato l’autonomia è l’esito della capacità di autodeterminazione dei fini, nel pubblico la scelta dei fini non è rimessa alla libertà dell’ente, in quanto questi sono conseguenti e collegati alle sue attribuzioni, a loro volta determinate dal decisore politico. In sintesi, per i privati l’autonomia è autodeterminazione dei fini; per il pubblico i fini sono eterodeterminati dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, il che fa anche dubitare che si possa parlare di autonomia privata nelle scelte amministrative. Pertanto, quando si verte in un rapporto paritetico, l’azione del contraente pubblico, sebbene limitata dal regolamento contrattuale, non si sottrae, nella sua concreta esplicazione, agli usuali meccanismi di controllo tipici del diritto amministrativo, atteso che si agisce in attività di concreta gestione degli interessi pubblici affidati all’ente, la cui cura è svolta tramite strumenti non di diritto amministrativo. In questo senso, ancora il D.Lgs. 198 del 2009 fornisce uno spunto interessante, visto che prevede che l’azione ivi prevista (si ripete, ancora non attuale stante la mancanza dei necessari decreti applicativi) si possa rivolgere anche verso soggetti legati all’ente affidante in virtù di rapporti certamente paritetici. Conclusivamente, la circostanza che sussista un rapporto contrattuale tra ANAS e Strada dei Parchi s.p.a., se, da un lato, attribuisce al soggetto privato contraente le garanzie della normativa civilistica, dall’altro non impedisce che l’azione del contraente pubblico rimanga sottoposta agli ordinari criteri di valutazione del comportamento amministrativo. Deve quindi concludersi che, nella fattispecie in esame, la legittimazione a ricorrere degli enti territoriali deve essere pienamente affermata. 2. - Il superamento dell’eccezione consente di non esaminare l’appello incidentale autonomo proposto dalla Provincia di Teramo, con la quale la stessa evidenzia la sussistenza della propria legittimazione sotto l’angolo visuale della sua natura di utente del servizio. 3. - Ancora in via preliminare, e facendo seguito alle osservazioni preliminari sopra esposte, va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum esplicato da alcuni soggetti, 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ossia il Codacons, il Codacons Regione Lazio, il Codacons Regione Abruzzo, il Codacons Sezione Provinciale De L'Aquila, l’Associazione Utenti Autostrade, (...) e (...), in quanto titolari di un interesse diretto a gravare i provvedimenti in questione. È del tutto pacifico che l’intervento ad adiuvandum sia ammissibile solo a tutela di posizioni giuridiche collegate o dipendenti da quella del ricorrente principale, risultando uno strumento utile alla tutela di situazioni che, in sé, non potrebbero essere garantite tramite l’impugnazione. Tale situazione consente allora la partecipazione al processo anche di soggetti aventi un mero interesse di fatto, rispettivamente all'accoglimento o alla reiezione dell'impugnativa proposta dal ricorrente, sempre qualora si faccia valere una posizione diversa da quella del ricorrente e da questa condizionata. Tuttavia, la legittimazione ad agire delle associazioni consumeristiche è stata riconosciuta per legge in più occasioni (da ultimo l’art. 139 Codice del consumo), attribuendo a questi soggetti un’autonoma posizione di cura dell’interesse protetto. Tuttavia, proprio la diversità di funzioni e ragioni che distinguono la legittimazione ad impugnare direttamente con la minore posizione che autorizza l’intervento porta ad escludere che tra le due situazioni vi sia un rapporto di continenza, come pare affermare il T.A.R., quando dice che “nella facoltà di impugnare i provvedimenti amministrativi si deve ritenere compresa anche la facoltà di intervenire nei giudizi proposti da altri soggetti”. Al contrario, le due discipline sono del tutto separate e la loro erronea sovrapposizione si traduce, di fatto, in un’elusione del termine di decadenza nella proposizione delle impugnazioni. La stessa ragione di inammissibilità, ed in disparte la considerazione che l’azione esercitata appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario, si presenta per i soggetti privati interventori che, in quanto direttamente lesi, avrebbero dovuto eventualmente impugnare autonomamente gli stessi atti. Tali ragioni comportano pertanto che debba essere dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum proposto dai soggetti sopra indicati, nonché dalla Provincia dell’Aquila e dalla Federconsumatori in primo grado. 4. - Venendo al merito, l’appello deve ritenersi fondato e meritevole di accoglimento entro i termini di seguito precisati. La questione centrale nella soluzione della questione proposta va rinvenuta nella particolare modalità di costituzione del rapporto convenzionale tra ANAS e Strada dei Parchi s.p.a., dal quale derivano anche le modificazioni tariffarie di cui si tratta. Si evince dagli atti allegati al ricorso come l’attuale appellante sia intervenuta nella gestione delle autostrade A 24 e A 25 dopo che la precedente concessionaria SARA Società autostrade romane e abruzzesi S.p.A., poi denominata Autostrade dei Parchi S.p.A., aveva conseguito un utile di gestione negativo, dando vita ad una grave esposizione debitoria anche nei confronti delle imprese appaltatrici dei lavori e degli istituti di credito mutuanti. Poiché la situazione avrebbe messo a rischio la normale prosecuzione del servizio autostradale, con D.L. 10 febbraio 1977, n. 19, convertito dalla Legge 6 aprile 1977, n. 106, la SARA veniva dichiarata decaduta dalla concessione delle autostrade. L'allora Azienda Nazionale Autonoma per le Strade – ANAS, ai sensi dell'art. 5 del predetto D.L. 19/77, che succedeva ex lege nella gestione, veniva così autorizzata ad affidare in concessione l'esercizio delle autostrade. Pertanto, ai fini di conseguire un nuovo affidamento e di sanare la precedente situazione contabile, con bando di gara del 24 novembre 2000, l’ANAS indiceva una licitazione privata per l'affidamento della concessione di gestione delle autostrade A-24 e A-25, nonché per la progettazione e la costruzione della seconda carreggiata dalla pro- CONTENZIOSO NAZIONALE 165 gressiva Km. 0+000 alla progressiva km. 5+474,41 del tronco Villa Vomano-Teramo e del tratto a tre corsie dell'autostrada A24 tra via Palmiro Togliatti e la barriera di Roma Est compreso l'adeguamento della stazione di Lunghezza. In particolare, tra i criteri di aggiudicazione della licitazione figurava non solo la tariffa di pedaggio proposta, ma anche il corrispettivo da offrirsi al concedente non inferiore all'importo di £. 100.000.000.000 ed uno schema di piano finanziario, in cui l'ANAS specificava che i soggetti concorrenti potevano prevedere una variazione tariffaria, entro i limiti previsti nella delibera CIPE del 20 dicembre 1996 per il quinquennio 2002 -2006, tale da garantire un aumento cumulato delle attuali tariffe non inferiore al 50%, criterio poi meglio precisato con la successiva lettera del 3 aprile 2001. Quindi, fin dalla predisposizione della disciplina per la gara ad evidenza pubblica, l’ente concedente aveva operato una valutazione di carattere tecnico-discrezionale, dalla quale emergeva come l’equilibrio finanziario della gestione si sarebbe potuto raggiungere solo attraverso un incremento delle tariffe di pedaggio, incremento da attuarsi nella misura minima del 50% rispetto a quelle dell'epoca, anche in considerazione della situazione pregressa, che vedeva le dette tariffe invariate dal 1997. All’esito della gara, era dichiarata aggiudicataria l’ATI costituita tra Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade s.p.a. - Toto s.p.a., che successivamente sottoscriveva la convenzione con l’ente affidatario per la gestione della rete autostradale costituita dalle autostrade A24 e A25, nonché per la progettazione e la costruzione della seconda carreggiata del tronco Villa Vomano-Teramo e dell'adeguamento a tre corsie dell'Autostrada A-24 tra Via Palmiro Togliatti e la barriera di Roma Est. Autostrade - Concessioni e Costruzioni S.p.a. e TOTO S.p.a. costituivano poi, in data 2 settembre 2002, la società Strada dei Parchi S.p.a., attuale concessionaria, dando poi inizio all’effettiva gestione delle tratte autostradali solo dal 1 gennaio 2003, determinando un procrastinamento degli effetti del rapporto e delle previsioni del piano finanziario. Dalla lettura degli atti della procedura e dell’offerta proposta dall’ATI poi aggiudicataria, emerge allora come la stessa convenzione stipulata il 20 dicembre 2001 contenesse la disciplina tariffaria da applicarsi ai fini dell'adeguamento delle tariffe stesse, disciplina che era tenuta presente all’interno della procedura di selezione dell’offerente. Tra l’altro, con determinazioni da leggere in maniera coordinata con l’offerta proposta, l'articolo 7 della convenzione individuava la formula di revisione della tariffa media ponderata, in ossequio delle delibere CIPE del 24 aprile 1996 e 20 dicembre 1996; l'art. 9 fissa l’indicatore di produttività per ogni anno del quinquennio 2002 – 2006, mentre l’art. 11 disciplina le modalità di aggiornamento delle tariffe, indicando un meccanismo procedimentale di comunicazione da parte del concessionario e di controllo da parte del concedente. Pertanto, in applicazione delle clausole convenzionali ed in applicazione della formula revisionale prevista, Strada dei Parchi S.p.A. procedeva ad un aumento del pedaggio autostradale per gli anni 2003 e 2004, evento da cui peraltro derivava un contenzioso susseguente alla determinazione di ANAS di sospendere il detto incremento tariffario, e poi al successivo adeguamento nella misura dell’1,60%, corrispondente all'inflazione programmata per I'anno 2005 ed infine, in data 28 settembre 2005, Strada dei Parchi s.p.a. comunicava all'ANAS la variazione percentuale di aggiornamento tariffario da applicarsi con decorrenza 1 gennaio 2006, pari al 5,87%. Quest’ultimo aumento è qui oggetto di scrutinio. Dalla ricostruzione fattuale appena operata, appare quindi errata l’impostazione data al ricorso di primo grado, dove le censure si sono appuntate sull’inesistenza di una correlazione tra l’au- 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 mento applicato e la mancata effettuazione degli investimenti previsti sulla rete autostradale. Infatti, secondo le argomentazioni sostenute in primo grado e successivamente reiterate, l’aumento sarebbe stato ottenuto da Strada dei Parchi S.p.A. sulla base dell’omessa vigilanza da parte di ANAS in merito agli obblighi convenzionali, dai quali emerge anche l’obbligo di effettuare una serie di interventi per il miglioramento del servizio stesso. Come si evince peraltro dalla narrazione dei fatti di causa appena svolta, i due profili appaiono del tutto distinti e non sovrapponibili, atteso che l’aumento in questione appare direttamente derivante dal rapporto genetico che lega l’ANAS alla Strada dei Parchi S.p.A. ed è collegato alla singolare vicenda che ha dato vita all’affidamento della gestione del servizio. Questo non esclude, si badi, che l’attività della società di gestione debba essere parametrata, anche ai fini della sua remunerazione, ai risultati conseguiti, in termini di efficienza e di congruità del servizio prestato. Tuttavia tale profilo non appare rilevante nella questione qui in scrutinio, dove emergono esiti di decisioni determinate dalla fase iniziale e costitutiva del rapporto e conseguenti alla necessità di ottenere un ripianamento della situazione finanziaria della gestione. Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza del giudice di prime cure non può quindi essere condiviso, venendo a mancare gli stessi presupposti per l’applicazione del meccanismo procedimentale di controllo su cui si è fondata la decisione e che evidenziava la mancata attivazione degli obblighi di vigilanza in capo all’ANAS. 5. - Identico errore di fatto si riscontra in relazione al secondo ricorso proposto in primo grado, quello con cui sono stati impugnati gli atti con cui l’Anas ha autorizzato e la Autostrada dei Parchi disposto gli aumenti delle tariffe di pedaggio autostradale applicate sulle autostrade A24 e A25 a decorrere dal 7 agosto 2008. In questo caso, non si è avuto un aumento delle tariffe, evento che avrebbe dovuto dar luogo all’applicazione della procedura di controllo da parte dell’ANAS secondo le modalità censurate dal giudice di prime cure, ma ad un adeguamento del pedaggio consequenziale all’apertura 7al traffico di un nuovo tratto autostradale. Infatti, i pedaggi sono calcolati in relazione alla tariffa chilometrica unitaria, che non risulta variata, moltiplicata per il numero di chilometri percorsi. Nel caso in esame, l’evento che ha determinato la nuova valutazione del pedaggio è stata l’apertura della seconda carreggiata nel tratto autostradale tra gli svincoli di Basciano e Teramo Cartecchio, legittimando in questo modo l’automatismo dell’adeguamento del costo complessivo dovuto per la fruizione del percorso. 6. - L’appello va quindi accolto. Le spese processuali possono essere interamente compensate per le parti pubbliche, stante la novità della questione in merito alla loro legittimazione in via diretta all’impugnazione, mentre seguono la soccombenza in relazione alle rimanenti parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede: 1. Accoglie l’appello n. 2839 del 2010 e per l’effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza, n. 5108 del 30 marzo 2010, respinge il ricorso di primo grado; (...) P A R E R I D E L C O M I TAT O C O N S U LT I V O A.G.S. - Parere del 25 gennaio 2011 prott. 26456/26448, avv. Gianni De Bellis, AL 38599/2010. «Applicazione del fermo amministrativo ex art. 69 del R.D. n. 2440/1923 e compensazione legale nei confronti di soggetti sottoposti a procedure concorsuali » Con la nota in riferimento codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla questione in oggetto, con particolare riferimento ai rapporti con società sottoposte alla procedura di Amministrazione Straordinaria di cui al D.Lgs. n. 270/1999. Questa Avvocatura osserva al riguardo quanto segue. 1) Circa la legittimazione dell’Agenzia delle Entrate ad emettere il provvedimento di fermo ex art. 69 R.D. n. 2440/1923 non dovrebbero sussistere dubbi, tenuto conto che le ragioni di credito tutelate sono dell’Amministrazione Statale. In ogni caso appare decisivo quanto sancito dal citato art. 69 ultimo comma (nel testo introdotto con l’art. 3 comma 5-decies del D.L. n. 182/2005) in forza del quale “Tra le amministrazioni dello Stato devono intendersi le Agenzie da esso istituite, anche quando dotate di personalità giuridica [...]”. 2) Circa la titolarità dei rispettivi crediti si ritiene ovviamente possibile operare il fermo a garanzia di crediti di qualsiasi Amministrazione statale, ivi compresa la stessa Agenzia delle Entrate. Anche in tale ipotesi la giurisprudenza è costante nel ritenere che “Il fermo amministrativo, di cui al R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 69, ha lo scopo di legittimare la sospensione, in via cautelare e provvisoria, del pagamento di un debito liquido ed esigibile da parte di un'amministrazione dello Stato, a salvaguardia della eventuale compensazione legale di esso con un credito, anche se non attualmente liquido ed esigibile, che la stessa od altra amministrazione statale, considerata nella sua unicità di soggetto di rapporti giuridici, pretenda di avere nei confronti del suo creditore” (Cons. St. 18 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 marzo 2010 n. 1620; Cass. SS.UU. 20 marzo 2009 n. 6773). Sotto tale profilo andrebbe meglio esplicitata la posizione espressa nella Circolare 29 marzo 1999 n. 21 del Ministero del Tesoro, dove si sostiene (punto 1 lett. c) che “l'Amministrazione creditrice dev'essere diversa da quella debitrice”. Se è vero infatti che in caso di identità di Amministrazione statale risulta più agevole operare la compensazione, l’adozione del fermo è comunque necessaria per impedire pagamenti (anche da parte della stessa p.a.), nei casi in cui il credito da garantire non abbia ancora i requisiti di legge per operare la compensazione (quando cioè si tratti di una mera “ragione di credito”). 3) Nessun dubbio sussiste in ordine alla possibilità di eccepire la compensazione anche nei confronti di soggetti in A.S., tenuto conto che l’art. 56 L.F. (che consente la compensazione nei confronti del fallimento), è richiamato dal successivo art. 169 per il concordato preventivo e quest’ultima norma è dichiarata espressamente applicabile anche all’A.S. dall’art. 18 del D.Lgs. n. 270/1999 (cfr. per un caso di compensazione con società in A.S. Cass. 3 maggio 2007 n. 10208; anche in motivazione Cass. 10 agosto 2007 n. 17602). D’altronde la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto un ampio campo di applicazione al citato art. 56, affermando che “La compensazione in sede di fallimento rappresenta una deroga alla regola del concorso ed è posta a favore dei soggetti che si trovino ad essere al contempo creditori e debitori del fallito; perché essa si verifichi si richiede l'anteriorità alla dichiarazione di fallimento del fatto genetico delle obbligazioni contrapposte, mentre non rileva il momento in cui l'effetto compensativo si produce, con la conseguenza che è ammissibile anche la compensazione giudiziale, quando i requisiti richiesti dalla legge sussistono al momento della pronuncia” (Cass. SS.UU. n. 775/1999). In ordine alle modalità di incameramento delle somme, si concorda con quanto precisato al riguardo nella citata Circolare n. 21/1999, potendosi far valere la compensazione sia in via amministrativa (dandone comunicazione al Commissario della società in A.S.), sia in sede contenziosa mediante eccezione diretta a paralizzare eventuali pretese nei confronti dell’Amministrazione (Cass. n. 481/2009), ovvero in sede di ammissione al passivo del credito residuato dopo la compensazione (cfr. Cass. SS.UU. n. 16508/2010). Com’è noto inoltre, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria l’omogeneità dei rispettivi crediti oggetto di compensazione, nel senso della loro anteriorità alla procedura concorsuale. A tale proposito, è pacifico che in materia tributaria l’anteriorità va valutata con riferimento al momento genetico del credito, coincidente con l’anno d’imposta per i tributi e con la data di commissione dell’illecito per le sanzioni, indipendentemente dal momento in cui la pretesa venga formalizzata in un titolo (come un avviso di accertamento o una cartella esattoriale). I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 169 Nessun rilievo può invece attribuirsi alla natura privilegiata o chirografaria dei rispettivi crediti, tenuto conto che la compensazione opera in deroga al principio della par condicio creditorum. 4) Riguardo infine il problema della compatibilità del fermo rispetto ad un soggetto sottoposto a procedure concorsuali (ed in particolare in A.S.), si ritiene che il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive nei confronti della procedura (espressamente previsto per i soggetti in A.S. dall’art. 48 del D.Lgs. n. 270/1999), sia tale da impedire la emanazione di un provvedimento di fermo. La giurisprudenza al riguardo ha già avuto modo di affermare che “il giudice ordinario, adito nella specie dalla curatela, non è condizionato nella sua pronuncia dal provvedimento amministrativo cautelare, e può provvedere all'eventuale condanna al pagamento della P.A., se ed in quanto esistano i presupposti di un credito certo ed esigibile del fallito”, ciò in quanto “vengono privati di efficacia i provvedimenti cautelari legittimamente ottenuti prima dell'apertura del fallimento e sono ab origine privi di efficacia quelli emessi nel corso della stessa procedura […] Nell'enunciazione di questi principi di carattere generale, si inserisce, anche quella forma di autotutela con funzione cautelare disciplinata espressamente, per la pubblica amministrazione, dall'art. 69 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, relativo all'amministrazione del patrimonio ed alla contabilità generale dello stato” (Cass. n. 8053/1996, richiamata di recente da Cons. St. VI, 4 febbraio 2010 n. 517). D’altro canto ad analoghe conclusioni la giurisprudenza è pervenuta anche in relazione a provvedimenti di sequestro, la cui natura è assimilabile al fermo amministrativo (Cass. 18 agosto 1997 n. 7659; 25 maggio 2001 n. 7110). Alla luce di quanto sopra esposto si ritiene che nella fattispecie si possa disporre la revoca del fermo amministrativo adottato nei confronti dei soggetti in A.S., ancorché questi non si trovassero in tale stato all’epoca dell’adozione. Ovviamente prima di effettuare qualsiasi pagamento di debiti erariali occorrerà valutare la possibilità di procedere alla compensazione con eventuali controcrediti già ammessi al passivo, o comunque già formalizzati in atti impositivi (secondo i già richiamati orientamenti della giurisprudenza) con le modalità sopra evidenziate. La presente nota viene trasmessa anche al Ministero dell’Economia e delle Finanze affinché valuti l’opportunità di modificare la citata Circolare n. 21/1999 alla luce di quanto evidenziato al precedente punto 2. Il presente parere è stato sottoposto all'esame del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 A.G.S. - Parere del 7 febbraio 2011 prot. 42832, avv. Giuseppe Albenzio, AL 33917/10. «Estinzione dell’obbligazione doganale ex art. 233 primo comma lett. d) C.D.C. - Ambito di applicazione dell’art. 338 T.U.L.D. a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia Europea C-459/07 del 2 aprile 2009 e C-230/08 del 29 aprile 2010» Il parere richiesto da codesta Agenzia con la nota in epigrafe concerne il tema dei rapporti tra le fonti normative primarie comunitarie e le fonti interne vigenti e applicabili nel nostro ordinamento in materia di estinzione dell’obbligazione doganale. 1 - In particolare, il primo quesito posto sollecita la Scrivente ad analizzare i riflessi delle pronunce pregiudiziali comunitarie di interpretazione del diritto dell’Unione in ordine all’armonizzazione, in sede di applicazione, dell’art. 338 del Testo Unico delle Disposizioni Legislative in materia Doganale (D.P.R. n. 43/73, di seguito T.U.L.D.) sull’obbligo del pagamento dei diritti doganali in relazione all’art. 233 del Codice Doganale Comunitario attualmente vigente (Reg. CEE n. 2913/92, di seguito C.D.C.). 1.1 - L’art. 233 – che apre il Capitolo IV C.D.C., rubricato Estinzione dell’Obbligazione Doganale – in merito all’obbligazione doganale sorta per effetto dell’introduzione irregolare della merce nel territorio dell’Unione dispone che: “fatte salve le disposizioni in vigore relative alla prescrizione dell’obbligazione doganale nonché alla mancata riscossione dell’importo dell’obbligazione doganale in caso di insolvibilità del debitore constatata per via giudiziaria, l’obbligazione doganale si estingue: … d) quando le merci per le quali è sorta un’obbligazione doganale in conformità dell’art. 202 sono sequestrate all’atto dell’introduzione irregolare e contemporaneamente o successivamente confiscate”. In seguito alla domanda pregiudiziale proposta dall’Unabhangiger Finanzsenat, Graz (Austria) la Corte di Giustizia Europea, sez. III, con sentenza 2 aprile 2009, C-459/07, si è pronunciata in ordine all’interpretazione dell’espressione “all’atto dell’introduzione irregolare” contenuta nel primo comma, lett. d), del citato articolo 233. Accedendo ad un’interpretazione restrittiva del plesso normativo che regola la nascita e l’estinzione dell’obbligazione doganale, la Corte ha statuito nel senso che: “gli artt. 202 e 203, primo comma, lett. d), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 novembre del 2000, n. 2700, devono essere interpretati nel senso che, per determinare l’estinzione dell’obbligazione doganale, il sequestro di merci introdotte irregolarmente nel territorio doganale della Comunità europea deve intervenire prima che le merci in questione su- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 171 perino il primo ufficio doganale situato all’interno di tale territorio”. “Ne consegue che il sequestro di merci introdotte (irregolarmente n.d.r.) nel territorio doganale della Comunità … il quale si verifichi oltre il primo ufficio doganale situato all’interno di questo territorio e avvenga praticamente per caso non può comportare l’estinzione dell’obbligazione doganale ai sensi dell’art. 233, primo comma, lett. d), del codice doganale” (punti 33-34). 1.2 - Sul piano del diritto interno, peraltro, l’art. 338 T.U.L.D., primo comma prescrive che “il pagamento della multa o dell’ammenda non esime dall’obbligo del pagamento dei diritti doganali, salvo il caso in cui la merce oggetto del contrabbando sia stata sequestrata”. Tuttavia, l’eventuale estinzione dell’obbligo di pagare i diritti doganali anche nel caso di sequestro della merce avvenuta dopo il primo Ufficio Doganale determinerebbe un’ipotesi di contrasto tra la norma interna testé citata e la norma comunitaria di cui all’art. 233 CDC. Tale antinomia va risolta secondo il principio generale del rapporto di integrazione tra il diritto dell’Unione europea e il diritto interno, in funzione del quale le fonti europee integrano l’ordinamento interno e prevalgono su eventuali disposizioni nazionali contrastanti (v. le concordi sentenze della Corte di Giustizia – ex plurimis sentenza del 15 luglio 1964 in causa C 6/64, Costa c. Enel; sentenza del 9 marzo 1978 in causa 106/77, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal - e della Corte Costituzionale - vedasi tra le altre le sentenze n. 168/91 e nn. 348-349/07). Nel novero delle fonti normative direttamente applicabili nello Stato membro vanno considerate anche le pronunce emesse dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea alla quale, a norma dell’art. 267 TFUE, spetta interpretare e assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri; pertanto, qualsiasi sentenza precisi il significato di una norma europea assume carattere integrativo del diritto dell’Unione e, determinandone ampiezza e contenuto, viene a far corpo con le norme interpretate. Ciò appare, peraltro, confermato dalla disposizione di cui all’art. 1, lett. b, L. 11/05 (contenente “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”) ai sensi del quale lo Stato italiano garantisce l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea che conseguono, tra l’altro, “all’accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee (oggi dell’Unione europea), della incompatibilità di norme legislative e regolamentari dell’ordinamento giuridico nazionale con le disposizioni dell’ordinamento comunitario (ora dell’Unione)”. Pertanto, in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra norme di diritto dell’Unione e norme nazionali, nell’ipotesi in cui sorga un conflitto tra norme europee e nazionali, le prime prevalgono sulle seconde in 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 quanto ad esse sovraordinate, in virtù della limitazione di sovranità operata dallo Stato Italiano in favore dell’ordinamento comunitario ai sensi dell’art. 11 Cost.. e del principio del primato del diritto dell’Unione sancito dall’art. 117 Cost. - come risultante dalle modifiche di cui all’art. 3 L. cost. n. 3/01 - ai sensi del quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario…” e di recente codificato nella Dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Lisbona. 1.3 - Per le ragioni sopra estese, occorre conformare l’ambito di applicazione della norma interna di cui all’art. 338 TULD in relazione al significato e alla portata dell’art. 233 CDC – siccome recentemente interpretato alla luce dell’accezione restrittiva accolta dalla Corte nella citata sentenza C-459/07 del 2 febbraio 2009 – al fine di ricondurre a sistema unitario la disciplina dell’estinzione dell’obbligazione doganale ricavabile dalla integrazione di fonti regolamentari di origine europea e di fonti di derivazione interna e, alla luce di ciò, vagliare la soluzione dei cennati profili antinomici. Con riferimento al caso di specie è necessario considerare che la funzione economica dei diritti doganali ed, in particolare, l’obiettivo protezionistico sottostante all’imposizione dei diritti di confine (argomento della causa principale), comporta che l’obbligazione doganale si estingua in linea di principio quando le merci introdotte irregolarmente siano sequestrate e confiscate prima di entrare nel circuito economico degli Stati membri. Argomentando in tal senso, la Corte, chiamata ad interpretare in funzione nomofilattica l’art. 233, primo comma, lett. d) C.D.C, conferma a fondamento della ratio dell’estinzione dell’obbligazione doganale l’esigenza di evitare l’imposizione di un dazio nel caso in cui la merce, seppure introdotta irregolarmente nel territorio comunitario, non abbia potuto essere commercializzata e non abbia pertanto costituito una minaccia, in termini di concorrenza per le merci comunitarie (vedasi la citata sentenza C-459/07). Pertanto, ogni causa di estinzione dell’obbligazione doganale contemplata dalla legge - ivi inclusa, nello specifico, l’ipotesi dovuta al sequestro delle merci all’atto dell’introduzione irregolare nel territorio dell’unione doganale - deve essere interpretata restrittivamente al fine di tutelare le risorse proprie della Comunità. Tale obiettivo potrebbe essere compromesso con l’introduzione di nuove cause di estinzione dell’obbligazione doganale; invero, “Questa necessità – così come motivato dalla Corte - si impone, a maggior ragione, per quanto concerne la determinazione del momento in cui deve aver luogo il sequestro delle merci che può comportare l’estinzione dell’obbligazione doganale relativa a queste ultime”(sentenza C-459/07, punto 31). In conclusione, secondo il richiamato principio generale della primazia del diritto comunitario, l’art. 338 TULD deve essere interpretato conforme- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 173 mente al diritto di rango superiore portato dalle fonti comunitarie al fine della ricostruzione unitaria e sistematica dell’istituto dell’estinzione dell’obbligazione doganale e, in caso di contrasto, con disapplicazione (in ragione della menzionata autonomia dei due ordinamenti, vedasi Corte Costituzionale n. 168/91) della norma interna nella parte in cui sia contrastante con quella comunitaria. Per le ragioni sopra estese, appare corretta la soluzione interpretativa prospettata da codesta Agenzia al fine di risolvere l’antinomia rappresentata, nel senso che la disposizione di estinzione dell’obbligo di pagare i diritti doganali per effetto del pagamento della multa o dell’ammenda - contenuta nell’art. 338 TULD, comma primo - non deve essere applicata nel caso in cui il sequestro della merce introdotta irregolarmente nel territorio della Comunità sia avvenuto dopo il primo Ufficio doganale. 2 - Sotto altro profilo, l’Agenzia istante sollecita chiarimenti in ordine alla possibilità di estendere alla disciplina dei diritti doganali di natura diversa dai dazi all’importazione l’applicazione della soluzione ermeneutica individuata dall’interpretazione integrata e coordinata del disposto di cui agli artt. 338 TULD e 233 CDC. 2.1 - In particolare si chiede a questa Avvocatura se il principio sancito nella sentenza C-459/07 riguardo all’estinzione dell’obbligazione doganale daziaria nell’ipotesi di merci introdotte irregolarmente nel territorio doganale comunitario possa estendersi “a tutti quei diritti che - a mente dell’art. 34 CDC - la dogana è tenuta a riscuotere in forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali ”. La disposizione testé citata risulta completata dal successivo comma, fondamentale ai nostri fini, alla stregua del quale rientrano tra i diritti doganali i “diritti di confine”, cioè, oltre i tributi costituiti dai dazi, ogni altro tributo concernente merce di importazione, quali i diritti di monopolio, le Accise, l’IVA all’importazione. Invero, i tributi accertati e riscossi dalla Dogana sulla base della normativa comunitaria e nazionale si possono distinguere in base alla funzione economica alla quale sono preordinati in “risorse proprie” (dazi, imposizioni istituite nel quadro della politica agraria comune ed altre tasse ad effetto equivalente) con le quali l’Unione si finanzia ed entrate di “fiscalità interna”, cioè i tributi costituenti entrate tributarie dei singoli Stati membri (ancorché riversate proquota all’Unione). Tra queste ultime si possono annoverare “l’IVA all’importazione”: dovuta per le merci originarie da Paesi terzi da “chiunque effettuata” secondo l’art. 70 del D.P.R. n. 633/72 e le accise attualmente disciplinate dal “Testo Unico Accise” (TUA D.Lgs. n. 504/95). 2.2 - Nel sistema integrato e coordinato delle fonti normative comunitarie e nazionali applicabili, competono all’Agenzia delle Dogane rilevanti compiti 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 di controllo e di accertamento allo scopo di prevenire operazioni irregolari e illecite ai danni degli interessi economici dell’Unione e dello Stato membro interessato. A tal riguardo, la nozione dei “diritti di confine” è fondamentale nella configurazione del reato di contrabbando, previsto al Titolo VII, Capo I art. 282 e ss. TULD, quale reato commesso da chi con dolo sottrae (o tenta di sottrarre) merci estere al sistema di controllo istituito per l’accertamento e la riscossione dei diritti di confine e di ciò che ad essi viene equiparato ai fini sanzionatori. In detta materia, con specifico riguardo all’interpretazione degli artt. 202 e 203, primo comma, lett. d), CDC, la terza sezione della Corte di giustizia europea si è pronunciata con la citata sentenza C-459/07, stabilendo - in ordine alla disciplina dei dazi doganali, oggetto della causa principale - che “per determinare l’estinzione dell’obbligazione doganale, il sequestro di merci introdotte irregolarmente nel territorio doganale della Comunità europea deve intervenire prima che le merci in questione superino il primo ufficio doganale situato all’interno di tale territorio”. Con la successiva sentenza del 29 aprile 2010, C-230/08, la terza sezione della Corte di Giustizia - ai fini della soluzione della seconda e della terza questione pregiudiziale sottoposte alla sua interpretazione in tema rispettivamente di accise e di IVA – si è pronunciata sull’estinzione delle obbligazioni fiscali generate al momento dell’importazione irregolare di merci nel territorio doganale della Comunità, dovuta alla confisca e alla distruzione da parte delle autorità di uno stato membro. La Corte, in particolare, si è soffermata sulla incidenza del fatto generatore d’imposta e - al fine di assicurare una lettura coerente della normativa comunitaria controversa - ha interpretato, alla luce della nozione di “introduzione” di cui all’art. 233, primo comma, lettera d), CDC, la nozione di “ingresso del prodotto nella Comunità” recata dall’art. 5 n. 1 primo comma della Direttiva Accise all’epoca corrente - n. 92/12/CEE - (che nella direttiva 2008/118/CEE attualmente vigente diventa “entrata nel territorio della Comunità”, vedasi art. 4, comma 1, punto 8) e quella di “entrata nella Comunità” portata dalla sesta direttiva IVA art. 7 n. 1 lett. a) (che nella dizione dell’art. 30, comma 1 della Direttiva 2006/112 diviene “ingresso nella comunità”), cui implicitamente fa rinvio, nel caso del contrabbando, il concetto di “importazione di un bene nello Stato membro nel cui territorio si trova il bene nel momento in cui entra nella Comunità”, contenuto, invero, nell’art. 10 n. 3 della Sesta Direttiva IVA 77/388/CEE (ora letteralmente trasfusa negli attuali artt. 70 e 71, comma 1°, secondo alinea Direttiva 2006/112). Dalla pronunzia della Corte consegue che, come già deciso nella sentenza C-459/07 in materia di dazi all’importazione, le merci soggette ad accisa e/o IVA debbono essere considerate entrate all’interno dell’Unione nel momento I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 175 in cui superano il primo ufficio doganale ubicato all’interno del suo territorio. 2.3 - Ancora, confermando il principio stabilito in ordine ai dazi all’importazione, la Corte stabilisce che, per quanto attiene le merci di contrabbando sequestrate e contemporaneamente o successivamente confiscate, “il fatto generatore dell’IVA e l’esigibilità di quest’ultima ... possono intervenire soltanto a partire dal momento in cui le merci hanno lasciato la zona nella quale si trova il primo ufficio doganale ubicato all’interno del territorio doganale della Comunità” (Corte di Giustizia sentenza del 29 aprile 2010, C-230/08, punto 92). Parimenti, secondo quanto motivato dallo stesso Giudice europeo, il fatto generatore dell’Accisa e l’esigibilità della stessa - nel caso di irregolare importazione, dalla quale consegue immissione in consumo della merce, ai sensi dell’art. 6, n. 1 lett. c) Direttiva Accise 92/12/CEE allora in vigore, ora trasfuso nell’art. 7, n. 2, lett. d), dell’attuale direttiva vigente 2008/118/CE – si configurano fin dal momento in cui le merci hanno lasciato la zona nella quale si trova il primo ufficio doganale ubicato all’interno del territorio doganale della Comunità (vedasi citata sentenza C-230/08, punto 75). In conclusione, il percorso seguito con coerenza dalla Corte nelle pronunce C-459/07 e C-230/08 non lascia alcun dubbio sul fatto che per quanto attiene ai diritti di confine (dazi, accise e IVA all’importazione) le cause di estinzione delle obbligazioni doganali dovrebbero interpretarsi restrittivamente e che un sequestro con confisca di merci contrabbandate potrebbe portare all’estinzione dell’obbligazione doganale, in tutti i suoi profili, solo se avvenuto prima dell’uscita dalla prima dogana ad una frontiera esterna della comunità. Pertanto, come diffusamente argomentato nella soluzione del primo quesito al quale all’uopo si rimanda, è necessario accedere alla lettura armonizzata e coordinata degli artt. 233 CDC e 338 TULD per quanto attiene la disciplina dell’estinzione dei diritti di confine, segnatamente dei dazi all’importazione, dell’accisa e dell’IVA e tale impostazione potrà ragionevolmente adottarsi per ogni tassa di effetto equivalente dovuta all’importazione delle merci. Per le ragioni sopra estese si condivide nel risultato e nel metodo la soluzione sottoposta da codesta Agenzia a questa Avvocatura. Per completezza è appena il caso di precisare che residuano altri diritti connessi alle operazioni doganali, tra i quali possono annoverarsi ad esempio i diritti di magazzinaggio, le tasse di imbarco e sbarco delle merci trasportate per via aerea o marittima, i diritti di visita sanitaria; tuttavia essi non hanno natura di imposizione tributaria e i loro corrispettivi sono dovuti in relazione ad un servizio che l’operatore riceve solo in caso di svolgimento regolare dell’operazione, pertanto la loro violazione esonda dalla materia de qua e non inficia la validità della soluzione elaborata. 2.4 - Quanto alla riscossione delle imposte de quibus, si sottolinea che la Corte di Giustizia nella sentenza C-230/08 del 29 aprile 2010, con riguardo al caso di introduzione via terra delle merci contrabbandate nel territorio doga- 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nale della Comunità che siano state scoperte, sequestrate e distrutte in un altro Stato membro nel quale è proseguita l’importazione, statuisce - a mente rispettivamente degli artt. 202, 215 nn. 1 e 3 e 217 CDC e degli artt. 7, n. 2 e 10 n. 3 della Sesta Direttiva IVA (ora artt. 30, primo comma, 70 e 71 primo comma, secondo paragrafo della Direttiva 2006/112/CE) - la competenza delle autorità dello Stato membro situato alla frontiera più esterna della comunità a riscuotere l’obbligazione doganale e l’imposta sul valore aggiunto, anche se dette merci sono state successivamente instradate in un altro Stato membro dove sono state scoperte e sequestrate. Sempre secondo la sentenza C-230/08, però, qualora quelle merci siano detenute a scopo commerciale nello Stato membro dove sono state scoperte e sequestrate, la competenza per la riscossione dei diritti di accisa è di quest’ultimo Stato; il relativo accertamento di fatto spetta al giudice del rinvio. Nello stesso senso dispongono l’art. 2, secondo comma, lett. d) e l’art 7, primo comma, lett. c), del D.Lgs. 504/95 (TUA), di contenuto conforme al punto 11 delle considerazioni preliminari della Direttiva Accise vigente 2008/118/CE, nonché all’art. 7 primo comma della medesima. 3 - In merito alla circostanza che la diversa sorte (vendita o distruzione) delle merci contrabbandate e sequestrate possa influire nell’applicazione dei principi di diritto e degli orientamenti interpretativi autorevolmente espressi dalla Corte di Giustizia, si ritiene che, non potendosi rinvenire nelle fonti e nella giurisprudenza alcuna argomentazione esplicita e/o implicita in tal senso, il silenzio del legislatore non escluda la possibilità di applicare la normativa, siccome interpretata, indifferentemente dalla destinazione subita dalla merce oggetto di contrabbando. Codesta Agenzia chiede, quindi, lumi sulla qualificazione della merce sequestrata e confiscata, se comunitaria o non. Per valutare le conseguenze dell’esistenza dell’obbligazione doganale all’importazione sulla definizione della natura comunitaria o non della merce stessa, occorre operare, in limine, una distinzione in ordine ai diritti di confine che constano, come detto, dei tributi di qualsiasi tipo che la dogana riscuote a seguito dell’operazione doganale. Infatti, i dazi all’importazione (e quelli all’esportazione), i prelievi e le altre imposizioni all’importazione (o all’esportazione) dovuti in forza dei regolamenti e delle direttive comunitarie analizzate e delle relative norme di applicazione, fanno cambiare la posizione della merce da estera in comunitaria e viceversa. Quindi, per effetto del pagamento dei soli tributi dovuti per l’importazione da paesi terzi, l’origine della merce cambia da estera a comunitaria e si ha l’immissione in libera pratica della stessa. Diversamente, col pagamento degli altri tributi relativi ad imposte di consumo interne quali l’IVA, le Accise e i diritti di Monopolio - riscossi in occa- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 177 sione delle operazioni doganali soltanto perché trattasi di prodotti provenienti da paesi terzi - si perfeziona l’immissione in consumo delle merci. Detti tributi sarebbero, infatti, dovuti anche se la merce provenisse da un altro paese membro, seppure con modalità diverse dalla riscossione in dogana. Tale conclusione risulta confermata dalla disamina delle fonti, relativa ai dazi all’importazione. Invero, in base all’art. 4, punto 7) CDC si intendono merci comunitarie quelle “importate da paesi o territori che non fanno parte del territorio doganale della Comunità e immesse in libera pratica”. A completamento di tale disposto l’art. 79, comma primo e secondo CDC recita: “L’immissione in libera pratica attribuisce la posizione doganale di merce comunitaria ad una merce non comunitaria” ed “implica … l’applicazione dei dazi legalmente dovuti”. Infine l’art. 866 DAC (Reg, CEE 2454/93 del 2 luglio 1993, disposizioni di applicazione del CDC) dispone che: “… quando un’obbligazione doganale all’importazione sorge a norma degli articoli 202, 203, 204 o 205 del codice (CDC n.d.r.) e i dazi all’importazione sono stati pagati, tale merce è considerata comunitaria senza che sia necessaria una dichiarazione d’immissione in libera pratica” (sottolineatura della scrivente). Per quanto detto, dalla lettura integrata delle fonti citate può agevolmente ricavarsi che, previa applicazione e pagamento dei dazi, la merce oggetto di sequestro debba intendersi comunitarizzata. Fermo restando che il mancato pagamento di detti tributi comporterà il permanere della stessa nel vincolo al regime di deposito doganale di cui art. 867 bis DAC. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo di questa Avvocatura che si è espresso in conformità nella riunione del 4 febbraio 2011. A.G.S. - Parere dell’11 marzo 2011 prot. 86594, avv. Beatrice Gaia Fiduccia, AL 6420/09. «Sulla natura della sanzione di cui all’art. 19 D.Lgs. n. 374/1990» Con le note in riferimento codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla natura della violazione prevista dall’art. 19 D.lgs. n. 374/1990 al fine della corretta individuazione del procedimento per l’irrogazione della relativa sanzione (se quello descritto dalla l. n. 689/1981, ovvero quello previsto per le violazioni di norme tributarie dal D.lgs. n. 472/1997); nonché al fine della individuazione del giudice munito di giurisdizione per la sua impugnativa, da indicarsi nel provvedimento irrogativo della sanzione. Detta qualificazione, precisa codesta Agenzia, si impone all’esito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 - con sentenza additiva n. 130/2008 (testualmente:) - ; intervento con cui, in altri termini, si è giudicato come non conforme a costituzione il criterio di devoluzione alla giurisdizione tributaria in materia di sanzioni sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell’organo competente all’irrogazione. Dopo aver ricordato che la norma in esame dispone testualmente: “1. E’ vietato eseguire costruzioni ed altre opere di ogni specie, sia provvisorie sia permanenti, o stabilire manufatti galleggianti in prossimità della linea doganale e nel mare territoriale, nonché spostare o modificare le opere esistenti, senza l’autorizzazione del direttore della circoscrizione doganale. La predetta autorizzazione condiziona il rilascio di ogni eventuale altra autorizzazione, nella quale della stessa deve essere fatta comunque espressa menzione. 2. La violazione del divieto previsto dal comma 1 comporta l’applicazione, da parte del direttore della circoscrizione doganale competente per territorio, di una sanzione amministrativa di importo da un decimo all’intero valore del manufatto”, espone codesta Direzione Centrale che talune Direzioni Regionali prospettino la natura tributaria della violazione descritta in ragione delle seguenti considerazioni: 1. la disposizione è inserita in contesto normativo che, eccettuati i primi due articoli, contiene esclusivamente norme di natura tributaria; 2. la disposizione ripropone il precedente divieto previsto dall’art. 13 D.P.R. n. 43/1973 (TULD), già collocato nel capo dedicato dal predetto Testo Unico alle norme in materia di vigilanza, controlli e poteri degli uffici doganali ovvero a norme regolanti l’esercizio della vigilanza fiscale sulla linea doganale e nel mare territoriale; 3. e 4. l’interesse protetto dalla disposizione sarebbe proprio quello relativo a detta funzione di vigilanza, estranei invece gli interessi pubblici di natura urbanistica, edilizia e paesaggistica data l’espressa previsione della necessità di menzionare l’autorizzazione altrimenti concessa dalle autorità doganali nel rilascio di ogni altra, con conseguente efficacia condizionante della prima; la funzione di controllo, così demandata all’Agenzia delle Dogane, conferirebbe natura tributaria alla relativa sanzione; 5. le violazioni pure previste da altre norme in funzione di controllo, quali quelle previste dall’art. 48, comma 1 e dall’art. 50, comma 3, del D.lgs. n. 504/95 nonché dall’art. 35, comma 35, del D.L. n. 223/2006, sarebbero regolate dal procedimento previsto dal D.lgs. n. 472/97. Dette argomentazioni, ad avviso di codesta Direzione Centrale, non sarebbero tuttavia decisive alla luce del principio espresso dalla Corte Costituzionale nella richiamata decisione nel senso della imprescindibilità, agli effetti I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 179 della sussistenza della giurisdizione tributaria, della cui le sanzioni ineriscono. In particolare, codesta Direzione ritiene che tale rapporto non sussista nel caso di specie dovendosi considerare quanto precisato in altri pronunciamenti della Corte Costituzionale per accertare se la controversia devoluta ai giudici tributari abbia o non effettiva natura tributaria, secondo cui, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, i criteri “consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante” (cfr. C. Cost. n. 64/2008; n. 334/2006; n. 73/2005 e n. 2/1995). Quanto sopra richiamato, parrebbe a questa Avvocatura che alla disposizione in oggetto possa conferirsi natura tributaria in base alle considerazioni che seguono. Muovendo dall’esame della motivazione della richiamata sentenza n. 130/2008, i passaggi argomentativi della Corte Costituzionale possono sintetizzarsi come segue. L’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992 individua l’oggetto della giurisdizione tributaria stabilendo che appartengono ad essa <>. Stabilisce, inoltre, che appartengono alla medesima giurisdizione <>. Premette la Corte che tale disposizione veniva interpretata, anche dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso di attribuire alla giurisdizione tributaria non solo le controversie concernenti i tributi, ma anche, in via residuale, le controversie concernenti le sanzioni irrogate in relazione ad infrazioni connesse alla violazione di norme che non necessariamente attenevano a tributi essendo sufficiente, secondo la lettera della norma, la natura finanziaria dell’organo competente ad irrogare la sanzione. Ricorda inoltre la Corte che precedenti vagli di costituzionalità della norma in esame erano stati risolti dichiarando inammissibili le questioni prospettate in ragione della possibilità di dare all’art. 2 D.Lgs. n. 546/92 un’interpretazione conforme a Costituzione, la quale valorizzasse <> e non già limitandosi a considerare solo il profilo soggettivo concernente la natura dell’organo competente ad irrogare la sanzione (ordinanze nn. 34/2006, 395/2007, 94 e 35/2006 richiamate nella cit. sentenza Corte Cost. n. 130/2008). Procede, quindi, la Corte ribadendo quanto già chiarito con sentenza n. 64/2008, segnatamente che: 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 - la giurisdizione tributaria deve essere considerata un organo speciale di giurisdizione preesistente alla Costituzione; - l’oggetto di tale giurisdizione può essere modificato dal legislatore ordinario che, tuttavia, incontra il duplice limite costituzionale di <> e di <> delle medesime giurisdizioni (ord. n 144/1998); - il mancato rispetto del limite di “non snaturare “ le materie originariamente attribuite alle indicate giurisdizioni si traduce nell’istituzione di un “nuovo” giudice speciale, espressamente vietata dall’art. 102 Cost.; - l’<> oggetto delle suddette giurisdizioni costituisce, cioè, una condizione essenziale perché le modifiche legislative di tale oggetto possano qualificarsi come una consentita “revisione” dei giudici speciali e non come una vietata introduzione di un “nuovo” giudice speciale (ancora richiamando la sentenza n. 64/2008). Sulla base di dette argomentazioni, la Corte conclude testualmente: “non c’è dubbio che la lettura dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, dà il diritto vivente, finisce per attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie relative a sanzioni unicamente sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell’organo competente ad irrogarle e, dunque, a prescindere dalla natura tributaria del rapporto cui tali sanzioni ineriscono. Essa, dunque, si pone in contrasto con l’art. 102, secondo comma, e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, risolvendosi nella creazione di un nuovo giudice speciale”. Ritiene la Scrivente, anche alla luce delle richiamate ragioni argomentative della declaratoria di incostituzionalità, che nelle fattispecie sanzionatorie, strutturalmente costituite da una componente precettiva e da un’altra afflittiva, determinante della devoluzione alla giurisdizione tributaria sembrerebbe essere l’indagine del bene giuridico tutelato dalla disposizione, ovvero dell’interesse pubblico perseguito e soddisfatto con l’adempimento dell’obbligo sanzionato. Seppure, come evidenziato da codesta Direzione Centrale, la Corte ha più volte precisato che i criteri per individuare la natura tributaria della controversia consistono (criteri da ultimo ribaditi anche con sentenze n. 141/2009 e n. 39/2010), è anche vero che tali argomentazioni sono state spese allorchè si discuteva se un dato prelievo avesse natura tributaria o fosse piuttosto riconducibile ad entrata di altro tipo, con conseguente devoluzione, solo nel primo caso, delle relative controversie alla cognizione del giudice tributario. Gli stessi criteri, invece, non possono ritenersi propriamente esausitivi qualora, come nel caso di specie, debba valutarsi della natura tributaria di una disposizione non già impositiva di una prestazione, bensì precettiva di un dato I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 181 obbligo alla cui violazione è comminata la sanzione. In tal caso parrebbe non potersi prescindere dal procedere secondo un’intepretazione teleologico-funzionale della previsione, in cui possa assumere carattere decisivo della proprio l’individuazione del fine primario di tutela dell’interesse pubblico alla corretta applicazione di dati tributi o, prima ancora, al controllo della loro evasione. Giova a riguardo ricordare che la fattispecie occasionata dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 130/2008 riguardava sanzioni amministrative (allora) comminate dall’Agenzia delle Entrate per la violazione inerente all’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie. In tale fattispecie, di contro, l’interesse primario perseguito dalla norma al vaglio è quello della tutela del lavoratore, con evidente (volendo richiamare la terminologia della Corte) rispetto a quella tributaria. Di contro la disposizione in esame, con cui il legislatore ha inteso impedire la realizzazione di costruzioni non autorizzate lungo la linea doganale (costituita, ai sensi dell’art. 1 del T.U.L.D., dalla linea retta congiungente i punti più foranei della costa, nonché dai confini doganali) e lungo il mare territoriale (inteso, ai sensi dell’art. 2 stesso T.U., quale territorio circoscritto dalla linea doganale) attraverso l’espletamento di un controllo preventivo da parte dell’autorità doganale competente - pur nella difficoltà di individuazione dell’interesse in concreto protetto con i singoli provvedimenti di irrogazione della sanzione di specie in ragione del fatto che l’Agenzia delle Dogane non svolge unicamente attività tributaria strettamente intesa - converge verso la prevalenza di una funzione di prevenzione della violazione delle norme anticontrabbando e, in senso ampio, di controllo ai fini della corretta applicazione dei diritti e tributi doganali. Per tali ragioni, sembrerebbe conforme ai parametri di costituzionalità sopra richiamati ritenere che l’art. 19 D.lgs. n. 374/1990 sia , né che altrimenti già devoluta al giudice speciale la devoluzione alla giurisdizione tributaria delle controversie attinenti ai provvedimenti irrogativi della sanzione di specie, da adottarsi quindi secondo il procedimento disciplinato dal D.lgs. n. 472/1997. Si ritiene che possa adottarsi la linea interpretativa suggerita salvo il formarsi di diverso orientamento giurisprudenziale in sede di legittimità che all’occasione si avrà cura di sollecitare. Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo che lo ha approvato nella seduta dell’8 marzo 2011. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 A.G.S. - Parere del 26 marzo 2011 prot. 10411, avv. Gabriella Mangia, AL 6519/10. «Spettanza del rimborso delle spese legali in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali» (...) 5. Al riguardo, la presente disamina deve prendere le mosse dalla disposizione normativa qui conferente, rappresentata dall’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, convertito dalla l. 25 maggio 1997, n. 135, al fine di poterne individuare la corretta interpretazione. La menzionata disposizione recita: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato”. Due quindi sono i presupposti che devono concorrere affinché possa riconoscersi come fondata la pretesa al rimborso delle spese legali sostenute in un procedimento penale: che il giudizio di responsabilità penale sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali; che esso si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell'imputato. Sul secondo dei requisiti non corre alcun dubbio, attesa la pacifica sussistenza di un decreto di archiviazione nei confronti del (...). Ai fini della risoluzione del quesito posto, invece, la parte più rilevante della predetta disposizione è costituita dalla necessaria connessione dei fatti o atti integranti la condotta delittuosa per la quale si è proceduto con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali. Ciò premesso, in linea di principio, affinché possa affermarsi sussistente il primo dei due presupposti non è sufficiente che l'impianto accusatorio abbia fatto leva sulla mera qualifica soggettiva dell'agente. Se così fosse, si svuoterebbe di significato, riducendola a non più di una tautologia, qualsivoglia indagine circa la presenza del suddetto requisito. In realtà, ai fini del riconoscimento del rimborso delle spese legali ex art. 18 d.l. 67/1997, non è sufficiente un generico collegamento funzionale tra l'indagato (o imputato), il fatto addebitatogli e l'esercizio delle sue attribuzioni, ma deve bensì essere ravvisabile icto oculi il rapporto di immedesimazione organica tra dipendente e pubblica amministrazione ( si veda il parere del Consiglio di Stato, sez. 3, prot. 1914/2008; TAR Lazio, sez. I quater, n. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 183 29783/2010, sulla necessità della “connessione dei fatti e atti, che hanno integrato la condotta delittuosa, con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e sulla circostanza che il giudizio abbia del tutto escluso la responsabilità del dipendente pubblico, cui i fatti ed atti erano stati ascritti”). In altre parole, l'attività di cui si sia paventata l'illiceità penale deve essere immediatamente riferibile alla p.a., e non in occasionale collegamento temporale con il servizio. Solo in presenza di codesto requisito può essere invocato il divieto di locupletatio cum aliena iactura, principio sotteso alla disciplina de qua. Concludendo, la qualifica soggettiva è condizione necessaria ma non sufficiente, richiedendosi che il fatto o l’atto di cui è accusato il pubblico ufficiale sia ricompreso nelle funzioni da quest’ultimo normalmente assolte. (...) 7. E’ stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 22 marzo u.s.. A.G.S. - Parere dell’8 aprile 2011 prot. 120932, avv. Chiarina Aiello, AL 8874/11. «Accordi di programma di natura transattiva per la messa in sicurezza e bonifica di siti inquinati. Non transigibilità della responsabilità da illeciti ambientali » Con la nota cui si risponde codesto Ufficio Commissariale espone che alcune aree prospicienti il fiume Sacco nel comune di Colleferro presentano da decenni una situazione di grave inquinamento del suolo/sottosuolo e della falda acquifera. Espone altresì che è stata da alcuni anni dichiarata l’emergenza ambientale (dpcm 19 maggio 2005 e successive proroghe) e si è intrapreso il procedimento volto ad individuare gli interventi necessari a mettere in sicurezza e a bonificare il sito interessato dal problema. In particolare, il Dipartimento di Idraulica, Trasporti e Strade della facoltà di Ingegneria dell’Università “La Sapienza” ha redatto un progetto definitivo per la bonifica del suolo/sottosuolo dell’area denominata “Arpa 2”. Tale progetto segue quello elaborato nel 2008 dal medesimo Dipartimento relativamente all’area denominata “Arpa 1”, in merito al quale, e all’accordo conseguente con la soc. (...), questa Avvocatura si è espressa con il parere del 4 luglio 2008 n. 86704. Anche l’area in questione, come quella oggetto della precedente consultazione, è stata acquistata nel dicembre 1995 dalla soc. (...), che la utilizza a servizio di un opificio industriale, di cui non viene precisata la natura. Si è quindi applicato alla società il disposto degli artt. 242 ss. d.lgs. 152/2006, i quali prevedono che il soggetto responsabile dell’inquinamento è 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 obbligato a realizzare a proprio carico gli interventi di risanamento; che il soggetto non responsabile ma comunque interessato al risanamento può attivarsi per realizzare tali interventi; che in mancanza di interventi privati, spetta all’amministrazione mettere in sicurezza e bonificare i siti inquinati recuperando i costi a carico del responsabile dell’inquinamento o, in via sussidiaria, cioè nella dimostrata impossibilità per l’amministrazione di individuare o di escutere il responsabile, a carico del proprietario non responsabile, che sarà tenuto entro i limiti di importo indicati dall’art. 253 c. 4. La società (...).ha sempre contestato di essere responsabile dell’inquinamento delle aree in esame. Per quanto attiene alla sua possibile obbligazione sussidiaria quale proprietaria del sito, ha altresì contestato che l’amministrazione abbia dimostrato adeguatamente l’impossibilità di individuare il responsabile dell’inquinamento. A questo riguardo ha proposto due ricorsi al Tar del Lazio, attualmente pendenti. La società ha peraltro provveduto a proprie spese alle opere di caratterizzazione e messa in sicurezza di emergenza dei siti di sua proprietà interessati alla bonifica (oltre al sito Arpa 1, e al sito Arpa 2, sito ex Cava di Pozzolana). Ciò premesso, codesto Ufficio commissariale riferisce di avere concluso con la società (...) una ipotesi di accordo, in base al quale si stabiliscono le attività e il contributo economico cui saranno tenute l’amministrazione e la (...). per realizzare la bonifica e la messa in sicurezza permanente del suolo/sottosuolo del sito Arpa 2, nonché lo smaltimento dei materiali provenienti dalla bonifica della contigua area denominata “Chetoni – fenilglicina”, di proprietà della (...) in amministrazione straordinaria, e la realizzazione e gestione delle opere occorrenti per la bonifica dell’acquifero del sito denominato “Benzoino e derivati”. Si rende quindi il parere sulla bozza dell’accordo di programma. 1. Correttamente l’accordo da stipulare non viene ricondotto (nonostante la dicitura usata nella nota che si riscontra) all’accordo di programma di cui all’art. 246 dlgs 152/2006. Invero il comma 1 di tale articolo prevede che “I soggetti obbligati agli interventi di cui al presente titolo ed i soggetti altrimenti interessati hanno diritto di definire modalità e tempi di esecuzione degli interventi mediante appositi accordi di programma stipulati, entro sei mesi dall'approvazione del documento di analisi di rischio di cui all'articolo 242, con le amministrazioni competenti ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo”. Nella specie invece l’intervento previsto è eseguito d’ufficio da codesto Commissario e la convenzione prevede l’assunzione di varie obbligazioni a carico della (...) in particolare di corresponsione del previsto contributo nella misura determinata nella stessa convenzione e rapportata ai limiti della relativa obbligazione esistente a carico della parte siccome proprietaria in tesi incolpevole dell’inquinamento. 2. Quanto al presupposto degli obblighi assunti dalla (...), si rileva che le I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 185 parti non sembrano manifestare un comune accordo sulla circostanza se la (...) sia effettivamente estranea a qualsiasi responsabilità nei fatti che hanno condotto all’inquinamento del sito. Tali fatti, secondo la società, risalirebbero agli anni 30 o, al più tardi, agli anni 70, mentre la (...) ha iniziato ad utilizzare il sito alla fine del 1995, e per attività diverse da quelle svoltevi dai precedenti utilizzatori, sicché non sussisterebbe alcun nesso causale tra la sua attività e l’inquinamento (pag. 4 della bozza trasmessa). 3. La Scrivente osserva che da quanto esposto nelle premesse della bozza di accordo (unico documento trasmesso) non emergono circostanze di fatto che consentano di confermare o smentire questo presupposto. Emerge tuttavia che codesto Ufficio commissariale non ha mai revocato le note citate nelle pagg. 6 e 7 della bozza, nelle quali ha ipotizzato che la (...) possa essere considerata responsabile ai sensi degli artt. 242 ss. d.lgs. 152/2006. 4. Il presente parere non può quindi in nessun caso essere inteso come una attestazione dal punto di vista giuridico della fondatezza dell’affermazione della società di essere estranea a responsabilità per l’inquinamento del sito. Esso viene reso assumendo tale presupposto come mera ipotesi di partenza, ma rimane salva ogni diversa conclusione qualora emergessero in seguito circostanze che possano dimostrare una responsabilità totale o parziale della società nell’inquinamento. 5. Questa precisazione è necessaria per chiarire che con la stipula dell’accordo l’amministrazione non può né intende rinunciare (trattandosi di materia evidentemente indisponibile) ad esercitare anche nei confronti della (...). i propri poteri di ricerca dei responsabili dell’inquinamento o, comunque, di applicazione delle norme sanzionatorie e di responsabilità che divengono operanti qualora tali responsabili vengano in qualsiasi sede individuati. 6. Considerata l’ambiguità del presupposto ora analizzato, è evidente che l’assetto di interessi formalizzato nell’atto diverrebbe più chiaro se si inserissero espressamente delle clausole (come in seguito illustrate) che rendessero esplicita la provvisorietà dell’ipotesi posta a base dell’accordo. 7. Passando ad esaminare la struttura generale dell’accordo, questo in sostanza regola le attività che l’Ufficio commissariale e la (...) svolgeranno nella realizzazione del progetto di bonifica. L’art. 1 par. 3 individua le aree oggetto di intervento e definisce la tipologia generale degli interventi stessi. 8. Nel par. 1 dell’art. 1 si dichiara che la (...) nega la propria responsabilità nella contaminazione del sito, e che questa dichiarazione “non impegna l’Ufficio commissariale”. Per chiarezza, appare opportuno aggiungere “né alcuna altra amministrazione competente in materia di tutela dell’ambiente”. La circostanza che l’accordo viene stipulato all’esito di ripetute conferenze di servizi convocate dall’Ufficio commissariale potrebbe infatti essere considerata come evidenziante, altresì, una funzione di rappresentanza di tutte le amministrazioni intervenute alle conferenze, svolta dall’Ufficio nello stipulare l’accordo. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 9. Nel par. 2 dell’art. 1 si affronta la questione del rapporto tra l’accordo in esame e la figura della “transazione globale” introdotta dall’art. 2 d.l. 30 dicembre 2008 n. 208, conv. in l. 27 febbraio 2009 n. 13 (a questo proposito va corretta l’indicazione della norma contenuta nella bozza, in cui si menziona un inesistente “art. 2 l. 27 febbraio 2009 n. 13 ”). In questa clausola si precisa che “il presente accordo, che si esclude possa trattarsi di transazione globale ex art. 2 legge 27 febbraio 2009 n. 13, rappresenta il riferimento programmatico, procedimentale e finanziario diretto alla realizzazione degli interventi che ne costituiscono l’oggetto. Esso definisce, solo per la predetta realizzazione, le modalità operative, procedimentali e di coordinamento, gli impegni delle parti sottoscriventi, nonché i criteri di riparto degli oneri finanziari di rispettiva competenza”. 10. In proposito si osserva che l’introduzione dell’art. 2 d.l. 208/08 ha definitivamente confermato a livello sistematico la non disponibilità in linea di principio della materia attinente alle responsabilità civili e amministrative conseguenti agli illeciti ambientali. Soltanto attraverso lo specifico e assai complesso procedimento disciplinato dalla norma (proposta del Ministro dell’ambiente, parere dell’Avvocatura generale dello Stato, conferenza di servizi, autorizzazione alla stipula da parte del Consiglio dei ministri) è infatti possibile definire transattivamente, e con effetto nei confronti di tutte le amministrazioni pubbliche interessate, le conseguenze sia civili che amministrative di tali illeciti. Al di fuori di questa ipotesi, non si possono considerare ammissibili transazioni sulla responsabilità da illecito ambientale. 11. Per questo è opportuna la precisazione contenuta nella clausola in esame secondo cui l’accordo non solo non costituisce transazione globale ai sensi dell’art. 2 d.l. 208/08, ma si limita a porre la disciplina convenzionale delle attività di bonifica dei siti in esso menzionati, senza voler produrre alcun effetto ulteriore rispetto all’esecuzione di tali attività. Tuttavia, per meglio chiarire questo aspetto, essenziale ai fini della validità dell’accordo sotto il profilo causale, appare opportuno sostituire la prima frase della clausola con la seguente: “Il presente accordo, che le parti concordemente escludono che possa costituire transazione, anche ai sensi dell’art. 2 decreto legge 30 dicembre 2008 n. 208 convertito con modifiche nella legge 27 febbraio 2009 n. 13, rappresenta il riferimento programmatico …”. 12. L’art. 2 commi 1 e 2 definisce le attività che l’Ufficio commissariale si obbliga a porre in essere. Allo scopo di rendere esplicita la ipoteticità del presupposto assunto dalle parti a base dell’accordo (assenza di responsabilità in capo alla (...)), come preannunciato nel precedente punto 7 è necessario integrare la frase di apertura della clausola. In luogo della formula “In ragione della indisponibilità formalmente manifestata dalla (...), l’Ufficio commissariale assume l’esecuzione dell’insieme degli interventi destinati alla progettazione e realizzazione della messa in sicurezza permanente del sito Arpa 2 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 187 …” occorre inserire la seguente: “In ragione della indisponibilità formalmente manifestata dalla Se.Co.Sv.Im., l’Ufficio commissariale, senza che ciò comporti rinuncia ad eventuali future iniziative ai sensi di legge in caso di accertata responsabilità, anche parziale, della (...) nella contaminazione delle aree oggetto del presente accordo, assume l’esecuzione dell’insieme degli interventi destinati alla progettazione e realizzazione della messa in sicurezza permanente del sito Arpa 2 ...”. 13. Diversamente, il diretto collegamento tra l’indisponibilità della (...) e l’assunzione degli obblighi da parte dell’Ufficio, potrebbe essere inteso come accettazione definitiva da parte di questo del punto di vista della società circa la propria assenza di responsabilità nella contaminazione del sito. 14. L’art. 3 prevede il diritto dell’Ufficio commissariale di utilizzare la vasca di confinamento che sorgerà nel sito Arpa 2, che è di proprietà della (...), per conferirvi anche il materiale proveniente dalla bonifica dell’area Chetoni di proprietà della (...) in amministrazione straordinaria. Bonifica che l’Ufficio eseguirà procedendo in danno della inadempiente (...). A questo riguardo sul piano formale occorre integrare la denominazione del sito, individuandolo, come fatto in tutte le altre parti della bozza, come “sito Chetoni-fenilglicina”. 15. Nel merito, si osserva che la capacità complessiva della vasca di confinamento è stimata in mc. 150.000. Questo limite può determinare un conflitto di interessi tra codesto Ufficio commissariale e la (...) in ordine alla provenienza del materiale da conferire. Mentre infatti è evidente interesse della (...) che la vasca sia utilizzata al massimo per conferirvi il materiale proveniente dai siti di sua proprietà, è interesse di codesto Ufficio poter disporre della vasca per conferire anche il materiale di provenienza (...). Dal punto 7 del verbale n. 11 della Conferenza di servizi del 5 agosto 2010 si apprende infatti che la possibilità di utilizzare una struttura di stoccaggio interna alla proprietà (...) per lo smaltimento dei materiali di bonifica provenienti sia da tale proprietà che dalla proprietà (...) è essenziale all’economia dell’intervento. Poiché al conferimento di tutto il materiale (sia (...). che (...)) dovrà provvedere codesto Ufficio commissariale tramite l’impresa affidataria dell’intervento, sembra opportuno inserire nella clausola la seguente precisazione: “La (...) dichiara preventivamente che non avrà nulla a pretendere dal’Ufficio commissariale e suoi aventi causa per effetto della quantità di materiale proveniente dal sito Chetoni-fenilglicina che verrà conferita nella vasca di confinamento, nè in relazione all’eventuale esaurimento per tale motivo della capacità della vasca stessa”. 16. Gli artt. 4 e 5 disciplinano il contributo economico cui si obbliga (...). In questo quadro negoziale, il punto essenziale sta nell’implicito esonero della (...) dal privilegio e dall’azione di rivalsa dell’amministrazione previsti dall’art. 253 commi 3 e 4 (secondo i quali “Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità”; “il proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi”). 17. E’ evidente che la legittimità di questa disciplina negoziale presuppone che il valore complessivo degli oneri economici posti a carico di (...) corrisponda, per lo meno in modo approssimativo, al parametro legale di responsabilità del proprietario “incolpevole” stabilito dall’art. 253 comma 4, cioè al “valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi” (ricordando che per “sito” ai sensi dell’art. 240 c. 1 lett. a] deve intendersi “l'area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie e impiantistiche presenti”). Dagli atti trasmessi non risulta se sia stata effettuata questa valutazione di congruità, che appare tuttavia essenziale e dovrebbe essere, se effettuata, richiamata nelle premesse dell’atto. 18. Nell’art. 5 par. 3 la clausola inerente alla polizza fideiussoria promessa dalla Se.Co.Sv.Im. deve essere integrata nei termini seguenti: “La Se.Co.Sv.Im. S.r.l. si impegna a costituire tramite primario istituto bancario o assicurativo specifica polizza fideiussoria a prima richiesta e senza eccezioni opponibili dal garante a garanzia …”. 19. Con l’art. 5 par. 5, la (...) si impegna a sostenere i costi di gestione post operativa e di manutenzione dell’area di confinamento dei materiali, nonché i costi di manutenzione e gestione delle opere di bonifica dell’acquifero del sito Benzoino e derivati. In proposito si deve osservare che tali costi, riguardando presidi antinquinamento realizzati all’interno del sito di proprietà della società, comunque sarebbero ricaduti su di essa. Il solo effetto pratico della clausola sembra quindi quello di limitare all’importo “stimato” di € 5.500.000,00 il costo che la società sarà tenuta a sopportare per un esercizio di cui non è nota la durata (che nel caso del sito “Arpa 1” era invece indicata come trentennale). Rimane non chiarito che cosa accadrebbe qualora gli oneri in questione superassero tale “stima”. Sembra peraltro che, salva l’eccessiva onerosità sopravvenuta, la società rimarrà tenuta a sopportare tali oneri. 20. Inoltre, anche riguardo a tale obbligazione, il cui corretto adempimento appare essenziale nell’economia dell’accordo, poiché l’effetto pratico dell’intervento di bonifica potrebbe essere compromesso da una non corretta I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 189 gestione e manutenzione della discarica e della barriera idraulica, appare necessario estendere le sanzioni pecuniarie e risolutorie previste, invece, dall’art. 6 per il solo caso di inadempimento alle obbligazioni di cui all’art. 5 par. 2. 21. La clausola contenuta nell’art. 5 par. 7, secondo cui “Resta inteso che nessun ulteriore importo potrà essere richiesto alla società (...) dall’Ufficio commissariale per l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza permanente di Arpa 2 e per gli interventi di cui all’art. 4 comma 3 …”. è eccessivamente perentoria, e potrebbe contrastare con quanto già precisato nei precedenti punti 7 e 13, ingenerando il convincimento che l’esecuzione dell’accordo produca un effetto integralmente liberatorio a favore della società. Anche questa clausola andrà quindi integrata nel seguente modo: “resta inteso che sulla base del presente accordo, e senza pregiudizio dell’esercizio dei poteri di legge in caso di accertata responsabilità, anche parziale, della (...) nella contaminazione delle aree oggetto del presente accordo, nessun ulteriore importo potrà essere richiesto alla società (...) dall’Ufficio commissariale per l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza permanente di Arpa 2 e per gli interventi di cui all’art. 4 comma 3 …”. 22. Opportuna è la clausola contenuta nell’art. 5 par. 8, che recepisce il suggerimento dato dalla Scrivente nel precedente parere in merito all’accordo per il sito Arpa 1, circa la previsione di una procedura di revisione dell’accordo in caso di sopravvenienze di importanza tecnica o economica sostanziale. Conclusivamente, alle condizioni indicate nei punti che precedono, la Scrivente esprime parere positivo sulla bozza di accordo trasmessa da codesto Ufficio commissariale, per la sottoscrizione da parte del commissario delegato (o del soggetto attuatore appositamente autorizzato) In tali sensi si è espresso il Comitato Consultivo in data 22 marzo 2011. A.G.S. - Parere del 12 aprile 2011 prot. 124217, avv. Roberta Tortora, AL 2111/11. «Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81. Individuazione del datore di lavoro ai fini dell’adozione delle misure di prevenzione, successivamente all’entrata in vigore del Regolamento di riorganizzazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a norma dell’art. 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, di cui al D.P.R. 30 gennaio 2008, n. 43» In esito alla nota in riferimento, la Scrivente osserva quanto segue. In primo luogo appare opportuno ricordare che l’art. 2 della L.n. 626/1994 definiva il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità dell'impresa stessa ovvero dell'unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare dei poteri 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 decisionali e di spesa.”, precisando che “Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”. La lettera i) dell’art. 2 citato definiva l’unità produttiva come lo “stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”. Successivamente la materia è stata regolata dalla lettera b) dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, secondo la quale il datore di lavoro è “il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”. L’aspetto fondamentale, comune alle due norme, dunque, è quello della sussistenza di un “potere di gestione” su una “unità produttiva”, cioè su una struttura avente autonomia funzionale, gestionale e finanziaria. In altri termini, colui che dovrà rispondere della sicurezza dei lavoratori è colui che può decidere, in concreto, in quali condizioni ambientali e di sicurezza dovrà essere svolta la prestazione lavorativa, essendo titolare, altresì, del potere di spesa necessario per poter intervenire sulle predette condizioni. Alla luce di quanto sopra, con specifico riferimento all’Amministrazione dell’economia e delle finanze, si osserva, innanzitutto, che l’art. 16 del D.P.R. 30 gennaio 2008 n. 43, lettera a), affida espressamente al Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi “l'attuazione delle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 626/1994”: tale rinvio deve intendersi come un rinvio “mobile” alle disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza, ora contenute nel D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81. La sicurezza sul posto di lavoro rientra, poi, ai sensi del V comma del medesimo art. 16, tra le competenze degli uffici di livello dirigenziale non generale che operano alle dirette dipendenze del capo del Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi. Ai sensi dell’art. 17 del citato D.P.R. 30 gennaio 2008 n. 43, nell’ambito I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 191 del Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi, la Direzione centrale per la logistica e gli approvvigionamenti svolge, tra le varie funzioni, anche quella di gestione degli spazi e delle superfici interni ed esterni e quella di rilevamento ed analisi delle esigenze logistiche degli uffici centrali e locali, anche su indicazione della struttura di coordinamento degli uffici territoriali e del corpo ispettivo ed attuazione delle misure atte al loro soddisfacimento, secondo livelli di servizio definiti. Peraltro, in via generale, la scelta del Legislatore, per l’Amministrazione dell’Economia e delle Finanze e per gli Uffici da essa dipendenti, è nel senso di accentrare nel Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi tutte le funzioni di gestione e di spesa concernenti non solo gli approvvigionamenti e la fornitura di risorse sia umane sia materiali, ma anche, più in generale, la sicurezza sul posto di lavoro, e ciò a prescindere dalla circostanza che si tratti di un ufficio centrale o periferico. Prova ne sia la circostanza che qualunque altro Ufficio facente capo all’Amministrazione dell’Economia e delle Finanze, ove ravvisi una particolare esigenza di sicurezza o di prevenzione sul posto di lavoro, non può provvedere direttamente ad effettuare le spese necessarie a farvi fronte, ma deve interessare il Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi, il quale disporrà la relativa spesa solo se riterrà l’intervento opportuno e possibile. Non solo, ma il Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi può e deve agire, in materia di sicurezza e prevenzione, anche e soprattutto di propria iniziativa, anche se gli interventi riguardino le condizioni di lavoro in Uffici diversi. Non a caso, come si è sopra rilevato, la Direzione centrale per la logistica e gli approvvigionamenti si occupa del rilevamento e dell’analisi delle esigenze logistiche degli uffici centrali e locali e dell’attuazione delle misure atte al loro soddisfacimento, anche avvalendosi del corpo ispettivo. Peraltro la possibilità di avvalersi della struttura di coordinamento degli uffici territoriali e del corpo ispettivo presuppone che il Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi debba occuparsi, in relazione alle proprie funzioni, non solo della sede centrale del Ministero, ma anche di tutte le altre sedi decentrate o periferiche, le cui esigenze devono essere comunque costantemente “monitorate” dal predetto Dipartimento. Del resto la responsabilità dell’Ufficio dirigenziale generale in relazione a tutti gli uffici da esso dipendenti è prevista anche dal III comma dell’art. 5 del D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300, il quale prevede che “Il capo del dipartimento svolge compiti di coordinamento, direzione e controllo degli uffici di livello dirigenziale generale compresi nel dipartimento stesso, al fine di assicurare la continuità delle funzioni dell'amministrazione ed è responsabile dei risultati complessivamente raggiunti dagli uffici da esso dipendenti, in attua- 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zione degli indirizzi del ministro”. Ciò posto, le osservazioni fornite dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato – Ufficio per il Coordinamento dei Rapporti con il DAG in materia di personale con al nota prot. n. 0098261 del 10 agosto 2010 appaiono sostanzialmente condivisibili, atteso che la normativa vigente, come si è visto, ricollega la qualità di “datore di lavoro” alla sussistenza di un “potere di gestione” su una “unità produttiva”, cioè su una struttura avente autonomia funzionale, gestionale e finanziaria. Nel caso di specie, il Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi accentra su di sé sia il potere di gestione sugli approvvigionamenti e sulle strutture nelle quali viene prestata l’attività lavorativa di tutti gli uffici facenti capo al M.E.F. sia il potere di spesa per intervenire sui predetti approvvigionamenti e strutture, dunque, alla luce della normativa vigente, l’organo di vertice di tale Dipartimento, cioè il Capo Dipartimento, sembra essere il soggetto idoneo a rivestire la qualifica di “datore di lavoro” ai sensi della lettera b) dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81. Si osserva, inoltre, che anche la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione si è più volte espressa nel senso di ritenere indispensabile, ai fini dell’individuazione del soggetto datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, che al potere di gestione si accompagni anche il potere di spesa (cfr. Cass. Sez. IV Pen. n. 34804/10, Cass. Sez. III Pen., n. 29543/09). Pertanto si ritiene che l’assetto stabilito con la determina del 23 marzo 1999 sia quello più confacente alle previsioni della normativa in atto e che, invece, lo schema di determina allegato sub all. 4) alla nota in riferimento non possa essere condiviso. Il presente parere è stato esaminato nella seduta del 18 febbario 2011 dal Comitato Consultivo di questa Avvocatura Generale dello Stato, che si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere del 12 aprile 2011 prot. 125405, avv. Stefano Varone, AL 6239/11. «Sul regime di impugnazione dei provvedimenti di revisione e sospensione della patente di guida adottati ai sensi dell’art. 126 bis del codice della strada ed alle modalità di esecuzione delle relative pronunce giurisdizionali» 1) In relazione alla richiesta di parere in oggetto va preso atto che i profili attinenti alla giurisdizione risultano ormai chiariti dalla Cassazione (Sez. Unite, Sent., 12 luglio 2010, n. 16276) che, ribadendo quanto in precedenza affermato con sentenza n. 20544 del 29 luglio 2008, ha affermato il principio secondo cui "in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, l’opposizione, giurisdizionale nelle forme previste dalla L. 24 novem- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 193 bre 1981, n. 689, artt. 22 e 23 ha natura di rimedio generale esperibile, salvo espressa previsione contraria, contro tutti i provvedimenti sanzionatori, ivi compresi quelli di sospensione della validità della patente di guida e quelli prodromici a tale sospensione, quali la decurtazione progressiva dei punti; mentre l’esclusione di tale rimedio per il provvedimento di decurtazione dei punti contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 Cost., intaccandosi l’omogeneità del sistema sanzionatorio del codice della strada". Appurato che la giurisdizione è del giudice ordinario, si tratta pertanto di verificare il termine di impugnativa applicabile. Codesta Amministrazione si interroga sul regime del ricorso al Giudice di pace avverso il provvedimento che dispone la revisione della patente ex art. 126 bis c.d.s. nonché avverso il provvedimento di sospensione previsto dalla medesima norma; in particolare si evidenzia che mentre per la prima ipotesi il ricorso sembrerebbe doversi proporre ai sensi dell’art. 204 bis del codice della strada (con un termine di presentazione di 60 giorni), nel secondo caso (sospensione) l’interrogativo è se si debba applicare detta ultima norma ovvero il regime di cui all’art. 205 c.d.s. richiamato dall’art. 218, 5° comma, il quale prevede un termine di presentazione di 30 giorni. In ordine al provvedimento di sospensione va chiarito che lo stesso è quello previsto dall’art. 126 bis comma 6 c.d.s. in base al quale “Alla perdita totale del punteggio, il titolare della patente deve sottoporsi all’esame di idoneità tecnica di cui all’articolo 128. Al medesimo esame deve sottoporsi il titolare della patente che, dopo la notifica della prima violazione che comporti una perdita di almeno cinque punti, commetta altre due violazioni non contestuali, nell’arco di dodici mesi dalla data della prima violazione, che comportino ciascuna la decurtazione di almeno cinque punti. Nelle ipotesi di cui ai periodi precedenti, l’ufficio del Dipartimento per i trasporti terrestri competente per territorio, su comunicazione dell’anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, dispone la revisione della patente di guida. Qualora il titolare della patente non si sottoponga ai predetti accertamenti entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento di revisione, la patente di guida è sospesa a tempo indeterminato, con atto definitivo, dal competente ufficio del Dipartimento per i trasporti terrestri. Il provvedimento di sospensione è notificato al titolare della patente a cura degli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, che provvedono al ritiro ed alla conservazione del documento”. In ordine all’impugnazione, osserva la scrivente che il relativo regime risulta delineato dall’art. 218 comma 5 del codice della strada, il quale prevede espressamente che “Avverso il provvedimento di sospensione della patente è ammessa opposizione ai sensi dell’articolo 205”, norma (prevista in generale per i ricorsi avverso le ordinanze ingiunzione, ma richiamata espressamente anche per i provvedimenti di sospensione) in base alla quale “ ... gli interessati possono proporre opposizione entro il termine di trenta giorni dalla notifica- 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zione del provvedimento”. La disposizione di cui all’art. 218 comma 5 appare quindi norma speciale e pertanto la volontà legislativa, tramite la tecnica del rinvio, sembra essere quella di applicare il termine di 30 giorni all’impugnazione. Tale conclusione sembrerebbe avvalorata dalla Cassazione che con sentenza 16 luglio 2010, n. 16668 ha affermato che “il verbale di accertamento elevato per eccesso di velocità ai sensi dell’art. 142 cod. strada, non è impugnabile autonomamente per la parte che ha ad oggetto la sospensione della patente di guida anche se privo dell’indicazione della durata della misura preannunciata, atteso che tale sanzione, di natura accessoria, può essere invocata solo con specifico provvedimento prefettizio, impugnabile eventualmente, con l’opposizione ai sensi dell’art. 22 della legge 689 del 1981”. Diverso è il caso della revisione della patente di cui all’art. 126 bis c.d.s.. Al riguardo è da ritenere che la revisione abbia, in tal caso, carattere sanzionatorio e sia comunque atto vincolato con la conseguenza che, applicando i canoni esegetici fatti propri dalla Cassazione Sez. Unite, 12 luglio 2010, n. 16276 la giurisdizione non sarà del giudice amministrativo (come nell’ipotesi della revisione ex art. 128: cfr Cass. civ. Sez. Unite, 8 luglio 2009, n. 15966) ma del giudice ordinario. L’assenza di una norma speciale quale l’art. 218 comma 5, che rende applicabile il termine di cui all’art. 205, sembrerebbe implicare l’assoggettamento ai più ampi termini di cui all’art. 204 bis. Il procedimento ex art. 205 disciplina d’altronde l’opposizione, innanzi all’autorità giudiziaria, avverso le ordinanze-ingiunzioni di pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, tant’è che, al fine di renderlo applicabile all’ipotesi del provvedimento ex art. 128 - che ingiunzione di pagamento non è - s’è reso necessario un esplicito richiamo, in mancanza del quale avrebbe trovato applicazione il procedimento ex art. 204 bis; similmente non è stato fatto per l’ipotesi regolata dall’art. 126 bis e, pertanto, in mancanza di uno specifico richiamo a diversa disciplina, deve ritenersi applicabile quella generale. In conclusione l’esegesi del dato normativo sembra condurre ad un differente regime dell’impugnativa a seconda che si tratti di revisione o di sospensione della patente per mancata sottoposizione all’esame di idoneità. 2) Codesta Amministrazione si interroga altresì sul se, attualmente, il provvedimento di revisione ex art.126 bis sia o meno assoggettabile a ricorso gerarchico. Al riguardo va preso atto che l’art. 22 della legge n.120/2010, nel modificare il comma 6 dell’art.126 bis, prevede, che “….Il terzo periodo è soppresso”. Il predetto terzo periodo statuiva relativamente al provvedimento di revisione ex art.126 bis: “Il relativo provvedimento, notificato secondo le procedure di cui all’articolo 201, comma 3, è atto definitivo”. Considerato pertanto che allo stato, in base alla richiamata norma, la revisione della patente di guida (nonché la sospensione) è disposta dall’ufficio I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195 del Dipartimento per i trasporti terrestri competente per territorio, parrebbe che l’abrogazione del suddetto periodo abbia come effetto che il provvedimento di revisione debba essere qualificato come atto non definitivo ai fini della disciplina di cui agli artt. 1 e ss. del D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, con conseguente assoggettamento a ricorso gerarchico. Benchè tale disciplina non appaia del tutto coerente con la successiva regolamentazione del provvedimento di sospensione della patente ex art.126 bis (per mancata ottemperanza all’ordine di revisione), che è tutt’ora qualificato dalla legge come atto definitivo, la lettera della norma non sembra legittimare interpretazioni di diverso tenore. Ciò rende applicabile l’art. 1 D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 ai sensi del quale “La comunicazione degli atti soggetti a ricorso ai sensi del presente articolo deve recare l’indicazione del termine e dell’organo cui il ricorso deve essere presentato”, con conseguente onere dell’Amministrazione di indicare tali dati. Per completezza va precisato che secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (Cons. Stato Sez. III, 2 dicembre 2003, n. 560 T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 1 febbraio 2007, n. 98) la mancata indicazione in calce al provvedimento del termine e dell’autorità cui ricorrere concreta unicamente una mera irregolarità, non incidente sulla legittimità dell’atto. Passando ad esaminare il regime di impugnativa della decisione resa sull’eventuale ricorso gerarchico, va considerato che lo stesso è azionabile tanto a tutela delle situazioni giuridiche di interesse legittimo quanto di diritto soggettivo incise dall’atto impugnato, ma dette situazioni giuridiche soggettive non possono mutare di natura a conclusione del relativo procedimento (Consiglio di Stato sez. IV, n. 14 del 16 gennaio 1990; T.A.R. Veneto Sez. III, 15 maggio 2006, n. 1257). Ciò significa che la decisione su ricorso è del tutto ininfluente ai fini dell’individuazione della giurisdizione. Sulla base di tali premesse ed in virtù dei principi in tema di giurisdizione fissati dai più recenti arresti della Cassazione, è possibile giungere alla conclusione che anche avverso l’impugnativa del provvedimento reso in sede di ricorso gerarchico competente è il Giudice di pace. Al riguardo può essere richiamata Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 20544 del 29 luglio 2008, ove si è affermando il principio secondo cui "in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, l’opposizione, giurisdizionale nelle forme previste dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 22 e 23 ha natura di rimedio generale esperibile, salvo espressa previsione contraria, contro tutti i provvedimenti sanzionatori, ivi compresi quelli di sospensione della validità della patente di guida e quelli prodromici a tale sospensione, quali la decurtazione progressiva dei punti"; in senso analogo la già citata sentenza delle Sezioni Unite Civili, n. 16276/2010. 3) In ordine al quesito inerente il contegno defensionale da tenere nelle ipotesi di mancata comunicazione delle decurtazioni di punti da parte del- 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 l’Anagrafe degli abilitati alla guida (o di mancata prova della ricezione da parte del destinatario), occorre considerare che nel sistema delineato dall’art. 126-bis D.Lgs. n. 285 del 1992, ad ogni violazione del codice della strada deve seguire, nei tempi dettati dalla legge, sia la relativa decurtazione di punteggio sia una specifica ed autonoma comunicazione al contravventore, così da consentire a quest’ultimo di "riparare" la violazione commessa frequentando gli appositi corsi. Secondo la più recente giurisprudenza dei TAR (ex plurimis TAR Campania sentenza 17400/2010) la comunicazione della variazione del punteggio da parte dell’anagrafe nazionale degli abilitati alla guida prescritta dal comma 3 dell’art. 126 bis, risponde ad una specifica finalità: consentire al guidatore di recuperare i punti sottratti, e dunque di evitare la revisione della patente, attraverso la frequentazione dei corsi di aggiornamento previsti dal comma 4 dell’art. 126 bis. Se ne potrebbe inferire pertanto che si tratta di disciplina autonoma e speciale rispetto alla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge 241/1990, si da rendere inapplicabile il regime “speciale” di sanatoria di cui all’art. 21 octies, ultima parte, l. n. 241/1990. Anche aderendo a tale prospettiva interpretativa non sarebbe tuttavia da escludere l’applicazione del generale meccanismo di sanatoria di cui all’art. 21 octies in base al quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Fornendo in giudizio la prova della effettiva conoscenza da parte del conducente del punteggio residuo sulla sua patente, potrebbe pertanto sostenersi che l’omissione della comunicazione prescritta non lede un interesse sostanziale, non avendo precluso la possibilità di frequentazione dei corsi di aggiornamento, anche in ragione del fatto che la conoscenza della perdita dei punti è comunque acquisita dal destinatario attraverso la consegna dei verbali che ne riportano gli estremi (Cons. St. sez. III, parere 237/09). Ferme tali valutazioni di merito è in ogni caso da ritenere, sulla scorta delle già citate sentenze della Cassazione, che debba essere dedotto in via preliminare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e, se del caso, impugnate le relative sfavorevoli sentenze. A seguito delle decisioni del giudice del riparto il Consiglio di Stato ha infatti aderito all’orientamento in base al quale “la decurtazione dei punti di patente costituisce una sanzione amministrativa conseguente alla violazione di norme sulla circolazione stradale. In particolare va osservato che il meccanismo di sottrazione dei punti dalla patente di guida per effetto dell'accertamento dell'avvenuta violazione del codice della strada costituisce una misura accessoria alle relative sanzioni: ne consegue che il contenzioso relativo all'applicazione di tale sanzione acces- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 soria, nell'ambito del quale devono ricomprendersi anche le questioni relative all'erronea decurtazione del punteggio, deve ricondursi alla giurisdizione del giudice competente in materia” (Cons. Stato Sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9403). Resta inteso che la specifica scelta della linea defensionale potrà essere influenzata dalle peculiarità del caso di specie, da valutare singolarmente ad opera dell’avvocato incaricato della trattazione dell’affare. 4) Codesta Amministrazione rappresenta l’esistenza di numerosi precedenti nei quali il TAR ha annullato il provvedimento di revisione della patente ex art.126 bis (1) per mancata comunicazione delle singole decurtazioni, per mancata notifica dei verbali o per altri vizi formali, tali da escludere la riattribuzione del punteggio a seguito dell’annullamento del provvedimento di revisione. Chiede pertanto parere in ordine alle modalità di esecuzione di dette pronunce. Osserva al riguardo la scrivente che, come in precedenza chiarito, il giudice amministrativo difetta di giurisdizione sulla fattispecie di cui all’art. 126 bis cpc, sì che pare opportuno che eventuali sfavorevoli pronunce vengano impugnate al Consiglio di Stato, con richiesta di sospensione, anche inaudita altera parte, della pronuncia di primo grado. Come di recente sostenuto dal Consiglio di Stato infatti (ordinanza 5796/2010) è da attribuire al giudice di pace la cognizione, ai sensi degli art. 204-bis e 205 del d.lgs. n. 285/92 “sul provvedimento vincolato di assoggettamento a nuovo esame di idoneità tecnica, consequenziale alla perdita totale del punteggio ai sensi del primo periodo del comma 6 dell’art. 126-bis del citato D. Lgs., perlomeno allorquando, come appunto accade nel caso di specie, gli unici vizi dedotti in relazione ad esso attengano alle predette questioni”. Resta fermo che, nell’ipotesi in cui la pronuncia non venisse gravata o comunque sospesa, ovvero nei casi in cui fosse sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, la riedizione del potere, nell’ipotesi in cui ne sussistessero i presupposti sostanziali, dovrebbe aver luogo seguendo analiticamente l’iter procedimentale previsto dalla normativa regolante la singolafattispecie, tenendo comunque conto del vincolo conformativo da ri- (1) Diverso è il caso della revisione di cui all’art. 128 c.d.s., che può essere disposta qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o dell'idoneità tecnica. In tali casi “L'impugnazione del provvedimento di revisione della patente di guida emesso dal direttore dell'Ufficio provinciale della Motorizzazione Civile ai sensi dell'art. 128, 1° comma, del codice della strada rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di provvedimento la cui adozione, sganciata dall'accertamento di una qualsiasi violazione delle norme sulla circolazione stradale, è rimessa alla discrezionalità della P.A. che, nell'espletamento delle sue funzioni istituzionali di tutela del pubblico interesse, deve aver cura di evitare che la conduzione degli autoveicoli possa essere consentita a soggetti incapaci” (Cass. civ. Sez. Unite, 8 luglio 2009, n. 15966) 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 cavare dall’analisi della motivazione della sentenza. Desta invece perplessità l’ipotesi, prospettata da codesta Amministrazione, di assegnare al ricorrente vittorioso un termine di 90 giorni per la partecipazione ai corsi diretti a recuperare il punteggio in quanto trattasi di limite temporale non previsto da alcuna normativa. D’altro canto è da ritenere che la proposizione del ricorso giurisdizionale implichi ex se conoscenza della decurtazione del punteggio (e la possibilità di frequentare i corsi), si che, all’esito del giudizio di annullamento, sembrerebbe corretto, ferme le peculiarità di ogni singola fattispecie da esaminare nel caso concreto, procedere alla riedizione del potere amministrativo emanando un nuovo provvedimento di revisione Il presente parere è stato reso su delibera del Comitato Consultivo. A.G.S. - Parere del 13 aprile 2011 prot. 126700, avv. Giacomo Aiello, AL 28747/10. «Imputazione al dipedente o al datore di lavoro delle spese relative all’iscrizione all’albo professionale» Con la nota che si riscontra, codesto Ateneo ha chiesto l’avviso della Scrivente in merito alla sussistenza dell’obbligo di sostenere o rimborsare le spese dei propri dipendenti (avvocati, ingegneri ed architetti) per l’iscrizione all’albo professionale. (...), deve preliminarmente rilevarsi come la suddetta questione assuma rilevanza solo nell’ipotesi in cui l’iscrizione all’albo professionale sia necessaria ai fini dell’esercizio delle funzioni che i dipendenti sono obbligati a svolgere per l’ente, dovendosi altrimenti ritenersi che la relativa spesa sia a carico del professionista. Ciò premesso, poiché l’art. 90 del D.Lgs. 163/2006 e l’art. 188, comma 2 del D.P.R. 554/1999 escludono la necessità dell’iscrizione all’albo per gli ingegneri e gli architetti dipendenti incaricati della redazione di progetti e dell’attività di collaudo tecnico-amministrativo richiedendo esclusivamente l’abilitazione professionale, le relative spese di iscrizione devono ritenersi a carico dei professionisti, difettando qualunque connessione con l’esercizio della prestazione lavorativa. Per l’espletamento dell’attività di collaudo statico, invece, l’art. 67, comma 2 del D.P.R. 380/2001 richiede espressamente l’iscrizione all’albo del professionista da almeno dieci anni. In relazione a tale ipotesi, la giurisprudenza della Corte dei Conti richiamata nella nota che si riscontra esclude che le spese de quibus possano porsi a carico del datore di lavoro in ragione dell’assenza, nel nostro ordinamento, di una norma positiva, derivante da fonte normativa o dalla contrattazione collettiva, che ponga un obbligo a carico dell’ente, estraneo ai rapporti tra dipen- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 dente e relativo ordine professionale, di pagare o rimborsare gli oneri per l’iscrizione all’albo professionale. In merito appare più convincente l’impostazione seguita dalla Corte di Cassazione (Cass. civile, sez. lavoro, 20 febbraio 2007, n. 3928) che, sia pure in relazione al pagamento della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, ha attributo rilevanza al criterio dell’interesse del soggetto, professionista o datore di lavoro, all’iscrizione all’albo al fine di stabilire chi fosse tenuto al pagamento di tale spesa. Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, dovrà valutarsi caso per caso se le spese per l’iscrizione all’albo dei professionisti dipendenti siano sostenute o meno nell’interesse esclusivo del datore di lavoro al quale, in tale ipotesi, ne competerà la relativa corresponsione. Ne consegue che laddove l’incarico di collaudatore statico sia conferito dall’Amministrazione la medesima dovrà farsi carico delle spese inerenti all’iscrizione all’albo del soggetto incaricato. Secondo quanto previsto dall’art. 3 della Legge Professionale Forense, l’esercizio della professione forense (la cui compatibilità con il diritto comunitario è stata da ultimo confermata dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 dicembre 2010 in causa C-225/09) è incompatibile con qualunque impiego e pubblico ufficio, salvo le eccezioni costituite dagli avvocati iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 3, ultimo comma, lett. b) r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, ovvero gli avvocati degli uffici legali degli enti che sono incaricati di svolgere l’attività professionale esclusivamente e limitatamente per le cause e gli affari propri dell’ente, nonché i professori universitari ed i docenti degli istituti superiori e secondari dello Stato a cui è consentito svolgere attività professionale. In applicazione del principio dell’interesse all’iscrizione, correttamente la Suprema Corte (Cass. civile, sez. lavoro, 20 febbraio 2007, n. 3928) ha ritenuto che le spese sostenute per l’iscrizione all’albo speciale degli avvocati degli uffici legali degli enti siano a carico del datore di lavoro in ragione del carattere di esclusività e specificità dell’attività professionale che preclude all’avvocato la trattazione di cause ed affari diversi da quelli propri dell’ente. Diversamente, invece, deve ritenersi per i professori universitari i quali, potendo svolgere attività professionale in assenza di vincoli di esclusività con l’Università di appartenenza, ottengono l’iscrizione all’albo speciale nel loro esclusivo interesse, dovendone, conseguentemente, sopportare la relativa spesa. Per gli ingegneri ed architetti dipendenti pubblici, in assenza di una specifica disciplina, trovano applicazione le generali cause di incompatibilità di cui all’art. 53 del D.Lgs. 165/2001 che consente lo svolgimento di attività professionale al dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale o comunque a seguito di preventiva espressa autorizzazione da parte dell’amministra- 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zione di appartenenza. Conseguentemente, in relazione all’ipotesi di ingegneri ed architetti incaricati dell’attività di collaudo statico per cui è richiesta l’iscrizione all’albo, dovrà valutarsi se, nel caso concreto, il professionista sia titolare di un rapporto di impiego a tempo parziale o comunque sia autorizzato dall’amministrazione a svolgere attività professionale. Nelle descritte ipotesi, infatti, è evidente come l’iscrizione all’albo non risponda all’interesse esclusivo del datore di lavoro, consentendo al professionista, con rapporto di lavoro a tempo parziale o comunque autorizzato dall’amministrazione a svolgere incarichi professionale per proprio conto, lo svolgimento di attività professionale, con la conseguenza che egli dovrà sostenere le relative spese. In definitiva, per le ipotesi in cui gli oneri per l’iscrizione all’albo debbano ritenersi a carico del professionista, l’amministrazione potrà ottenere la ripetizione di quanto eventualmente pagato ex art. 2033 c.c. nel rispetto della prescrizione decennale e, per gli ingegneri ed architetti, solo a partire dall’entrata in vigore della L. 415/98 che, all’art. 6, ha abrogato l’art. 17, terzo comma della Legge 109/94 che poneva espressamente in capo all’amministrazione l’onere di iscrizione all’albo. Sull’argomento è stato sentito il Comitato Consultivo in data 8 aprile 2011 che si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere del 19 aprile 2011 prot. 134120, avv. Maurizio Borgo, AL 38917/10. «Iscrizione ai partiti politici, assunzione di incarichi nell’ambito di partiti politici e propaganda degli appartenenti alla Polizia di Stato» Con nota del 22 settembre 2010, prot. n. 333-A/9808.A.1/6550/2010, codesto Ministero ha chiesto di conoscere il parere della Scrivente in merito a due questioni giuridiche di carattere generale, sintetizzabili nei seguenti quesiti: 1) se il disposto dell’art. 81, comma 1, della legge n. 121/1981 “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e coordinamento delle forze di polizia” debba essere interpretato nel senso che: - ad un funzionario o agente di Polizia, che si qualifichi come tale di fronte a terzi soggetti o ad un pubblico, è vietato manifestare apertamente le proprie convinzioni e preferenze politiche, mentre gli è consentito, non solo di nutrire delle idee politiche, ma anche di svolgere l’attività politica che non consista in comportamenti esteriori e come tale resti un fatto privato, ovvero che: - ad un funzionario o agente di Polizia, che si qualifichi come tale di I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 fronte a terzi soggetti o ad un pubblico, è vietato non solo manifestare pubblicamente le proprie preferenze politiche, ma anche fondare o aderire ad un partito politico o assumere degli incarichi all’interno di esso, pur nell’ipotesi in cui tali fatti restino meramente privati; 2) se, dato il quadro normativo vigente, si possa ritenere che un funzionario o agente di Polizia non sia tenuto ad osservare le regole di comportamento politico di cui all’art. 81, comma 1, della legge n. 121/1981, non solo nell’ipotesi in cui sia stato posto in aspettativa speciale per candidatura ai sensi dell’art. 81, comma 2, della legge citata ma altresì nei casi in cui si determini un’interruzione, anche se temporanea, del rapporto di servizio, trattandosi di situazioni analoghe a quella normativamente prevista. Con la medesima nota (integrata con successiva nota del 20 ottobre 2010), codesto Ministero ha fatto riferimento ad un caso concreto che l’Amministrazione dovrà valutare sulla base delle risposte che verranno fornite dalla Scrivente ai predetti quesiti; il caso riguarda alcuni dipendenti della Polizia di Stato, attualmente in servizio, che rivestono cariche all’interno del partito politico (...) e stanno svolgendo un’attività di propaganda (es. rilasciano interviste alla stampa), giacché tale partito concorrerà alle prossime elezioni amministrative nei Comuni di (...) e (...). Al fine di dare una compiuta risposta ai quesiti, sopra sintetizzati, appare necessario ricostruire, nelle sue linee essenziali, il contenuto delle fonti normative che vengono in considerazione, secondo il seguente ordine di priorità: a) fonti internazionali (1) b) fonti statali Fonti internazionali • La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (di seguito CEDU) del 4 novembre 1950 (resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848), all’art. 10, stabilisce: «Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera […]. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono (1) L’opportunità di anteporre una ricognizione delle pertinenti norme internazionali prima della ricostruzione della disciplina interna deriva dal fatto che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, all’art. 27, codificando una norma di diritto internazionale generale (come tale immediatamente efficace nell’ordinamento italiano ex art. 10 Cost.), prevede che uno Stato «non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato». La regola non fa eccezione neppure ove si tratti di una norma di rango costituzionale (salvo l’ipotesi prevista all’art. 46 della medesima Convenzione, che qui peraltro non rileva). 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». Ai fini che qui interessano, si può fare riferimento alla decisione resa dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora in poi Corte EDU) sul caso Vogt c. Germania (2). In tale pronuncia, la Corte ha, invero, chiarito la portata della libertà sancita dall’art. 10 della Convenzione con particolare riguardo ai dipendenti pubblici. La Corte EDU ha precisato che uno Stato, parte della Convenzione, può legittimamente adottare delle misure che comportano delle restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto a condizione che tali restrizioni siano prescritte dalla legge (i), perseguano uno o più scopi legittimi fra quelli contemplati dalla medesima disposizione (ii) e siano necessarie all’interno di una società democratica (iii). Per quanto riguarda il primo requisito (i), la Corte EDU ha, innanzitutto, richiamato il significato che, nel sistema della Convenzione, è attribuito al termine “legge”. In base alla giurisprudenza europea, l’espressione “legge”, presente in varie disposizioni della Convenzione, non si identifica con alcuna definizione nazionale trattandosi bensì di una “nozione autonoma”, compatibile con tutti i sistemi costituzionali europei. Tale concetto si caratterizza per la circostanza di non essere legato a criteri formali o procedurali, bensì a criteri sostanziali di garanzia, sintetizzabili nella (ragionevole) conoscibilità della regola di diritto e nella (ragionevole) prevedibilità della sua applicazione (Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 29 aprile 1979, § 48 e 49). In particolare, una disposizione contenuta nella Carta costituzionale o in una legge di uno Stato parte non può essere considerata “legge”, ai sensi ed agli effetti (ad es.) dell’art. 10 CEDU, se non è formulata con un livello di precisione sufficiente a consentire al cittadino di regolare la propria condotta. La CEDU, infatti, richiede che il cittadino sia in grado di prevedere in modo ragionevole, avuto riguardo alle circostanze del caso, quali sono le conseguenze (2) Sentenza Vogt c. Germania, 26 settembre 1995, serie A n° 323, §§ 42 ss. Nel caso di specie, la Corte era stata adita da una cittadina tedesca che sosteneva di essere stata licenziata dall’Amministrazione scolastica di cui era dipendente per aver partecipato a dei comizi quale militante del partito comunista tedesco (DKP – Deutsche Kommunistische Partei). Secondo la ricorrente, la Germania aveva così violato inter alia l’art. 10 CEDU. Lo Stato convenuto si difendeva sostenendo di aver adottato il provvedimento disciplinare del licenziamento nei confronti della signora Vogt in applicazione di alcune norme interne che impongono ai dipendenti pubblici di astenersi dal partecipare o supportare l’azione di partiti (o altre organizzazioni) che si contrappongono all’ordine costituzionale tedesco, in quanto si traduce nella violazione del dovere di lealtà verso allo Stato e, quindi, costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico ed i diritti degli altri cittadini. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 giuridiche che si ricollegano ad una determinata condotta nell’ambito di un ordinamento statale. Ora, anche a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste ultime non può presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche-tipo di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive. Inoltre, molte disposizioni normative si servono di formule più o meno vaghe, la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica. Pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione normativa, esiste inevitabilmente un margine per l’interpretazione giudiziaria. Inoltre, la certezza, benché fortemente auspicabile, si accompagna spesso ad un’eccessiva rigidità, laddove il diritto deve necessariamente sapersi adattare ai mutamenti delle situazioni di fatto. Del resto, la funzione decisionale affidata agli Organi giurisdizionali serve a dissipare i dubbi che potrebbero sussistere per quanto riguarda l’interpretazione delle norme. Invero, nella tradizione giuridica degli Stati parte, ivi compresi quelli di civil law, la giurisprudenza è considerata una fonte di diritto (se non altro in senso materiale) e, come tale, contribuisce all’evoluzione progressiva del diritto (v. Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29, serie A n. 176 A). Per quanto concerne il secondo requisito (ii), dalla giurisprudenza della Corte risulta che i limiti ammissibili sono soltanto quelli che rispondono ai fini previsti al par. 2 dell’art. 10 CEDU (3), suddivisibili in tre categorie: - i limiti diretti a tutelare un interesse pubblico (sicurezza nazionale, integrità territoriale, ordine pubblico, prevenzione dei disordini o dei reati); - quelli volti a salvaguardare altri diritti individuali (tutela della salute, della morale, dell’onore o di altri diritti altrui e prevenzione della divulgazione di informazioni confidenziali); - quelli che sono necessari per mantenere l’autorità e l’imparzialità dei giudici). Peraltro, le Autorità statali possono porre delle limitazioni all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte di un soggetto a condizione che sussista un terzo requisito (iii): essere, cioè, “necessario all’interno di una società democratica”. La Corte di Strasburgo ha ripetutamente affermato che gli Stati godono di un margine di apprezzamento nell’accertare la sussistenza di tale condizione, ma tale discrezionalità si accompagna – e non osta affatto – al potere di controllo della Corte stessa, la cui portata varia a se- (3) Come evidenzia P. CARETTI, Art. 10, in S. BARTOLE – B. CONFORTI – G. RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, Padova, 2001, pp. 342 e 343, i limiti all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sono retti inter alia dal principio di stretta interpretazione, il quale comporta due conseguenze: «da un lato la tassatività dei motivi che possono giustificare l’introduzione di limitazioni, dall’altro l’obbligo che essi siano assoggettati ad una interpretazione restrittiva e cioè siano riconducibili ad esigenze concrete ed effettive e non generiche (principio affermato a partire dalla sentenza Sunday Times c. Regno Unito (n. 1), 26 aprile 1979, Serie A, n. 30». 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 conda delle circostanze. Data l’importanza del diritto de quo sia per il singolo che per il bene della collettività – essendo esso alla base dell’ordine democratico – il controllo esercitato dalla Corte EDU è particolarmente rigoroso e la necessità delle limitazioni imposte dev’essere dimostrata in modo convincente (4). Nella sentenza in commento, la Corte ha precisato che tali principi si applicano anche ai dipendenti pubblici. Appare opportuno richiamare un passo della pronuncia: « benché sia legittimo per uno Stato imporre ai dipendenti pubblici, per via del loro status, un dovere di discrezione, i dipendenti pubblici sono persone e, come tale, possono beneficiare della garanzia dell’art. 10 [CEDU]. Spetta pertanto alla Corte determinare, tenendo conto delle circostanze del caso, se è stato raggiunto un giusto equilibrio tra il diritto fondamentale dell’individuo alla libertà di espressione ed il legittimo interesse di uno Stato democratico a garantire che un suo dipendente promuova adeguatamente le finalità elencate all’art. 10, par. 2 […]» (§ 53). In dottrina, si è rilevato che, in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le limitazioni all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sono giustificate a condizione che sussista un bisogno sociale preminente, in quanto solo in tal caso esse possono essere considerate “necessarie in una società democratica” (5). In altri termini, dalla giurisprudenza europea si evince che non è sufficiente a rendere legittima una limitazione la circostanza che la stessa sia riconducibile ad uno dei fini indicati dall’art. 10, par. 2, CEDU, ma è altresì necessario che sia ravvisabile un’esigenza effettiva in un determinato contesto storico e sociale (6) . (4) Nella sentenza Vogt, § 52, la Corte ha affermato: «[…] (ii) The adjective "necessary", within the meaning of Article 10, para. 2 (art. 10-2), implies the existence of a "pressing social need". The Contracting States have a certain margin of appreciation in assessing whether such a need exists, but it goes hand in hand with a European supervision, embracing both the law and the decisions applying it, even those given by independent courts. The Court is therefore empowered to give the final ruling on whether a "restriction" is reconcilable with freedom of expression as protected by Article 10 (art. 10). (iii) The Court's task, in exercising its supervisory jurisdiction, is not to take the place of the competent national authorities but rather to review under Article 10 (art. 10) the decisions they delivered pursuant to their power of appreciation. This does not mean that the supervision is limited to ascertaining whether the respondent State exercised its discretion reasonably, carefully and in good faith; what the Court has to do is to look at the interference complained of in the light of the case as a whole and determine whether it was "proportionate to the legitimate aim pursued" and whether the reasons adduced by the national authorities to justify it are "relevant and sufficient" (see the Sunday Times v. the United Kingdom (no. 2) judgment of 26 November 1991, Series A no. 217, p. 29, para. 50). In so doing, the Court has to satisfy itself that the national authorities applied standards which were in conformity with the principles embodied in Article 10 (art. 10) and, moreover, that they based their decisions on an acceptable assessment of the relevant facts (see the above-mentioned Jersild judgment, p. 26, para. 31». (5) V. P. CARETTI, op. loc. cit. V. altresì V. FABRE-ALIBERT, La notion de “société démocratique” dans la jurisprudence de la Cour Européenne des Droits de l’Homme, in Revue Trimestrielle des Droits de l’Homme, 1998, 9, p. 465 e seg.; S. MARKS, The European Convention on Human Rights and its “democratic society”, British Yearbook of International Law, 1996, vol. 66, p. 209 e seg. (6) Così nel caso Vogt la Corte, dopo aver preliminarmente affermato che «in the present case the Court’s task is to determine whether Mrs Vogt’s dismissal corresponded to a “pressing social need” and I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 Occorre aggiungere che, nell’accertare se uno Stato parte ha posto dei limiti all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero di un individuo in violazione della Convenzione, la Corte di Strasburgo applica due principi generali, strettamente correlati tra loro: il principio di proporzionalità (della misura restrittiva rispetto al fine perseguito) e quello dell’obbligo di motivazione pertinente e sufficiente (di ogni provvedimento comportante delle restrizioni ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione); la Corte, in concreto, valuta che la misura restrittiva sia pertinente e non eccessiva rispetto all’obiettivo perseguito dallo Stato convenuto; affinché la Corte possa compiere tale valutazione, è essenziale che la misura statale restrittiva indichi specificamente i motivi che la giustificano. Facendo un bilancio dell’opera interpretativa, svolta dalla Corte di Strasburgo in relazione al disposto dell’art. 10, par. 2, CEDU, attenta dottrina ha rilevato che «la giurisprudenza della Corte se da un lato ha contenuto il rischio che sul piano applicativo si accentuasse il carattere generico (e dunque meno garantista) delle disposizioni dell’art. 10, riferite alle limitazioni legittimamente opponibili alla libertà di espressione, d’altro canto ha messo a punto una serie di criteri interpretativi e di giudizio particolarmente flessibili (criterio di proporzionalità; criterio del necessario bilanciamento) che hanno finito per accentuare i suoi margini di autonoma valutazione delle fattispecie che le vengono sottoposte»(7). La Corte EDU ha espressamente riconosciuto che l’esercizio della libertà di pensiero deve essere garantito anche agli appartenenti alle Forze di polizia e alle Forze armate. Particolarmente significativa, ai fini che qui interessano, è la sentenza emessa dalla Corte nella causa Renkvényi c. Ungheria (8). Nel caso di specie, il ricorrente, un poliziotto, in qualità di segretario generale del Police Independent Trade Union, lamentava una violazione della libertà di manifestazione del pensiero da parte dell’Ungheria, per avere quest’ultima emanato una legge che vietava ai membri delle Forze armate e dei Servizi di polizia e di sicurezza di iscriversi a partiti politici e di partecipare a qualsiasi attività politica e di avervi dato attuazione con dei provvedimenti adottati in vista delle elezioni parlamentari che stavano per svolgersi. whether it was “proportionate to the legitimate aim pursued”. To this end, the Court will examine the circumstances of the case in the light of the situation existing in the Federal Republic of Germany at the material time», ha rilevato che «it takes into account Germany’s experience under the Weimer Republic and during the bitter period that followed the collapse of that regime up to the adoption of the Basic Law in 1949. Germany wished to avoid a repetition of those experiences by founding its new State on the idea that it should be a “democracy capable of defending itself”. Nor should Germany’s position in the political context of the time be forgotten. These circumstances understandably lent extra weight to this underlying notion and to the corresponding duty of political loyalty imposed on civil servants» (§§ 57 e 59). (7) P. CARETTI, Art. 10, cit., p. 343. (8) Sentenza 20 maggio 1999, Application no. 25390/94. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 I passaggi più significativi della pronuncia della Corte sembrano essere i seguenti: innanzitutto, quanto alla condizione che le restrizioni siano previste dalla “legge” (nel senso chiarito più sopra), la Corte ha rilevato che «è inevitabile che non possa essere definito con assoluta precisione il tipo di comportamento che può comportare un coinvolgimento in attività politiche» (§ 36), con la conseguenza che la condizione in questione può ritenersi soddisfatta quando una disposizione normativa stabilisca il tipo di attività politica vietata, piuttosto che elencare determinati comportamenti concreti (quali la partecipazione alle riunioni politiche, il rilascio di interviste su questioni politiche, l’iscrizione a partiti politici o altre organizzazioni che perseguono obiettivi politici); essa ha persino affermato che «pur assumendo che non sia possibile per gli agenti di polizia stabilire con certezza, in singoli casi, se una determinata azione, nell’ambito dei Regolamenti del 1990, ricadesse o meno nel divieto di cui all’art. 40/B § 4 della Costituzione, era tuttavia possibile per essi consultare preventivamente un loro superiore o ottenere un chiarimento della legge con la sentenza di un Tribunale» (§ 37). Riguardo, invece, al requisito della sussistenza di uno scopo legittimo, la Corte ha ritenuto che tale fosse l’esigenza, sottesa alle misure statali contestate, di depoliticizzare la Polizia, in modo da preservare e consolidare la democrazia pluralistica del Paese. A tal proposito, la Corte, dopo aver rilevato che: «gli agenti di polizia sono investiti di poteri di coercizione per regolare la condotta dei cittadini, essendo autorizzati in alcuni Paesi a portare le armi nell’esercizio delle loro funzioni. In definitiva, la Polizia è al servizio dello Stato. I cittadini hanno quindi il diritto di attendersi che, nei loro rapporti con la Polizia, si trovino a confrontarsi con funzionari politicamente neutrali che si distaccano dall’agone politico […] (9)», ha concluso che «la volontà di assicurare che il ruolo fondamentale della Polizia nella società non sia compromesso attraverso la corrosione della neutralità politica dei suoi membri è uno dei principi compatibili con la democrazia » (§ 41). Inoltre, la Corte, nell’accertare che vi fosse il requisito della “necessità in una società democratica”, ha esaminato attentamente il peculiare contesto storico in cui le misure restrittive lamentate dal ricorrente erano state adottate. Essa ha sottolineato che «nei decenni anteriori al ritorno alla democrazia in Ungheria nel 1989 e nel 1990, la Polizia era stata dichiaratamente uno strumento del partito di governo e aveva preso partecipato attivamente all’attuazione delle politiche del partito» ed, in considerazione di ciò, ha statuito che «data la trasformazione pacifica e graduale dell’Ungheria verso il pluralismo, senza l’attuazione di un’epurazione generale all’interno della pubblica amministrazione, è stato necessario depoliticizzare, inter alia, la Polizia e limitare le attività politiche dei suoi membri, in modo che la cittadi- (9) Nei suddetti termini, la Corte si era già espressa nella sentenza 2 settembre 1998, Ahmed and Others v. the United Kingdom, Reports 1998-VI, § 53. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 nanza non consideri più la Polizia come un sostenitore del regime totalitario, ma bensì come un custode delle istituzioni democratiche» (§ 44). Dalla sentenza in commento, emerge chiaramente che la considerazione della (ancora recente) fase storica che aveva attraversato lo Stato convenuto e la circostanza che in esso fosse ancora in atto il processo di consolidamento delle istituzioni democratiche è stata determinante per riconoscere la necessità, in quel caso, di imporre dei limiti all’esercizio, da parte di una categoria di cittadini (per l’appunto, gli appartenenti alla Polizia), della libertà di manifestare le proprie opinioni politiche. Infine, nel valutare la proporzionalità delle misure restrittive contestate dal ricorrente, la Corte EDU ha assegnato rilievo decisivo al fatto che esse non avessero l’effetto di impedire in modo assoluto l’esercizio della libertà di espressione. La Corte ha, infatti, rilevato che: «benché alle volte soggetti a restrizioni imposte nell’interesse del servizio, gli agenti di Polizia hanno avuto il diritto di esporre i programmi elettorali, promuovere e presentare candidati, organizzare incontri in campagna elettorale, votare e candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo, assumere le cariche locali e l’ufficio di sindaco, partecipare ai referendum, iscriversi a sindacati, associazioni ed altre organizzazioni, partecipare alle riunioni pacifiche, fare dei comunicati stampa, partecipare a programmi radiofonici o televisivi o pubblicare scritti politici» e, pertanto, è giunta alla conclusione che: «in tali circostanze la portata e l’effetto delle lamentate limitazioni all’esercizio da parte del ricorrente della propria libertà di espressione non appaiono eccessive» (§ 49). Quindi, come la Corte ha ripetutamente affermato in tema di limitazioni ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione, una misura restrittiva presa da uno Stato parte è senz’altro sproporzionata quando abbia l’effetto di impedire ogni forma di esercizio di un diritto individuale. In ogni caso, il presupposto fondamentale perché eventuali restrizioni alla libertà di espressione siano giustificate ai sensi della CEDU è che esse siano previste da una “legge”. • La Corte di Strasburgo segue la stessa linea di ragionamento quando è chiamata ad accertare la violazione dell’art. 11 CEDU, che sancisce le libertà di riunione e di associazione. Tale disposizione, infatti, è strutturata come quella dell’art. 10: essa, dapprima, riconosce che «ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi», e, successivamente, prevede che «l’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla prote- 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 zione dei diritti e delle libertà altrui», precisando altresì che la CEDU «non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato». È opportuno sottolineare che il disposto di cui al par. 2 dell’art. 11 CEDU riconosce la libertà di riunione e di associazione alle categorie di persone ivi indicate, in quanto consente agli Stati parte non già di vietare, bensì di limitare l’esercizio di tale libertà a tali soggetti. Inoltre, eventuali restrizioni devono essere stabilite con “legge”, essere necessarie alla realizzazione delle finalità tassativamente previste dalla norma e proporzionate (10). In tema di libertà di associazione, si segnala la sentenza Maestri c. Italia (11), che dimostra in modo emblematico quanto severamente la Corte EDU valuti l’osservanza da parte degli Stati della “riserva di legge” risultante dal par. 2 dell’art. 11 CEDU. La Corte era stata adita da un magistrato italiano che sosteneva di aver subito una violazione della libertà garantita dall’art. 11 CEDU, essendogli stata inflitta una sanzione disciplinare in ragione della sua iscrizione alla Massoneria. Le Autorità statali che si erano occupate della questione avevano ritenuto che la partecipazione di un magistrato a detta associazione (segreta) integrasse l’illecito disciplinare di cui all’art. 18 del R.D. Lgs. n. 511/1946 (12). La Corte EDU ha osservato che, formalmente, vi era una base normativa atta a giustificare il provvedimento disciplinare. Sennonché, ad avviso della Corte, il citato art. 18 era formulato in termini tanto generici da non consentire ai soggetti destinatari di prevedere quali comportamenti costituissero degli illeciti disciplinari (13). La Corte, inoltre, ha ritenuto che il (10) Per un commento dell’art. 11 CEDU v. P. RIDOLA, Art. 11, in Commentario alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, cit., p. 351 e seg. (11) Sentenza 17 febbraio 2004, Application no. 39748/98. Tale pronuncia è conforme ad una precedente emessa dalla Corte (la sentenza del 12 dicembre 2001, N.F. c. Italia, Application no. 37119/97, sulla quale v. E. CRIVELLI, Libertà di associazione, riserve di legge e appartenenza di un magistrato alla massoneria: spunti da una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giur. cost., 2001, p. 3014 e seg.), in un caso del tutto analogo, ma presenta una motivazione più ampia. (12 Giova ricordare il disposto della suddetta norma: «Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari, secondo le disposizioni degli articoli seguenti». (13) La Corte EDU ha rilevato: «the Court notes, firstly, that Article 18 of the 1946 decree does not define whether and how a judge can exercise his or her freedom of association […]» (§ 35). In senso contrario, v. la sentenza della Corte Costituzionale italiana n. 100/1981. La Consulta, pronunciandosi sulla conformità dell’art. 18 del R.D. Lgs. n. 511/1946 con le esigenze connesse al principio di legalità (che opera anche in materia disciplinare), dopo aver identificato i valori tutelati dalla norma proibitiva con «la fiducia e la considerazione di cui deve godere ciascun magistrato e […] il prestigio dell'ordine giudiziario», ha rilevato che il loro contenuto è tale da rendere impossibile prevedere tutti i comportamenti che possono lederli («si tratta, infatti, di principi deontologici che non consentono di essere ricompresi in schemi preordinati, non essendo identificabili e catalogabili tutti i possibili comportamenti con essi contrastanti e che potrebbero provocare una negativa reazione dell’ambiente sociale. Ciò spiega la ragione per la quale, nelle leggi che nel passato hanno tentato di enunciare ipotesi tipiche di infrazioni disciplinari - come il r.d.l. 6 dicembre 1865, n. 2626 e la legge 17 luglio 1908, n. 438 - sia stata posta I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 disposto di tale norma non fosse stato chiarito dalla circolare del CSM del 22 marzo 1990 (14). La Corte ha giudicato lo Stato italiano responsabile della violazione della libertà di associazione del ricorrente, in quanto, per tutto il periodo durante il quale il ricorrente è stato iscritto alla Massoneria, non vi era stata alcuna legge (in senso sostanziale) che proibisse ai magistrati di far parte di detta associazione, laddove, ai sensi dell’art. 11, par. 2, CEDU, ogni eventuale limitazione di tale libertà dev’essere «prescribed by law». A tale conclusione, la Corte di Strasburgo è giunta sulla base di tali rilievi: « benché il titolo fosse inequivocabile (15) e la delibera concerneva principalmente con l’appartenenza alla Massoneria, la riunione tenutasi il 22 marzo 1990 davanti al Consiglio Superiore della Magistratura ha cercato di prospettare, anziché di risolvere, un problema […]. Ciò è dimostrato dal fatto che tale delibera è stata adottata successivamente al più ampio dibattito avutosi in Italia sulla illiceità della loggia segreta P2. Inoltre, la delibera si è limitata ad affermare: “Naturalmente, ai membri della magistratura è proibito aderire alle associazioni vietate dalla legge n. 17 del 1982”. Per quanto riguarda le altre associazioni, la delibera conteneva il seguente inciso: “il Consiglio Superiore della Magistratura ritiene necessario segnalare al Ministro della Giustizia che si deve considerare l’opportunità di proporre delle restrizioni della libertà di associazione dei giudici, includendo un riferimento a tutte le associazioni che – in considerazione della loro organizzazione e dei loro fini – comportino per i loro membri vincoli di gerarchia e di solidarietà particolarmente forti”. Infine, la Corte ritiene importante sottolineare che la discussione del 22 marzo 1990 non ha avuto luogo nell’ambito del controllo disciplinare dei giudici, com’è avvenuto per la delibera del 14 luglio 1993, ma nel contesto della loro progressione di carriera […]. Risulta quindi evidente, da un esame globale della discussione, che il Consiglio Superiore della Magistratura ha discusso se fosse consono ad un giudice essere un massone, ma nella discussione non vi era alcuna traccia che l’appartenenza alla Masuna norma di chiusura generica diretta a sanzionare tutti i comportamenti capaci di ledere la reputazione del singolo magistrato o la dignità dell'ordine al quale egli appartiene»); ha, quindi, concluso che quanto detto vale a giustificare «la latitudine della previsione e l’ampio margine della valutazione affidata ad un organo [il CSM], che, operando con le garanzie proprie di un procedimento giurisdizionale, è, per la sua strutturazione particolarmente qualificato per apprezzare se i comportamenti di volta in volta considerati siano o meno lesivi dei valori tutelati ». (14) Nella parte dispositiva la suddetta circolare recita: «La partecipazione di magistrati ad associazioni che comportino un vincolo gerarchico e solidaristico particolarmente forte attraverso l’assunzione in forme solenni di vincoli come quelli richiesti dalle logge massoniche, pone delicati problemi di rispetto dei valori riconosciuti dalla Carta costituzionale. Mentre non appartiene alle competenze del Consiglio giudicare della compatibilità con la Costituzione delle singole forme associative, rientra sicuramente nel novero di dette competenze vigilare in ordine alla attuazione del principio cardine di cui all’art. 101 Cost. secondo cui “i giudici sono soggetti solo alla legge” ». (15) La circolare in parola era intitolata: “Iscrizione e/o appartenenza dei magistrati alla massoneria e/o associazioni riservate”. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 soneria potesse costituire un illecito disciplinare in ogni caso». In effetti, con la risoluzione del 22 marzo 1990, l’Organo di autogoverno della magistratura ordinaria ha invitato il Ministero di Grazia e Giustizia a valutare l’opportunità di proporre che eventuali limitazioni al diritto di associazione per i giudici siano riferite a tutte le associazioni che – per organizzazione e fini – comportino per gli associati vincoli di gerarchia e solidarietà particolarmente cogenti, il che implica che tali limitazioni non fossero già normativamente previste. Dalla sentenza Maestri c. Italia si evince che, secondo la Corte EDU, lo stato di incertezza giuridica riguardo alla possibilità per i magistrati di far parte della Massoneria sarebbe venuta meno solo a seguito dell’adozione, da parte del CSM, di un’ulteriore risoluzione. Ed invero, la risoluzione del 14 luglio 1993, prevedendo (esplicitamente) che l’osservanza dei doveri giuridici a carico dei magistrati è incompatibile con lo status di membro della Massoneria (in considerazione della natura segreta dell’associazione, nonché degli obiettivi e delle forme di azione della stessa), ha certamente chiarito ed integrato il disposto dell’art. 18 del R.D. Lgs. n. 511/1946 (16). • Dalla disamina degli articoli 10 ed 11 CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo risulta, in modo inequivocabile, che eventuali limitazioni alle libertà fondamentali ivi sancite sono consentite solo a certe condizioni, condizioni che il legislatore italiano è tenuto a rispettare stante il disposto dell’art. 117, comma 1, della Costituzione (17). Naturalmente, non solo l’Organo legislativo, ma tutti gli Organi dello Stato chiamati ad applicare il diritto sono tenuti ad agire in conformità agli obblighi derivanti dalla CEDU, posto che, altrimenti, lo Stato italiano commetterebbe degli illeciti internazionali e sarebbe passibile di condanne da parte della Corte di Strasburgo. • Oltre alla CEDU vi è un altro strumento giuridico di tutela dei diritti umani che produce effetti diretti nell’ordinamento italiano: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (18), la quale, originariamente, costituiva un accordo interistituzionale tra le Istituzioni politiche dell’Unione, mentre, (16) V. M. BARBERO, Risarcite il giudice massone!, http://www.forumcostituzionale.it/site/content/ view/18/46/. (17) Si noti che, mentre in dottrina sono stati avanzati dei dubbi sulla possibilità di interpretare l’art. 117, comma 1, della Costituzione nel senso che tutti gli obblighi internazionali assunti dall’Italia attraverso la stipulazione di trattati siano stati “costituzionalizzati” a seguito della riforma attuata con la legge costituzionale n. 3/2001, è pacifico che siano stati costituzionalizzati gli obblighi derivanti dai trattati internazionali in materia di diritti umani, fra cui la CEDU (v. E. CANNIZZARO, La riforma federalista della costituzione e gli obblighi internazionali, in Riv. dir. intern., 2001, p. 921 ss.). (18) Pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 14 dicembre 2007, serie C 303/5. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha acquisito la stessa forza giuridica dei Trattati (istitutivi e di revisione). La Carta, all’art. 11, tutela la libertà di espressione (nonché la libertà di informazione), stabilendo che: «ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. […] ». L’articolo immediatamente successivo garantisce, invece, la libertà di riunione e di associazione, disponendo che: 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni persona di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. 2. I partiti politici a livello dell'Unione contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell'Unione ». Gli articoli 11 e 12 della Carta, dunque, non prevedono limitazioni di sorta delle libertà di espressione e di associazione. Tuttavia, la Carta contiene una norma che disciplina la portata dei diritti e delle libertà ivi sanciti, che consente agli Stati membri (nonché all’Unione) di porre dei limiti all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali, purché siano rispettate le seguenti condizioni: i limiti devono essere previsti dalla legge; non devono pregiudicare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà; devono essere necessari e rispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione (19) ovvero all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà di altri soggetti, ciò in conformità al principio di proporzionalità (art. 52, par. 1). Ora, le Spiegazioni della Carta dei diritti (20), con riferimento all’art. 11, specificano che « l’art. 11 corrisponde all’art. 10 della CEDU», il che significa che l’art. 10 della Convenzione ha rappresentato il parametro normativo assunto dai redattori della Carta. Del pari, le Spiegazioni chiariscono che l’art. 12, par. 1, della Carta dei diritti si ispira all’art. 11 della CEDU. Sia per l’art. 11 che per l’art. 12, par. 1, della Carta, viene, dunque, in rilievo il disposto dell’art. 52, par. 3, a mente del quale «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione». Peraltro ciò non preclude all’Unione di concedere una pro- (19) Anche nell’ordinamento dell’U.E. vale il principio secondo cui coloro che esercitano poteri pubblici nei confronti dei cittadini devono essere indipendenti ed imparziali. (20) Pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 14 dicembre 2007, serie C 303/21. Sulle Spiegazioni v. N. LAZZERINI, Considerazioni sul valore delle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2010. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tezione più estesa (v. l’art. 52, par. 3, cit.). Ne deriva che le limitazioni delle libertà di cui agli articoli 11 e 12, par. 1, della Carta non possono superare quelle che risultano legittime ai sensi della CEDU. Per quanto riguarda l’art. 12, par. 2, della Carta dei diritti, nelle Spiegazioni si legge che esso corrisponde all’articolo 10, par. 4, del Trattato sull’Unione europea, a mente del quale: «i partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione». La Carta, all’art. 52, par. 2, dispone che i diritti da essa sanciti che ricadano nell’ambito di applicazione di disposizioni contenute nei Trattati istitutivi, si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai Trattati stessi. Ora, la rilevanza della tutela riconosciuta dal Trattato sul funzionamento dell’U.E. ai partiti politici (che partecipino alle elezioni del Parlamento europeo) deriva dal fatto che il medesimo Trattato, all’art. 10, prevede che «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa » (par. 1), che «i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo […]» (par. 2), e che: «ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione […] » (par. 3) (21). Fonti statali • Com’è noto, l’art. 98 della Costituzione, al terzo comma, prevede che: «si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero». Allo scopo di comprenderne meglio il disposto, appare utile ripercorrere, nelle linee essenziali, l’iter redazionale dell’articolo citato. Nella seduta del 14 gennaio1947 della prima Sezione della seconda Sottocommissione per la Costituzione, nel corso di una discussione sui rapporti di pubblico impiego, l’on. Mortati ha rappresentato l’esigenza di inserire nella futura Costituzione delle norme che garantissero l’indipendenza e l’imparzialità dei funzionari della P.A., sottraendoli all’influenza ed ai condizionamenti dei partiti politici. In particolare, egli ha sostenuto che: «lo sforzo di una Costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimer stabiliva che i funzionari erano al servizio della collettività e non dei singoli partiti» (22). Il dibattito, dap- (21) Riguardo al rafforzamento del principio democratico nell’U.E. a seguito dell’ultima revisione dei Trattati istitutivi, v. P. RIDOLA, La parlamentarizzazione degli assetti istituzionali dell’Unione europea fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, in http://www.associazionedeicostituzionalisti. it. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 prima, si è incentrato sull’opportunità di introdurre nel progetto di Costituzione il divieto per i magistrati di iscriversi a partiti politici ed associazioni segrete; successivamente, è stato proposto di estendere tale divieto ad altre categorie di funzionari pubblici. Nella seduta del 22 maggio 1947, l’on. Clerici ha proposto di aggiungere all’art. 94 del Progetto di Costituzione la seguente previsione: «la carriera di magistrato, di militare, di funzionario ed agente di polizia e di diplomatico comporta la rinunzia alla iscrizione a partiti politici». A sostegno dell’emendamento formulato, egli adduceva delle motivazioni in parte diverse per i magistrati, per gli appartenenti alla Polizia e all’Esercito, e per i diplomatici (23). Riguardo agli agenti e funzionari di Polizia ed ai militari, l’on. Clerici, dopo aver evidenziato che costoro «quasi quotidianamente, devono prendere provvedimenti particolarmente rappresentativi dell’autorità dello Stato e spiacenti ai cittadini che li subiscono», ha sostenuto che: «essi, perciò, come la moglie di Cesare, devono essere insospettabili». A suo avviso, per far sì che tali soggetti fossero «insospettabili nelle loro decisioni rispetto agli altri cittadini», era necessario vietare loro di iscriversi a partiti politici. Quanto alla portata della disposizione, il Clerici ha precisato che, da un lato, essa non si sarebbe applicata ai magistrati onorari ed ai militari in servizio non permanente (24) e a «quei diplomatici, che in via eccezionale sono presi dall’ambiente politico ed incaricati di missioni straordinarie», dall’altro, che la stessa avrebbe avuto ad oggetto esclusivamente l’iscrizione a partiti politici, ma non altri diritti, quali l’elettorato attivo o passivo. Alcuni costituenti hanno sollevato delle aspre critiche riguardo all’emendamento proposto dall’on. Clerici (25), mentre altri hanno espresso la loro ap- (22) In A.C., IV, p. 3561. Costantino Mortati proponeva di inserire nella Costituzione una previsione del seguente tenore: «i pubblici impiegati sono al servizio della Nazione ed è garantita la loro piena indipendenza da influenze politiche». La sua proposta suscitò alcune critiche ma, alla fine, venne approvata. Si ricorda che tutti i lavori dell’Assemblea costituente sono reperibili on line all’indirizzo http://legislature. camera.it/frameset.asp?content=%2Faltre%5Fsezionism%2F304%2F8964%2Fdocumentotesto%2E asp%3F. (23) In A.C., V, p. 4410 e seg. (24) Ne sarebbero rimasti esclusi, ad es., «gli ufficiali di complemento che rimangono ufficiali anche quando non prestano servizio». (25) Ad es., l’on. Merlin ha invitato l’on. Clerici a ritirare la sua proposta, sostenendo che: «per i magistrati i quali, a parte la ristrettezza del numero, hanno un ufficio delicato, obiettivo ed impersonale, si potrà, a suo tempo, discutere la norma prevista [il riferimento era all’art. 94, terzo comma, del Progetto di Costituzione, che recava il divieto dei magistrati di iscriversi a partiti politici]; ma per tutte le altre categorie di cittadini – funzionari, militari e perfino agenti di polizia e diplomatici – la Commissione non ritiene di poter accettare l’emendamento […]», tenuto conto anche del fatto che il divieto ivi previsto «colpirebbe decine e forse centinaia di migliaia di persone». L’on. Targetti, poi, ha detto di essere contrario alla proposta dell’on. Clerici, in quanto, da un lato, «la forma è tale che non esprime un concetto molto chiaro quando si tiene presente che siamo in tema di Costituzione. Perché dire che la carriera di magistrati, militari, ecc. implica la rinunzia alla iscrizione nei partiti politici non significa una proibizione 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 provazione (26). L’emendamento non è stato votato nella seduta in cui è stato presentato, bensì nella seduta del 5. dicembre 1947, perché si è ritenuto opportuno che esso venisse discusso insieme alla previsione – contenuta nella parte del Progetto relativa alla magistratura – che vietava l’iscrizione dei magistrati ai partiti politici (27). Nella predetta seduta, il Presidente della Commissione per la Costituzione Ruini ha rappresentato all’Assemblea che la Commissione non aveva potuto esprimere un parere sulla proposta dell’on. Clerici, in quanto i membri si erano divisi in due correnti: alcuni la ritenevano necessaria per assicurare l’indipendenza e l’imparzialità dell’ordine giudiziario e di alcune categorie di funzionari che «presentano caratteristiche speciali»; mentre altri membri la ritenevano, da un lato, non del tutto chiara e, quindi, tale da rendere in concreto difficile la determinazione delle categorie riguardate, e, dall’altro, inidonea a garantire che coloro che non possano essere formalmente iscritti ad un partito prendano egualmente parte alla sua vita ed alla sua azione (28). di iscrizione di questi funzionari ai partiti politici, ma sembra più che altro adombrare, anziché un divieto legale, un divieto morale, spirituale, per il quale debba il magistrato rinunziare a questo diritto», dall’altro, dal punto di vista sostanziale, «ripugna di limitare per qualsiasi categoria di cittadini l’esercizio di un diritto fondamentale per un cittadino in regime di democrazia, cioè quello di partecipare alla vita politica». (26) L’on. Giacchero ha proposto un emendamento, in parte simile a quello formulato dall’on. Clerici, del seguente tenore: «i cittadini ufficiali e sottoufficiali dell’esercito in servizio permanente non possono essere iscritti a partiti politici né svolgere attività politica». Egli ha motivato la sua proposta con delle interessanti argomentazioni: «può forse sembrare a qualcuno che il comma aggiuntivo dell’art. 49, da me proposto, sia da collocare piuttosto in un regolamento di disciplina che non nella Costituzione. Ma così non è […]. È vero che nel vecchio regolamento di disciplina dell’esercito, approvato con decreto del luglio 1907, vi era un articolo che aveva lo stesso sapore di questo mio comma aggiuntivo, ma è anche vero che la semplice modificazione operata dal fascismo con decreto del giugno 1929 permise quello sgretolamento morale dell’esercito, che si iniziò con le circolari del 1939 ai generali e colonnelli per l’iscrizione al partito fascista e finì con l’infausto 8 settembre 1943. Ora, poiché la Costituzione deve essere la garanzia non soltanto dei diritti e dei doveri dei cittadini, ma anche della saldezza degli istituti che formano la difesa dello Stato, sia verso forze antidemocratiche interne che verso aggressori all’esterno, noi dobbiamo affermare nella Costituzione un principio che garantisca quella saldezza e faccia dell’esercito […] un’arma sicura di difesa nelle mani dei poteri legalmente e democraticamente costituiti. […] Per ottenere questo […] è necessario che coloro i quali formano i quadri permanenti dell’esercito non siano parte evidente ed attiva di partiti. E questo per parecchi ordini di ragioni: I) perché la missione di coloro i quali abbracciano la carriera militare è quella di servire il Paese al disopra e al di fuori di interessi, sia pure nobilissimi, di partito; II) perché l’impostazione attuale dei partiti, in particolare di quelli di massa, è basata su una disciplina e su una gerarchia, che, a volte, potrebbe non essere nello stesso senso di quella corrispondente ai posti occupati nell’esercito, e se non si provvedesse, si creerebbero interferenze e situazioni che, nella migliore delle ipotesi, si possono definire incresciose; III) perché si deve evitare che favoritismi, a mezzo di influenze politiche, possano turbare la necessaria tranquillità di coloro che attendono all’alta missione di formare la forza militare della Nazione, ed originare malcontento e corruzione; IV) […] perché infine noi abbiamo votato un articolo 13, dove è detto che sono vietate le associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare». (27) Una sintesi del dibattito sull’emendamento proposto da Clerici è svolta da E. TIRA, Libertà di associazione e indipendenza/imparzialità del magistrato: un bilanciamento tra valori costituzionali, in www.forumcostituzionale.it. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215 L’on. Clerici, chiamato a precisare ulteriormente il contenuto della sua proposta, ha sostenuto che l’introduzione di una limitazione alla libertà di associazione dei magistrati e di alcune categorie di dipendenti dello Stato non violerebbe il principio di eguaglianza, in quanto sarebbe giustificata dalla circostanza che essi «esercitando un’autorità dello Stato praticamente sui cittadini, sono o appaiono […], rispetto a costoro, lo Stato stesso». Egli ha, poi, aggiunto, con tono enfatico, che «il magistrato che ci giudica, il magistrato che ci può condannare a pene anche gravissime e che può decidere non soltanto su questioni patrimoniali, ma anche su questioni famigliari e di stato personale […]; e del pari il funzionario e l’agente di pubblica sicurezza, che eseguono codeste sentenze e possono arrestare il cittadino, il militare in servizio attivo permanente ed anche il rappresentante ordinario dello Stato verso Stati esteri […] deve non solo essere ma anche apparire assolutamente insospettabile », in quanto «non deve sorgere nel povero diavolo, il quale vede giudici con distintivi di appartenenza a partiti diversi dal suo, il sospetto che costoro possano giudicarlo sfavorevolmente per ragioni di carattere politico. E non deve sorgere il sospetto che l’agente di pubblica sicurezza, il carabiniere, il militare in servizio attivo permanente possono essere non i rappresentanti dello Stato ma di un partito […]». Ancor più significative sono, ai fini che interessano, le ragioni per le quali, secondo l’on. Clerici, per un verso, fosse necessario prevedere nella Costituzione la possibilità che, con legge ordinaria, fosse limitata o proibita l’iscrizione a partiti politici ai magistrati e ad altre categorie di dipendenti pubblici, e, per altro verso, fosse opportuno che tali limitazioni o divieti non fossero stabilite direttamente dalla Costituzione. L’on. Clerici si è espresso in questi termini: «che cosa sarà stabilito, se voteremo l’emendamento da me proposto? Questo principio: che contro il principio generale che nessun limite alla libertà di iscrizione a qualsiasi partito può essere posto al cittadino, e neanche al funzionario dello Stato, invece un limite alla libera iscrizione ai partiti, per questi particolari funzionari, che sono investiti del “jus imperii”, questa limitazione è possibile nell’ambito e nelle forme che il legislatore futuro crederà del caso, adattandole alle condizioni ambientali e storiche. La nostra Costituzione è fatta - speriamo – per un periodo di molti decenni; in tutto questo tempo si andranno trasformando le condizioni che suggeriranno limitazioni più o meno ampie col variare del tempo. queste limitazioni noi rimetteremo perciò alla legge futura. Noi per ora affermiamo il principio; e ritengo che sia necessario affermarlo, perché se non dicessimo nulla in pro- (28) Nel Progetto approvato dalla Commissione per la Costituzione, l’art. 91 [l’antesignano dell’attuale art. 98] non prevedeva la possibilità di vietare con legge l’iscrizione ai partiti politici di magistrati, militari, poliziotti e rappresentanti diplomatici e consolari. Il testo è reperibile sul sito del Parlamento, al seguente indirizzo: http://legislature.camera.it/strumenti/popup/default.asp?url=/altre_sezioni/ assemblea_costituente/Composizione/VisProg.asp. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 posito e ferma restando la norma generale della libertà del cittadino, per cui ciascuno può iscriversi a qualsiasi partito, domani potrebbe ritenersi illegittima ed anticostituzionale qualsiasi legge che stabilisse questo divieto per i carabinieri e le guardie di Questura». All’esito della seduta, l’emendamento dell’on. Clerici è stato integralmente approvato (29). • Per interpretare il disposto dell’art. 98, terzo comma, Cost. – come, del resto, ogni norma dell’ordinamento – si deve tener conto del tenore letterale, della ratio, della genesi redazionale e del contesto normativo in cui esso si colloca. Tale contesto è dato essenzialmente dai principi costituzionali in tema di partecipazione politica. La nostra Costituzione prefigura un sistema politico aperto alla partecipazione del popolo e, per far sì che esso concretamente si realizzi, ha riconosciuto delle garanzie alle formazioni sociali che rappresentano il tessuto associativo della società (articoli 2 e 18 Cost.) e attribuendo uno status particolare alle associazioni ritenute più funzionali alla crescita della partecipazione alla vita politica del Paese, vale a dire i sindacati (art. 39 Cost.) ed i partiti politici (art. 49 Cost.) (30). In particolare, l’art. 49 Cost. affida ai partiti politici il compito di consentire ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. I partiti hanno un rilievo centrale sia per assicurare l’esercizio da parte degli individui del diritto (fondamentale) di partecipazione politica sia per garantire l’attuazione del regime democratico nello Stato (31). Secondo la dottrina prevalente, la norma di cui all’art. 98, comma 3, Cost. consente al legislatore ordinario, nel caso in cui ne ravvisi la necessità, di porre dei limiti al diritto di iscriversi a partiti politici per i magistrati e per alcune categorie di dipendenti pubblici, allo scopo di garantire la loro indipendenza ed imparzialità, vista la particolare delicatezza delle funzioni da essi esercitate (lo ius dicere, l’esercizio della forza pubblica, la rappresentanza dello Stato nelle relazioni internazionali) (32) . (29) L’art. 98 della Costituzione, approvata il 27 dicembre 1947, fin dalle origini abilitava il legislatore ordinario ad introdurre delle limitazioni al diritto di iscrizione ai partiti politici per magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia ed, infine, rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. La Costituzione pubblicata nella Gazz. Uff. n. 298, ed. straord. di sabato, il 27 dicembre 1947 è reperibile anche all’indirizzo:http://legislature.camera.it/strumenti/popup/default.asp?url=/altre_sezioni/assemblea_ costituente/Composizione/VisCost.asp. (30) G. ROLLA, La tutela costituzionale dei diritti, Milano, 2005, pp. 97 e 98. Lo stesso Autore osserva che i costituenti hanno inteso privilegiare la partecipazione attraverso le formazioni sociali – in primis i partiti politici – piuttosto che attivare istituti di democrazia diretta, come emerge, ad es., dal fatto che l’indizione del referendum abrogativo è stato sottoposto dall’art. 75 Cost. a numerosi limiti. (31)V. per tutti L. ELIA, Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna, 2009. (32) Un’opinione in parte diversa è stata espressa da C. ESPOSITO, Riforma dell’Amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in ID., La Costituzione italiana, Padova, 1954, p. 223, secondo cui I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217 In dottrina, non solo è pacifico che l’art. 98, terzo comma, Cost., non stabilisce alcun divieto di iscrizione ai partiti politici per i cittadini appartenenti alle categorie ivi previste, ma si ritiene, altresì, che tale disposizione non comporti l’obbligo per il legislatore ordinario di introdurre quel divieto. È stato autorevolmente sostenuto che «alla luce del dibattito costituente, ma soprattutto in coerenza con l’interpretazione sistematica della Costituzione, secondo cui la libertà è la regola, e l’associazione in partiti politici lo strumento privilegiato per consentire la piena estrinsecazione dell’idea di cittadinanza democratica e, quindi, la crescita politica di tutta la Nazione, appare senz’altro da non condividere la lettura secondo la quale nella disposizione costituzionale adesso in commento vi sarebbe un invito al legislatore ordinario per intervenire limitando le libertà politiche dei pubblici dipendenti menzionati dal testo normativo» (33). Dalla centralità che rivestono le libertà individuali e collettive nel nostro sistema costituzionale, e dal carattere eccezionale di ogni loro limitazione, discende che la norma costituzionale in parola non è suscettibile di applicazione analogica ed, anzi, dev’essere interpretata in maniera restrittiva (34), cosicché sono ammissibili esclusivamente le limitazioni ivi previste e solo alle condizioni ivi stabilite. In dottrina si è sostenuto che «la sola possibilità prevista è la limitazione dell’iscrizione, ma non anche dell’appartenenza», sicché resterebbe assolutamente «libera l’adesione ideologica anche apertamente manifestata»(35). Tenendo ancora conto dello spirito liberale e democratico che anima la Carta Costituzionale, deve escludersi che il legislatore, qualora ravvisi l’opportunità di esercitare la facoltà ad esso riconosciuta dalla norma costituzionale in questione, debba necessariamente introdurre il divieto d’iscrizione ai partiti politici per taluni dipendenti pubblici; infatti, ove risulti possibile garantire l’indipendenza di questi ultimi dall’influenza dei partiti limitando in misura minore il diritto di partecipazione alla vita politica, il legislatore dovrebbe prediligere quest’ultima soluzione (36). Parte della dottrina, valorizzando il tenore letterale dell’art. 98, terzo comma, Cost., che parla di mere il disposto dell’art. 98, terzo comma, Cost., avrebbe una ratio diversa per quanto riguarda, da una parte, i magistrati e gli agenti diplomatici, e, dall’altra, gli appartenenti alle Forze armate e di Polizia: nel primo caso, si tratterebbe dell’esigenza che lo Stato si presenti in modo unitario (sia ai suoi cittadini che agli altri soggetti del diritto internazionale), mentre, nel secondo caso, verrebbe in rilievo la necessità di evitare possibili strumentalizzazioni politiche. (33) A. SAITTA, Art. 98, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Milano, 2006, p. 1921. In tal senso, v. anche G. BORRÈ, Art. 98, 3° c., in G. BRANCA – A. PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1994, pp. 469 e 470. (34) A. SAITTA, Art. 98, cit., p. 1921. (35) L. CARLASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974, p. 108. (36) Oltretutto, come si è visto, sarebbe contrario alla CEDU adottare delle misure restrittive della libertà di associazione che non siano necessarie in una società democratica e proporzionate. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 «limitazioni» del diritto di iscriversi a partiti politici, ritiene che «la legge sia autorizzata a fissare unicamente limiti di tal natura che non si risolvano in una soppressione del diritto» (37). Tale orientamento sembra suffragato dal fatto che l’art. 49 Cost. riconosce a tutti i cittadini (senza eccezioni) la libertà di associarsi in partiti, i quali, sia all’epoca in cui è stata elaborata la Costituzione che attualmente, rappresentano lo strumento principale per la partecipazione alla vita politica del Paese. Sul piano formale, poi, la norma costituzionale in esame pone chiaramente una riserva di legge. Pertanto, non si possono stabilire con una fonte secondaria delle restrizioni al diritto di partecipazione ai partiti politici, in mancanza di una copertura legislativa. Volendo dar conto dell’interpretazione dell’art. 98, terzo comma, Cost. operata dalla Corte Costituzionale, è utile richiamare la sentenza n. 224 del 2009, con cui la Consulta ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera h), del D. Lgs. n. 109/2006 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, ecc.), il quale configura quale illecito disciplinare – accanto al coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato – l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato a partiti politici (38). La Sezione disciplinare del CSM aveva sollevato il dubbio di legittimità costituzionale in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98, comma 3, Cost. In particolare, il CSM evidenziava come la norma censurata ponendo un divieto formale ed assoluto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati (divieto, tra l’altro, rafforzato dalla previsione di una sanzione per la sua violazione) andrebbe oltre la nozione giuridica della mera limitazione, ovvero di «una regolamentazione che contemperi il diritto politico del singolo con l’esigenza di imparzialità, anche percepita, del giudice», laddove l’art. 49 Cost. riconosce a tutti i cittadini (ivi compresi, quindi, i magistrati) la libertà di associarsi in partiti politici e l’art. 98, terzo comma, Cost. autorizza il legislatore a stabilire delle mere limitazioni di tale libertà. La Consulta, dapprima, ha precisato che i magistrati, da un lato, devono (37) A. CERRI, Sindacato, associazioni politiche, partiti, in Giur. cost., 1966, p. 1920. L’Autore prosegue il suo ragionamento ipotizzando che il legislatore avrebbe potuto, ad esempio, precludere «puramente e semplicemente l’accesso alle cariche direttive del partito». (38) La questione di legittimità costituzionale posta davanti alla Corte è stata sollevata dalla Sezione disciplinare del C.S.M., nel corso di un giudizio avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità disciplinare di un magistrato collocato fuori dell’organico della magistratura perché addetto ad una funzione di consulenza parlamentare, a cui era stata contestata la violazione dell’art. 3 lett. h), avendo egli assunto una carica direttiva all’interno di un’organizzazione periferica di un partito politico, la copertura della quale dovrebbe presupporre l’iscrizione allo stesso partito e comporterebbe in ogni caso una continuità nella partecipazione alla vita del partito che non è consentita. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 219 godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino e, quindi, possono non soltanto condividere un’idea politica, ma anche manifestare espressamente le proprie opinioni al riguardo, e, dall’altro, essi hanno il dovere di essere imparziali ed indipendenti. La Corte ha, poi, rilevato che la Costituzione, operando un bilanciamento tra la libertà di associarsi in partiti (tutelata dall’art. 49 Cost.) e «l’esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche l’immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo» (ex articoli 101, comma 1, e 104, comma 1, Cost.), prevede, all’art. 98, comma 3, che il legislatore ordinario possa stabilire limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici per i magistrati (come pure per altre categorie di funzionari pubblici). La Corte afferma, quindi, che la norma dettata dall’art. 98, comma 3, Cost. «se non impone, tuttavia consente che il legislatore ordinario introduca, a tutela e salvaguardia dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati […] ». La Corte ha aggiunto che la medesima norma costituzionale dà, sia pure implicitamente, al legislatore la facoltà di precludere ai magistrati – oltre alla formale iscrizione ai partiti politici – «l’organico schieramento con una delle parti politiche in gioco» e, quindi, ha affermato che la disposizione legislativa impugnata – nella parte in cui vieta «la partecipazione sistematica e continuativa» all’attività dei partiti – non viola il disposto dell’art. 98, terzo comma, della Costituzione. Il Giudice delle Leggi ha altresì escluso che la disposizione, oggetto dello scrutinio di costituzionalità, sia in contrasto con il medesimo parametro costituzionale nella parte in cui vieta l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici a tutti i magistrati, senza distinguere tra coloro che esercitano funzioni giurisdizionali e quelli che, invece, non le esercitano, perché – come nel caso pendente davanti alla Sezione disciplinare del CSM – siano fuori del ruolo organico della magistratura, essendo stati addetti dalla P.A. a funzioni diverse. Infine, la Consulta ha chiarito che non vi è alcuna contraddizione tra il diritto di elettorato passivo – pacificamente riconosciuto ai magistrati – ed il divieto di iscrizione o di partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, «sia per la diversità delle situazioni poste a raffronto […], sia perché quel diritto non è senza limitazioni »(39). Dalla sentenza, sopra menzionata, si ricavano delle indicazioni significative sul modo in cui la Corte Costituzionale ricostruisce la portata dell’art. 98, terzo comma, Cost. In particolare, la Corte individua la ratio di tale norma (39) Va precisato che la Corte Costituzionale, nell’ambito dello stesso procedimento, si è dovuta pronunciare sulla legittimità costituzionale di un’ulteriore previsione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. h), del D.lgs. n. 109/2006, vale a dire, quella che configura quale illecito disciplinare il coinvolgimento del magistrato nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o funzionario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o compromettere l’immagine del magistrato e, anche in tal caso, ha dichiarato infondato il dubbio di incostituzionalità. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nell’esigenza di garantire l’indipendenza e l’imparzialità del funzionario pubblico; ritiene che la disposizione de qua autorizzi il legislatore ordinario a vietare (e non solo a limitare) il diritto di iscrizione a partiti politici; ammette un’interpretazione estensiva della norma tale da ricondurre alla stessa anche la partecipazione in via di fatto, purché «sistematica e continuativa», all’attività di un partito; è dell’opinione che, ai sensi della Costituzione, il legislatore ordinario abbia la facoltà di introdurre un generale divieto di iscrizione ai partiti politici per i funzionari pubblici, senza distinzioni per funzione e per posizione giuridica, essendo indifferente che il funzionario ricopra un ruolo o sia temporaneamente collocato fuori ruolo, che sia in ruolo svolgendo effettivamente le funzioni giurisdizionali oppure senza svolgerle in quanto collocato in aspettativa (come avviene, ad esempio, quando un magistrato sia eletto al Parlamento nazionale o al Parlamento europeo)(40). Va precisato che la Consulta ha svolto tali considerazioni facendo riferimento esclusivamente ai magistrati (e non, in generale, alle categorie di funzionari pubblici indicate all’art. 98, comma 3, Cost.). Tuttavia, poiché dalla sentenza n. 224/2009 non si evincono degli elementi che facciano pensare che la Consulta, nel delineare la portata dell’art. 98, terzo comma, Cost., abbia attribuito un peso decisivo alla posizione costituzionale della magistratura o alle particolarità della funzione giurisdizionale, sembra ragionevole trarre da tale pronuncia delle indicazioni di ordine generale (utili anche ai fini che qui rilevano). La Corte Costituzionale dà dell’art. 98, terzo comma, Cost., una lettura meno garantista di quella sostenuta da autorevoli esponenti della dottrina. Naturalmente, però, anche la Consulta riconosce che sussiste una riserva di legge in tema di limitazioni della libertà di associarsi in partiti politici. • Il legislatore ordinario si è avvalso con grande parsimonia della possibilità offerta dall’art. 98, terzo comma, Cost. di limitare i diritti politici dei pubblici funzionari ivi indicati (41). Per quanto concerne i funzionari e gli agenti di Polizia (42), la legge n. 121 del 1981 – con cui è stata attuata una riforma organica dell’ordinamento dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza – aveva stabilito che, fino all’emanazione di «una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell’articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall’entrata in vigore della presente legge» (art. 114), agli stessi fosse vietato iscriversi ai partiti politici. Tale divieto è stato successivamente prorogato di anno in anno (43), fino a quando è venuto a cadere a se- (40) La dottrina ha mosso varie critiche alla sentenza n. 224/2009 della Corte Costituzionale. V. per tutti i commenti di S. DE NARDI, in Giur. cost., 2009, 6, p. 5121 e seg.; e G. FERRI pubblicato su www.giurcost.org. (41) Così A. SAITTA, Art. 98, cit., p. 1922. (42) Per le altre categorie di funzionari pubblici indicate all’art. 98, terzo comma, Cost. v. A. SAITTA, op. loc. cit. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 221 guito della mancata conversione del D.L. 3 maggio 1991, n. 141, il quale, all’art. 1, prevedeva il divieto d’iscrizione ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, gli appartenenti alle Forze di Polizia e i pubblici dipendenti accreditati all’estero come agenti diplomatici o funzionari consolari. Fino ad oggi, non sono stati emanati altri atti legislativi in attuazione dell’art. 98, terzo comma, della Costituzione. La legge n. 121/1981 detta, all’art. 81, una serie di «norme di comportamento politico», la cui violazione è sanzionata ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 737/1981. Il citato art. 81, al primo comma, stabilisce che: «gli appartenenti alle forze di polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l’assoluta imparzialità delle loro funzioni». Agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche o sindacali, salvo quanto disposto dall’articolo seguente. È fatto altresì divieto di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni»; al secondo comma, dispone che: «gli appartenenti alle forze di polizia candidati ad elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale e possono svolgere attività politica e di propaganda, al di fuori dell’ambito dei rispettivi uffici e in abito civile. Essi, comunque non possono prestare servizio nell’ambito della circoscrizione nella quale si sono presentati come candidati alle elezioni, per un periodo di tre anni dalla data delle elezioni stesse». Il disposto dell’art. 81, comma 2, della legge n. 121/1981, risulta di agevole interpretazione. Esso prevede, in sintesi, che gli appartenenti alla Polizia, che intendono candidarsi alle elezioni (politiche o amministrative), sono posti in aspettativa speciale; in tal caso, essi possono svolgere attività politica e di propaganda, ma soltanto fuori dall’ambito territoriale dei loro uffici e senza indossare la divisa; infine, per un periodo di tre anni dalla data delle elezioni, gli stessi non possono prestare servizio nella circoscrizione nella quale si sono presentati come candidati. Tali prescrizioni sono volte a consentire ai membri della Polizia di esercitare il diritto di elettorato passivo, garantendo, nel contempo, che le delicate e peculiari funzioni che competono alle Forze di Polizia siano svolte esclusivamente da persone al di sopra di ogni sospetto di parzialità politica. In tal (43) La disciplina transitoria dettata dall’art. 114 della L. n. 121/1981 è stata prorogata con appositi Decreti Legge sempre convertiti entro i termini in Leggi dal 1982 (L. 24 aprile 1982, n. 174) al 1990 (L. 20 giugno 1990, n. 159). 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 modo, invero, si riduce il rischio che un agente o funzionario di Polizia, che partecipa o ha partecipato ad una competizione elettorale, possa abusare dei suoi poteri per ingraziarsi dei possibili elettori o per attuare delle ritorsioni ai danni di coloro che hanno votato e/o fatto propaganda per i suoi concorrenti politici. Dette previsioni normative fanno sì che le persone soggette ai poteri degli Organi della Polizia non abbiano motivo di sospettare di essere trattate ingiustamente a causa delle proprie opinioni politiche. Infine, esse impediscono che i membri della Polizia che partecipano ad una competizione elettorale possano godere di un vantaggio rispetto ai loro concorrenti per il senso di soggezione che l’ufficio da essi ricoperto può suscitare nei cittadini sottoposti alla loro autorità. Il disposto dell’art. 81, primo comma, suscita, invece, alcuni dubbi interpretativi. Le previsioni secondo cui gli appartenenti alle Forze di Polizia «debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche» e «non possono assumere comportamenti che compromettano l’assoluta imparzialità delle loro funzioni», indicando solo in modo generico le condotte vietate, potrebbero essere intese nel senso che ai membri della Polizia sia precluso di svolgere qualsiasi forma di attività politica, e, quindi, non solo di manifestare pubblicamente le proprie preferenze politiche, ma anche di iscriversi ad un partito o di assumere degli incarichi all’interno dello stesso. A ben vedere, però, tale tesi interpretativa non può essere condivisa. Il fatto che in una successiva disposizione del medesimo testo normativo (l’art. 114 della legge n. 121/1981) fosse previsto un divieto temporaneo di iscrizione a partiti politici (ormai scaduto da tempo) vale ad escludere che le prescrizioni di cui all’art. 81, comma 1, ricomprendano un simile divieto. È, altresì, particolarmente indicativo che il legislatore avesse sottoposto il divieto d’iscrizione ai partiti politici ad un termine di efficacia, evidenziando la necessità di dettare una disciplina organica di attuazione dell’art. 98, comma 3, della Costituzione. Ciò dimostra chiaramente che il legislatore ordinario – nella consapevolezza che l’art. 98, terzo comma, Cost. demanda ad esso la valutazione circa l’opportunità, in relazione ai tempi, di introdurre delle limitazioni all’esercizio dei diritti politici per le categorie di dipendenti pubblici ivi previste – non ha sancito in via definitiva il divieto per i poliziotti di iscriversi a partiti politici, ma lo ha previsto per un certo periodo di tempo (v. il citato art. 114) e, con successivi provvedimenti normativi, ne ha prorogato l’efficacia fino a quando lo ha ritenuto necessario. Poiché l’ultimo termine di proroga del divieto in parola è scaduto e non è stata emanata una legge di attuazione dell’art. 98, terzo comma, Cost., attualmente gli appartenenti alle Forze di Polizia godono della libertà di iscriversi ai partiti politici riconosciuta dagli articoli 18 e 49 Cost. (conclusione, quest’ultima, condivisa, seppure incidentalmente, dal T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza n. 591/2006) (44). Ora, posto che l’art. 98, terzo comma, Cost. riserva al legi- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 223 slatore ordinario di introdurre (ove necessario) un divieto d’iscrizione ai partiti politici (inter alia) per gli appartenenti alle Forze di Polizia, siffatto divieto non può essere introdotto in via pretoria o ad opera della P.A., a ciò ostando anche la CEDU. Inoltre, atteso che nel nostro sistema democratico sussiste un collegamento assai stretto tra diritto di partecipazione ai partiti politici e diritto di elettorato passivo sembra opportuno richiamare la giurisprudenza costituzionale in tema di cause di ineleggibilità. A tale riguardo, la Consulta ha più volte rilevato (v. ex multis la sentenza n. 287/1997) che l’art. 51 Cost., riferendosi ai “requisiti” per l’accesso alle cariche elettive, sottintende il bilanciamento di interessi cui la relativa legislazione primaria è direttamente chiamata dalla Costituzione. Si tratta del bilanciamento tra il diritto individuale di elettorato passivo e la tutela delle cariche pubbliche, a cui possono accedere solo coloro che sono in possesso delle condizioni che tali cariche, per loro stessa natura, richiedono. D’altra parte, «le cause di ineleggibilità, per essere conformi al principio dell’art. 51 Cost., devono considerarsi di stretta interpretazione e comunque contenute entro i limiti rigorosamente necessari per il soddisfacimento delle esigenze di pubblico interesse», con la conseguenza che sono incostituzionali le cause di ineleggibilità dai confini generici ed elastici, suscettibili di essere dilatate in sede interpretativa sino a ricomprendere le situazioni più diverse (v. ex multis le sentenze della Corte n. 46/1969, n. 166/1972, n. 1020/1988, n. 53/1990, n. 364/1996 e n. 306/2003) (45). Dalla predetta giurisprudenza costituzionale si ricava il seguente principio: le cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto di elettorale passivo, sancito dall’art. 51 Cost. e comunemente ricondotto tra i diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost., sono di stretta interpretazione e devono rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse, cui sono preordinate, cosicché il precetto espresso nell’art. 51, comma 1, Cost. deve trovare, per quanto possibile, la più ampia estensione, compatibilmente con la duplice finalità di garantire lo svolgimento della competizione elettorale in condizioni di eguaglianza tra i candidati e di assicurare l’autenticità e genuinità del voto, di modo che l’eleggibilità costituisca la regola e l’ineleggibilità l’eccezione, come tale da interpretarsi in modo restrittivo. Così individuato, il criterio ermeneutico che deve (44) In un obiter dictum si legge: «deve ritenersi inoperante un siffatto divieto, posto con l’art. 114 della legge 1 aprile 1981, n. 121, posto che non si è a conoscenza di proroghe del termine annuale ivi previsto (in passato più volte prorogato) ». (45) Il principio affermato dalla Corte Costituzionale è osservato dalla giurisprudenza di legittimità (v. ex multis Cass. civ., sez. I, n. 1073/2001 e Cass. civ., sez. I, n. 626/2008), nonché da quella amministrativa (v. ex pluribus Cons. St., sez. I, n. 309/2000 e TAR Sicilia Palermo, sez. I, n. 1374/2007) e di merito (v. ad es. Corte d’App. di Napoli, sez. I, 22 maggio 2002, in Giorn. Dir. Amm., 2002, 12, p. 1282). 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 guidare l’interprete nella ricostruzione del significato delle norme che prevedono delle cause di ineleggibilità, sembra ragionevole applicare, mutatis mutandis, il medesimo criterio per interpretare, in senso conforme alla Costituzione, le norme che limitano l’esercizio dei diritti politici da parte dei membri della Polizia. Pertanto, anche queste ultime norme devono essere considerate di stretta interpretazione. Ne deriva che deve senz’altro riconoscersi che la normativa vigente non vieta agli appartenenti alla Polizia di iscriversi ai partiti politici. Nel primo comma dell’art. 81 della legge n. 121/1981 sono contenute due ulteriori previsioni che così recitano: «agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni o manifestazioni di partiti, associazioni o organizzazioni politiche [...]» (46); «è fatto altresì divieto di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni ». Entrambe le previsioni perseguono il fine di salvaguardare l’imparzialità sia dell’Istituzione sia del singolo membro, proibendo comportamenti di tipo diverso ma ugualmente suscettibili di ledere tale valore. Ed invero, la prima disposizione mira ad evitare che un funzionario o agente di Polizia, per il solo fatto di partecipare in uniforme ad una riunione o manifestazione politica (tenendo, cioè, un comportamento meramente passivo), possa indurre i presenti a ritenere che le tesi politiche ivi sostenute siano condivise dalla Polizia e/o da quel singolo poliziotto; la seconda disposizione impedisce ad un funzionario o agente di Polizia di svolgere, a parole o con comportamenti esteriori, propaganda a favore di un partito o di altra associazione politica (47). La lettura qui prospettata delle previsioni normative in esame trova conferma ove si consideri che esse hanno un contenuto (in parte) speculare a quello del secondo comma dell’art. 81. Il disposto del comma 1, vieta ai funzionari o agenti di Polizia in servizio quelle condotte che, invece, i funzionari o agenti di Polizia che si trovano in aspettativa speciale per candidatura sono espressamente autorizzati a compiere dalla norma di cui al comma 2. Ciò si spiega con il fatto che, una volta che si sia interrotto – sia pure temporaneamente – il rapporto di servizio, viene meno il pericolo che un membro della Polizia, manifestando (con comportamenti attivi o passivi) le proprie preferenze politiche, possa ingenerare sospetti di parzialità, danneggiando altresì l’Istituzione a cui appartiene. Pertanto, si può affermare che l’art. 81 della legge. n. 121/1981 disponga (46) La suddetta previsione vieta ai membri della Polizia di partecipare in uniforme anche ai sindacati, facendo, però, salvo il disposto dell’art. 82 della stessa Legge. (47) Poiché l’art. 81, comma 1, nella parte in cui fa divieto ai poliziotti di svolgere propaganda politica prescinde dalla circostanza che costoro indossino la divisa, deve ritenersi che tale comportamento sia loro vietato anche quando indossino abiti civili. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 225 chiaramente che i funzionari o agenti di Polizia in servizio, fuori dell’orario di lavoro, sono liberi di partecipare a riunioni o manifestazioni politiche, purché indossino abiti civili e non esprimano pubblicamente, a parole o a gesti, la propria adesione ad un partito o ad altra associazione politica. Per stabilire se un certo comportamento, non espressamente previsto dall’art. 81 della legge n. 121/1981, sia o meno lecito, si deve tener presente che, nel nostro ordinamento, tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito – il che naturalmente vale a fortiori in materia di diritti di partecipazione alla vita politica stante il loro carattere “fondamentale”. Pertanto, volendo sintetizzare le risposte ai quesiti, richiamati in apertura della presente consultazione, si rappresenta quanto segue: 1) gli appartenenti alla Polizia possono sia iscriversi ad un partito politico che partecipare a dei consessi politici a condizione che non facciano propaganda politica; possono, altresì, ricoprire degli incarichi all’interno di un partito o partecipare, in via di fatto, alle attività che ivi si svolgono, a condizione che ciò avvenga con modalità e forme che non siano tali da fare emergere l’appartenenza del soggetto all’Amministrazione di Pubblica Sicurezza. Volendo andare ulteriormente a specificare, seppure in via meramente esemplificativa, quali condotte debbano ritenersi, di contro, vietate, può evidenziarsi quanto segue: a) gli appartenenti alla Polizia di Stato non possono fondare o costituire un partito politico atteso che, in considerazione della necessaria pubblicità che connota l’attività di un partito politico, tale possibilità si porrebbe in contrasto con l’obbligo, sancito dall’art. 81 della legge n. 121/81, di “mantenersi al di fuori delle competizioni politiche” e con il correlativo divieto “di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni”; b) gli appartenenti alla Polizia di Stato non possono, a maggior ragione, ricoprire incarichi all’interno di un partito politico quando, alla luce dello statuto, del programma ovvero di altre circostanze oggettive, emerga che i predetti incarichi possono essere ricoperti esclusivamente da appartenenti alla Polizia di Stato; c) agli appartenenti alla Polizia di Stato è inibita non solo l’attività di propaganda politica ma anche ogni altra attività di partito che si traduca, seppure indirettamente, in una partecipazione degli stessi alle competizioni politiche. 2) Con riferimento, infine, alla possibilità che la disciplina - dettata dall’art. 81, comma 2, della legge n. 121/81 per i membri della Polizia che siano stati posti in aspettativa speciale per candidatura - possa essere estesa anche a quelli che si trovino in situazioni similari in cui si determina un’interruzione, anche se temporanea, del rapporto di servizio, questo Generale Ufficio osserva quanto segue. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 L’art. 81, al comma 1, prevede delle deroghe, per una determinata categoria di soggetti (i.e. i membri della Polizia che prestano attualmente servizio), rispetto ai diritti sanciti dagli articoli 18 e 49 della Costituzione; l’art. 81, al comma 2, derogando a sua volta alle previsioni del comma 1, rende operanti le norme costituzionali, sopra menzionate, esclusivamente nell’ipotesi in cui l’appartenente alla Polizia di Stato sia stato collocato in aspettativa speciale elettorale. Il disposto del comma 2 dell’art. 81, attesa la sua specialità, non sembra potersi applicare a fattispecie diverse da quella espressamente prevista, quale quella del c.d. distacco sindacale. La bontà della superiore conclusione trova conferma, pur nel diverso regime giuridico previsto per gli appartenenti alla Polizia di Stato, in una recente decisione della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che, con il provvedimento del 28 maggio 2010, emesso all’esito del procedimento disciplinare n. 53/2008, ha ritenuto che l’inibizione per il magistrato a partecipare in modo continuato ed organico all’attività di un partito politico, prevista quale illecito disciplinare esterno all’esercizio delle funzioni dall’art. 3 lett. h) del D. Lgs. n. 109/2006, si estende anche all’ipotesi in cui il magistrato si trovi destinato fuori del ruolo organico della magistratura, in quanto anche nella predetta condizione risulta vulnerata l’indipendenza del magistrato, che, invece, deve sussistere quale valore primario previsto dalla Costituzione anche in caso di (temporaneo) mancato esercizio delle funzioni giudiziarie (48). Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 18 aprile 2011. A.G.S. - Parere del 20 aprile 2011 prot. 135321, avv. Paola Palmieri, AL 47110/10. «Sulla legittima partecipazione a gare pubbliche della CRI. Stipula di Accordi ex art. 15 L. 241 del 1990 - Disciplina comunitaria e nazionale» Con nota del 16 novembre u.s. codesta Amministrazione ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla possibilità, per la Croce Rossa italiana, di partecipare legittimamente a gare ad evidenza pubbliche indette dalle Prefetture per la gestione dei Centri di accoglienza per immigrati nonché alla possibilità, per il Ministero, di assegnare i servizi di gestione dei Centri di accoglienza in via diretta alla Croce Rossa italiana, mediante Convenzione ai sensi dell'art. 15 della L. 241 del 1990. (48) La suddetta decisione è stata adottata nei confronti di un magistrato fuori ruolo che aveva assunto l’incarico di Presidente provinciale di un partito politico. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 227 Con nota interlocutoria del 25 novembre la Scrivente ha ritenuto opportuno acquisire il punto di vista dell'Ente interessato, altresì patrocinato da questo G.U., tenuto conto del carattere di massima della questione e delle ricadute sui contenziosi in corso. Con nota del 20 dicembre 2010, pervenuta il 27 dicembre 2010, la Croce Rossa, richiamata la giurisprudenza in materia, ha sostenuto la possibilità dell’Ente di partecipare alle gare pubbliche per l'affidamento dei propri servizi istituzionali ma di poter risultare altresì assegnataria dei Servizi di gestione dei Centri di accoglienza mediante Convenzione pur temendo, in tale ultimo caso, l'esposizione a possibili iniziative giudiziarie da parte di potenziali affidatari. I- Sulla legittima partecipazione a gare pubbliche della CRI A quanto è dato dedurre dalla richiesta di parere, finora la CRI è stata sempre ammessa, in linea di principio, a gare per la gestione l’assegnazione dei servizi inerenti la gestione dei centri. Tale ammissibilità, tuttavia, è stata a volte posta in dubbio dagli aspiranti aggiudicatari che hanno eccepito l’incompatibilità tra l’appalto pubblico di servizi e l’attività di volontariato svolta dall’Ente de quo. Come sottolineato nella stessa richiesta di parere, sul piano interno si registra l'atteggiamento non univoco della giurisprudenza in materia: in particolare, nel richiamare le pronunce più significative si evidenzia che il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sent. 5891 del 2009 ha statuito nel senso che la CRI possa operare esclusivamente mediante Convenzioni, così come testualmente previsto dallo Statuto dell’Ente, dimodoché non sarebbe consentita la partecipazione dell’Ente alle procedure negoziali ad evidenza pubblica né la sottoscrizione dell’atto negoziale finale nel caso di avvenuta aggiudicazione della gara. D’altra parte, non mancano pronunce che affrontano la questione in termini diametralmente opposti (v. ad es. TAR Lombardia sent. n. 933 del 2005) ritenendosi, al contrario, che la circostanza che la CRI possa stipulare convenzioni per l’esercizio dei propri scopi istituzionali conferma la sua piena capacità quale ente pubblico, di concludere veri e propri contratti con le Amministrazioni interessate e quindi, di partecipare anche alla fase preliminare che si concretizza in una di quelle tipiche forme di scelta del contraente dirette a garantire, nella comparazione delle varie offerte, quella più vantaggiosa per l’Amministrazione. Il richiesto parere solleva una serie di questioni preliminari occorrendo chiarire, innanzitutto, quale sia la natura giuridica della Croce rossa e se la stessa possa rientrare nella nozione di “operatore economico” che, ai sensi della disciplina comunitaria e nazionale, è legittimato a partecipare alle gare d'appalto pubbliche. 1) Sotto il primo profilo si osserva che l'Associazione della Croce Rossa 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 italiana viene definita dall’art.1 del DPR n. 613 del 31 luglio 1980 (Riordinamento della Croce rossa italiana), nel testo sostituito dall’art. 7 del D.L. 20 settembre 1995, n. 390, convertito nella L. 20 novembre 1995, n. 490 come ente dotato, ad ogni effetto di legge, “di personalità giuridica di diritto pubblico” che, in quanto tale, è “soggetta alla disciplina normativa e giuridica degli enti pubblici". Tale natura risulta confermata: a) dal controllo esercitato dalla Corte dei Conti sulla gestione finanziaria dell’Ente, nelle forme di cui all’art. 12 della L. 21 marzo 1958, n. 259, così come previsto dall’ultimo comma dell’art. 7 del D.L. n. 390 cit.; b) dal beneficiare del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato; c) dalle modalità di svolgimento delle attività della Croce rossa, necessariamente ispirate ai criteri previsti per gli enti pubblici, nonché, per analoghi motivi; d) dalle modalità di reclutamento e gestione del personale (sul punto, tra le più recenti, anche Cons. di St. sentenza n. 7542 del 2010). L'assenza di finalità di lucro e le regole di gestione secondo un modello non imprenditoriale consentono, in definitiva, di ricondurre detto ente nell'alveo degli enti pubblici non economici. 2) La riscontrata natura giuridica pone, quindi, un problema di riconducibilità di detto ente alla nozione di “operatore economico” che, ai sensi della disciplina comunitaria e di quella interna, consente la partecipazione a gare pubbliche di appalto. Sul piano della disciplina comunitaria occorre richiamare l’articolo 1, comma 8, della Direttiva n. 18/2004 - relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi - che, dopo avere qualificato gli «appalti pubblici» come contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più “operatori economici” e una o più amministrazioni aggiudicatrici, con i termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designa una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che “offra sul mercato”, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi; la stessa norma specifica, altresì, che il termine «operatore economico» comprende l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi ed è utilizzato unicamente per semplificare il testo normativo. La definizione comunitaria di “operatori economici” trova riscontro, in ambito italiano, nell’articolo 3, commi 22 e 19, del codice dei contratti pubblici di cui al d. lgs. n. 163/2006, secondo i quali, rispettivamente “Il termine «operatore economico» comprende l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o consorzio di essi” e “ I termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica, o una persona giuridica, o un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi del decreto legislativo 23 luglio 1991, n. 240, che “offra sul mercato”, rispettivamente, la rea- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 229 lizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi”. L’articolo 3, comma 6, dello stesso Codice definisce, a sua volta, gli «appalti pubblici» come “i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una stazione appaltante o un ente aggiudicatore e uno o più << operatori economici >>, aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi come definiti dal presente codice”. L’art. 34 del medesimo Codice, inoltre, indica quali soggetti abilitati ad assumere commesse pubbliche relative a lavori, servizi e forniture gli imprenditori individuali, anche artigiani, le società' commerciali, le società cooperative, i consorzi, nonchè i soggetti che abbiano stipulato il contratto GEIE e, infine, gli operatori economici stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi (lettera aggiunta dalla lett. g) del comma 1 dell'art. 1 del D.Lgs 11 settembre 2008, n. 152). Dall'esame della giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia va innanzitutto osservato che, mentre in sede nazionale si tende a circoscrivere la partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici alle sole società commerciali, l'impostazione del diritto comunitario prescinde da limitazioni di tipo soggettivo. Per il diritto comunitario, in effetti, la nozione di “impresa” comprende qualsiasi ente che esercita un’attività economica consistente nell’offerta di beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (cfr. da ultimo, in tal senso, Corte di giustizia CE, sentenza 26 marzo 2009, causa C-113/07 P, Selex Sistemi Integrati/ Commissione e Eurocontrol). Si tratta quindi di una nozione dai confini molto ampi, che prescindono da una particolare formula organizzativa e dalla necessità di perseguire finalità di lucro (cfr. sul punto le conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs presentate il 1 dicembre 2005 nella causa C- 5/05, decisa con sentenza della Corte di giustizia CE 23 novembre 2006, nonché la sentenza della Corte di giustizia CE 29 novembre 2007, causa C-119/06, Commissione/Italia). Mentre, dunque, nella giurisprudenza comunitaria si riscontra una posizione che tende ad adottare una nozione di “operatore economico” più ampia possibile (che a fianco dell’imprenditore in senso stretto vede affiancarsi qualsiasi fornitore o prestatore di servizi, questi ultimi a loro volta descritti come persona fisica giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi) e funzionale alla più ampia applicazione della disciplina della tutela della concorrenza all’insegna del principio della irrilevanza della forma giuridica ai fini della partecipazione alle gare d’appalto (ad es. sent. 18 dicembre 2007 in causa C-357/06), sul fronte interno si registra un trend giurisprudenziale più rigoroso, la giurisprudenza amministrativa prevalente essendo orientata ad esempio, nel senso di escludere la legittimazione di 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 enti pubblici non economici o associazioni no profit a concorrere in gare d’appalto; si tende a ritenere infatti, che l’ammissione dei predetti soggetti alle gare d’appalto finirebbe col violare il principio della concorrenza, in quanto l’affidatario si troverebbe ineludibilmente a godere di una posizione di privilegio, dovuta ai flussi di finanziamenti pubblici costanti e prevedibili di cui beneficia (TAR Campania Napoli sez. I, 12 giugno 2002 n. 3411). Sulla base della medesima impostazione si segnalano, ancora, nel medesimo senso, le statuizioni che, nella ricerca del requisito dirimente ai fini dell’individuazione degli “operatori economici (cioè dei soggetti legittimati a partecipare alle gare per l’aggiudicazione di contratti d’appalto pubblico), lo individuano in quello della “offerta sul mercato” di certi servizi. Sulla base di tale criterio sarebbero operatori economici esclusivamente soggetti (non interessa se con o senza personalità giuridica) perseguenti istituzionali fini lucrativi o, comunque e al di là di tale specifica finalità lucrativa, che siano sottoposti in ogni caso allo “statuto” dell' imprenditore commerciale, nel quale sono comprese, com'è noto, le disposizioni sul fallimento e tutte le alte prescrizioni relative ai requisiti di affidabilità tecnica e finanziaria imposti ai partecipanti alle gare di aggiudicazione (come le norme sull'obbligo di tenuta delle scritture contabili e quelle sull'iscrizione nel registro delle imprese) (in tal senso Cons. St., sez. V, 23 maggio 2003, n. 2785); o, ancora, quelle sentenze in cui si interpretano le norme comunitarie di riferimento come significative dell'intenzione di circoscrivere il novero dei soggetti pubblici ammissibili alla contrattazione con le amministrazioni aggiudicatrici (nella materia degli appalti pubblici di servizi) solo a quelli che svolgono “istituzionalmente” quell'attività nella quale si risolve la prestazione che dovrà essere eseguita dall'appaltatore selezionato, potendo concorrere alle procedure selettive in questione solo gli enti pubblici che erogano le prestazioni oggetto del contratto, secondo i propri fini istituzionali ed in coerenza con i compiti lucrativi loro affidati dall'ordinamento, con esclusione quindi degli organismi universitari (Cons. St., sez. V, 29 luglio 2003 , n. 4327). Conforta l'interpretazione più rigorosa la posizione dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici che, confermando il suesposto atteggiamento restrittivo ritiene che “L’articolo 34, comma 1, lettere a), b), c), d) e) ed f), del d. Lgs. n. 163/2006 individua i soggetti cui possono essere affidati i contratti pubblici: tali soggetti rivestono la qualifica di “operatore economico”, termine con il quale si intende l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o un consorzio di essi. Ai sensi dell’articolo 3, comma 19, del decreto legislativo n. 163/2006, nel novero di detti soggetti sono comprese le persone fisiche, le persone giuridiche, gli enti senza personalità giuridica (ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico - GEIE) che offrono sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 231 La caratteristica che accomuna le figure sopra individuate è l’esercizio professionale di una attività economica. Giova richiamare al riguardo l’articolo 2082 del codice civile, secondo il quale “imprenditore” è colui il quale svolge un’attività con le seguenti caratteristiche: a) esercizio di un’attività economica, b) in modo professionale, c) mediante organizzazione, d) al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi. Gli elementi sopra richiamati consentono di individuare il discrimen fra gli operatori economici e quei soggetti, quali gli Enti pubblici non economici, le Università ovvero i Dipartimenti universitari, non rientranti in tale categoria, in quanto rivestono una finalità diversa dall’attività economica, come noto rivolta alla produzione di ricchezza”. Di qui la ritenuta non conformità a legge a detta dell’Autorità dell’affidamento di incarichi di progettazione alle Università o dipartimenti universitari stante il carattere tassativo dell’art. 34: in tal senso Deliberazione Aut. LL.PP. n. 119 del 18 aprile 2007. In tale contesto di fondo va, dunque, letta la sentenza della Corte di Giustizia C-305/2008 del 23 dicembre 2009 richiamata nella richiesta di parere, che, pronunciandosi su questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato proprio con riferimento alla possibilità per le Istituzioni universitarie e Istituti di ricerca o dipartimenti universitari - ovvero per degli enti pubblici non economici - di essere possibili soggetti affidatari di contratti pubblici ex art. 34 del D.lgs 163 del 2006, torna a statuire sulla nozione di operatore economico nonché di imprenditore”, “fornitore” e “prestatore di servizi” (ai sensi della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114), precisando che “il legislatore comunitario non ha inteso restringere la nozione di «operatore economico che offre servizi sul mercato» unicamente agli operatori che siano dotati di un’organizzazione d’impresa, né introdurre condizioni particolari atte a porre una limitazione a monte dell’accesso alle procedure di gara in base alla forma giuridica e all’organizzazione interna degli operatori economici”. “Uno degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici - ricorda ancora la Corte - è costituito dall'apertura alla concorrenza in misura più ampia possibile... ed è interesse del diritto comunitario che venga garantita la partecipazione più ampia possibile di offerenti ad una gara di appalto ...”. Sulla base di tali principi la Corte di Giustizia conclude - con riferimento al caso di prestazioni di servizi offerti da pubbliche università ma con considerazioni, a parere della Scrivente, suscettibili di estensione agli enti pubblici non economici in generale - nel senso che: 1) le disposizioni della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, ed in particolare quelle di cui al suo art. 1, nn. 2, lett. a), e 8, primo e secondo comma, che si riferiscono alla nozione di «operatore economico», devono essere interpretate nel senso di consentire a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato (quali le università e gli istituti di ricerca nonché i raggruppamenti costituiti da università e amministrazioni pubbliche), di partecipare ad un appalto pubblico di servizi. 2) la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa osta all’interpretazione di una normativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale che vieti a soggetti che, come le università e gli istituti di ricerca, non perseguono un preminente scopo di lucro di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, benché siffatti soggetti siano autorizzati dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell’appalto considerato. La sentenza si pone in continuità con la precedente statuizione della Corte (sentenza C-119/06), con cui si erano state ammesse a partecipare alle gare anche le associazioni di volontariato indipendentemente dal fatto che queste potessero presentare offerte economiche notevolmente inferiori a quelle dei concorrenti in virtù dei significativi risparmi di spesa sul personale (che in tali realtà opera titolo gratuito) e in ragione del minor prelievo fiscale applicabile. (Nel medesimo senso della decisione in commento anche sent. 7 dicembre 2000, causa C-94/99, ARGE, in cui la Corte di giustizia CE, in senso analogo precisa che gli enti pubblici che beneficiano di sovvenzioni erogate dallo Stato, che consentono loro di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli degli altri offerenti non sovvenzionati, sono espressamente autorizzati a partecipare a procedure per l’aggiudicazione di appalti pubblici). L’impostazione comunitaria tende, in effetti, a prediligere un tipo di concorrenza che non osta a comparare anche le diverse forme di offerta, derivanti da modelli organizzativi diversi (che ben possono rientrare nell’ampia nozione di “operatori economici” delineata a livello comunitario). La Corte, dunque, torna a basare le proprie statuizioni su di una impostazione tesa a privilegiare al massimo il principio di libera concorrenza includendo nella nozione di “operatore economico anche organismi pubblici che non perseguono un principale scopo di lucro, che non hanno una struttura d’impresa e che non assicurano una presenza continua sul mercato” essendo interesse del diritto comunitario che venga garantita la più ampia partecipazione possibile di offerenti ad una gara d’appalto (cfr. sentenza 16 dicembre 2008, causa C-213/07, Michaniki, e sentenza 19 maggio 2009, causa C-538/07, Assitur). L'impostazione di cui sopra, non è, peraltro, limitata in ambito comuni- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 233 tario la stessa trovando riscontro, sul fronte interno, anche in alcune decisioni del Consiglio di Stato in cui si conviene che la definizione comunitaria di impresa non discende da presupposti soggettivi, quali la pubblicità dell'ente o l'assenza di lucro, ma da elementi puramente oggettivi quali l'offerta di beni e servizi da scambiare con altri soggetti nell'ambito, quindi, di un'attività di impresa anche quando non sia l'attività principale dell'organizzazione: in tal senso Cons. di St. Sez. VI, sent. n. 3897 del 2009 sull'ammissibilità a gare pubbliche delle fondazioni (sulla interpretazione dell'art. 34 nel senso della legittima partecipazione delle ONLUS alle procedure di gara almeno per quanto concerne gli appalti sociali: Cons. di St., V, sent. 25 febbraio 2009 n. 1128). Alla luce di tali statuizioni non pare revocabile in dubbio che, attualmente, la Croce rossa italiana non possa essere esclusa da gare pubbliche per il solo fatto di essere qualificabile quale ente pubblico non economico ovvero in considerazione delle sue caratteristiche organizzative o, ancora, in considerazione dei finanziamenti che la stessa riceve da parte statale. Occorre chiedersi, tuttavia, se la presenza di tali finanziamenti e sovvenzioni finisca, in ogni caso, per riflettersi sul corretto svolgimento delle procedure di gara. Uno dei dubbi posti dal Giudice remittente innanzi alla Corte di Giustizia nella richiamata causa C-305/2008, concerneva, in effetti, proprio il rischio di alterazione della par condicio tra i partecipanti e il possibile effetto distorsivo della concorrenza, atteso il particolare regime di agevolazioni finanziarie di cui godono i predetti enti e la conseguente posizione di vantaggio rispetto ad altri soggetti che nel fornire i medesimi servizi nell’esercizio dell’attività di impresa, ne devono sopportare integralmente i relativi costi. Nel superare tale profilo, tuttavia, la Corte sottolinea che il principio della parità di trattamento non è violato, quanto meno in via astratta, per il solo motivo che le amministrazioni aggiudicatrici ammettano a partecipare alle procedure per l’affidamento di un appalto pubblico organismi che beneficiano di sovvenzioni, che consentono loro di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli dei concorrenti che non godono di tali vantaggi. Si legge, in effetti, nella sentenza C-305/208: “in ordine alla questione sollevata dal giudice del rinvio, di una possibile distorsione della concorrenza a motivo della partecipazione ad un appalto pubblico di enti che, come il ricorrente nella causa principale, vanterebbero una posizione privilegiata rispetto a quella degli operatori privati grazie a finanziamenti pubblici che vengono loro erogati, si deve sottolineare che il quarto considerando della direttiva 2004/18 enuncia l'obbligo per gli stati membri di provvedere affinché una distorsione di questo tipo non si produca per il fatto della partecipazione di un organismo di diritto pubblico a un appalto pubblico”. La Corte, inoltre, ricorda gli obblighi e le facoltà attribuite all'amministrazione aggiudicatrice dalle direttive in materia richiamando gli obblighi e 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 le facoltà di cui dispone un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 55, n. 3 della direttiva 2004/18 in caso di offerte anormalmente basse dovute alla circostanza che l’offerente ha ottenuto un aiuto di Stato. **** Alla luce di quanto sopra esposto, dunque, nel rispondere alla prima parte del quesito rivolto a questo G.U., è possibile ritenere che, allo stato, la sola eventualità di una posizione privilegiata dell’ente non può giustificare la sua esclusione tout court dal mercato. D’altra parte, può in concreto verificarsi che la particolare natura della Croce Rossa e la indubbia presenza di aiuti e finanziamenti pubblici finisca col riflettersi sulle procedure di gara (si pensi solo alle possibilità di utilizzo di personale in gran parte volontario ed ai possibili riflessi sulle offerte dei servizi richiesti). Se, come ricordato dalla Corte di Giustizia nella decisione sopra commentata, spetta al Legislatore interno evitare distorsioni della concorrenza, una piena partecipazione della CRI alle gare dovrebbe presupporre, de iure condendo soluzioni normative volte ad evitare simili effetti negativi (ad esempio, si potrebbe ipotizzare la separazione delle gestioni cui fanno capo i servizi suscettibili di affidamento in gare pubbliche da quelli sottoposti a finanziamento pubblico). Allo stato della normativa attuale, pur non potendosi negare l’ammissibilità in astratto della partecipazione della Croce Rossa a gare pubbliche di appalto, andrà, peraltro, attentamente considerato che l’offerta verrà sottoposta a rigorosa verifica dei requisiti richiesti dal bando e dalla normativa di riferimento al pari di quelle presentate dagli altri partecipanti. La valutazione della possibile distorsione della concorrenza, inoltre, anche se non potrà mettere in discussione il profilo relativo all'ammissibilità del soggetto a partecipare, stanti i principi sopra richiamati, tuttavia, non verrà eliminata ma si sposterà necessariamente nella fase a valle dell’ammissione rifluendo, eventualmente, nella problematica dell'anomalia dell'offerta. Spetterà, dunque, alla CRI valutare attentamente ed in relazione ai singoli casi, l’opportunità di partecipare alle gare di appalto pubbliche, da riservarsi, dunque, a limitati ed eccezionali casi, nella consapevolezza di un probabile contenzioso sollevato, in caso di aggiudicazione, da eventuali controinteressati che possano ritenersi lesi dall’avvenuta aggiudicazione alla Croce Rossa. II- Stipula di Accordi ex art. 15 L. 241 del 1990 La netta presa di posizione della Corte di Giustizia, sull'ammissibilità della partecipazione a gare da parte di enti pubblici non economici non risolve ma semmai, introduce nuove problematiche con riferimento alla risposta da dare alla seconda parte del quesito, ovvero se i servizi di gestione dei centri di accoglienza possano essere assegnati alla Croce Rossa italiana in via diretta, mediante Convenzione ai sensi dell’art. 15 della L. 241 del 1990. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 235 Nelle osservazioni rese dall’Ente interessato si sostiene che l’Ente CRI, oltre a poter liberamente partecipare a gare pubbliche secondo la giurisprudenza comunitaria sopra richiamata, potrebbe altresì risultare assegnatario di servizi di gestione dei Centri di accoglienza per immigrati mediante convenzione ex art. 15 della L. 241 del 1990 (cosa che, secondo l'Ente, risulterebbe indubbiamente vantaggioso per l’ente anche in termini strettamente finanziari) pur temendosi, in tal caso, azioni giudiziarie di soggetti interessati a partecipare alle gare i quali potrebbero invocare la normativa comunitaria. Si osserva, preliminarmente, che il nostro ordinamento consente all’Amministrazione sia di avvalersi di gare volte alla stipula di contratti a titolo oneroso (appalti pubblici) sia di affidare convenzionalmente determinati servizi ad amministrazioni pubbliche istituzionalmente competenti a fornire quelle prestazioni, a condizione che tale scelta risponda a criteri di economicità gestionale secondo i canoni enunciati dall’art. 1 della L. 241 del 1990. L’art. 15 della 241 del 1990 (Accordi tra Pubbliche amministrazioni) stabilisce, al riguardo, che le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. La giurisprudenza amministrativa non manca di riconoscere la facoltà degli Enti pubblici di affidare direttamente e senza obbligo di procedura di gara lo svolgimento di determinati servizi (in tal senso TAR Lombardia, sez. III, sent. 16 marzo 2005 n. 612 che ritiene legittimo l’affidamento diretto alla CRI mediante accordo di collaborazione ai sensi dell’art. 15 del servizio di trasporto infermi senza che ciò violi la normativa sull’appalto pubblico di servizi). Tale possibilità trova fondamento nelle norme istitutive della CRI oltre che nelle finalità statutarie dell'Ente. L’art. 5 del d. lgs 613 del 1980 dispone che la Croce Rossa italiana possa svolgere attività o servizi attinenti alle proprie finalità istituzionali per conto dello Stato, delle regioni o di altri enti pubblici, da regolarsi mediante convenzioni. Lo statuto vigente della CRI (DPCM 6 maggio 2005 n. 97) individua inoltre tra i compiti dell’Ente quello di (art. 1): - promuovere e diffondere, nel rispetto della normativa vigente, l'educazione sanitaria, la cultura di protezione civile e dell'assistenza alla persona, organizzare e svolgere in tempo di pace, servizio di assistenza socio-sanitaria in favore di popolazioni nazionali e straniere nelle occasioni di calamità e nelle situazioni di emergenza sia interne sia internazionali e svolgere i compiti di struttura operativa nazionale del servizio nazionale di protezione civile; - concorrere attraverso lo strumento della convenzione, ad organizzare ed effettuare con propria organizzazione il servizio di pronto soccorso e trasporto infermi nonché svolgere, fermo restando quanto previsto dall'articolo 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 70 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e nel rispetto della legislazione nazionale e delle competenze regionali, i servizi sociali ed assistenziali indicati dal presente statuto, in ambito internazionale, nazionale, regionale e locale; - concorrere al raggiungimento delle finalità ed all'adempimento dei compiti del Servizio sanitario nazionale con il proprio personale sia volontario sia di ruolo nonché con personale comandato o assegnato e svolgere, altresì, attività e servizi sanitari e socio-assistenziali per conto dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici e privati, attraverso la stipula di apposite convenzioni; - concorrere attraverso lo strumento della convenzione ad organizzare ed effettuare con propria organizzazione il servizio di pronto soccorso e trasporto infermi. Non sembra revocabile in dubbio, alla luce delle disposizioni richiamate, che la gestione di un centro di accoglienza per stranieri costituisca un servizio di carattere socio assistenziale suscettibile, in astratto, di formare oggetto di Convenzione con l'Amministrazione dell'interno sulla base del comune interesse allo svolgimento del servizio. Occorre, tuttavia, valutare se tali accordi siano compatibili con il diritto comunitario. In effetti, se da un lato è possibile affermare che la problematica dell’ammissibilità a gare dell’Ente CRI e quella relativa alla possibile stipula di convenzioni volte ad organizzare i medesimi servizi nell’interesse dell’Amministrazione dell’Interno si pongono su piani diversi nel senso che una non esclude a priori l'altra, tuttavia, le questioni in argomento sembrano toccarsi, specie ove si tenga presente che con la citata sentenza del 23 dicembre 2009, la Corte ha chiarito che la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è applicabile agli accordi a titolo oneroso conclusi tra un'amministrazione aggiudicatrice ed un'altra amministrazione aggiudicatrice, intendendo con tale espressione un ente che soddisfa una funzione di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale e che, quindi, non esercita a titolo principale un'attività lucrativa sul mercato. Occorre dunque verificare se la stipula di tali Accordi possa ritenersi lesiva dei principi stabiliti dal diritto comunitario e se gli stessi – come temuto dalla Croce Rossa, ove stipulati, possano dare adito a contenzioso con imprese che vedano sottrarsi fette di mercato da parte di enti pubblici non economici evidentemente privilegiati da finanziamenti e sovvenzioni e, dunque, preferiti ad operatori scelti in seguito a gare pubbliche. E ciò, nonostante la possibilità per i primi di partecipare su basi di parità alle gare medesime. Al riguardo deve osservarsi, in via preliminare, che la possibilità per le Amministrazioni pubbliche di adempiere ai propri compiti istituzionali attraverso modelli organizzativi diversi dall'indizione di gare non è esclusa in linea di principio dal diritto comunitario. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 237 La Corte di Giustizia, precisando i limiti di tale esenzione ha ribadito, in più sentenze (cfr. ad es. sentenza Coditel Brabant; 13 novembre 2008, causa C-324/07), la piena discrezionalità per un ente pubblico di procurarsi le prestazioni di cui necessita sia mediante appalti a terzi, sia attraverso strumenti di collaborazione o partenariato con altre autorità pubbliche. (Allo stesso modo si ammette, attraverso il diverso ma parallelo strumento dell'in house providing, di affidare l'attività a cui è interessata ad un altro ente che solo formalmente è distinto dalla propria organizzazione, ma su cui sostanzialmente essa esercita un controllo analogo a quello che espleterebbe nei confronti di un proprio servizio e che realizza con essa la parte più importante della sua attività). Anche nella causa C-480 del 2006 si ribadisce che le Autorità pubbliche “non sono obbligate a rivolgersi al mercato per l'espletamento dei propri compiti” dato che esse hanno “la possibilità di scegliere se ricorrere ai propri strumenti di tipo amministrativo tecnico o di altro tipo ed in tal caso non si applicano le direttive oppure al mercato ovvero ancora, operare attraverso accordi pubblici”. Particolarmente significativa al riguardo è la recente sentenza del 9 giugno 2009, causa C-480/06 che sancisce la legittimità di un accordo stipulato tra quattro Landkreise tedeschi e la citta' di Amburgo per lo smaltimento dei rifiuti trattandosi, secondo la Corte, non di appalto di servizi ma di cooperazione tra Enti in cui ciascuno è chiamato ad apporti specifici (conferimento dei rifiuti da parte delle circoscrizioni a fronte della disponibilità ad accogliere, in caso di emergenza, i rifiuti di Amburgo in discariche di loro proprietà alternative a quelle ormai sature della città di Amburgo), possibilità questa, che tuttavia, viene subordinata al verificarsi di una serie di presupposti (sussistenza di obiettivi di interesse comune, assenza di un profitto, mera remunerazione dei costi; condivisione di compiti e di responsabilità tra i due enti interessati). In tale contesto la Corte tuttavia, ribadisce che se, da un lato, il diritto comunitario non impone alle autorità pubbliche di ricorrere a particolari forme giuridiche per assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico, dall'altro, questo tipo di cooperazione non può «rimettere in questione l'obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri». Sulla scorta di tali principi, dunque, è possibile affermare che lo spazio demandato agli accordi ex art. 15 L. 241 del 1990 va ricercato nei limiti in cui attraverso tali accordi non si intendano eludere i principi di libera concorrenza e di parità di trattamento di cui al Trattato UE. Tali limiti non possono che essere individuati in quelli indicati dalla stessa giurisprudenza comunitaria nei pochi casi in cui detti Accordi sono stati ritenuti legittimi e rispettosi delle disposizioni comunitarie in materia ovvero: 1. l'accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effet- 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l'obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalita' istituzionali degli enti coinvolti; 2. alla base dell'accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilita'; 3. alla base dell'Accordo non deve esserci pagamento di un corrispettivo comprensivo di un margine di guadagno: l'unico scambio finanziario ammesso tra i partecipanti può essere solo un mero ristoro delle spese sostenute; 4. il ricorso all'accordo, in ogni caso, non puo' interferire con il perseguimento dell'obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto, come recentemente ricordato dalla determinazione Autorità per il lavori pubblici del 20 ottobre 2010 n. 7 nel richiamare la sent. Corte di Giustizia 9 giugno 2009 in causa C-480/06, “la collaborazione tra amministrazioni non può trasformarsi in una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme menzionate e gli atti che approvano l'accordo, nella motivazione, devono dar conto di quanto su esposto”. Tali limiti del resto, appaiono conformi ad una corretta lettura dell'art. 15 della L. 241 del 1990 che consente alle Amministrazioni coinvolte di disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. Se, dunque, le Amministrazioni, avvalendosi della modalità ad esse consentita dall'art. 15 svolgono un servizio secondo un modello di reciproca collaborazione in vista di un interesse comune, si avrà un modello di Accordo certamente in linea con i principi comunitari. Altro è, invece, utilizzare detto schema sostanzialmente allo scopo di affidare un servizio ad altro ente pubblico non economico per soddisfare un proprio interesse e dietro scambio di un corrispettivo. In tal senso particolarmente significativa la recente determinazione dell'Autorità per i lavori pubblici già sopra menzionata: “Strettamente correlato al ragionamento appena svolto è quello relativo al significato da attribuire all'espressione «per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune» di cui al primo comma dell'art. 15 della legge 241/1990, la cui formulazione, per quanto generica, sotto il profilo oggettivo pare circoscrivere, per le pubbliche amministrazioni, la possibilità di stipulare accordi alle ipotesi in cui occorra disciplinare un'attivita' che risponde non solo all'interesse di entrambe le parti, ma che è anche comune. In proposito si specifica che il citato art. 15 prefigura un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l'esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico, ossia in forma di «reciproca collaborazione » e nell'obiettivo comune di fornire servizi «indistintamente a favore I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 239 della collettivita' e gratuitamente» (cfr. Cass. civ., 13 luglio 2006, n. 15893). Si comprende allora perchè l'art. 15 in commento non risulti in contrasto con la normativa a tutela della concorrenza: nel caso in esame le amministrazioni decidono di provvedere direttamente con propri mezzi allo svolgimento dell'attività ripartendosi i compiti, il che vale a dire, trattandosi di una collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono un proprio contributo. Discorso diverso, invece, nel caso in cui un ente si procuri il bene di cui necessita per il conseguimento degli obiettivi assegnati a fronte del pagamento del rispettivo prezzo: in questa situazione, sia che ci si rivolga ad un privato, sia che ci si rivolga ad un soggetto pubblico, è difficile sostenere l'applicabilità dello schema della collaborazione, atteso che si è di fronte ad uno scambio tra prestazioni corrispettive che risponde alla logica del contratto e che perciò richiede, in assenza di altre circostanze esimenti, 1’espletamento di una gara pubblica”. Tornando al quesito in esame non vi sono motivi ostativi alla stipula, da parte di codesta Amministrazione, di Accordi che abbiano per oggetto la gestione dei Centri di accoglienza ma gli stessi, a parere di questo G.U., dovrebbero essere impostati su basi ben diverse del mero affidamento di una serie di servizi alla CRI dietro pagamento di un corrispettivo dovendo, piuttosto, svolgersi secondo modalità organizzative che vedano coinvolte entrambe le parti, con divisione di compiti e di responsabilità in vista di un interesse comune e scambi finanziari limitati al solo ripianamento dei costi. Con riferimento al limite di cui al punto 1) sopra enunciato, ovvero alla necessaria sussistenza di un interesse pubblico connesso agli scopi istituzionali propri delle amministrazioni coinvolte, ed al quesito con cui si chiede se sia possibile ricomprendere nelle stipulande Convenzioni anche servizi accessori, quali il servizio di mensa o di pulizia, ritiene la Scrivente che la Gestione dei Centri in senso ampio presupponga lo svolgimento di tutti i servizi collegati e serventi rispetto a tale complessiva finalità e, dunque, per oggettiva connessione, anche l’attività riconducibile ai servizi definiti come accessori. **** Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità. A.G.S. - Parere del 20 maggio 2011, prot. 170818, avv. Marina Russo, AL 14853/11. «Rimborso delle spese legali ex art. 3 comma 2 bis D.L. 543/96 e art. 18 comma 1 D.L. 67/97 - Parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato» Con la nota in riferimento, codesta Avvocatura sottopone alla Scrivente 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 il seguente quesito: se la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 10 bis comma 10 del d.l. 203/05 conv. in l. 248/05, da ultimo modificato dall’art. 17 comma 30 quinquies del d.l. 79/09 conv. in l. 102/09, comporti che l’Avvocatura dello Stato debba rendere parere di congruità sulla richiesta di rimborso delle spese di lite avanzate all’Amministrazione di appartenenza, a mente dell’art. 2 bis del d.l. 543/96, da soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei Conti definitivamente prosciolti, anche quando si tratti di soggetti dipendenti da amministrazioni non patrocinate dall’Avvocatura dello Stato. A tale proposito, l’Avvocatura Distrettuale esprime il proprio avviso negativo, fondato sulla considerazione che – in difetto di una norma specifica che ampli le competenze dell’Avvocatura dello Stato – il parere di congruità che la stessa è chiamata ad esprimere dal citato art. 10 comma 10 bis d.l. 203/05 non può che essere quello previsto dall’art. 18 del d.l. 67/97. La Scrivente condivide in linea di principio il parere di codesta Avvocatura, salva la precisazione che qui di seguito si illustrerà. L’art. 10 bis comma 10 d.l. 248/05 cit. – infatti – prevede: “10. Le disposizioni dell'articolo 3, comma 2-bis, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, e dell'articolo 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, si interpretano nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all'amministrazione di appartenenza”; A loro volta, l’art. 3 comma 2 bis del d.l. 543/96 conv. in l. 639/96 e l’art. 18 comma 1 del d.l. 67/97 conv. in l. 135/97, rispettivamente stabiliscono: “2-bis. In caso di definitivo proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dal comma 1 del presente articolo, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza”; “18. Rimborso delle spese di patrocinio legale. 1. Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 241 rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”. Va innanzi tutto chiarita la diversa portata soggettiva delle due norme (art. 3 comma 2 bis d.l. 543/96 e art. 18 comma 1 d.l. 67/97): mentre la prima si riferisce ai “soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti”, tra i quali rientrano anche i dipendenti di amministrazioni non statali (nel caso di specie si tratta, ad esempio, di una ASL), la seconda (art. 18 comma 1 d.l. 67/97) si riferisce testualmente ai “dipendenti di amministrazioni statali”, le quali devono richiedere il parere dell’Avvocatura in quanto sono soggetti da questa necessariamente patrocinati. Nell’interpretazione data all’art. 18 cit. dalla Scrivente, lo stesso è stato sempre inteso come unicamente riferito alle richieste di rimborso proposte da dipendenti di amministrazioni statali, con esclusione - quindi - delle richieste di dipendenti di enti che non possano qualificarsi come tali, e ciò finanche ove si tratti di enti che fruiscono del patrocinio dell’Avvocatura: ad esempio, nel caso della Croce Rossa italiana, il Comitato Consultivo della Scrivente ha affermato: “… la Scrivente … innanzi tutto osserva che il richiamo, contenuto nella nota in riferimento, all’art. 18 del d.l. n. 67 del 25 marzo 1997 conv. in l. 135 del 23 maggio 1997, quale fondamento normativo del rimborso in questione, non è pertinente. Infatti, la norma non è riferibile alla Croce Rossa Italiana in quanto … eccezionale, è di stretta applicazione, sicché la relativa portata non può essere estesa in via analogica a soggetti diversi dalle Amministrazioni dello Stato”. (nota n. 115492 del 29 ottobre 2007). Quanto sopra non esclude, peraltro, che enti diversi dalle amministrazioni statali possano comunque concedere ai propri dipendenti un rimborso, analogo o simile a quello previsto dall’art. 18 cit., se ciò sia previsto da altra norma, ed anche acquisire il parere dell’Avvocatura; quest’ultimo - però - solo a condizione che si tratti comunque di soggetti che - sebbene non qualificabili come Amministrazioni statali - siano ugualmente patrocinati dall’Avvocatura dello Stato. Qualora, invece, la domanda di rimborso riguardi un soggetto dipendente da un ente che né è Amministrazione statale, né è patrocinato dall’Avvocatura, il mero richiamo a detto parere, contenuto nell’art. 10 comma 10 bis del d.l. 203/05, non è certo sufficiente ad estendere anche ai suddetti enti l’obbligo di acquisirlo. Del resto, la norma in questione utilizza la formula “fermo restando il parere dell’Avvocatura”: essa - quindi - non innova il preesistente quadro normativo, bensì lo lascia impregiudicato (“fermo restando”). Resta, dunque, applicabile solo quanto già in precedenza stabilito, vale a dire l’obbligo di acquisire il parere di cui all’art. 18 cit. espressamente richiamato, ovvero il parere eventualmente contemplato da altra fonte normativa per soggetti diversi dalle amministrazioni statali, ma pur sempre patrocinati dall’Avvocatura. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Alla luce di quanto sopra, deve ritenersi che un’interpretazione dell’art. 10 comma 10 bis cit. che estenda ad enti non patrocinati dall’Avvocatura l’obbligo di acquisirne il parere sarebbe contraria ad ogni logica, nonché priva di appigli normativi di sorta. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. L E G I S L A Z I O N E E D AT T U A L I TA’ L’istituto del trattenimento in servizio ai sensi delle disposizioni del d.l. n.78/2010 Francesco Spada* Lo scopo del presente contributo è quello di svolgere alcune considerazioni sull’istituto del trattenimento in servizio, prendendo spunto da una recente deliberazione adottata dalla Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato (n. SCCLEG/19/2010/PREV), avente ad oggetto l’applicazione dell’articolo 9, comma 31 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78. Prima di esaminare il contenuto di tale pronuncia appare, però, opportuno ricostruire il quadro normativo attualmente vigente in materia di trattenimento in servizio e la sua applicazione giurisprudenziale. L’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, come modificato prima dall’articolo 1-quater del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, poi dall’articolo 33 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 e dall’art. 72, comma 7, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, ed infine dall’articolo 22, comma 2, della legge 4 novembre 2010, n. 183, così dispone: “È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’Autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi. La domanda di trattenimento va presentata all'amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento. I dipendenti in aspettativa non retribuita che ricoprono cariche elettive presentano la domanda almeno novanta giorni prima del compimento del limite di età per il collocamento a riposo. Per le categorie di personale di cui all'articolo 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, la facoltà di cui al comma 1 è estesa sino al compimento del settantacinquesimo anno di età”. L’originaria disposizione contemplava un diritto potestativo (1) alla permanenza in servizio del dipendente e prevedeva che, in caso di istanza, l’amministrazione non fosse titolare di discrezionalità nel disporre il trattenimento in servizio, dovendo accordarlo in ogni caso. Le modifiche intervenute successivamente hanno radicalmente mutato la disciplina della materia, prevedendo che l’istanza di trattenimento sia oggetto di valutazione discrezionale dell’amministrazione (2), da realizzarsi sulla base dei seguenti parametri (3): • esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione (4); • particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti (5); • efficiente andamento dei servizi. L’esercizio della facoltà dell’amministrazione di valutare discrezionalmente se accettare o meno la domanda di trattenimento è, dunque, limitato dalla norma all’esame degli specifici presupposti indicati. La circolare n. 10/2008 del Dipartimento della funzione pubblica ha, tra l’altro, fornito indicazioni alle amministrazioni in ordine all’applicazione (1) In questo senso Cass. n. 17776/2007; la giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, n. 4091/2007; TAR Campania, n. 3356/2006), invece, già a partire dall’entrata in vigore delle modifiche apportate alla materia nel 2004, riconosceva in capo all’amministrazione un ampio potere discrezionale sull’istanza di trattenimento. (2) In questo senso, TAR Sicilia, n. 19/2010; TAR Piemonte, n. 952/2010; TAR Abruzzo, n. 632/2010 e n. 539/2010; TAR Lazio, n. 33089/2010; TAR Puglia, n. 1394/2008. (3) Distinguono tra presupposti legati ai profili organizzativi generali dell’amministrazione e quelli legati alla situazione specifica soggettiva e oggettiva del richiedente TAR Piemonte, n. 287/2011 e Cons. St. n. 479/2011. (4) Nel senso che la normativa non pone sullo stesso piano i presupposti di accoglibilità dell’istanza di trattenimento in servizio, ma attribuisce un carattere preminente alle esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione rispetto alla specifica situazione del richiedente TAR Piemonte, n. 952/2010. (5) Nel senso che la normativa richieda, in particolare, una disamina relativa alla posizione del singolo dipendente, sia in relazione alla sua specifica esperienza che in relazione al servizio svolto TAR Lazio, n. 2732/2011. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 245 dell’art. 72 del decreto legge n. 112/2008, che ha modificato la materia, indicando l’opportunità della preventiva adozione dei criteri generali sui trattenimenti in servizio in ciascuna amministrazione, tenendo conto delle peculiarità di ognuna, così da evitare condotte contraddittorie ed incoerenti. Inoltre la stessa circolare ha evidenziato l’opportunità di valutare, per ogni istanza di trattenimento in servizio, il parere del responsabile della struttura nella quale il richiedente è inserito, precisando che il trattenimento, potendo avere la durata massima di un biennio, può essere accordato anche per un periodo inferiore al biennio. Infine, la circolare ha chiarito che la previsione dei termini per la presentazione dell’istanza da parte dell’interessato (dai 24 ai 12 mesi antecedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo) è funzionale alle esigenze organizzative dell’amministrazione nell’ambito della programmazione dei fabbisogni professionali (6). Più di recente, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia con il decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, contenente “misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, e con la relativa legge di conversione. In particolare, nell’ambito delle misure di contenimento delle spese in materia di pubblico impiego, l’art. 9, comma 31, del decreto legge n. 78/2010, prevede che: “Al fine di agevolare il processo di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, fermo il rispetto delle condizioni e delle procedure previste dai commi da 7 a 10 dell’art. 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i trattenimenti in servizio previsti dalle predette disposizioni possono essere disposti esclusivamente nell'ambito delle facoltà assunzionali consentite dalla legislazione vigente in base alle cessazioni del personale e con il rispetto delle relative procedure autorizzatorie; le risorse destinabili a nuove assunzioni in base alle predette cessazioni sono ridotte in misura pari all'importo del trattamento retributivo derivante dai trattenimenti in servizio. Sono fatti salvi i trattenimenti in servizio aventi decorrenza anteriore al 1° gennaio 2011, disposti prima dell'entrata in vigore del presente decreto. I trattenimenti in servizio aventi decorrenza successiva al 1° gennaio 2011, disposti prima dell'entrata in vigore del presente decreto, sono privi di effetti. Il presente comma non si applica ai trattenimenti in servizio previsti dall’art. 16, comma 1-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e, in via transitoria limitatamente agli anni 2011 e 2012, ai capi di rappresentanza diplomatica nominati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. (6) Nel senso della perentorietà del detto termine Trib. Catanzaro, 18 gennaio 2010. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Di conseguenza, la c.d. manovra d’estate ha inquadrato l’istituto del trattenimento in servizio nell’ambito del regime generale delle assunzioni che, come noto, si concretizza attraverso disposizioni volte a contenere il turn over nelle amministrazioni, diventando così anch’esso strumento fondamentale di gestione del personale ispirato a criteri di ottimizzazione e di razionalizzazione delle risorse. In particolare, il trattenimento in servizio viene equiparato, in termini finanziari, ad una nuova assunzione e deve essere gestito nei limiti del turn over (7), sia sotto l’aspetto della percentuale di assunzioni ammissibili in relazione alle unità cessate, sia rispetto alla percentuale di utilizzo delle economie derivanti dalle cessazioni, che costituisce l’ammontare delle risorse finanziarie disponibili. La disposizione contenuta nella manovra finanziaria di cui al decreto legge n. 78/2010 fa salva l’illustrata disciplina ordinamentale che consente all’amministrazione di accogliere la richiesta del dipendente sulla base di una valutazione effettuata alla stregua dei parametri già indicati e conferma i vincoli temporali di presentazione dell’istanza di trattenimento. Il trattenimento in servizio è, inoltre, inderogabilmente sottoposto ad autorizzazione ad assumere, come previsto dal regime vigente (articolo 35, comma 4, del decreto legislativo n. 165/2001): ciò significa che è necessaria l’adozione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di autorizzazione, previa richiesta dell’amministrazione interessata, corredata da analitica dimostrazione delle cessazioni avvenute nell’anno precedente e delle conseguenti economie e dall’individuazione delle unità da assumere e dei relativi oneri. L’accoglimento delle domande di trattenimento in servizio determina una riduzione delle risorse utilizzabili per nuove assunzioni in misura pari al costo sostenuto dall’amministrazione in relazione ai dipendenti trattenuti. Ai fini del calcolo della spesa, il costo relativo ad un dipendente trattenuto deve essere computato in misura pari all’importo del trattamento retributivo derivante dal trattenimento (trattamento economico fondamentale ed accessorio), con le stesse modalità utilizzate per il computo di personale proveniente dall’esterno dell’amministrazione (8). Il dipendente trattenuto può essere considerato cessato dal servizio solo una volta e precisamente all’atto dell’estinzione del rapporto di lavoro. La disciplina sul trattenimento si applica al personale dirigenziale e non dirigenziale, senza distinzioni tra personale in regime pubblicistico e personale contrattualizzato in regime privatistico. (7) Come è noto, infatti, il regime delle assunzioni prevede un doppio limite: uno fondato sulle unità cessate e l’altro relativo ai risparmi realizzati. (8) In questo senso, Circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 40 del 23 dicembre 2010. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 247 Infine la disposizione prevede un regime transitorio, facendo salvi tutti i trattenimenti in servizio aventi decorrenza anteriore al 1 gennaio 2011 e disposti prima dell’entrata in vigore del decreto legge n. 78/2010 e rendendo privi di efficacia i trattenimenti in servizio aventi decorrenza successiva al 1 gennaio 2011 e disposti prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto. Il nuovo regime esclude dall’ambito di applicazione i trattenimenti in servizio previsti dall’articolo 16, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 503/1992 e, in via transitoria, limitatamente agli anni 2011 e 2012, i capi di rappresentanza diplomatica nominati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. In giurisprudenza si è sostenuto che la nuova disciplina sul trattenimento in servizio riconosce all’amministrazione non la facoltà di rigettare, bensì la facoltà di accogliere con provvedimento motivato la richiesta, nel senso che la disciplina configura come ordinaria l’ipotesi del rigetto e, solo in via residuale, riconosce all’ente pubblico la legittimazione a trattenere in servizio l’interessato, dovendo peraltro enunciare per quali motivi il trattenimento si riveli in linea con gli interessi collettivi. A fronte di un’istanza di trattenimento in servizio, dunque, l’amministrazione deve valutare prioritariamente se tale ipotesi risponda innanzitutto alle proprie esigenze organizzative e funzionali e, soltanto ove tale valutazione dia esito positivo, passare ad esaminare il profilo professionale dell’interessato, in funzione dell’efficiente andamento dei servizi. E’ inoltre opportuno verificare se non sia possibile rinvenire all’interno dell’amministrazione le competenze necessarie e, pertanto, fungibili rispetto alla professionalità dell’istante: in particolare, si tratta di valutare se l’esperienza acquisita dall’istante si caratterizzi in maniera diversa da quella normalmente acquisita dai dipendenti che svolgono funzioni analoghe in ambiti precisamente individuati nel contesto dell’amministrazione, diventando così fondamentale l’analisi del curriculum professionale del richiedente e la comparazione dello stesso rispetto alle professionalità fungibili esistenti nell’amministrazione (9). Tali conclusioni interpretative si pongono in perfetta sintonia con gli altri interventi novellistici rintracciabili nel complesso dell’art. 72 del decreto legge n. 112/2008, che contempla, oltre a quella in esame, la fattispecie dell’esonero quinquennale dal servizio e quella della risoluzione del rapporto al raggiungimento dei quaranta anni di servizio effettivo, finalizzate tutte ad incentivare l’uscita dai ranghi della pubblica amministrazione del personale più vicino al (9) In un caso, la giurisprudenza ha dichiarato l’illegittimità del diniego di trattenimento fondato soltanto su ragioni di carattere finanziario e sui vincoli di bilancio dell’amministrazione, senza che si fosse proceduto ad una disamina della posizione del singolo dipendente in relazione alla sua specifica esperienza ed al servizio svolto (TAR Lazio, n. 7672/2009). 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 raggiungimento dei limiti pensionistici di anzianità o di vecchiaia, favorendo il più ampio e possibile ricambio generazionale, pur in un quadro complessivo di riduzione delle dimensioni dell’apparato pubblico. Si è, inoltre, affermato in giurisprudenza che il rigetto dell’istanza di trattenimento in servizio, in quanto atto di gestione del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, non è qualificabile alla stregua di provvedimento amministrativo autoritativo, dovendosi piuttosto definire atto di natura privatistica (10) adottato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001. Conseguentemente, ad esso non risulta applicabile la legge n. 241/1990 in quanto, esclusa la presenza di procedimenti e di atti amministrativi, il potere amministrativo autoritativo si trasforma in potere privato e si esercita mediante atti di natura negoziale: ciò comporta che nessun silenzio-assenso possa formarsi sull’istanza di trattenimento in servizio proposta e che, d’altra parte, non è necessaria alcuna diffusa motivazione del rigetto dell’istanza medesima. Né uno specifico obbligo di motivazione è ricavabile dalla normativa in materia in quanto, come detto, nell’impianto normativo il trattenimento in servizio costituisce eccezione alla regola della cessazione del rapporto di lavoro al raggiungimento dell’età massima prevista. In altre parole, il trattenimento è una deroga alla regola e, in quanto deroga, è il suo esercizio a dover essere supportato da idonea motivazione e non, invece, l’attuazione del regime normale. Inoltre, anche eventuali disparità di trattamento rispetto a casi analoghi nell’ambito della stessa amministrazione non potrebbero venire in considerazione, in quanto l’esercizio della facoltà di assentire il prolungamento in servizio oltre i limiti di età è deciso dall’amministrazione in riferimento ad una valutazione peculiare di ciascuna posizione in relazione sia alle esigenze organizzative e funzionali che all’insostituibilità del singolo dipendente, escludendo così che possa esservi comparazione tra diverse posizioni aventi ciascuna proprie caratteristiche. Ciò detto in termini generali sull’istituto in esame, è ora opportuno passare all’esame del contenuto della delibera della Corte dei Conti citata in precedenza. La deliberazione n. SCCLEG/19/2010/PREV adottata dalla Sezione centrale di controllo concerne l’applicazione dell’art. 9 del decreto legge n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010. Il fatto da cui la deliberazione trae origine può essere così sintetizzato: il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adotta, nel dicembre 2009, una determina di trattenimento in servizio di un dirigente di 2° fascia, con decorrenza successiva al 1 gennaio 2011. Inoltre allo stesso dirigente di (10) Nel senso dell’esercizio di poteri privatistici da parte dell’amministrazione in materia di trattenimento in servizio TAR Marche, n. 511/2009. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 249 2° fascia è successivamente conferito, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, un incarico di funzioni dirigenziali di livello generale, a decorrere dal luglio 2010 e per la durata di tre anni. Il d.P.C.M. di conferimento dell’incarico di 1° fascia perviene, per il prescritto controllo preventivo di legittimità, alla Corte dei Conti, che evidenzia alcune perplessità, tra le quali, pregiudizialmente, la validità del trattenimento in servizio (che è atto presupposto del d.P.C.M. di conferimento dell’incarico e che, in quanto tale, può essere riguardato dal controllo congiuntamente al provvedimento consequenziale (11)) avente decorrenza successiva al 1 gennaio 2011, presupposto del d.P.C.M. di conferimento di funzioni dirigenziali di livello generale, in considerazione del disposto dell’art. 9, comma 31, del decreto legge n. 78/2010. Il Ministero, interpellato dalla Corte, osserva di essersi completamente rimesso alle conclusioni cui è pervenuto, in materia, il Dipartimento della funzione pubblica, al quale la predetta problematica era stata rappresentata. Le deduzioni dell’amministrazione muovono dal condivisibile presupposto che la disposizione di cui al menzionato art. 9, comma 31 riconduce il trattenimento in servizio alla disciplina delle nuove assunzioni, con effetti importanti sulle politiche del personale, in quanto le amministrazioni devono valutare l’accoglimento della richiesta di trattenimento in servizio oltre che in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in specifici ambiti, in funzione dell’efficiente andamento dei servizi, anche in relazione all’onere finanziario da sostenere a valere sulle risorse assunzionali. Ciò premesso, tuttavia, le deduzioni dell’amministrazione pervengono alla conclusione che il conferimento di incarichi dirigenziali di prima fascia, ai sensi dell’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165/2001, non rientra nel regime delle assunzioni e delle relative procedure autorizzatorie fondate sull’utilizzo delle risorse finanziarie derivanti dalle cessazioni del personale. In sostanza, secondo il parere espresso dal Dipartimento della funzione pubblica, nel predetto regime rientrerebbero soltanto le assunzioni del personale non dirigenziale e dei dirigenti di 2° fascia, con la conseguenza che il trattenimento in servizio ricondotto a nuova assunzione non potrebbe essere esteso al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165/2001. La Corte ha correttamente respinto le argomentazioni addotte dall’amministrazione, rifiutando il visto e la conseguente registrazione del d.P.C.M. di conferimento di incarico di funzioni dirigenziali di livello generale. La Corte, rifacendosi ad un proprio precedente (Corte dei Conti – Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle Amministrazioni (11) In questo senso Corte dei Conti - Sez. Contr., n. 14/2005. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 dello Stato – delibera n. 14/2005/P), ribadisce che le disposizioni sul trattenimento in servizio non pongono nessuna distinzione tra personale delle aree e personale dirigente, né tra dirigenti di 1° fascia e dirigenti di 2° fascia. La ratio delle disposizioni intervenute nel 2010 è, d’altra parte, quella del contenimento della spesa per oneri di personale ed è indubitabile che il trattenimento in servizio oltre i limiti di età determina la corresponsione di trattamenti che il legislatore intende evitare. Al di là delle deroghe espressamente previste, le disposizioni del 2010 si applicano quindi a tutte le categorie di personale, inclusi i dirigenti e l’ampia discrezionalità di cui l’amministrazione dispone nella scelta dei vertici apicali non può travalicare i limiti posti dal legislatore. Peraltro la Corte osserva che, nel caso di specie, il decreto legge n. 78/2010 ha reso privi di effetto i trattenimenti in servizio aventi decorrenza successiva al 1 gennaio 2011 e disposti prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto (cioè prima del 31 maggio 2010). Nel caso in esame, alla data del 31 maggio 2010 (data di entrata in vigore del decreto legge n. 78/2010) la determina di trattenimento in servizio adottata nel dicembre 2009 non era più efficace, secondo il regime transitorio delineato dal decreto legge n. 78/2010, ed il successivo decreto di conferimento dell’incarico dirigenziale di 1° fascia, emesso nel luglio 2010, non poteva essere emanato perché in contrasto con l’art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, che prevede che in caso di primo conferimento ad un dirigente della 2° fascia di incarichi di uffici dirigenziali generali la durata dell’incarico è pari a tre anni. In conclusione, la Corte si pronuncia chiaramente su due questioni: • il citato art. 9, comma 31, del decreto legge n. 78/2010, che riconduce il trattenimento in servizio a nuova assunzione e lo sottopone alla relativa procedura autorizzatoria fondata sull’utilizzo delle risorse finanziarie derivanti dalle cessazioni di personale, deve ritenersi applicabile a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni ai quali la facoltà è stata conferita, senza operare distinzioni tra il personale delle aree ed il personale dirigente, né tra dirigenti di 1° fascia e di 2° fascia; • il decreto di conferimento ad un dirigente di 2° fascia di funzioni dirigenziali di livello generale ai sensi dell’art. 19, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbia quale presupposto un decreto di trattenimento in servizio divenuto privo di effetti con l’entrata in vigore del citato art. 9, deve ritenersi non conforme a legge, in quanto fondato su elemento essenziale caducato per effetto di legge. C O N T R I B U T I D I D O T T R I N A Il diritto e la giustizia nell’Italia medievale Antonio Tallarida* SOMMARIO: 1. Le invasioni barbariche - 2. Il diritto giustinianeo - 3. La dominazione longobarda - 4. La dominazione franca - 5. L’Italia bizantina - 6. L’età dei comuni e delle signorie - 7. I Normanni nell’Italia meridionale e insulare - 8. La riscoperta del diritto romano - 9. L’ordinamento canonico ed ecclesiastico - 10. Il diritto comune - 11. La difesa in giudizio dell’Erario - 12. Istituti di origine germanica - 13. Breve bibliografia generale. 1. Le invasioni barbariche 1.1 - Gli eventi storici che si sono susseguiti nel Medio Evo hanno segnato profondamente gli ordinamenti giuridici del territorio italiano. In particolare, sul finire dell’Impero Romano d’Occidente si verificò una nuova ondata di invasioni barbariche, dopo quelle degli unni e dei vandali della metà del secolo, ad opera degli Ostrogoti di Teodorico in Italia (493 d.C.), dei Burgundi di Gundobado nell’Alta Savoia e dei Visigoti di Alarico in Gallia e Spagna, con il loro corredo di costumi ed usanze, destinato a scontrarsi con il diritto romano vigente, a partire da Caracalla (212 d.C.), in tutto il territorio dell’impero. 1.2 - Durante questo periodo, la regolazione dei rapporti giuridici si conformò al principio della “personalità del diritto”, in base al quale veniva applicato il diritto della popolazione di appartenenza (quello consuetudinario per i germanici e quello romano post-classico per i romani). 1.3 - Le istituzioni amministrative preesistenti romane restarono in vigore, in quanto i re barbarici tesero a fregiarsi dei titoli romani (patrizio purpureo o (*) Vice Avvocato Generale dello Stato. Il presente scritto è una sintesi delle lezioni tenute dall’Autore presso la Scuola di Archivistica, paleografica e diplomatica dell’Archivio di Stato di Venezia per il corso 2010-2011. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 romano) per essere legittimati di fronte alle popolazioni occupate. Cambiò invece la struttura dell’organizzazione militare (articolata in decanus, centenarius, millenarius, ecc.) essendo i barbari essenzialmente un popolo- esercito, con a capo un duca o conte o re. L’apparato giudiziario dei barbari era ridotto al minimo, vigendo tra loro la giustizia privata (faida) o divina (ordalia) o il duello giudiziario e le corti si limitavano a constatarne l’esito. I rapporti giuridici privati erano caratterizzati da atti solenni (wadiatio) volti a rendere l’intera comunità, riunita in adunanza, edotta del contratto. Restarono immutate anche le istituzioni ecclesiastiche, come ordinamento a sé essendo i barbari di culto diverso. 1.4 - FONTI: Lex romana Wisigothorum o Breviarum Alarici (506), raccolta di leggi e iura, applicabili ai soli romani; Lex romana Burgundionum (500 ca.: idem); Edictum Theodorici (503), applicabile anche nelle controversie tra germanici e romani; Codex Euricianus (475), raccolta di consuetudini barbare; Lex Burgundionum o Gundobada (idem). 2. Il diritto giustinianeo 2.1 - Asceso al trono imperiale nel 527, Giustiniano, animato dall’intento di ricostituire l’unità giuridica e territoriale dell’Impero Romano, avviò l’opera di riconquista dei territori perduti e con l’esercito romano riuscì a battere i Goti e ad imporre il proprio potere su gran parte del suolo italico, oltre che sull’Illiria, la sponda africana mediterranea e la bassa Spagna. 2.2 - Perseguendo il suo disegno di restaurazione, Giustiniano diede incarico ad una Commissione, presieduta da Triboniano, di raccogliere e ordinare il diritto romano vigente. Né derivò una codificazione composta da quattro parti: • Il Codex vero e proprio (534), che riunisce le costituzioni imperiali già contenute nei precedenti codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodesiano e quelle di nuova emanazione; • Le Istituzioni (533), sorta di manuale di diritto, ispirato a quelle di Gaio; • Il Digesto (533), raccolta delle opinioni espresse dai più autorevoli giuristi classici sui vari istituti; • Le Novelle raccolta di 134 nuove costituzioni imperiali (Authenticum). Nell’emanare il Digesto, la costituzione Tanta vietò i commenti, consentendo solo indici e traduzioni, per cui a lungo si compilarono solo epitomi, sunti e parafrasi. 2.3 - La codificazione giustinianea rimarrà in vigore nell’Impero romano di Oriente, pur profondamente modificata (v. n. 5), mentre in Occidente ebbe scarsa circolazione per le vicende politiche che seguirono, fino alla sua risco- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 253 perta da parte della Scuola di Bologna (v. n. 8). 2.4 - FONTI: Il Corpus juris giustinianeo. Il più antico manoscritto del Digesto risale al sec. VI e trovasi nella Biblioteca Laurenziana di Firenze (c.d. Lettera fiorentina), mentre quello delle Novelle è custodito presso la Marciana di Venezia e quello delle Istituzioni del IX secolo si trova nella Biblioteca nazionale di Torino. 3. La dominazione longobarda 3.1 - A partire dal primo decennio del VI secolo, un’altra ondata di invasioni barbariche si abbatté sull’Europa romana, imponendo con le armi anche i propri ordinamenti. In Italia, in particolare, l’occupazione longobarda, iniziata nelle Venezie (vedasi il tempietto longobardo di Cividale), si estese poi alla Toscana, a Spoleto, Benevento, mentre ne rimasero fuori Venezia, l’ alta pianura padana, Padova, Piacenza, Modena, Ravenna, la Pentapoli, Parma, Napoli, Salerno. Inizia così la divisione della Penisola. 3.2 - A differenza delle precedenti invasioni barbariche, i Longobardi tagliarono ogni rapporto con l’Impero romano d’Oriente, abolirono le antiche magistrature e imposero il loro diritto consuetudinario, anche se rimase applicabile il diritto romano, come diritto consuetudinario, per i romani. Il diritto longobardo non conosceva distinzione tra diritto di proprietà e possesso. Si guardava al dato materiale, al rapporto fisico con la cosa. L’adprehensio della res giustificava il diritto di difesa della stessa. Il diritto di famiglia dei Longobardi era basato sull’istituto del mundio. Solo i capifamiglia non erano soggetti al mundio di altri soggetti, essi erano selpmundi. La donna, laddove mancavano il marito, ascendenti maschili e discendenti maschili in età matura, era soggetta al potere di un altro parente di sesso maschile o, in mancanza, di altro soggetto nominato dal re, il quale tra le sue funzioni annoverava la tutela degli orfani e delle vedove. 3.3 - Il Regno fu suddiviso in ducati, nei quali operavano lo sculdascio (funzionario delegato del duca) e il gastaldo (amministratore regio delle terre fiscali) con frequenti conflitti tra loro. Il Re manteneva compiti militari e assicurava l’unità del regime. Il sistema giudiziario fu improntato alla giustizia privata (faida, compositiones). Vi erano anche corti militari. In questo periodo si affermò l’economia curtense, ossia quella dell’azienda organizzata intorno al fondo e caratterizzata dal dominium del signore e dal massaricium (quota parte del prodotto dovuta al signore). La fara costituiva l’unità militare in cui i Longobardi si articolavano all’arrivo e la sala è il luogo dello stanziamento; arimanni sono gli uomini liberi. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Molti di questi termini passarono nell’idioma italico e sono rimasti tuttora in alcuni toponimi. 3.4 - FONTI: Editto di Rotari (643 d.C.), raccolta in 380 articoli di consuetudini longobarde; Editti di Liutprando (712-944), re cattolico, emanati “annuente Domino”. 4. La dominazione franca 4.1 - L’occupazione longobarda di alcune zone costiere adriatiche indusse il Papa a chiamare in aiuto i franchi di Carlo Magno che, sconfitto l’ultimo re longobardo (751 d.C.), ne occupò il Regno, facendosi incoronare re a Milano, il Natale dell’anno 800. Sopravvissero solo i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento (v. il placito di Capua del 960). L’ ultimo re franco, Carlo il Grosso, muore senza eredi nell’887. 4.2 - L’ordinamento carolingio così instaurato era fondato su un sistema di governo centralizzato, articolato in magistrature stabili costituite sia al centro che in provincia. Il Re era coadiuvato dal senescalco (soprintendente al palazzo), dal camerario (addetto al tesoro), dal cancellarius (redattore dei documenti regi) e dal conte palatino, capo dell’amministrazione. In provincia, il regno era suddiviso in contee, con al vertice il conte, coadiuvato da un vicario e, nelle circoscrizioni minori, dal centenarius. Il sovrano si avvaleva, per il controllo sull’amministrazione delle province, di missi ad hoc e di missi ordinari. Nelle regioni di confine, o marca, governava il margravio. In quest’epoca, il sovrano assunse in proprio la potestà legislativa, esercitata tramite i Capitularia (legibus addenda, se diretti ad integrare le norme di singoli popoli; per se scribenda, se validi per tutto l’Impero), che prevalevano su tutte le precedenti fonti (consuetudini e delibere dell’assemblea popolare). 4.3 - I conti carolingi esercitavano compiti militari, amministrativi e anche giudiziari, applicando il diritto consuetudinario e quello capitolare. Sotto i franchi si afferma il sistema feudale, incentrato su tre elementi: - commendatio - beneficiium (possesso precario) - immunità e poteri connessi (anche di giustizia locale). Il rapporto nasceva con l’investitura del vassallo, cui corrispondeva l’omaggio e il giuramento di fedeltà, comportante anche l’obbligo del consilium e auxilium al signore. La popolazione fu suddivisa in classi feudali (nobili, artigiani e commercianti, contadini). Il sistema originò una pluralità di ordinamenti e di giurisdizioni (corti popolari, corti signorili, corti feudali) con intreccio spesso inestricabile di competenze e di diritti, e determinò l’emersione della signoria territoriale, in grado di imporsi sul territorio (contee, ducati). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 255 4.4 - FONTI: Soprattutto i vari Capitularia (missorum generale 802, aquisgranense 809, de justitiis faciendi 813, ecc.), poi raccolti nei Monumenta Germaniae Historica - Capitularia: regnum Francorum, Hannover, 1883. 5. L’Italia bizantina 5.1 - Il territorio italico rimasto all’Impero d’Oriente dopo la conquista longobarda era ridotto a cinque province, che dipendevano dal prefetto pretorio d’Italia (sec. VI-VIII), con a capo un Esarca che risiedette a Ravenna fino alla occupazione di questa da parte dei Longobardi (751), che pose fine all’Esarcato. Anche la Sicilia cadde in mano straniera (gli arabi nel sec. IX). Nel sec. X nel resto del meridione fu istituito il Catapanato d’Italia che resse sino alla definitiva conquista normanna (1071). 5.2 - In questa parte d’Italia continuò ad essere applicato il principio della territorialità del diritto, costituito da quello giustinianeo, modificato in prosieguo da Leone III l’Isaurico con l’Ecloga (740), raccolta di usi orientali e di decreti imperiali. Successivamente furono pubblicate tre raccolte di consuetudini (i Nomoi: rustica, militaris, navalis), finché con Basilio I e il figlio Leone VI si addivenne alla pubblicazione dei Basilici, in 60 libri, che rielaboravano l’intera legislazione imperiale bizantina. Tuttavia la legislazione isaurica ebbe scarsa applicazione nell’Italia settentrionale, anche per l’autonomia conseguita da quelle terre e l’avversione della Chiesa (aderendo gli isaurici all’eresia iconoclasta), cosicché continuò ad applicarvisi il diritto giustinianeo. Nel restante meridione invece prevalsero il principio della personalità del diritto e le consuetudini locali. Si mantenne viva anche la tradizione dei documenti negoziali redatti da tabulari o notari, che si sforzavano di conciliare la prassi consuetudinaria con le rigide forme notarili giustinianee. 5.3 - La lontananza di Bisanzio favorì l’affermarsi di signorie ecclesiastiche o aristocratiche, con chiare tendenze autonomistiche e proprie istituzioni, anche nel campo della organizzazione della giustizia. Di quest’epoca è la progressiva affermazione della autonomia di Venezia, anche senza formale rottura con Bisanzio. Il territorio romano invece venne a ricadere nell’autorità del Pontefice, come patrimonio di S. Pietro. 5.4 - FONTI: Ecloga privata aucta; Ecloga ad Prochiron mutata; Prochiron (forma volgarizzata delle precedenti). 6. L’età dei comuni e delle signorie 6.1 - Alla fine della dinastia Carolingia (887), era seguita una serie di 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 guerre intestine (tra Berengario, marchese del Friuli e Guido, duca di Spoleto) terminata con il subentro dei Re di Germania, gli imperatori Ottone I, II e III, con i quali si scavalca il millennio, e che assunsero anche il titolo formale di Re d’Italia. La Constitutio de Feudis di Corrado il Salico rese trasmissibile il feudo (1026). Federico Barbarossa venne però sconfitto a Legnano (1176) dalla Lega Lombarda, segnando la vittoria della lotta comunale. Con la successiva pace di Costanza (1183) si affermò definitivamente in Italia quella che è stata definita la civiltà dei comuni, incentrata sul predominio dell’adunanza popolare. 6.2 - Nascono gli statuti comunali, specie nelle città, con il lento formarsi di un potere centrale (i Rettori) che tende a contrapporsi al Signore (o Margravio) lontano. Gli Statuti avevano l’obiettivo di fissare le norme consuetudinarie vigenti e di imporne il rispetto a tutti sul territorio. Da questo momento, la modifica di queste norme è subordinata alla revisione statutaria. Essi si componevano di 3 elementi (non sempre presenti): le consuetudini comunali, i brevi (impegno formale del podestà di rispettare le norme vigenti) e le delibere assembleari (di diritto privato, criminale e organizzativo, nonché regolanti la revisione statutaria affidata a correctores). Era altresì previsto negli stessi che i giudici applicassero le norme statutarie o in loro assenza le consuetudini locali o in mancanza il diritto comune (v. n. 10). Quest’ultimo rinvio al diritto comune mancava però negli Statuti di Jacopo Tiepolo di Venezia (1242) dove in tal caso si demandava al giudice di decidere “sicut justum et aequum eorum previdentia apparebit” (forse a causa della inadeguatezza delle norme giustinianee ai rapporti commerciali marittimi, tant’è che analoga previsione era contenuta nel Constitutum legis di Pisa del 1233). 6.3 - L’affermarsi della città contribuì a far emergere la figura del mercante e allo sviluppo dei traffici e dei commerci. Si formarono così le corporazioni di arti e mestieri, regolate da statuti propri (vedasi anche le Scuole Piccole di Venezia). Peraltro, la complessità dell’ordinamento contribuì nel tempo (sec. XIII) al passaggio dal governo repubblicano del Podestà al regime signorile, con l’affermarsi di un gruppo o di una famiglia sulle altre. L’amministrazione della giustizia non fu più esercitata da corti popolari, ma dal Signore, che assumeva anche l’autorità amministrativa e quella militare. A Venezia si ebbe invece tutt’altro sviluppo, rimanendo il governo saldamente in mano all’aristocrazia cittadina, riunita nel Maggior Consiglio che CONTRIBUTI DI DOTTRINA 257 eleggeva il Doge, con una complessa procedura. 6.4 - FONTI: I vari Statuti comunali La Tavola Amalfitana (sec. XI): raccolta di usi marinari. 7. I Normanni nell’Italia meridionale 7.1 - La conquista normanna dell’Italia meridionale iniziata nel Sud della Penisola (1015) fu legittimata dal Pontefice (Leone IX) che investì Roberto il Guiscardo di una concessione feudale, comportante per converso il riconoscimento del territorio come Terra Ecclesiae: di qui il tradizionale omaggio feudale del Re e dei grandi feudatari ai Papi. Successivamente, il fratello Ruggero I d’Altavilla invase la Sicilia – allora occupata dagli arabi – e vi instaurò un dominio militare. Le due parti vennero quindi riunite in un unico dominio ed elevate a regno, con incoronazione del re Ruggero II a Palermo (1130), sempre come vassallo del Papa. Alla morte di questi, il Regno fu conquistato da Enrico VI di Svevia, marito di Costanza, sorella del re defunto, cui successe, nel 1198, Federico II, sotto il quale il Regno raggiunse il massimo splendore. 7.2 - I Re normanni avviarono da subito una attenta politica istituzionale e legislativa. In particolare, nella riunione di Ariano (1140) l’assemblea popolare approvò le Assise, ossia un complesso di leggi regie che abolirono tutte le precedenti consuetudini “manifestissimamente contrarie” ad esse (le altre furono mantenute in vigore) e disciplinarono ex novo una serie di materie (pupilli e orfani, arte medica, responsabilità penale dei minori, successione intestata) nonché l’ordinamento feudale e quello ecclesiastico (benefici, reliquie, diritto d’asilo, ordinazione sacerdotale, matrimonio, ecc.). Esse inoltre attribuirono al Re la cognizione di alcuni reati gravi (lesa maestà, sedizione, falso, adulterio, violazione dei luoghi sacri, omicidio, ecc.). 7.3 - Nell’organizzazione della giustizia, furono istituiti i giustizieri provinciali che esercitavano le competenze giurisdizionali del Re ed i baiuli nei territori demaniali. Nelle città furono nominati giudici che applicavano il diritto locale, mentre la Curia regis (o grandi giustizieri) decideva in ultima istanza. Si deve a questi sovrani la definitiva introduzione del sistema feudale nel Regno e la redazione di un Catalogus Baronum che registrava le grandi signorie. Dopo la crisi della successione, le Assise di Capua (1220) intesero restaurare l’ordinamento precedente, confermando il potere regio, l’articolazione degli ordinamenti, le prerogative regie di passo, dogana, porto e mercato, il sistema feudale, la restituzione alla Chiesa dei beni usurpati dai laici, l’organizzazione della giustizia, il controllo contabile con tre magistri rationales. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 L’ordinamento svevo-normanno proseguì anche sotto i conquistatori angioini (1266) che si limitarono a sostituire con francesi i titolari dei vari uffici regi. Essi però, fermi gli ordinamenti particolari, introdussero la collecta, una imposta personale, senza consultare l’assemblea popolare, il che scatenò la rivolta detta dei Vespri siciliani (1282) che portò alla consegna dell’isola al sovrano di Aragona (Pietro III), spezzando l’unità del regno e dando origine al periodo spagnolo. Nel Regno di Napoli, i Capitoli di S. Martino (1283) comportarono una riduzione dei poteri del sovrano a favore di quelli dei signori feudali o ecclesiastici e della stessa giustizia regia (limitata a pochi reati). Venne inoltre a consolidarsi, specie sotto Roberto d’Angiò (1309-1343), la grande signoria baronale e ad affermarsi le libertà cittadine, con conseguente fiorire degli Statuti, per definire le consuetudini vigenti. Nel Regno di Sicilia vi fu un parallelo indebolimento dell’autorità regia a favore di quella dei signori feudali (già alla fine del sec. XIII era stato abolito l’assenso regio alla vendita dei benefici feudali), con formazione di contee immuni dalla giurisdizione del sovrano. Anche nei confronti della Chiesa si rinunciò ad ogni ingerenza nella scelta dei titolari. Inoltre fu istituito un Parlamento (1396), non però elettivo ma composto da dignitari, conti, baroni, ecclesiastici, ecc., con il compito di decidere in materia di difesa militare e altre questioni comuni. 7.4 - FONTI: Le Assise di Ariano, di Ruggero II (1140); le leggi di Guglielmo II (1166-1185), specie in campo feudale, conservatesi nel Liber augustalis; il Liber Augustalis di Federico II (1231); i Capitoli di San Martino (1283). 8. La riscoperta del diritto romano 8.1 – Si deve ad Irnerio, giurista della Scuola di Bologna, agli inizi del secolo XII, la progressiva riscoperta della compilazione giustinianea (a partire dal Digestum Vetus, i primi 22 libri del Digesto, e poi il Novum (i libri 39-50), l’Infortiatum (i libri restanti), il Codex, il Volumen parvum, le Istituzioni e le Novelle). I testi giustinianei vennero studiati e interpretati dai Glossatori (così chiamati perché scrivevano le loro osservazioni tra le righe o a margine del testo) suddivisi in quattro generazioni (Irnerio - i 4 dottori: Bulgaro, Martino, Ugo, Procopio - Piacentino, Azzone e altri - Jacopo Colombi, Accursio). Questi studiosi posero attenzione anche agli usi feudali e la relativa raccolta (ad opera prima di Oberto dell’Orto, poi di Ardizzone e quindi di Accursio) fu inserita nel Corpus juris giustinianeo riscoperto. Essi si dedicarono soprattutto alla ricostruzione filologica dei testi. I bro- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 259 cardi sono enunciazioni di principi generali, tuttora frequentemente citati anche nella pratica forense. 8.2 - Dopo una serie di studiosi dediti alla interpretazione della lettera della norma, c.d. postaccursiani, attivi nella seconda metà del sec. XIII, si venne affermando, specie in Francia, un diverso approccio ai testi di legge volto a ricostruire il sistema e la ratio legis. Tale indirizzo prese il nome di scuola dei Commentatori, i principali dei quali furono Cino da Pistoia († 1314), Bartolo da Sassoferrato († 1357), Baldo degli Ubaldi († 1400), il card. Zabarella († 1417) e Antonio da Budrio. 8.3 - I Commentatori apportarono un contributo decisivo alla dottrina giuridica medievale, grazie alla individuazione di un sistema unitario e complessivo del diritto, in cui potevano rientrare tutti gli ordinamenti particolari, ai quali si applicavano le categorie e i principi desunti dalla compilazione giustinianea e dalle raccolte canoniste (v. n. 10). Essi si dedicarono anche alla esegesi degli Statuti, di cui si preoccuparono di fondare la legittimità a fronte del silenzio delle fonti giustinianee, ricorrendo o alla teoria della permissio (da parte di Federico I alle città della Lega lombarda con la pace di Costanza) o alla jurisdictio (secondo Bartolo da Sassoferrato ogni ordinamento feudale, comunale, imperiale - in cui si articolava l’Impero - aveva una sua norma ed organizzazione valida nel proprio ambito) e allo studio delle norme consuetudinarie locali. 8.4 - FONTI: Il Corpus juris civilis, nella edizione a stampa, a cura di Dionisio Gotofredo, Ginevra 1583, più volte riedita. 9. L’ordinamento canonico ed ecclesiastico 9.1 - Secondo la concezione della Chiesa, il diritto si articolava nelle due categorie del diritto divino (Sacre Scritture, tradizione dei Padri, diritto naturale) e diritto umano (ecclesiastico, canonico, secolare). Fonte prima del diritto canonico furono i Concili (che emanavano canoni) e le decisioni (decretales) del Pontefice. Queste furono raccolte nella Vetus Romana, nella Collectio Isidoriana (V sec.) e nella Collectio Dionysiana, cui si aggiunsero raccolte delle Chiese locali, i Libri poenitentiales e raccolte spesso falsificate dell’età franca. Seguì la Lex canonica compta del IX sec. 9.2 - La corruzione imperante nei costumi della Chiesa diede vita, per reazione, a un intenso movimento riformatore monastico (partito dall’Abbazia benedettina di Cluny) volto a restaurare lo spirito cristiano originario. Il Decretum canonum di Burcardo (1012-1022) confermò il programma riformistico. Presto si sviluppò una contrapposizione tra la Chiesa e la Casa imperiale, che rivendicava a sé il potere di investire il titolare delle dignità ecclesiastiche. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 La lotta delle investiture fu conclusa dal Concordato di Worms (1122), tra Enrico V e Callisto II, che attribuì al Papa la consacrazione dei Vescovi e all’Imperatore la concessione del beneficio. 9.3 - Per sottrarre il Papa al condizionamento della curia e dell’impero, un decreto del 1059 attribuì l’elezione del Pontefice al Collegio dei Cardinali. Un altro decreto (Dictatus Papae), questo di Gregorio VII (1075), riordinò l’organizzazione ecclesiale e attribuì la giurisdizione al Papa. La successiva rinascita degli studi del diritto romano ebbe l’effetto di stimolare anche la revisione del diritto canonico, con la raccolta delle varie fonti (Decretum del monaco camaldolese Graziano 1140), il lavoro esegetico dei glossatori canonisti (Magna glossa di Giovanni Teutonico del 1216, rielaborata da Bartolomeo da Brescia) e la compilazione di varie Summae (ad esempio, quella di Uguccione da Pisa). 9.4 - FONTI: Concordia discordantium canonum (o Decretum), raccolta del monaco Graziano di varie norme tratte dalle Sacre Scritture, canoni precedenti, liber poenitentialis, scritti dei Padri della Chiesa, capitolari carolingi, breviarium Alarici; Quinque compilationes antiquae, utilizzate nel Liber Extravantium di Gregorio IX (1234); Liber Sextus di Bonifacio VIII (1298); Liber Septimus (raccolta delle decretali successive, 1317). Nel 1500, il giurista francese Giovanni Chiappuis raccolse tutte le precedenti fonti in una edizione a stampa, denominata Corpus juris canonici. 10. Il diritto comune 10.1 - L’intuizione di Irnerio che il complesso della compilazione giustinianea, ricomposto nella sua originaria interezza, rappresentasse una sostanziale unità normativa, fu espressa nella denominazione data allo stesso di Corpus juris civilis, trasposizione sul terreno normativo di quell’ideale unum jus che - nella coscienza del tempo - corrispondeva all’unum imperium. 10.2 - Quest’unum jus che abbracciava in un tutto armonico la norma e l’organizzazione divenne lo jus comune (già Gaio aveva parlato, in altro senso, di “omnes populi ... partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur”) nel quale convivevano appunto gli ordinamenti particolari. Si ebbe così il fenomeno di un diritto antico e immutabile a fronte di un diritto particolare e vivente, che affondava le sue radici nel fatto naturale della sua stessa esistenza, non potendo un popolo non avere una propria regola. Esso pertanto rappresentava un sistema eterogeneo il cui fattore unificante fu costituito dalle università e dai giuristi che in una situazione di pluralismo di ordinamenti e di fonti seppero coordinare gli elementi più disparati e ne fecero un sistema “ aperto” a differenza di quello “tradizionalmente chiuso” so- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 261 pravvenuto con l’epoca codicistica, inaugurata dal codice napoleonico. 10.3 - Il sistema del diritto comune, allora, non era altro che un complesso normativo in cui una pluralità di ordinamenti giuridici particolari conviveva nell’ambito di un ordinamento universale e primario, dalle due facce, temporale e spirituale, alle quali corrispondevano i due diritti (utrumque ius), civile e canonico. “Da quell’ordinamento generale, essi derivano e ad esso rifluiscono, in un rapporto fondamentale che lega intrinsecamente tra loro questi elementi di un tutto” (CALASSO). 10.4 - Questo diritto di matrice romanistica è destinato a rimanere vigente nell’Impero germanico fino al 1 gennaio 1900, data di entrata in vigore del nuovo codice civile tedesco. 11. La difesa in giudizio dell’Erario 11.1 - Tra le eredità lasciate dal diritto romano ai secoli successivi e al diritto comune vi è la figura dell’advocatus fisci. Si trattava della carica istituita dall’imperatore Adriano, sulla base di alcuni precedenti (procuratores Caesaris), per la tutela degli interessi fiscali nei vari giudizi. Essa si rapportava alla distinzione tra Aerarium, consistente nel tesoro pubblico o patrimonio del popolo e Fiscus, patrimonio dell’imperatore, dove le ragioni del primo erano in origine giudicate dalle stesse autorità preposte al ramo di amministrazione interessato dalla controversia, mentre quelle del secondo erano devolute ai giudici. Di qui la necessità di una sua rappresentanza e difesa in giudizio, affidata stabilmente ad advocati fisci, nominati tra i funzionari più elevati in grado o a singoli procuratores incaricati di volta in volta. L’ufficio fu ricoperto anche da prestigiosi personaggi, quali Settimio Severo e Papiniano. Sotto Costantino essi furono denominati anche patroni fisci. 11.2 - Nell’epoca Giustinianea, l’ufficio di advocatus fisci fu ricoperto dai decani del Collegio degli avvocati sia in provincia che presso il Prefetto Pretorio e provvedeva a sostenere la difesa dello stato in giudizio. Secondo le fonti, è da ritenere che essi potessero promuovere anche azioni di natura penale, sempre a tutela delle ragioni del fisco, funzione questa che li avvicinava agli advocati de parte publica che si trovano menzionati nei Capitolari carolingi e che potevano ricorrere al duello giudiziario per risolvere la controversia ed ottenere la confisca dei beni dell’accusato. 11.3 - Negli stati medievali e nel diritto comune il concetto di fisco venne a riassumere in se ogni diritto dello stato e della persona del sovrano, anche attraverso il travisamento delle fonti romane. Avvocato fiscale divenne perciò il rappresentante in giudizio della sovranità dello stato e degli interessi dell’imperatore. La conseguenza fu il diffondersi dell’istituto, sotto varie denominazioni, negli stati medievali. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Così in Francia, alla fine del XIII secolo gli advocati o procuratorers regis rappresentavano il re in tutti gli affari civili e penali nonché in quelli politici avanti ai parlamenti, con funzioni anche punitive. Nel 1331 si trova menzione di due distinti avvocati: uno ecclesiastico per le cause civili e uno laico per quelle penali. Avvocati fiscali trovansi menzionati anche negli Statuta della città di Milano (1386) e successivamente nelle Nuove Costituzioni di Carlo V, con il compito di tutelare le ragioni del fisco e di partecipare alla istruzione delle procedure criminali. A Venezia avvocati della Serenissima Signoria esistevano da antica data: due di essi erano nominati, senza scadenza, dal Consiglio dei Dieci. Nessuna controversia che coinvolgesse l’interesse della Repubbica poteva essere trattata senza il loro intervento ed assistenza. Presso la Curia romana vi erano un procurator fiscalis per le cause penali e un commissarius camerae che rappresentava il pubblico Erario in quelle civili. Nel regno di Sicilia, sotto la dominazione spagnola, due avvocati del fisco patrocinavano avanti la Gran Curia che aveva giurisdizione su tutte le cause feudali, allodiali, civili e criminali. Nel regno di Napoli un fisci patronus esercitava avanti la regia Camera della Sommaria. 11.4 - Il tema della difesa in giudizio delle pubbliche ragioni passa quindi attraverso la distinzione tra interessi pubblici (erario) e interessi privati del sovrano e si colloca nell’area del pubblico potere ancora indifferenziata, a metà tra le funzioni del giudice, del pubblico ministero e dell’avvocato di parte. Solo con l’affermarsi della divisione dei poteri e l’emergere dello Stato di diritto, la figura dell’avvocato erariale acquisterà una sua precisa autonomia. 12. Istituti giuridici di origine germanica Il susseguirsi delle varie dominazioni straniere ha determinato una frequente contaminazione tra diritto romano e diritti consuetudinari delle popolazioni barbariche. Sono inoltre rimasti a lungo in vigore particolari istituti giuridici, di cui resta traccia nei documenti dell’epoca e negli ordinamenti successivi. Ecco un breve elenco di dette situazioni: allodio: terre non soggette a vincoli feudali; arimannie: colonie militari longobarde lungo i confini, gestite da guerrieri liberi, in cui gli abitanti del villaggio hanno diritto di pascolo e legnatico. Sono terre inalienabili (Fiwaide); censi: aggravi perpetui su beni immobili a vantaggio di una persona fisica o di un ente, consistenti nell’obbligo di pagare una somma o di dare una quota di prodotto (consegnativo o riservativo); compascui: diritti di pascolo o legnatico a favore di comunità agrarie o CONTRIBUTI DI DOTTRINA 263 locali, in base a concessioni regie o feudali; decime: obbligo di versare il decimo dei prodotti della terra al signore che concede il fondo (dominicali) o alla Chiesa in cambio della sua opera a favore dei fedeli (sacramentali); fida e pensionatico: apertura al pascolo delle terre dopo il raccolto (da ottobre a marzo). La fida era la tassa da pagare, considerata una regalia. Nel Veneto si chiamava pensionatico ed era dovuto anche dal proprietario che voleva far pascolare il gregge sulle proprie terre; guidrigildo: prezzo dovuto alla vittima o ai suoi eredi per evitare la vendetta privata; ingrossazione: operazione di arrotondamento mediante permuta o vendita di particelle incluse o confinanti, per migliorare la resa dei terreni; livello: obbligazione di pagamento, in cambio di concessioni di terre, rinnovabili pagando il laudemio. Poteva essere di carattere consegnativo (con solo un dominio utile al proprietario), comune o locativo, o su vendita livellare (allorchè l’acquirente si obbligava a pagare una prestazione annua). Vi era facoltà di affrancazione. Venezia rese nel 1797 affrancabili tutti i canoni enfiteutici, livellari, censuari; mundio: potere - dovere di tutela esercitato da un soggetto capofamiglia (di sesso maschile e libero, definito mundualdo) su un altro soggetto considerato dall’ordinamento non pienamente capace di agire. L’etimologia è da ricercare nel termine munt, che significa difesa, protezione; oneri reali: obblighi di prestazioni in natura o in denaro gravanti sui beni immobili (come i censi), che si trasmettono con il trasferimento di questi; proprietà: in origine spettava al gruppo o alla famiglia e non si distingueva dal possesso (Gewere). Peraltro, anche il carattere assoluto della proprietà romana si era, col tempo, andato attenuando, con l’introduzione dell’imposta fondiaria, sotto Diocleziano, gravante solidalmente su tutti i proprietari in una circoscrizione territoriale, cosicché le terre dell’insolvente venivano aggregate a quelle del vicino ed i coloni non potevano abbandonare la terra coltivata per non pregiudicare gli interessi dell’Erario. Furono nel tempo anche introdotti obblighi di coltivazione del gelso (per i bachi da seta), o ad orto e rape (per assicurare l’alimentazione) o a grano o ad olivi (specie a Padova e Treviso) o per bonifica agraria. Nel Medioevo si affermò anche il diritto di espropriare i beni dei privati per pubblico interesse dietro pagamento di indennità (per aprire vie, costruire mura, scavare fossi di difesa, ecc.) in forza del banno imperiale. Molte terre erano imperiali e si discuteva se l’Imperatore ne avesse la proprietà o solo il dominio eminente o generale. Il glossatore Bulgaro era per 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 la seconda tesi e per questo non fu ricompensato con un cavallo dall’Imperatore che aveva posto il quesito: “amisi equum quia dixi aequum”. I grandi commentatori erano favorevoli anch’essi alla tesi della divisione del dominium, che si estendeva anche alle terre incolte; regalie: diritti attribuiti all’Imperatore (dalla Dieta di Roncaglia del 1158 a Federico Barbarossa) stabiliti nella Constitutio de regalibus (inserita nel Corpus juris) su beni sottratti alla proprietà privata (arimannie, porti, vie pubbliche, fiumi navigabili, ecc.) o sulle miniere e cave (1/10 al fisco) o sulla caccia (soltanto il signore feudale poteva cacciare nelle terre loro soggette), sulla pesca e sulle foreste (per assicurarne la conservazione che interessava particolarmente Venezia); successione: nel diritto longobardo, era sconosciuto il testamento e l’erede non era responsabile, con i propri beni, dei debiti ereditari, salvo che questi fossero stati contratti con la wadia, fino a quando Liutprando dispose la separazione dei beni. Anche la necessità della formale accettazione dell’eredità (cretio) non era prevista e l’erede subentrava nel possesso dei beni ereditari per effetto della morte (“mortuus aperit oculos viventis”). In diritto feudale si afferma il principio che i discendenti succedono l’uno all’altro per investituram patris et avi, senza bisogno di adizione. Invece, a Venezia, era indispensabile che l’erede, per entrare in possesso dell’eredità, lo chiedesse al giudice, che provvedeva con decreto, senza pregiudizio di eventuali diritti dei terzi. Quanto alla capacità di succedere, l’età feudale segnò un peggioramento della condizione dello straniero (o albinus), ritenuto incapace (a differenza di quanto disponeva il diritto longobardo che però gli vietava ogni alienazione). Altra causa di incapacità a succedere era prevista per i professi (essendo come morti al secolo) e per gli enti religiosi (perché godendo dell’esenzione fiscale incidevano negativamente sull’economia comunale): fino ad epoca recente è rimasta in vigore la necessità dell’autorizzazione governativa per gli acquisti degli enti morali. Una causa di indegnità a succedere era, oltre alla morte civile per aver commesso gravi delitti (in diritto romano era la capitis deminutio), il non aver vendicato la uccisione del padre (si mortem propinqui vindicasti, heres inveniris), come portato dei fieri costumi medievali, rimossa sotto l’influsso della Chiesa. La stessa possibilità di rinunciare all’eredità non era concepibile nella tradizione longobarda, basata sul gruppo familiare nè in quella franca, senza uscire dalla propria gens. Anche per gli altri, tale atto fu sempre visto con ostilità, quasi rappresentasse un’offesa al defunto. Particolare era la situazione della donna. Per i longobardi era posposta ai maschi; per i franchi, la legge salica la escludeva dai beni immobiliari (e dalla CONTRIBUTI DI DOTTRINA 265 successione regia): con il tempo si allargò la successione muliebre e il sistema di successione basato sulla parentela femminile (cognatio). Per quanto riguarda la possibilità di disporre post mortem, dei propri beni, questa era ristretta a quelli acquistati in vita, mentre per i beni aviatici (d’origine familiare) occorreva il consenso dei parenti. Talora sul regime successorio incideva la loro provenienza paterna o materna; wadia: scommessa, promessa solenne. 13. Breve bibliografia generale Per un esame generale dello stato e dell’evoluzione del diritto nell’epoca medievale, si possono consultare i seguenti testi, rinviando alle indicazioni e alle note degli stessi per ogni ulteriore approfondimento: 1. M. ASCHERI, Il modello del diritto comune (Atti del Convegno internazionale di Macerata, 30 settembre -1 ottobre 2005). 2. M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Il Mulino, Bologna, 2001. 3. F. CALASSO, Diritto (le basi storiche), voce dell’Enciclopedia del diritto, IX, Giuffrè, Milano,1964, 822. 4. AA.VV., L’ Avvocatura dello Stato - Studio storico-giuridico, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1976. 5. P.S. LEICHT, Storia del diritto italiano, Giuffrè, Milano, 1960 e 1972. 6. F. CALASSO, Medioevo del diritto, I (Fonti), Giuffrè, Milano, 1954. 7. E. BESTA, Storia del diritto italiano, Giuffrè, Milano, 1947. 8. A. SOLMI, Storia del diritto italiano, Società editrice libraria, Milano, 1930. 9. G. VOLPE, Il Medio Evo, Sansoni, Firenze, 1926. 10. G. PACCHIONI, Corso di diritto romano (Le fonti), Utet, Torino, 1918. 11. A. PERTILE, Storia del diritto italiano, Utet, Torino, 1896. 12. U. TAMBRONI, Avvocature erariali, voce del Digesto Italiano, volume IV, parte II, Utet, Torino, 1893 - 1899, 719. 13. M. FERRO, Dizionario del diritto comune e veneto, Santini, Venezia, 1847. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Il regime della nullità dell’atto aministrativo secondo il codice del processo amministrativo Felice Ancora* SOMMARIO: 1. Presentazione - 2. L’introduzione della figura dell’atto amministrativo nullo - 3. Tre soluzioni adeguatrici. 1. Presentazione Da più autori (1) sono state espresse perplessità sul regime della rilevazione della nullità e, poi, della pronuncia di accertamento di quest’ultima, dettato dagli articoli 31, comma 4 e 73, comma 4 del Codice del processo amministrativo. E’ stata, in particolare, ravvisata una sperequazione tra la circostanza che l’accertamento della nullità può essere proposto solo entro il termine di 180 giorni a partire (presumibilmente) dalla conoscenza o pubblicazione dell’atto (2), e la circostanza che la nullità può essere sempre opposta dalla parte resistente, mentre non è stato reputato un temperamento significativo la circostanza che la nullità può sempre essere rilevata d’ufficio da parte del Giudice. Si danno degli elementi per una prassi applicativa soddisfacente anche nei confronti delle esigenze del ricorrente, che appare penalizzato dal termine di 180 giorni. Il problema si presenta con particolare acutezza allorché l’atto nullo è presupposto di un altro atto impugnato, ma è risultato per lungo tempo dissimulato, sicché non è stato impugnato nei 180 giorni dalla sua conoscenza o pubblicazione e, viceversa, è riconosciuto come tale attraverso le prospettazioni della controparte, interessata evidentemente a sminuire la incisività dell’atto impugnato, contraddicendo l’apparenza che aveva indotto ad individuare quest’ultimo come l’elemento centrale della sequenza di atti produttiva del risultato a lei sfavorevole (3). (*) Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Cagliari. Il presente articolo costituisce ampliamento di omonima comunicazione inviata dall’Autore al Convegno del Centro italiano di studi amministrativi (CISA) su “Il codice amministrativo a sei mesi dalla sua entrata in vigore”, Roma, Libera Università LUSPIO, 13 aprile 2011. (1) V. ad esempio, ROBERTO CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo, alla ricerca dell’effettività perduta, in www.giustizia amministrativa, 28 luglio 2010, 8 e G. VELTRI, Le azioni di accertamento, adempimento, nullità ed annullamento nel Codice del processo amministrativo, in www.giustizia amministrativa, 24 febbraio 2011. (2) Su questo ci si soffermerà in seguito. (3) V. E. PICOZZA, La nuova legge sull’azione e sul procedimento amministrativo. Considerazioni generali. I principi di diritto comunitario e nazionale, in Cons. Stato, 2005, IV 1419 e ss., in specie 1432, dove è manifestata l’esigenza di un regime dei termini per far valere la nullità particolarmente temperato quando ciò avvenga incidentalmente, nonché M. RAMAIOLI, Legittimazione ad agire e rile- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 267 Si hanno – e si devono avere – consistenti ragioni per attribuire al Legislatore la massima razionalità e la consapevole esclusione di esiti discriminatori ai danni del ricorrente. Si propone per questo una interpretazione che armonizza le tre procedure per rilevare, o far rilevare, la nullità del processo e, cioè, per introdurre nel processo la valutazione della nullità e per condurre, quindi, all’accertamento della stessa con ogni conseguenza. 2. L’introduzione della figura dell’atto amministrativo nullo L’istituto della nullità dell’atto amministrativo è stato introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, sotto forma di un articolo 21-septies aggiunto alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (4). Tale disposizione non ha dettato una normativa sostanziale completa, mentre non ha dettato alcuna normativa processuale. La normativa sostanziale dettata al momento non era completa e tuttora non è stata completata espressamente (5). Può dirsi che l’articolo 27-septies ha riprodotto la formulazione dell’articolo 1418 del Codice civile, evidentemente con il sottinteso del rinvio alla disciplina della nullità dettata dal Codice civile in generale per i contratti. Questa disciplina imperniata sugli articoli 1421, 1422 e 1423 non è però vabilità d’ufficio della nullità, in Dir. Proc. amm., 2007, 999 e ss., in specie sul punto, 1019. V. anche, per una spiegazione delle diverse tattiche processuali dissimulatrici o simulatrici di un rapporto di presupposizione tra atti e della interferenza con esse della qualificazione come nullo dell’atto precedente, F. ANCORA, Le fattispecie quali componenti della dinamica dell’ordinamento. Tipi, combinazione, anomalie, Torino 2005, 299-301 e 308-311 e L’individuazione dell’atto amministrativo presupposto, in Giurisdizione amministrativa, 2009, IV, 293 e ss., in specie 293-296, 300-302 e 311-312. (4) Gli apporti di dottrina sono molto numerosi e riesce difficile citarli tutti. Per quelli anteriori alla novella del 2005 si segnalano R. CARANTA, L’inesistenza del provvedimento amministrativo, Milano 1990 e A. BARTOLINi, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino 2002. Per quella successiva si segnalano: S. DE FELICE, Della nullità del provvedimento amministrativo, in www.giustizia amministrativa, 2005; M. D’ORSOGNA, La nullità del provvedimento amministrativo, in La disciplina generale dell’azione amministrativa a cura di V. CERULLI IRELLI, Napoli 2006, 959 e ss.; L. MAZZAROLLI, Sulla disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi (art. 21 septies della l. n. 241 del 1990 introdotto con la l. n. 15 del 2005), in Dir. proc. amm., 2006, 543 e ss.; D. PONTE, La nullità del provvedimento amministrativo, Milano 2007; A. ROMANO TASSONE, L’azione di nullità e il giudice amministrativo, in www. giust. amm., 2007; C. VARRONE, Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in www.giust. amm., 2007; N. PAOLANTONIO, Nullità dell’atto amministrativo, in Enc. dir. Aggiornamento, Milano 2007, 855 e ss.; M.L. MADDALENA, Comportamento e nullità provvedimentali: prospettive di tutela tra g.o e g.a., in Dir. amm., 2007, 543 e ss.; M. RAMAIOLI, Legittimazione ad agire e rilevabilità d’ufficio della nullità, in Dir. proc. amm., 2007, 999 e ss.; S. VINTI e D. CAPOTORTO, L’azione di nullità nel processo amministrativo, Milano 2008; A. CARBONE, La nullità e l’azione di accertamento nel processo amministrativo, in Dir. amm., 2009, 793 e ss.; F. LUCIANI, L’invalidità e le altre anomalie dell’atto amministrativo. Inquadramento teorico, in V. CERULLI IRELLI, L’invalidità degli atti amministrativi, Torino 2009, 16 e ss.. (5) Con questo si esprime che la normativa sostanziale della nullità, non è stata a tutt’oggi oggetto di integrazioni espresse, ma ha ricevuto indirettamente integrazioni dalla normativa processuale (al riguardo, v. in seguito, paragrafo 3, lettera D). 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 una base solida e consistente. Già originariamente era molto meno netta e scolpita di quanto sembri (6); in ogni caso sin dall’origine si confrontava con quella recata da altri diversamente ispirati (7). E’ stata ulteriormente messa in discus- (6) Gli articoli citati, e cioè, 1423, 1421 e 1422, sembrano fare da preciso contrappunto agli articoli 1444, 1441 e 1442, sull’annullabilità. Da essi è affermato da una parte, che: il contratto nullo non può essere convalidato, la nullità può essere fatta valere da chiunque abbia interesse, l’azione di nullità non è soggetta a prescrizione. E’ affermato, dall’altra che: il contratto annullabile può essere convalidato, l’annullamento del contratto può essere richiesto solo dalla parte, l’azione di prescrizione si prescrive in cinque anni. Tutto ciò, però, è un’impressione. Ora, a parte la convalida, per la quale, la disposizione relativa agli atti nulli è veramente contrapposta a quella relativa agli atti annullabili, per quanto riguarda, sia la rilevabilità, sia la prescrizione i due regimi giuridici sono molto meno contrapposti di quanto sembrino. E’ vero che in forza dell’articolo 1441 la annullabilità può essere fatta valere da una cerchia ristretta di persone, ma è anche vero che l’articolo 1421 conferisce la possibilità di esercitare l’azione di nullità, non a chiunque, ma solo ai titolari di un interesse ad agire di cui all’articolo 100 del Codice di procedura civile (e, cioè, a coloro che sono in grado di dimostrare la necessità di ricorrere al Giudice per evitare una lesione attuale del proprio interesse individuale), mentre quando stabilisce un potere ufficioso da parte del Giudice di rilevare la nullità, dà per scontata la sottoposizione al vincolo del principio della domanda, stabilito dagli articoli 99 e 112 del codice di procedura civile. Ancora, (circa la prescrizione) a creare una differenza di trattamento, non è tanto la differenza tra contratto nullo e atto annullabile, quanto quella tra contratto eseguito o non eseguito: è vero che l’azione di nullità (senza esecuzione) è imprescrittibile e che l’azione di annullamento è assoggettata a prescrizione, ma è anche vero che rispetto a tale azione è equivalente l’eccezione di annullamento, imprescrittibile allorché il contratto non è stato eseguito, così come è anche vero che in caso di esecuzione del contratto nullo, l’azione di ripetizione di indebito è assoggettata a prescrizione, sicché non è più possibile far valere l’invalidità del contratto dal punto di vista (decisivo) dei suoi effetti, allo stesso modo di quello che accade nel caso di esecuzione del contratto annullabile, a parte la differenza, solo quantitativa, che in un caso la prescrizione è decennale, nell’altro è quinquennale. Per tutto ciò, v. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela esecutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Riv. dir. proc., 1991, 92-95 e R. SACCO, Nullità e annullabilità, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino 1995, 302-303 e 308-309. (7) La disciplina delle invalidità dettata dagli articoli considerati (e, cioè 1418, 1423, 1443, 1421, 1441, 1422 e 1442) già in partenza aveva un ambito delimitato perché riguardava solo i contratti. Lasciava fuori i rapporti di famiglia, le successioni e gli atti societari, per i quali erano stabiliti trattamenti atipici (progressivamente divaricatisi) contrassegnati da disparati nomi (da quello di impugnabilità a quello di inefficacia). In più, al di sotto della apparenza di una formulazione in termini recisi, la disciplina considerata stabiliva salvezza per trattamenti diversi, che già nella formulazione originaria del Codice erano frequenti anche nella stessa materia dei contratti, specialmente in ordine all’efficacia e alla esecuzione, nonché alle conseguenze sananti delle stesse (quindi anche con riflessi sulla sanatoria e la convalida). Per un aspetto, e, cioè, quello dell’efficacia, da un lato, si aveva (e si ha) che non solo il matrimonio nullo, ma anche la parte di contratto nullo che concerne la devoluzione ad arbitri di eventuali controversie, producono effetti, il contratto nullo produce effetti tributari, la nullità del contratto in coesistenza con la nullità per altra causa non determina pregiudizio nei confronti dei diritti acquisiti dal terzo acquirente in buona fede (v. art. 1445), dall’altro lato, si aveva (e si ha) il caso di contratti validi che, però non producono effetti (indipendentemente dall’operare di condizioni o termini), come è per il comodato ai sensi degli articoli 1722 e 1723. Per l’altro aspetto, e, cioè, quello dell’esecuzione, si aveva (e si ha), da un lato, che per il testamento nullo eseguito dall’erede o per la donazione nulla eseguita dopo la morte del donante, l’esecuzione, comunque, trasferisce la proprietà ed è intangibile nonostante la nullità del negozio (artt. 509 e 799), per le donazioni informali di modico valore la consegna della cosa sana la nullità della promessa, dall’altro lato, che per i contratti di gioco, pur considerati validi consegue l’irripetibilità della prestazione, allo stesso modo di come l’irripetibilità consegue ai contratti che sono nulli perché conclusi CONTRIBUTI DI DOTTRINA 269 sione e resa recessiva da disposizioni nuove, di ispirazione per lo più comunitaria, che sono volte ad assicurare una protezione efficace e duttile a specifici interessi meritevoli (donde la comune espressione di nullità di protezione) e che per questo hanno stabilito regimi di nullità tra loro notevolmente diversificati in relazione all’interesse e ai soggetti da tutelare e comunque caratterizzati dalla inclusione di elementi comunemente propri della annullabilità, specie per quanto riguarda la parziale efficacia del contratto e la restrizione della legittimazione a far valere lo stato viziato, pur se spesso in coesistenza con la rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice (8): v. ad esempio il Codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, nella parte relativa alle clausole vessatorie e, cioè, in particolare, all’articolo 36, e le nuove parti del Codice civile sulle vendite di beni di consumo e, cioè, in particolare gli articoli 1519-bis e 1519-nonies, od anche, ancora la legge 28 febbraio 1985, n. 47 sul condono edilizio, nelle parti relative alle comminatorie di nullità e, cioè, agli articoli 13, 17 e 18 (9). E’ stata allo stesso modo, messa in discussione dalla per cause turpe (v. da un lato, art. 1933, dall’altro artt. 1325, 1343 e 2035). Ancora, riguardo l’efficacia, si ricorda che ai sensi dell’articolo 2652, n. 6, se la domanda diretta a far dichiarare la nullità o a far pronunciare l’annullamento è trascritta 5 anni dopo la data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede. Allargando l’osservazione al regime dell’annullabilità, che dovrebbe essere connotato dall’efficacia dell’atto, si nota che la giurisprudenza ammette che il contraente convenuto per l’adempimento possa ottenere l’assolutoria, invocando incidentalmente l’annullabilità, ma senza chiedere l’annullamento, ciò, in quanto l’ultimo comma dell’articolo 1442 contemplerebbe una fattispecie di pura annullabilità (v. Cass. 30 marzo 1989, n. 1556, in Arch. civ. 1989, 837). Per tutti questi svolgimenti, nonché per la constatazione che le diverse quattro formule di trattamento che si rinvengono nel Codice, e, cioè, quelle del negozio nullo soggetto a sanatoria, del negozio nullo capace di produrre l’irripetibilità del pagato, del negozio valido con effetto limitato alla irripetibilità del pagato e del negozio valido consistente in una dichiarazione seguita da consegna, sono del tutto equivalenti, v. R. SACCO, Nullità e annullabilità, in Dig. disc. priv. Sez. civ., cit., 298-300 e 304-306. (8) Su questo tipo di nullità, tra i tanti, v.: G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Padova 1995, passim; P.M. PUTTI, Nullità (nella legislazione comunitaria) in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, Appendice, XVI, Torino 1997, 680 e ss. e poi, più di recente, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, Napoli 2002; N. SCALISI, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Europa e diritto privato, 2001, 495-503; e più di recente, Il contratto e l’invalidità, in Riv. dir. civ., 2006, I, Atti del Convegno per il cinquantenario della rivista, 241 e ss.; M. GIORLAMI, La nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali. Per una teoria della moderna nullità relativa, Padova 2008, passim, ma in specie 322 e ss.. (9) Alle disposizioni citate si aggiungono moltissime altre previste da normative di settore, qualche volta introdotte come novelle al codice civile, altre volte no. Si citano al riguardo le disposizioni che, quanto ai contratti di agenzia, prevedono una nullità che colpisce le statuizioni più sfavorevoli nei confronti dell’agente (articoli 1748, comma 6 e 1761, comma 8 c.c.), quanto ai contratti conclusi fuori dai locali commerciali, stabiliscono che il diritto di recesso è irrinunciabile e che ogni pattuizione in contrario è nulla (v. art. 10 del dlgs. 15 gennaio 1982, n. 50), quanto ai contratti di credito al consumo, prevedono diverse cause di nullità a vantaggio del contraente debole, caratterizzate dalla legittimazione solo in capo al cliente e dal mantenimento di parziale efficacia al contratto (v. artt. 117, 118 e 127 del dlgs. primo settembre 1993, n. 385), quanto alla responsabilità del produttore, prevedono la nullità di qualsiasi patto che esclude o limiti nei confronti del consumatore danneggiato la responsabilità da prodotto difettoso (v. d.P.R. 24 maggio 1988 n. 244, art. 12), quanto ai contratti di intermediazione finanziaria, pre- 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 recente normativa di diritto societario, nella quale la nullità, pur avendo un’area più estesa di quella dell’annullabilità, ha molti elementi in comune con questa (dalla relatività, ai ridotti termini per farla valere). Ulteriormente, si nota che la disciplina evocata (cioè quella degli articoli 1418, 1421 e 1422) si confronta con il regime differenziato ed articolato dalla nullità stabilito dai diritti processuali, oggetto di elevatissima riflessione dottrinaria (10) e di particolare rilievo per gli atti amministrativi perché accomunati agli atti processuali dall’importante elemento di essere inseriti in un procedimento, e si confronta, altresì, ormai con il diritto comunitario, che, all’articolo 264 del Trattato, sul funzionamento dell’Unione Europea, in definitiva, confonde tra nullità e annullabilità e all’articolo 277, sempre dello stesso Trattato, introduce una forma di disconoscimento incidentale della efficacia di un atto, una volta scaduti i termini per impugnarlo, per risultati praticamente simile ad un accertamento di nullità. Esiste, quindi, almeno una relativa lacuna nel regime sostanziale dell’atto amministrativo nullo, avvertita soprattutto riguardo l’elemento della efficacia e che, come prospettato poc’anzi e salve successive conferme, si presta ad essere colmata nel senso di un parziale riconoscimento positivo, e cioè della non sanzionabilità dei comportamenti attuativi di quell’atto, senza, per altro, considerare illecito il comportamento opposto e, quindi, in definitiva, nel senso di collegare l’atto nullo ad una condizione di incertezza. La normativa processuale è stata dettata con l’articolo 31, comma 4 del Codice del processo amministrativo. Essa trae, o può trarre elementi di certezza, o viceversa, di incertezza, proprio da quanto si trova di definito o di indefinito nella componente sostanziale della normativa. E’ altrettanto di questa esposta alla influenza del regime processuale della nullità in altre branche del diritto e segnatamente del diritto civile, che ha subito la evoluzione di cui si è detto verso nuove forme di nullità (c.d. di protezione). 3. Tre soluzioni adeguatrici Si danno ora, nelle successive lettere A, B, C, tre soluzioni per riequilibrare quello che sembra un rapporto sbilanciato tra la parte ricorrente, che appare vincolata dal termine di 180 giorni per la proposizione della domanda di accertamento della nullità e quelle resistenti che possono, invece, far valere questa vedono una parziale efficacia del contratto pur nullo (v. art. 23, c. 2 del dlgs. 24 febbraio 1988, n. 51), quanto ai contratti di subfornitura, prevedono che l’atto attraverso il quale si realizza un abuso di dipendenza economica è nullo (v. art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192). A ciò è da aggiungere la previsione contenuta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, circa la nullità degli accordi che risultano restringere la concorrenza (v. art. 101). (10) Si pensa, in particolare alle due monografie, di G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano 1955 e Il concetto e le specie di invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Milano 1955, che, dedicate all’atto processuale e alle sue invalidità, contengono un chiaro, profondo e preciso inquadramento della figura generale del procedimento. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 271 in ogni tempo, e, insieme per assicurare un significato alla rilevabilità da parte del Giudice. Parte notevole di esse attiene alla impugnazione incidentale dell’atto, e, cioè, quella compiuta nell’ambito di una reazione giurisdizionale attivatasi nei confronti delle conseguenze dell’atto. Si prospetta preliminarmente che alla problematica non possono trasferirsi identiche le sistemazioni date nei rapporti civili alle c.d. nullità di protezione, perché nel rapporto processuale amministrativo non c’è una meccanica e facile identificabilità della parte c.d. debole: normalmente lo è il ricorrente, ma può esserlo anche chi resiste, così come bisognosa di tutela compensativa può essere la Amministrazione che ha emanato l’atto, talvolta costituita da minuscoli enti. A) Si pensa, innanzitutto, che ai fini della proposizione in via principale della domanda di accertamento della nullità sia da applicare con larghezza l’istituto della rimessione nei termini per errore scusabile, così come disciplinato dell’articolo 37 del Codice del processo amministrativo. A ciò si è condotti dal convergere di due elementi. Il primo è costituito dal tendere del concetto di nullità verso il vuoto dell’assoluta mancanza, senza poterlo, però, raggiungere, a causa di una insita, oggettiva, difficoltà dell’intelletto umano, una volta concepito un oggetto, ad ipotizzare per esso una condizione puramente negativa: l’intelletto umano ha una insita difficoltà a concepire il vuoto e cerca sempre di riempire ciò che ha iniziato a concepire come vuoto, ciò che del resto si sperimenta allorché comunemente si pensa all’universo (per altro ora non più riscontrato come vuoto). Questa condizione di indeterminatezza concettuale dello stato di nullità, caratterizzata dalla sua posizione intermedia tra la pienezza dell’essere e il non essere, nel caso dell’atto amministrativo si traduce e circostanzia con una forte indeterminatezza dell’efficacia di quest’ultimo per la quale esso è considerato in grado di qualificare contraddittoriamente, sia come scusabili e non sanzionabili la sua esecuzione ed attuazione (11), sia come lecita la sua inosservanza. Il secondo è costituito dall’intrinseco collegamento dell’errore scusabile ad una condizione di incertezza su una determinata situazione, che la legge identifica come presupposto per la tenuta di un determinato comportamento e, segnatamente, per il compimento di un determinato atto processuale (12). (11) Del resto, se fosse radicalmente escluso ogni seguito all’atto, non avrebbe senso un’azione diretta a far valere la nullità di questo; v. al riguardo S. DE FELICE, Della nullità del provvedimento amministrativo, cit., 9. (12) Su tale valore dell’istituto dell’errore scusabile, v. A. GATTO, I poteri del giudice amministrativo rispetto a provvedimenti individuali e concreti contrastanti con il diritto comunitario, in Riv. dir. pubb. com. 2002, 1446-1449 e O. SEPE, L’errore scusabile nel processo amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 675 e ss. e L. MONTESANO, Sulla competenza a dichiarare l’errore scusabile nel processo amministrativo, in Scritti in onore di Giovanni Miele, Milano, 1985, 359 e ss.. In giurisprudenza, v. Cons. Stato, Sez. V, 21 settembre 2005, n. 4934 in Cons. Stato, 2005, I, 1576. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Per questo, se l’atto nullo crea una situazione di incertezza e l’errore scusabile si collega da uno stato di incertezza, l’amministrato che nei 180 giorni dall’inizio del computo del termine di decadenza non ha esattamente qualificato un determinato comportamento della Amministrazione come un atto, sia pure nullo, oppure non ha esattamente considerato questo come lesivo, dovrebbe essere rimesso nei termini di impugnazione con larghezza considerevole e, comunque, maggiore di quella che sarebbe giustificabile se l’atto fosse solo annullabile. Ancora, dovrebbe ipotizzarsi che i 180 giorni, quando l’atto non sia stato oggetto di pubblicazione o di notificazione, decorrano dal momento della percezione della sua portata lesiva. Alla formulazione di questa ipotesi si perviene partendo dalla constatazione che il Codice del processo amministrativo, per la proposizione dell’azione di accertamento della nullità, all’articolo 31, fissa la durata del termine (180 giorni), ma non precisa né lì, né altrove l’evento dal quale iniziare il computo, ciò che invece, fa all’articolo 41, per la sola azione di annullamento (previamente disciplinata all’articolo 29), determinando tale evento nella notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell’atto, oppure (per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale) dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione (se prevista dalla legge o in base alla legge). Far valere questo identico evento iniziale per l’azione di accertamento della nullità è astrattamente possibile, ma solo all’esito di una operazione di estensione analogica e, per questo, non in modo automatico, ma in subordine alla constatata sussistenza di una identità di ragione ad assoggettare l’accertamento della nullità di un atto ad una disciplina qualitativamente identica (salvi solo i giorni di durata del termine) a quella valida per l’azione diretta a far annullare un atto. Ad attenta analisi, tale identità di ragione manca, perché l’atto nullo è per definizione meno appariscente e percepibile dell’atto semplicemente annullabile, sicché le ragioni di una disciplina di rigore che valgono per il secondo (e, cioè, per l’atto annullabile), non valgono per il primo (e, cioè per l’atto nullo): la lesività dell’atto semplicemente annullabile si percepisce subito, non appena se ne conosce il contenuto, perché tale atto è pienamente efficace; quella dell’atto nullo non si percepisce subito, perché esso non è pienamente efficace ed è comunque caratterizzato da forti carenze sostanziali. Per questo, nei confronti dell’atto nullo non può farsi valere identica la disposizione che vale per l’atto annullabile e che dà rilievo esclusivo alla conoscenza e conoscibilità dell’atto; occorre, piuttosto, far valere il principio ispiratore sottostante a tale disposizione, e, cioè, dell’inizio del computo del termine dalla percepibilità della portata lesiva dell’atto, eventualmente temporalmente differita rispetto al semplice contatto (reale o presunto) con il contenuto dell’atto (13). B) Si pensa, in secondo luogo, che l’espressione “parte resistente” più CONTRIBUTI DI DOTTRINA 273 generica rispetto a quella di controinteressato o di Amministrazione resistente, pure usate dal Codice in altre sue parti, indichi chiunque si opponga ad una iniziativa processuale che può essere anche costituita da un ricorso incidentale o da una eccezione, ad esempio di inammissibilità. Sulla base di ciò “parte resistente” può essere anche il ricorrente, allorché, impugnato un atto presupposto con motivi aggiunti, si sente eccepire che sono scaduti i termini per impugnarlo perché semplicemente annullabile e, quindi, sottoposto al termine di decadenza di 60 giorni: sembra giusto che il ricorrente possa respingere questa eccezione allegando la nullità dell’atto (14). Al riguardo si nota incidentalmente che l’istituto dei motivi aggiunti ha subìto nel Codice un ampliamento di utilizzazione perché dall’articolo 43 dello stesso è stato ammesso ad introdurre anche “domande nuove” semplicemente “connesse” a quelle già proposte e, quindi impugnazioni di atti diversi da quelli originariamente impugnati, non necessariamente successivi ad esso, ma anche anteriori perché la connessione è una qualità bilaterale, che in una relazione tra atti di antecedenza – successione, connota, sia l’atto anteriore, sia quello successivo, per non dire che la relazione di “connessione” è in generale fortemente aspecifica (15). C) Si pensa, in terzo luogo, che la rilevabilità della nullità d’ufficio da parte del Giudice possa avere un importante ruolo riequilibratore a favore del ricorrente (16). 13) Del resto, non sono mancate pronunce, di segno largheggiante, che anche nei confronti di atti semplicemente annullabili, hanno dato peso al momento della percezione della portata lesiva dell’atto. V. ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 23 gennaio 2001, n. 203, in Cons. Stato, 2001, I, 70 e Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3431, in Giurisdiz.amm., 2007, I, 959. (14) In termini equivalenti identificando come resistente (in senso sostanziale) il privato interessato a far valere la nullità di un atto con cui l’Amministrazione gli si impone (ad esempio nel caso in cui questi impugni un atto esecutivo di un atto normativo), v. B. SASSANI, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. proc. amm., 2011, 277. (15) Sulla larga aspecificità della qualità della connessione, si rinvia a quanto può argomentarsi dall’articolo 189 del previgente codice di procedura penale, in materia di nullità degli atti processuali, che ipotizzava atti connessi all’atto dichiarato nullo (alla lettera “annullato”) anche anteriori rispetto ad esso, nonché, in dottrina, alle notazioni di E. GUICCIARDI, Atti connessi, in Giur. it., 1954, III, 84, dove si distingue tra atto presupposto e atto solo connesso. (16) La rilevazione della nullità d’ufficio nei rapporti privati, e, in particolare, riguardo le c.d. nullità di protezione, ha una finalità riequilibratrice (v. Corte giust. CE 27 giugno 2000, in Foro it., 2000, IV, 413, riguardo le clausole dei contratti dei consumatori) e tende a supplire ad una eventuale scarsa reattività processuale. Nei rapporti privati (e, cioè, con riguardo alle c.d. nullità di protezione) opera a sostegno del c.d. contraente debole, a favore del quale è stabilita la causa di nullità. Nei rapporti di diritto amministrativo è più difficile individuare a priori una parte “debole”, perché spesso è il ricorrente, ma possono essere tali anche dei controinteressati rispetto ad un ricorrente che è un forte soggetto economico o un piccolo ente pubblico; pertanto non è prevedibile a priori la direzione della funzione riequilibratrice del Giudice, ma è certo che essa può essere necessaria ed è altrettanto certo che essa non deve realizzarsi “a sorpresa”. Comunque la dottrina privatistica sembra non avere alcuna titubanza ad ammettere la coesistenza tra restrizioni nel far valere la nullità e rilevazione d’ufficio. V. al riguardo S. MONTICELLI, Nullità, legitti- 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Essa è prevista dallo stesso comma 4 dell’articolo 31 e non è sottoposta ad alcuna limitazione temporale perché la disposizione citata stabilisce che la nullità può sempre essere rilevata d’ufficio da parte del Giudice (allo stesso modo di come può sempre essere opposta dalla parte resistente). Si precisa preliminarmente che la rilevazione della nullità da parte del Giudice, in quanto determina l’insorgere di una questione all’interno del processo (17), in base all’articolo 73, comma 3 del Codice deve essere seguita da informazione alle parti, così da provocare il contraddittorio. La rilevazione non è sinonimo di pronuncia di accertamento della nullità che chiude la relativa questione insorta nel processo: quest’ultimo è un esito eventualmente da disporre dopo l’instaurazione del contraddittorio, il che fa apparire la rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice non contrastante con il termine assegnato per la proposizione della nullità in via di azione e, in particolare, compatibile con l’esigenza perseguita dal legislatore, di tutelare le parti resistenti da allegazioni di nullità imprevedibili (vuoi perché tardive, vuoi perché inaspettate). Detto questo sugli adempimenti processuali anteriori alla statuizione conclusiva sulla nullità (e, in particolare, una volta distinta quest’ultima dalla rilevazione della nullità e dalla insorgenza della “questione” della nullità, entrambe precedenti), si pone il problema se il Giudice possa sottrarsi dalla rilevazione della nullità e, quindi, di quanto il ricorrente (eventualmente decaduto dalla possibilità di far valere la nullità dell’atto) possa confidare sul Giudice per l’accertamento della nullità dell’atto, ciò che sembra particolarmente importante allorché tale atto è anteriore ad un altro impugnato e si è rivelato a posteriori, con impercettibile progressione, lungo lo svolgersi del processo, gravemente invalido e, insieme, decisivo rispetto al secondo, più appariscente e per questo fatto oggetto della impugnazione. Al riguardo si prende atto che la disposizione del Codice è formulata nel senso che la nullità “può sempre essere... rilevata d’ufficio dal Giudice” e non che essa “è da rilevare d’ufficio da parte del Giudice”, come ad esempio è per le nullità attinenti alle notificazioni alle Amministrazioni centrali. Essa fornisce, cioè, l’apparenza che la rilevazione della nullità costituisca per il Giudice, l’oggetto, non di un pieno dovere la cui violazione è sanzionata con l’invalidità degli atti processuali e, quindi, della sentenza, ma di una scelta libera, o, tutt’al mazione relativa e rilevabilità d’ufficio, in Riv. dir. priv., 2002, 687-693 e M. GIROLAMI, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali... cit., 448-454. Con particolare riguardo alla funzione riequilibratrice della rilevabilità d’ufficio della nullità nel processo amministrativo, v. E. PICOZZA, Codice del processo amministrativo. D. Lgs. 2 luglio 2010 n. 104 commentato articolo per articolo, Torino 2011, 60-61. (17) Nel senso, che l’eccezione è lo strumento attraverso il quale si introduce nel processo una questione, v. V. COLESANTI, Eccezione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano, 1965, 172 e ss. in specie 201-204 e V. DENTI, Questioni pregiudiziali (Diritto processuale civile) in Nuovissimo digesto italiano, Torino 1967, 675 e ss. in specie, 678. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 275 più di un tenue dovere professionale, rilevante solo dal punto di vista del suo rapporto con l’apparato giurisdizionale. Si tratta, però, di una apparenza errata. Le ragioni sono le seguenti. La voce (“può”) del verbo servile “potere” usata dalla disposizione del Codice non ha necessariamente un significato puramente facoltizzante. Nel linguaggio giuridico le voci del verbo “potere”, e tra questo l’espressione “può” sono bivalenti, tra l’escludere una condizione di obbligo e l’escludere una condizione di divieto e, ulteriormente, tra un significato facoltizzante ed un altro di conferimento di valore ed effetto giuridico ad un determinato comportamento dichiaratamente permesso e quindi non vietato, ma, eventualmente, anche obbligato. In presenza di questa bivalenza, circa il caso che interessa, si rilevano due elementi. Il primo è che in via generale è difficile immaginare attività di decisione del Giudice sul merito della causa avente carattere discrezionale e non strettamente vincolato: salvo quanto può essere per decisioni di puro ordine del processo, le decisioni del Giudice sono sempre vincolate. Il secondo è che dal punto di vista letterale deve darsi peso alla espressione “d’ufficio”, usata per connotare la rilevazione della nullità da parte del Giudice. Se si considera che la parola italiana “ufficio” ha la sua origine nella parola latina “officium” avente il significato di attività doverosa, l’espressione “d’ufficio” vale da sola a configurare la rilevazione della nullità da parte del Giudice come doverosa. Per tutto questo, il fatto che il Giudice “può” sempre rilevare d’ufficio la nullità, significa che il Legislatore, non già ha lasciato il Giudice libero di rilevare o non rilevare la nullità, ma ha dato al Giudice, senza limite di tempo, di rilevare la causa di nullità con effetti successivi giuridici sul processo (necessari o eventuali che siano, attesa la distinzione compiuta in precedenza tra la preventiva rilevazione della nullità e la successiva pronuncia di accertamento di essa), qualificando tutto ciò come doveroso. Si sostiene, cioè, che il “può” contrassegna un comportamento giuridico che è collegato al Giudice a titolo di dovere qualificato, la cui inosservanza inficia la validità degli atti successivi e in particolare, la sentenza. A voler tutto concedere quanto di facoltizzante si volesse cogliere nel verbo “può”, dovrebbe essere riferito, più che alla rilevazione della nullità, alla statuizione finale di essa (per evitare, ad esempio, sentenze contrastanti con la volontà delle parti in favore delle quali è stata stabilita la comminatoria di nullità, e, comunque, alla sorpresa delle parti, oppure per evitare una statuizione di nullità sulla interezza di un atto che non ha influenza diretta sul tema di decisione e che, viceversa ha un grande rilievo generale) (18). (18) Allo stesso modo di come la rilevazione incidentale di una questione di costituzionalità da 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 In conclusione, il Giudice, una volta accortosi della causa di nullità, quale che sia stato il modo in cui ciò è avvenuto, non può esimersi dal rilevare essa e dal condurre su di essa, contraddittorio e accertamento finale. Conferma indiretta, ma evidente e forte che il Giudice è obbligato a rilevare la nullità, viene dal diritto comunitario, e in particolare dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel nostro ordinamento ormai pacificamente riconosciuta idonea a statuire l’esatta portata delle statuizioni del diritto comunitario. Ci si riferisce alla sentenza, della Sezione IV, della Corte CE, 4 giugno 2009, in causa c. 243 (19), in materia di rilevazione della nullità di clausole abusive ai danni di consumatori (e, quindi, con riferimento ad una figura di nullità con molti elementi di relatività comuni a quella dell’atto amministrativo). La Corte ha statuito che la direttiva 5 aprile 1993, n. 93/19 (appunto sulla tutela dei consumatori avverso le clausole contrattuali abusive), testualmente formulata nel senso di un obbligo generico degli Stati di consentire alle proprie autorità giurisdizionali di far cessare l’introduzione nei contratti di clausole abusive ai danni dei consumatori, ha come modalità obbligata di trasposizione la configurazione di un ruolo del Giudice la quale tenga conto che: “il ruolo così attribuito al giudice nazionale dal diritto comunitario di cui trattasi non si limita alla semplice facoltà di pronunciarsi sull’eventuale natura abusiva di una clausola contrattuale, bensì comporta parimenti l’obbligo di esaminare d’ufficio tale questione dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine” (20). Questo per l’ordinamento italiano comporta che l’articolo 1421 del Codice civile, il quale disciplina la rilevazione da parte del Giudice anche per la causa di nullità in questione, deve essere inteso nel senso della doverosità della rilevazione da parte del Giudice, almeno per quanto riguarda questa causa di nullità. Ora, collegando tutti questi elementi può dirsi che, se per l’ordinamento italiano la disposizione del Codice civile sulla rilevazione della nullità da parte del Giudice deve essere intesa nel senso che quest’ultima è doverosa riguardo la clausole abusive ai danni dei consumatori, allo stesso modo dovrebbe intendersi l’uguale disposizione del Codice del processo amministrativo riguardo la nullità dell’atto amministrativo, giacché tale nullità ha molti elementi in comune con quella delle clausole abusive ai danni dei consumatori, primo tra questi l’essere posta a tutela di specifici interessi e di configurarsi sostanzialmente come largamente relativa (21). parte della Corte Costituzionale nel corso di un giudizio su conflitto di attribuzioni, non è sinonimo di annullamento della disposizione in oggetto. (19) In I contratti, 2009, 1115 e ss., con convincente commento di S. MONTICELLI, La rilevabilità d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo atto della Corte di giustizia, 1119. (20) V. paragrafi 31 e 32. (21) Sul valore generale della statuizione della Corte di giustizia, sull’obbligo della rilevazione della nullità da parte del Giudice, v. S. MONTICELLI, La rilevabilità di ufficio... cit., 1119-1120, il quale attribuisce ad essa carattere sostanzialmente interpretativo rispetto ad altre precedenti in cui la predetta rilevazione era configurata come oggetto di una facoltà. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 277 Altra conferma, poco appariscente, seppure forte e diretta dall’assunto che si sostiene viene dalla constatazione che nell’ordinamento italiano è pacifico che la rilevazione della nullità può avvenire in sede di giudizio di Cassazione (22). Se si tiene conto del fatto che tale giudizio è ristretto ai vizi di legittimità della sentenza emessa nel precedente grado di giudizio, ragionando a ritroso si deve concludere che per la Corte di Cassazione, il modo in cui la nullità è stata rilevata dal Giudice precedente, e prima ancora la rilevazione o meno da parte di quest’ultimo della nullità, costituisce l’esito di una decisione sottoposta a parametri di diritto e non di una scelta di puro fatto, libera da vincoli giuridici e rimessa unicamente al Giudice. Per questo, l’avvenuto o il mancato rilievo di ufficio della nullità, quali che poi debbano o possano essere gli esiti della rilevazione, si prestano ad essere valutati posteriori alla stregua di elementi di diritto e, quindi sono possibili oggetto di impugnazione. Ulteriormente, si può affermare che il mancato rilievo d’ufficio della nullità, e, cioè la mancata valutazione di essa sono valutabili come vizio della sentenza che conclude la fase di giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza oggetto di impugnazione (23). Conclusivamente, l’omissione della rilevazione della nullità e la mancanza dell’esame della questione che si sarebbe aperta a seguito della rilevazione della nullità, anche se ricavabili solo implicitamente dalla sentenza, possono costituire motivo di impugnazione, così come il Codice, all’articolo 9 dispone per le statuizioni anche implicite sulla giurisdizione. Tutto ciò è rafforzato e concretato dalla disposizione di cui all’articolo 104 del Codice. Questo enuclea la categoria delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, distinguendole implicitamente da quelle rilevabili d’ufficio. Per le prime stabilisce il divieto della proposizione per la prima volta in appello. Per le seconde no. Può, quindi, sinteticamente dirsi che il Codice, nell’ambito della categoria generale delle eccezioni, distingue tra quelle non rilevabili d’ufficio, per le quali non ammette la proposizione per la prima volta in appello e quelle rilevabili d’ufficio, o improprie, che dir si voglia, evidentemente ammesse (24) e sottratte al divieto della proposizione per la prima volta in appello. In contrario si argomenta che, se chi ha steso il Codice avesse voluto far valere il divieto della proposizione per la prima volta in appello anche per le eccezioni rilevabili d’ufficio, avrebbe collegato il divieto della proposizione semplicemente alle (22) V. Cass. 28 novembre 2008, n. 28424, in Red. giust. mass., 2008, 11. (23) La riflessione svolta in questo capoverso è ripresa da S. MONTICELLI, La rilevabilità d’ufficio..., cit., 1120 (l’autore dopo una monografia in generale sulla nullità, Contratto nullo e fattispecie giuridica, Padova, 1995, si è impegnato sul tema della rilevabilità d’ufficio delle c.d. nullità di protezione con più saggi, tra cui Nullità, legittimazione relativa e rilevabilità d’ufficio, in Riv. dir. priv., 2002, 685 e ss., fino a giungere, nello studio qui più volte citato, alla netta conclusione della doverosità della rilevazione della nullità da parte del Giudice). (24) Sulla categoria delle eccezioni improprie, v. R. ORIANI, voce Eccezione, in Digesto discipline privatistiche Sezione civile, Torino 1991, 262 e ss. e poi, Eccezione rilevabile d’ufficio, in Foro it., 2001, I, 132 e ss.. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 eccezioni, senza specificare. Se per le eccezioni rilevabili d’ufficio il divieto della proposizione in appello non vale, vuol dire che la loro proposizione in appello è ammessa. Ciò naturalmente vale anche per l’eccezione d’ufficio di nullità: se la nullità non è stata formalmente rilevata d’ufficio nel giudizio di primo grado, essa può essere fatta valere in appello, presumibilmente in forma di impugnazione della sentenza di primo grado inficiata dall’omessa rilevazione della nullità (25). Può dirsi, quindi, che chi ha instaurato un giudizio amministrativo su un determinato atto, anche se nel giudizio di primo grado non ha fatto valere la nullità di un altro atto diverso da quello impugnato, nei 180 giorni (dalla conoscenza, effettiva o presunta, o dalla percezione della lesività dello stesso), può aspettarsi che ciò faccia il Giudice di primo grado d’ufficio o per propria iniziativa o su segnalazione. Se ciò non accade può impugnare la sentenza di primo grado per la mancata rilevazione della nullità, provocando su ciò il giudizio (per la prima volta) del Giudice d’appello. In contrario sarebbe inesatto sostenere che ciò comporterebbe la vanificazione del termine di 180 giorni per proporre azione di nullità, perché tale termine riguarda solo la domanda nel giudizio di primo grado e non la proposizione di una eccezione “nuova” in appello, che pone per la prima ed unica volta il Giudice dinanzi alla questione della nullità dell’atto. In questo modo l’amministrato ricorrente, che in primo grado non ha fatto valere la nullità tempestivamente e, in generale, non ha potuto imporre al Giudice di primo grado la rilevazione della nullità, ha la possibilità di investire della questione il Giudice d’appello: dispone di un grado di giudizio in meno rispetto all’amministrato che si attiva tempestivamente, ma ha la possibilità che un Giudice si pronunci sulla questione di nullità, e in definitiva, di impedire che una sentenza sia pronunciata sulla base di un atto nullo, e per questo risulti in contraddizione con la finalità fondamentale dell’istituto della nullità, che è quello di impedire ad un atto fortemente difettoso di fare da base per altri atti (26). Secondo questa logica la sentenza d’appello che omettesse di statuire sulla nullità potrebbe essere oggetto di revocazione. D) Andando a considerare specificamente il caso di un atto nullo che è presupposto di un altro atto, si osserva come il problema della produzione o meno di effetti da parte dell’atto (accennato in precedenza) sia chiarito in modo definitivo proprio dalle ragioni del regime processuale dello stesso atto. Se esso non producesse effetti, l’atto successivo sarebbe sempre e comun- (25) In giurisprudenza, nel senso che le eccezioni rilevabili di ufficio non rilevate nel giudizio di primo grado si risolvono in motivo di impugnazione, v. CGRS, 10 novembre 2010, n. 1403. (26) In dottrina, v. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, 1951, ora Camerino 1998, 332- 334 e A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti giuridici) in Riv. dir. proc. 1991, 92-95. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 279 que invalido e non ci sarebbe bisogno di andare a ritroso ad aggredire il primo. Così, però, sarebbe del tutto inutile la disciplina del Codice, che, invece, indubbiamente, limita la rilevazione della nullità dell’atto. Al contrario, si deve pensare che l’atto nullo abbia una sua efficacia, foss’altro incerta e solo giustificatrice di comportamenti successivi e che, quindi, chi si lamenta di un atto ad esso successivo, debba porsi il problema di far valere la sua nullità. Quello che occorre è che il far valere lo stato di nullità sia relativamente più facile rispetto al far valere uno stato di semplice annullabilità. Ed è importante che lo sia specialmente nei confronti di un atto che costituisce presupposto occulto di un altro atto successivo che palesemente incide sugli interessi sostanziali, e, quindi, al di là dell’apparenza di senso comune - importante e da considerare - rende dal punto di vista strettamente tecnico quest’ultimo null’altro che una conseguenza dovuta di una scelta già consumata. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 La geoingegneria Verso la privatizzazione del sole e degli ecosistemi naturali? Grazia Sanna* Nel passato, la consapevolezza che quella del cuore è la forma d'intelligenza più alta è stata appannaggio di sapienti e poeti. Oggi, anche le neuroscienze concordano (0). Un astrofisico di origine indiana, premio Nobel nel 1983 per il suo lavoro sull'evoluzione delle stelle, nel libro «Verità e Bellezza, Estetica e Motivazione nella Scienza» afferma che quest’ultima è mossa, nella sua aspirazione verso la conoscenza, dall'amore per il mistero dell’armonia che l’Ordine Naturale esprime. Tenendo presente queste premesse, sta al lettore giudicare se le tecniche di geo-ingegneria che verranno illustrate in questo scritto siano in linea con quella che si suppone debba essere la missione autentica della Scienza o se siano piuttosto espressione della confusione dei tempi moderni, in cui la tecnica - l'ancilla - ha usurpato un posto che non le compete. SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Definizione del termine “geoingegneria”- 3. Le tecnologie: i due gruppi principali - 4. Metodi di gestione della radiazione solare (SRM) - 5. Metodi di rimozione del biossido di carbonio (CDR) - 6. Alcuni rilievi critici: impatto sull’ambiente e sulla salute umana - 7. Il problema dei brevetti - 8.Conclusioni. 1. Premessa La questione se la responsabilità dei cambiamenti climatici in corso debba attribuirsi all’impatto antropico o ad altri fattori è tema controverso e molto dibattuto, anche all’interno del mondo scientifico ortodosso. Già all’indomani della sua pubblicazione, molti eminenti scienziati (1) avevano avanzato dubbi sul rigore metodologico e sulle conclusioni del IV° (*) Avvocato in Roma. (0) Tra i pionieri delle ricerche in questo campo campo: i coniugi Lacey, psicofisiologi (per una panoramica completa sulla loro attività di ricerca vedi J.R. JENNINGS e M.H. COLES, John I. Lacey 1915- 2004 A Biographical Memoir, Publ. U.S. National Academy of Sciences Washington D.C., 2006); J. Andrew Armour, neuroscienziato, è stato il primo a scoprire che il cuore è dotato di un sistema nervoso proprio (J.A. ARMOUR e J.L. ARDELL, Neurocardiology, Oxford University Press, New York, 1994); Heartmath Institute, Science of The Heart: Exploring the Role of the Heart in Human Performance, consultabile sul sito: www.heartmath.org/research/science-of-the-heart/head-heart-interactions.html; R. MCCRATY, M. ATKINSON, D. TOMASINO e R.T. BRADLEY, The Coherent Heart: Heart–Brain Interactions, Psychophysiological Coherence, and the Emergence of System-Wide Order, in Integral Review, Vol. 5, n. 2 2009, Ohio; J. CIARROCHI, J. FORGAS, e J. MAYER (Eds.), Emotional intelligence in everyday life: A Scientific Inquiry, Psychology Press/Taylor & Francis, Philadelphia, 2001; C. MERCOGLIANO and K. DEBUS, Expressing Life's Wisdom: Nurturing Heart-Brain Development Starting With Infants, Intervista con Joseph Chilton Pearce, in Journal of Family Life, n. 1, Vol. 5, 1999, consultabile su: http://www.ratical. org/many_worlds/JCP99.html (ult. Cons. 19.04.2011). Quanto al ruolo della Bellezza nella scienza, oltre al volume S. CHANDRASEKHAR, Truth and Beauty. Aesthetics and Motivations in Science. The University of Chicago Press, Chicago 1987, vedi anche M.W. HO, Is beauty truth in science?, consultabile sul sito dell’Institute for Science in Society - ISIS, su: http://www.i-sis.org.uk/why_beauty_is_truth_and_truth_beauty.php (1) Open letter on the UN Climate-Conference to Mr. Ban Ki Moon, 12.12.2007, consultabile su: scienceandpublicpolicy.org/.../open_letter_to_un.html CONTRIBUTI DI DOTTRINA 281 Rapporto del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC) del 2007, che essenzialmente attribuiva la causa del surriscaldamento del pianeta all’effetto-serra causato dalle attività umane (2). Lo scetticismo espresso allora non è mai cessato. Anzi, nel biennio 2008- 2009 il consensus è crollato come attestano, per citare solo alcuni esempi, sia il ponderoso rapporto presentato al Senato del Congresso USA da 700 scienziati di fama internazionale il 17 marzo 2008 (3), sia l’appello inviato al Segretario Generale delle Nazioni Unite da 141 scienziati esperti di climatologia l’8 dicembre dell’anno seguente (4). In particolare, partendo dall’assunto che (2) Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici, Cambiamento Climatico 2007 - I Principi Fisici di Base (Quarto Rapporto di Valutazione, Estratto dalla sintesi per i decisori politici, approvato ufficialmente in occasione della 10° sessione del Gruppo di Lavoro I° dell’IPCC - Parigi, febbraio 2007), consultabile su: www.ipcc.ch/pdf/reports-nonUN-translations/.../ar4-wg1-spm.pdf- (3) Il sito web del Congresso USA ha messo a disposizione l’ultimo rapporto scientifico compilato dai 700 scienziati che hanno criticato le conclusioni del Rapporto IPCC del 2007, nonché vari altri documenti utili: U.S. Senate Minority Report: More Than 700 International Scientists Dissent Over Man- Made Global Warming Claims - Scientists Continue to Debunk “Consensus” in 2008 & 2009. Aggiornamento: 17/03/2009: 59 Scientists Joint Senate Report; Aggiornamento: 28/01/ 2009: James Hansen's Former NASA Supervisor Declares Himself a Skeptic; (Aggiornamenti dell’ultimo Rapporto: “More Than 650 International Scientists Dissent Over Man-Made Global Warming Claims”, reso pubblico l’11/12/2008). Oltre 700 scienziati dissidenti (aggiornamento del primo rapporto di 650) di tutto il mondo hanno contestato le dichiarazioni sul cambiamento climatico antropogenico rese dal Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) e dal Vice Presidente Al Gore. Questo nuovo rapporto di Minoranza del Senato USA 2009, di 255 pagine - aggiornato rispetto al dirompente rapporto del 2007 in cui oltre 400 scienziati hanno espresso il loro scetticismo sul “consensus” al cambiamento climatico - rappresenta la voce scettica di oltre 700 eminenti scienziati di fama internazionale, compresi molti scienziati che hanno fatto o che attualmente fanno parte del Comitato Intergovernativo per il Cambiamento Climatico ONU, che ora si sono levati contro lo stesso IPCC. Questo rapporto aggiornato comprende un ulteriore numero di 300 scienziati e ricercatori esperti di climatologia - un numero in crescita - che si sono aggiunti agli scettici del 2007. Attualmente, il numero degli scienziati “dissidenti” è di oltre 13 volte più grande rispetto al numero degli scienziati delle Nazioni Unite -52-, autori del rapporto IPCC del 2007 iper-amplificato dalla stampa (i documenti sono scaricabili dal sito: (http//:www. epw.senate.gov/public/index.cfm?...Blogs). (4) Open Letter to Secretary-General of United Nations Ban Ki Moon, New York, NY, United States of America, 8.12.2009, « ... We the undersigned, being qualified in climate-related scientific disciplines, challenge the UNFCCC and supporters of the United Nations Climate Change Conference to produce convincing OBSERVATIONAL EVIDENCE for their claims of dangerous human-caused global warming and other changes in climate. Projections of possible future scenarios from unproven computer models of climate are not acceptable substitutes for real world data obtained through unbiased and rigorous scientific investigation. Specifically, we challenge supporters of the hypothesis of dangerous human-caused climate change to demonstrate that: Variations in global climate in the last hundred years are significantly outside the natural range experienced in previous centuries; Humanity’s emissions of carbon dioxide and other ‘greenhouse gases’ (GHG) are having a dangerous impact on global climate; Computer-based models can meaningfully replicate the impact of all of the natural factors that may significantly influence climate; Sea levels are rising dangerously at a rate that has accelerated with increasing human GHG emissions, thereby threatening small islands and coastal communities;The incidence of malaria is increasing due to recent climate changes; Human society and natural ecosystems cannot adapt to foreseeable climate change as they have done in the past; Worldwide glacier retreat, and sea ice melting in Polar Regions , is unusual and related to increases in human GHG emissions; Polar bears and other Arctic and Antarctic wildlife are unable to adapt to anticipated local climate 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 la scienza climatica è ben lungi dall’essere perfetta, con quest’ultimo documento i firmatari hanno richiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite che il comitato tecnico della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) dimostri con prove solide documentali, basate su dati reali raccolti sul campo e non su proiezioni future dedotte da modelli matematici elaborati al computer, che il riscaldamento globale sia da attribuirsi alla produzione di gas serra derivata da attività umane e non ad altri fattori. Il coro degli scettici è giunto persino ad accusare di frode scientifica il Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC) (5) quando è stato scoperto che, contrariamente a quanto si afferma nelle campagne mediatiche e nonostante nessun modello climatico l’avesse previsto, i ghiacciai di molte altre parti del mondo, lungi dal ritirarsi, si stanno invece espandendo (6). change effects, independent of the causes of those changes; Hurricanes, other tropical cyclones and associated extreme weather events are increasing in severity and frequency; Data recorded by groundbased stations are a reliable indicator of surface temperature trends», consultabile su: www.copenhagenclimatechallenge.org/ (5) In generale, già il 14 Aprile 2008, un nutrito gruppo internazionale di scienziati “dissidenti” aveva richiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite che l’IPCC venisse “... chiamato a rispondere e obbligato a smettere le sue pratiche ingannevoli” ( http://tech-know.eu/uploads/Letter_UN_sec_Gen_BAn_Kimoon. pdf). Accuse di analoga gravità sono state mosse all’IPCC dallo scienziato indiano V. K. Raina, già vicedirettore generale del Geological Survey of India (GSI), il quale, dopo aver condotto ricerche su 25 ghiacciai in India e all’estero, ha contestato l’allarmismo delle Nazioni Unite precisando che siamo di fronte a cambiamenti che si verificano periodicamente. Le sue dichiarazioni sono confermate dal Dr. R. K. Ganjoo, Direttore del Regional Centre for Field Operations and Research on Himalaya Glaciology (articolo disponibile su: http://www.larouchepub.com/pr/2009/090828india_warming_fraud.html). La reazione degli scienziati asiatici ha portato un membro dell’IPCC a confessare pubblicamente che i dati non erano accurati come avrebbero dovuto essere (“In Himalaya i ghiacciai vanno crescendo rapidamente mentre, lo scienziato che ne ha fraudolentemente previsto lo scioglimento in un Rapporto delle Nazioni Unite premiato col Nobel, ha ammesso di aver fatto quelle dichiarazioni solo per far pressione sui leader politici. (Daily Mail, 24.01.2010 "Glacier scientist: I knew data hadn't been verified", consultabile su: http://www.dailymail.co.uk/news/article-1245636/Glacier-scientists-says-knew-dataverified. html#ixzz0dUx6pwXe). Vedi anche l'articolo di D. CARRINTON, "Dirigenti dell’IPCC ammettono di aver sbagliato a proposito dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalayan. Membri senior del corpo scientifico delle Nazioni Unite sul clima ammettono che la dichiarazione secondo cui i ghiacciai Himalayani si sarebbero sciolti entro il 2035 era infondata", The Guardian, Londra, 20.01.2010 (www.guardian. co.uk/.../ipcc-himalayan-glaciers-mistake). Sul cosiddetto “Climategate”, si può consultare la trascrizione dell’audizione dinanzi al Parlamento britannico del Prof. Phil Willis, durante l’inchiesta seguita alla pubblicazione di alcune mail private di scienziati esperti di questioni climatiche su www.guardian. co.uk/.../parliamentary-climate-emails-inquiry. (6) Oltre al citato caso delle nevi Himalayane e a titolo meramente esemplificativo - dato che l’elenco completo sarebbe ben più lungo -, qui di seguito si riportano altri casi analoghi. Il ghiacciaio Hubbard (Alaska), secondo Ned Rozell, dell’Istituto di Geofisica presso l’ Università di Fairbanks in Alaska, sta aumentando di continuo sin dal 1895, quando venne misurato per la prima volta (cfr. Hubbard Glacier refuses to fade away, consultabile su: www.gi.alaska.edu/ScienceForum/ASF18/1890.html). Secondo i dati resi pubblici recentemente dal Centro Dati per la Neve e il Ghiaccio Statunitense (US National Snow and Ice Data Center) il ghiaccio dell’Antartide sarebbe aumentato del 26 per cento dal 2007 (J. ROBBINS, An Inconvenient Truth: The Ice Cap Is Growing, Washington Times, 10.01.2010). Per DAVID BELLAMY, “ ... All 48 glaciers in New Zealand's Southern Alps are growing, the Franz Josef by about 4 metres a day. Pio XI, the largest glacier in the southern hemisphere, and the Perito Moreno CONTRIBUTI DI DOTTRINA 283 Ulteriori perplessità ed incertezze sono state ingenerate, poi, dalla scoperta relativa allo “scioglimento” dei ghiacciai di Marte e Plutone (7) (dove probabilmente non esistono fabbriche o sistemi di aria condizionata), un fenomeno rilevato sin dal 2003; la circostanza ha rafforzato l’ipotesi che nella valutazione dell’IPCC/2007 il ruolo del sole nell’innalzamento della temperatura terrestre potrebbe esser stato sottostimato (8). La prestigiosa rivista New Glacier, the largest in Patagonia, are also growing despite the fact that they should be melting because of warm winds zephyr'd from El Niño seas” (New Scientist 16.04.2005 Londra, UK Magazine - n. 2495). Anche in California, sul Monte Shasta i ghiacciai sarebbero in crescita (cfr. www.worldclimatereport.com/.../more-ice-for-your-shasta/), così come i ghiacciai del Monte Bianco e la cima Dôme du Goûter (Rif: Very high-elevation Mont Blanc glaciated areas not affected by the 20th Century climate change, C. VINCENT, E. LE MEUR, D. SIX, M. FUNK, M. HOELZLE and S. PREUNKERT, Journal of Geophysical Research, May 2007, Vol. 112, D10). (7) NASA, Mars is Melting. The south polar ice cap of Mars is receding, revealing frosty mountains, rifts and curious dark spots 7.08.2003 (consultabile su: science.nasa.gov/science.../07aug_southpole/); M. LAPAGE, Climate myths: Mars and Pluto are warming too, in New Scientist Environment 16.05.07 (www.newscientist.com/.../dn11642-climate-myths-mars-and-pluto-are- warming-too.html); KATE RAVILIOUS, Mars Melt Hints at Solar, Not Human, Cause for Warming, Scientist Says, in National Geographic News del 28.02.2007 (su: news.nationalgeographic.com/.../070228-mars-warming.html). (8) Per approfondire il tema dell’impatto delle fluttuazioni della radiazione solare sul sistema climatico globale e sulla variabilità climatica, vedi: M. CHIACCHIO e M. WILD, Global dimming and global brightening, numero monografico del Journal of Geophysic Research vol. 115, no. D10, 2010. Vedi anche GERALD MEEHL, JULIE ARBLASTER, KATJAMATTHES, FABRIZIO SASSI, and HARRY VAN LOON, Amplifying the Pacific Climate System Response to a Small 11-Year Solar Cycle Forcing, Science, 2009; 325 (5944): 1114 DOI: 10.1126/science.1172872. Anche sulla Rivista di Analisi Politica, Difesa e Sicurezza, FNR Media, si legge che: « ... Le temperature sulla Terra si sono stabilizzate nei passati decenni, e il pianeta si dovrebbe preparare a una nuova era glaciale, piuttosto che temere il riscaldamento globale. Lo ha detto alla stampa russa Khabibullo Abdusamatov. Questi è capo del Laboratorio di Ricerca Spaziale presso l’Osservatorio Pulkovo di San Pietroburgo. Secondo lo scienziato, “Dati di ricerca russi e stranieri confermano che le temperature globali nel 2007 sono state praticamente quelle del 2006, e, in generale, le stesse del periodo 1998-2006. In definitiva, questo significa che la Terra ha superato il picco del riscaldamento globale nel periodo 1998-2005.. Secondo lo scienziato, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre è salita oltre il 4% nel corso dell’ultimo decennio, ma il riscaldamento globale si è praticamente fermato. Si confermerebbe, quindi, la teoria dell’ “impatto solare” sui cambiamenti del clima terrestre, perché la quantità di energia solare che raggiunge il pianeta è drasticamente diminuito durante lo stesso periodo. Se le temperature globali avessero risposto direttamente alle concentrazioni nella atmosfera dei gas a “effetto serra”, si sarebbe avuto un aumento di almeno 0,1 gradi centigradi negli ultimi dieci anni. Tuttavia, questo tipo di aumento non si è mai verificato, ha continuato Abdusamatov. Abdusamatov ha detto anche che “Un anno fa, molti meteorologi hanno previsto che livelli più alti di biossido di carbonio nell’atmosfera avrebbero reso l’anno 2007 il più caldo degli ultimi dieci anni, ma, per fortuna, queste previsioni non si sono realizzate”. Secondo lo scienziato, nel 2008, la temperatura globale dovrebbe scendere leggermente, invece di aumentare, a causa del basso livello di radiazione solare, senza precedenti negli ultimi 30 anni, e potrebbe continuare, anche se la diminuzione delle emissioni industriali di biossido di carbonio dovesse raggiungere livelli record. Entro il 2041, l’attività solare raggiungerà il suo minimo secondo il suo ciclo di 200 anni, e un profondo periodo di raffreddamento, simile al ‘Minimo di Maunder’, colpirà la Terra nel periodo 2055- 2060. Questo avrà una durata di circa 45-65 anni, ha aggiunto lo scienziato. Il “Minimo di Maunder” si è verificato tra il 1645 ed il 1715, quando solo circa 50 macchie sono apparse sulla superficie del Sole, in contrapposizione al numero tipico che è di 40-50mila macchie. Esso è coinciso con la parte centrale e più fredda della cosiddetta “Piccola Glaciazione”, durante la quale l’Europa e il Nord America sono stati sottoposti a inverni estremamente freddi. “Tuttavia, l’inerzia termica degli oceani e dei 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Scientist, in un recente articolo (9), ha pubblicato un importante studio che conferma la tendenza verso un raffreddamento delle temperature del pianeta dovuto alle fluttuazioni nei cicli solari e nell’attività solare, e ciò spiegherebbe la crescita dei ghiacciai e la rigidità record degli inverni registrata negli ultimi anni. Secondo numerosi eminenti scienziati, entro pochi anni potremmo addirittura trovarci di fronte a una nuova era glaciale (10). mari del pianeta ritarderà un ‘profondo raffreddamento’ del pianeta, e una nuova era glaciale inizierà durante il periodo 2055-2060, e probabilmente durerà diversi decenni”, ha detto Abdusamatov. Pertanto, la Terra sarebbe avvolta da una crescente calotta di ghiaccio, piuttosto dell’oggi paventato l’aumento del livello degli oceani e causato dalla fusione dei ghiacci polari. Lo scienziato ha concluso indicando che l’umanità dovrà affrontare gravi problemi economici, sociali e demografici e le conseguenze della prossima glaciazione toccheranno direttamente oltre l’80% della popolazione del pianeta (rif: La Terra potrebbe presto affrontare una nuova glaciazione, su: FNRmedia, la rivista di informazione e analisi di politica internazionale, difesa e sicurezza, www.fnrmedia.net/openmedia/?p=2118). (9) S. CLARK, Quiet sun puts Europe on ice, in The New Scientist n. 2756 14.04.2010, (consultabile su: www.newscientist.com/.../mg20627564.800-quiet-sun-puts-europe-on-ice. Html). L’articolo cita lo studio condotto dal Prof. Mike Lockwood dell’Università britannica di Reading, sulle interrelazioni tra l’attività solare e il clima (M.LOCKWOOD, Solar change and climate: an update in the light of the current exceptional solar minimum. Proceedings of the Royal Society A: Mathematical, Physical and Engineering Sciences, 2010, pag. 303-329). Nel 2008-2009 le macchie solari sarebbero quasi scomparse dalla superficie del globo solare e l’effetto del campo magnetico solare sulla terra sarebbe calato a un livello record dalla sua prima misurazione scientifica, effettuata 150 anni fa. Lo studio ha paragonato i dati delle fluttuazioni solari registrati dal 1659, gli anni della cosiddetta Piccola Era Glaciale, e ha scoperto che gli anni caratterizzati da una bassa attività solare corrispondevano a un significativo abbassamento delle temperature invernali. Sul fenomeno di irrigidimento del clima nelle ultime stagioni invernali vedi anche: M. LOCKWOOD, R. G HARRISON, T. J WOOLLINGS, S. K. SOLANKI, Are cold winters in Europe associated with low solar activity? In Environmental Research Letters, 5 (2) - 2010. Recenti reportange da tutto il mondo sembrano confermare questa tendenza, in atto da qualche anno: J. RUTWICH per Reuters, La Cina combatte contro «... l’inverno più freddo da 100 anni», Chenzhou, 04.02.2008 (consultabile su: in.reuters.com/article/idINPEK16157020080204-India); l’Ufficio Meteorologico britannico, riferendosi all’inverno 2009, ha ffermato che: “ ... si pensa che in Gran Bretagna ci sarà l’inverno più freddo dal 1995/96, (www.metoffice.gov.uk/.../2009/pr20090225.html); secondo la rivista on-line per agricoltori Farmers Gurdian, Mongolia. «L'inverno più freddo da 25 anni a questa parte uccide 8.4 milioni di animali» (articolo del 24.08.2010, consultabile su: www.farmersguardian.com/...coldest-winter.../ 34303.articl), oltre a centinaia di altri articoli da tutte le parti del mondo. (10) Confermando le ipotesi formulate a partire dagli anni ’70 del secolo scorso da T. Landscheidt, fondatore del Schroeter Institute for Research in Cycles of Solar Activity di Waldmuenchen, in Germania (cfr. T. LANDSCHEIDT, New Little Ice Age instead of global warming, in Energy and Environment, 2003, Vol. 14, pag. 327-350; T. LANDSCHEIDT, Global warming or Little Ice Age?, in Holocene cycles. A Jubilee volume in celebration of the 80th birthday of Rhodes W. Fairbridge. FORT LAUDERDALE, The Coastal Education and Research Foundation (CERF), 1995, pag. 371-382, Finkl, C. W., ed.; T. LANDSCHEIDT, Solar oscillations, sunspot cycles, and climatic change, in B. M. McCormac et, Weather and climate responses to solar variationsi, pag. 293-308 1983, Boulder, Colorado, Associated University Press su: http://www.schulphysik.de/klima/landscheidt/iceage.htm), molti eminenti oggi scienziati sono concordi nel ritenere che presto potremmo dover fronteggiare una nuova piccola era glaciale. H. Abdussamatov, capo dell’Osservatorio Astronomico dell’Accademia delle Scienze russa di Pulkovo, a S. Pietroburgo, durante la Quarta Conferenza Internazionale sul Cambiamento Climatico tenutasi a Chicago presso l’- Heartland Institute il 16-18/05/2010, ha affermato che una nuova glaciazione potrebbe verificarsi entro quattro anni (la sua relazione The Sun Dictates the Climate of the Earth è consultabile sul sito: heartland.org/). Dello stesso avviso anche il Prof. Vladimir Paar dell’Università di Zagabria, membro dell’Accademia delle Scienze croata, che ha effettuato per decenni ricerche sulle precedenti ere glaciali CONTRIBUTI DI DOTTRINA 285 Tutto ciò pare porsi in netto contrasto con la diffusa teoria secondo cui le emissioni umane di CO2 e di altri gas serra debbano essere considerate come i principali responsabili dell’aumento della temperatura terrestre, nella misura di almeno 4 gradi centigradi entro la fine del secolo come indicato dall’IPCC. Comunque stiano davvero le cose, questo scenario ben evidenzia quanto siamo ancora lontani dal comprendere le cause e, dunque, quanto sia difficile individuare la cura corretta per mitigare le turbolenze climatiche del nostro pianeta. Ciò nonostante, stranamente, l’industria globale e alcuni istituti di ricerca hanno già pronta - e da parecchi anni - la loro soluzione al problema: ridisegnare il clima manipolando gli ecosistemi in sostituzione di quelli naturali. In previsione della possibilità che gli interventi di modificazione artificiale del clima - sinora sperimentati più o meno discretamente (11) - vengano applicati giocoforza in una situazione di totale deregulation, alcuni governi e alcune istituzioni internazionali hanno iniziato a discutere pubblicamente la questione. Il presente scritto costituisce una prima riflessione sul tema poco conosciuto della geoingegneria ovvero, di quella serie di tecnologie che permettono la manipolazione volontaria dei sistemi atmosferici, marini, terrestri e persino della radiazione solare, che alcuni propongono come rimedio risolutivo immediato (quick fix) per affrontare i problemi ambientali determinati dal supposto riscaldamento della crosta terrestre. Tutte queste tecniche, il cui in Europa e sulle loro cause. Nell’articolo pubblicato il 29.06.2009 sul Croatian Times, afferma che la maggior parte dell’Europa settentrionale e centrale sarà presto coperta dai ghiacci, prevedendo che si potrà raggiungere via terra l’Irlanda dall’Inghilterra, o il Nord Europa dalla Scozia (l’articolo è consultabile su: www.croatiantimes.com/.../Croat_scientist_warns_ice_age_could_start_in_five_years -). (11) vedi anche ETC Group, Geopiracy... cit., pag. 22: «Secondo l’Organizzazione Metereologica Mondiale delle Nazioni Unite (UN WMO), almeno 26 governi hanno condotto routinariamente esperimenti di alterazione del tempo metereologico a partire dalla fine del secolo scorso. Dal 2003-2004, solamente 16 paesi membri della World Meteorological Organization hanno dichiarato di effettuare attività di modificazione del clima, sebbene si sappia che ciò è avvenuto in molti altri paesi». Anche la Commissione per la Scienza e la Tecnologia della Camera dei Comuni del Regno Unito, nel V° Rapporto sulla Geoingegneria pubblicato il 18.03.2010, ha ammesso che: «... alcuni esperimenti di geoingegneria - sebbene su scala molto piccola - sono già in corso ... » (The House of Commons Science and Technology Commitee, The Regulation of Geoengineering, 5th Report-Session 2009-2010, pag. 3, « ... some - albeit very small scale- geoengineering testing is already underway»; consultabile su: www.parliament.the-stationery-office.co.uk/pa/cm200910/.../221/221.pdf (ultima consultazione 07.04.2011). Vedi anche The Sunshine Project, The Limits of Inside Pressure: The US Congress Role in ENMOD (http://www.sunshine-project.org/enmod/US_Congr.html) e ISIS (Insititute for Science in Society) Report del 20.09.2011, Atmospheric Geoengineering, su: www.i-sis.org.uk/atmosphericGeoengineering. php -. In particolare, secondo i dati forniti dal sito della campagna internazionale H.O.M.E. (Hands Off Mother Earth) lanciata dalla scienziata indiana Vandana Shiva, gli oceani sarebbero stati sottoposti ad esperimenti di fertilizzazioneda almeno 20 anni (su: http://www.handsoffmotherearth.org/learn-more/whatis- geoengineering/ocean-fertilization/). 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 numero di brevetti dai primi anni 2000 ad oggi è cresciuto del 1500% (12), guardano all’unico obiettivo di ridurre la temperatura del pianeta ricorrendo alla riduzione della quantità di radiazione solare e alla cattura e/o stoccaggio dell’anidride carbonica, mentre si disinteressano completamente dell’abbattimento delle emissioni in sé e degli altri problemi ambientali legati alla qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo. Verranno inoltre brevemente analizzati alcuni tra i profili di criticità che tali tecnologie presentano in relazione al rischio di danni irreversibili su tutti i sistemi naturali e, più in generale, per la vita del pianeta, in quanto interessano lo spazio, l’atmosfera, la terra, l’aria, gli oceani e i corpi d’acqua dolce, le condizioni atmosferiche, la produzione alimentare, la salute umana e animale. Inoltre, saranno svolte alcune considerazioni in merito alle problematiche legate al regime di proprietà intellettuale, che per via indiretta, assicurerebbe ai soggetti titolari dei diritti di monopolio il controllo della radiazione solare oltre che dell’aria, dell’acqua e del suolo (13). Per ragioni di spazio, invece, si rinvia ad altra sede l’approfondimento delle assai delicate questioni etiche, dei diritti umani fondamentali e della sovranità nazionale implicate. In occasione del meeting della 10° Conferenza delle Parti (COP10) della Convenzione sulla Diversità Biologica, a Nagoya, nell’ottobre 2010, con una decisione largamente condivisa ispirata al principio di precauzione (14), 193 (12) S. PARTHASARATHY, C. AVERY, N. HEDBERG, J. MANNISTO, M. MAGUIRE, A Public Good? Geoengineering and Intellectual Property(Science, Technology, and Public Policy Program 22/09/2010) STPP Working Paper 10-1, consultabile su: www.umt.edu/ethics/EthicsGeoengineering/Workshop/.../Chris%20Avery.pdf. (13) Se le tecniche di geoingegneria troveranno l’applicazione diffusa che i loro propugnatori si aspettano, l’esistenza di brevetti detenuti da compagnie private può significare che le decisioni sul bene comune “clima”, di fatto, passeranno di mano al settore privato il quale, com’é noto, agisce solo per profitto. E infatti, i geoingegneri hanno già dichiarato che i brevetti di cui sono titolari assicureranno loro vasti diritti commerciali sui beni comuni oggetto del loro intervento come, ad esempio, è accaduto nel caso della CEO (Ocean Nourishment Corporation), il cui fondatore Ian Jones, titolare anche di numerosi brevetti tra i quali la fertilizzazione con il “metodo di alimentazione con l’urea”, avrebbe dichiarato la sua assoluta determinazione a reclamare anche la proprietà di tutto il pesce pescato nelle porzioni di mare trattate con il suo metodo geoingegneristico (cfr. ETC Group, Geopiracy, cit., pag. 29). (14) Per effetto del principio di precauzione, recepito nel Protocollo di Cartagena adottato a Montreal il 29.01.2000, i governi dei paesi aderenti sono tenuti alla massima cautela al fine di evitare l'insorgere di una situazione potenzialmente pericolosa che sarebbe poi estremamente difficile gestire adeguatamente per la mancanza delle necessarie conoscenze scientifiche o tecniche. Alcune delle tecniche di geoingegneria in questione, implicano - tra l’altro - l’uso di organismi prodotti mediante biologia sintentica o manipolazione genetica con DNA ricombinante. Questa la formulazione letterale adottata a Nagoya, durante la 10° Conferenza delle Parti della CDB « ... (w) Assicurare, in linea con e coerentemente alla decisione IX/16 C su fertilizzazione degli oceani, biodiversità e cambiamento climatico - data l’assenza di controlli scientifici trasparenti ed efficaci e di meccanismi di regolamentazione della geoingegneria -, e in accordo con il principio di precauzione e con l’art. 14 della Convenzione, che nessuna attività di geoigegneria di modificazione del clima che possa avere un impatto sulla biodiversità abbia luogo, finché non vi sia un’adeguata base scientifica che possa giustificare tali attività e appropriate considerazioni dei rischi per l’ambiente e la biodiversità e degli impatti sociali, economici e culturali ad essa associati, con l’eccezione di ricerche scientifiche su piccola scala, che saranno condottiin condizioni controllate, secondo l’articolo 3 della Convenzione e solamente se siano giustificati dalla CONTRIBUTI DI DOTTRINA 287 paesi hanno approvato una moratoria de facto della sperimentazione e dei progetti di geo-ingegneria, per effetto della quale “... ogni sperimentazione pubblica o privata, ovvero qualsivoglia forma di avventurismo, intesi a manipolare il termostato planetario sarà considerata una violazione di questo accordo accuratamente predisposto in sede di Nazioni Unite” (15). Si tratta di una decisione storica, benché abbia lasciate impregiudicate alcune importanti questioni (ad esempio, alcuni metodi di cattura del CO2 non classificati come geoingegneria) (16). A Nairobi, durante il 14° meeting del SBSTTA (Subsidiary body of Scientific, Technical, and Technological Advice, organo tecnico della Convenzione sulla Diversità Biologica) del maggio 2010, le Nazioni Unite hanno iniziato ad affrontare complessivamente il tema della “geo-ingegneria” (17). Era dai tempi dell’adozione del trattato EN MOD che l’argomento delle manipolazioni climatiche non veniva trattato in termini generali (18). Questo evento può essere considerato una tappa fondamentale nel percorso di discussione ed eventuale regolamentazione degli interventi geoingegneristici sul clima e fa seguito alla c.d. moratoria sulla fertilizzazione degli oceani negoziata nel 2008 in occasione della 9° Conferenza delle Parti (COP9) della Convenzione sulla Diversità Biologica, a Bonn (19). necessità di raccogliere dati scientifici specifici e assoggettati a una valutazione preliminare approfondita dei potenziali effetti sull’ambiente;» («...Ensure, in line and consistent with decision IX/16 C, on ocean fertilization and biodiversity and climate change, in the absence of science based, global, transparent and effective control and regulatory mechanisms for geo-engineering, and in accordance with the precautionary approach and Article 14 of the Convention, that no climate-related geo-engineering activities (76) that may affect biodiversity take place, until there is an adequate scientific basis on which to justify such activities and appropriate consideration of the associated risks for the environment and biodiversity and associated social, economic and cultural impacts, with the exception of small scale scientific research studies that would be conducted in a controlled setting in accordance with Article 3 of the Convention, and only if they are justified by the need to gather specific scientific data and are subject to a thorough prior assessment of the potential impacts on the environment; ... », consultabile su: http://www.cbd.int/decision/cop/?id=12299 (15) Così Silvia Ribeiro, Direttore dell’ETG Group per l’America Latina, alla conclusione dei lavori del COP10 a Nagoya, 23-29 ottobre 2010. Comunicato stampa del 29.10.2010, consultabile su: www.etcgroup.org (16) Su questo punto il governo Boliviano ha richiesto un’annotazione, per precisare che la mancata espressa esclusione della cattura e dello stoccaggio del biossido di carbonio dal novero degli interventi di geoingegneria vietati dalla moratoria non debba essere interpretata come approvazione di siffatte tecnologie nel regime della Convenzione sulla Diversità Biologica. Queste, infatti, richiedono comunque una piena valutazione della Conferenza delle Parti per quanto concerne il loro impatto sulla biodiversità in generale. (17) 14° - SBSTTA, Nairobi, UNEP Headquarters 10-21/5/2010, consultabile su: ww.cbd.int › Information › Meetings. (18) Trattato che metteva al bando l’uso di tecnologie miranti alla modificazione del clima per usi militari o “ostili”. Convention on the Prohibition of military or any other Hostile Use of Environmental Modification Tecniques, conosciuto come Trattato EN MOD, stipulato a Ginevra nel 1976. (19) 9° Conferenza delle Parti (COP9) della Convenzione sulla Diversità Biologica, Bonn, Germania, 19-30/05/2008 - Decisione IX/16.C, Ocean Fertilization under Biodiversity and Climate Change 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Ciò che è stato evidenziato in queste occasioni è che, di fronte alla necessità di affrontare gli squilibri del clima e i problemi derivati dall’inquinamento, esistono visioni del mondo profondamente diverse ed altrettante analisi e soluzioni. Da un lato, vi è la visione ispirata al paradigma economico ed ideologico industriale dello sviluppo ad oltranza, basato sull’impiego di combustibili fossili e responsabile in misura significativa dei problemi legati allo stato di sofferenza del pianeta; dall’altro, una concezione economico-sociale sistemica ed organica, che tiene conto sia della complessità e fragilità degli ecosistemi, sia della diversità antropologica e culturale ad essi connessa e che, pertanto, preferisce il ricorso a soluzioni di contesto capaci di suscitare effetti a cascata utili per risolvere il singolo problema/target. La prima, immagina la soluzione dei problemi da fronteggiare ricorrendo a criteri interventistici ad alto costo in linea con il medesimo approccio meccanicistico/ riduzionista che li ha creati e che, per così dire, si preoccupa di bloccare rapidamente il “sintomo” senza sapere esattamente quali saranno gli effetti collaterali; la seconda si affida al sapere tradizionale, arricchito dalle acquisizioni scientifiche più recenti in linea con quel patrimonio di conoscenze, preoccupandosi non solo del problema specifico che si vorrebbe eliminare ma, piuttosto, del “terreno”, cioè del contesto generale e della ricostituzione dell’equilibrio delle varie componenti al suo interno onde poter ottenere, per via indiretta, anche il riassorbimento del “sintomo” sfavorevole da correggere. I due diversi approcci alla soluzione dei problemi ambientali e climatici partono da presupposti epistemologici diversi e riflettono una dialettica che storicamente, per lo meno sino ad oggi, ha visto prevalere il primo ai danni del secondo. Per usare un’ormai famosa espressione coniata dalla scienziata ed ecologista Vandana Shiva, le monoculture della mente, ovvero il pensiero (http://www.cbd.int/decision/cop/?id=11659). Si tratta della c.d. moratoria sulla fertilizzazione degli oceani con polvere di ferro o altri nutrienti. I rappresentanti dei governi aderenti alla Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB) hanno discusso di geo-ingegeria, sia sotto forma di interventi di “fertilizzazione degli oceani” (per stimolare la crescita di alghe e tentare l’assorbimento di CO2), sia sotto forma di gestione della radiazione solare (blocco della luce solare). L’accordo è stato modulato sulla base della raccomandazione scaturita dal tredicesimo incontro del Sub-comitato Scientifico Intergovernativo della (SBSTTA13 - Intergovernmental Subsidiary Body on Scientific, Technical and Technological Advice) CDB, il 18-22/02/2008, a Roma. Successivamente, nel febbraio del 2009, il governo tedesco ha effettuato un esperimento di fertilizzazione dei mari della Scozia, infrangendo la moratoria internazionale e attirandosi la riprovazione della comunità internazionale. Il fallimento del governo tedesco di dimostrare l’efficacia della fertilizzazione degli oceani ha rafforzato l’impegno di mantenere la moratoria. Il subcomitato scientifico alla CDB (SBSTTA14) durante il quattordicesimo incontro a Nairobi, nel maggio del 2010, ha discusso la possibilità di allargare la moratoria a tutte le forme di geoingegneria. Conseguentemente, una bozza di proposta di moratoria è stata inoltrata al COP10 e, durante la 10°Conferenza delle Parti a Nagoya, quando il tema è stato di nuovo posto in agenda, nessun governo si è espresso contro. In questa sede il tema della geoingegneria è stato trattato sotto tre diversi aspetti: tematiche nuove ed emergenti, biodiversità marina e costiera, biodiversità e cambiamenti climatici. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 289 unico fondato sul mito totalizzante dell’oggettività della scienza (20), hanno avuto una posizione egemone rispetto ad altre realtà culturali - non necessariamente riconducibili alla polarità Occidente/Oriente - che esprimono paradigmi scientifici “altri” e che tendono a sostenere e preservare la diversità multiforme della manifestazione fenomenica, considerando anche gli opposti come elementi necessari dell’unità armonica. 2. Definizione del termine “geoingegneria” In Italia, sui maggiori vocabolari della lingua italiana (Sabatini-Colletti, Dizionario Treccani, Zanichelli, Devoto-Oli) non esiste ancora la voce “geoingegneria”. Il termine, comunque, è in uso per designare diverse applicazioni tecnologiche legate a problematiche di carattere idrogeologico o all’inquinamento dei suoli e delle falde acquifere, prevalentemente di origine antropica (21). La circostanza potrebbe essere, tuttavia, fuorviante, dato che alcuni enti (20) Galileo, Cartesio e Newton possono essere considerati i padri del razionalismo positivista, incentrato sulla certezza che un’accurata osservazione scientifica riuscisse a penetrare il cosmo fino a comprenderne l’essenza strutturale e sulla convinzione che nulla potesse sfuggire alla comprensione razionale dell’uomo. Nel ‘900, la nascita della fisica quantistica ha messo in crisi il modello meccanicista Principio di Indeterminazione di Heisenberg: non possiamo mai conoscere contemporaneamente e con precisione la posizione e la quantità di moto di una particella subatomica ed è impossibile percepire la realtà indipendentemente dall’osservatore. Ogni volta che tentiamo di indagare la realtà siamo costretti ad accettare che l’osservatore modifica il comportamento dell’osservato e che l’osservazione è necessariamente ristretta ad una parte del fenomeno osservato. L’unica possibilità che resta allo scienziato- osservatore è di formulare un modello della realtà basato sulla “probabilità”. Vedi anche il Teorema di Incompletezza di Godel: "Per ogni sistema formale di regole ed assiomi è possibile arrivare a proposizioni indecidibili, usando gli assiomi dello stesso sistema formale" . Sul problema del rapporto tra cognizione e percezione, si rinvia all’opera di G. Bateson, e K. Popper ed altri. Incidentalmente va detto che alcune visioni filosofiche orientali - ma anche alcuni presocratici - avevano compreso il problema della natura paradossale della realtà, della coesistenza di essere e non-essere. (21) A titolo esemplificativo, vedi: gli obiettivi formativi del corso di Geoingegneria Ambientale in programma per l’anno accademico 2010/2011, presso l’Università degli studi di Bari, Primo Settore scientifico-disciplinare, GEO/05: «Il corso fornirà le conoscenze necessarie nel campo ambientale per l'analisi della circolazione idrica sotterranea, per la valutazione della vulnerabilità degli acquiferi, per lo studio dell'inquinamento e della bonifica dei suoli e delle falde contaminate. Nel corso saranno trattati metodi ed approcci all'analisi di rischio e per la valutazione dell'impatto delle opere», su: www.dica.poliba.it/GeoingAmb_LS_38.htm; la descrizione delle attività istituzionali dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria IGAG/CNR, fa riferimento a: “Studi di base e applicativi riguardanti la storia geologica più recente del pianeta. Reperimento e sfruttamento delle risorse minerarie e dei materiali geologici, nonché studi di base per la geologia degli idrocarburi. Mitigazione dei rischi indotti dall'attività antropica (industriale e non) e dei rischi naturali, relativi agli effetti di terremoti, vulcani e frane. Modelli evolutivi geologici, tettonici e geomorfologici in aree continentali, costiere e marine. Tecnologie di scavo e di stabilizzazione, connessi problemi di sicurezza del lavoro, caratterizzazione fisico meccanica di rocce, indagini e monitoraggi per la stabilità” (consultabile sul sito: http://www.igag.cnr.it/index.html); L.I. GONZALEZ DE VALLEJO, Geoingegneria, 2005, Milano: «Questo testo rappresenta un manuale di riferimento che tratta in modo approfondito e aggiornato tutti gli aspetti della geoingegneria; la scienza applicata allo studio e alla soluzione dei problemi ingegneristici e ambientali che si producono come conseguenza dell’interazione fra attività umane e mezzo geologico. L’analisi geologica è fondamentale per progettare opere infrastrutturali, edilizie e minerarie, nonché per l’assetto del territorio e la pianificazione urbanistica. L’interpretazione delle 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 italiani (organismi istituzionali, istituti di ricerca e fondazioni), almeno a far data dal trattato di "Cooperazione Italia-USA su Scienza e Tecnologia dei cambiamenti climatici" del 2003, appaiono destinati ad impegnarsi in attività correlate alla “geoingegneria” nell’accezione comunemente utilizzata nel contesto internazionale come si vedrà appresso (22). Fatta questa doverosa premessa, occorre sottolineare che non esiste ancora una definizione univoca del termine, ma formulazioni varie proposte da autorevoli istituzioni scientifiche, per lo più di matrice anglosassone. L’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense ha definito “geoingegneria” gli «...interventi di ingegneria dell'ambiente su larga scala, allo scopo di combattere o contrastare gli effetti delle modificazioni chimiche nell'atmosfera » (1992) (23). Per la Royal Society britannica si tratta di: «... interventi deliberati su larga scala nel sistema climatico terrestre, al fine di mitigare il riscaldamento globale... », suddivisibili in due tipologie principali in relazione allo scopo perseguito: le tecniche di gestione della radiazione solare per rimandare indietro nello spazio una percentuale di luce e di calore, e i metodi diretti alla rimozione dell'anidride carbonica (CO2) dall'atmosfera (24). La Società Meteorologica Americana, una volta chiarito che la geoingegneria « ... consiste nella manipolazione deliberata degli aspetti fisici, chimici e biologici del sistema Terra», ne propone una classificazione tripartita a seconda che lo scopo dell’intervento riguardi: « ... 1) la riduzione dei gas serra, attraverso manipolazioni su vasta scala (ad esempio, fertilizzazione oceanica condizioni geologiche è l’obiettivo principale dell’ingegneria geologica, insieme con la prevenzione dei rischi geologici e la riduzione dei danni causati da disastri di origine geologica. Questo testo intende rispondere proprio a questi problemi. La Parte I tratta dei principi fondamentali: meccanica delle terre, meccanica delle rocce e idrogeologia, nonché dei metodi utilizzati: investigazioni in situ, prospezioni e cartografia geotecnica. La Parte II vengono invece presentate le applicazioni più importanti: fondazioni, pendenze, tunnel, dighe e strutture in terra. La Parte III è infine dedicata ai rischi geologici e al rischio sismico» (così la recensione al manuale consultabile sul sito www.ltu.pisa.it/schede/87192094.htm). (22) Allegato 4 - Piano di Dettaglio dei Lavori del Progetto di Cooperazione Italia-USA su Scienza e Tecnologia dei Cambiamenti Climatici, consultabile su: www.scribd.com/.../Piano-dettaglio- Accordo-Italia-USA-sul-Clima il 16/09/2003. (23) US Academy of Science, Committee on Science, Engineering, and Public Policy (COSEPUP), Policy Implications of Greenhouse Warming: Mitigation, Adaptation, and the Science Base (1992), par. 28, pag. 433: «Geoengineering - In this chapter a number of "geoengineering" options are considered. These are options that would involve large-scale engineering of our environment in order to combat or counteract the effects of changes in atmospheric chemistry». Consultabile su: www.nap.edu/ (24) Rapporto della U.K. Royal Society, pubblicato a Londra nel settembre 2009, Geoengineering the climate: science, governance and uncertainty, consultabile su: royalsociety.org/Geoengineering- the-climate/. Questo importante studio è stato posto a base del V° Rapporto del Comitato per la Scienza e la Tecnologia del Parlamento Britannico, pubblicato il 18.03.2010 e consultabile su: http://www.parliament.the-stationery-office.co.uk/pa/cm/cmsctech.htm CONTRIBUTI DI DOTTRINA 291 o riforestazione con specie non native); 2) il raffreddamento indotto della Terra, ottenuto riflettendo la luce solare (ad esempio, immettendo particelle riflettenti nell’atmosfera, posizionando degli specchi nello spazio, incrementando la riflettività di superficie, o alterando la quantità o le caratteristiche delle nuvole); 3) altre manipolazioni su larga scala, ideate per ridurre il cambiamento climatico o il suo impatto (ad esempio, costruendo delle tubazioni verticali negli oceani per aumentare il trasporto del calore nelle profondità marine» (25). L’IPCC (Comitato intergovernativo sui Cambiamenti Climatici), in una recente proposta formulata durante un incontro di esperti, nella quale si prevede la formazione di uno Scientific Steering Committee entro la prima metà del 2011, ha ricondotto alla nozione di geoingegneria: « ... la manipolazione deliberata su larga scala dell'ambiente planetario”, i cui metodi “...vanno classificali essenzialmente in due gruppi: gestione della radiazione solare e rimozione dell'anidride carbonica» (26). Molto pragmaticamente, già nel 1996, il Nobel per l’economia Schelling affermava che: «Geoingegneria è un nuovo termine che ancora necessita di una definizione. Sembra implicare qualcosa di globale, intenzionale ed innaturale... Ha il potenziale di semplificare enormemente la politica dei gas serra, trasformandola da regime normativo eccessivamente complicato in problema legato alla condivisione dei costi a livello internazionale, cosa che ci è familiare. Immettere cose nella stratosfera o mandarle in orbita probabilmente si può fare con programmi eso-nazionali (exonational), che non dipendono dal comportamento delle popolazioni, non richiedono regole nazionali o incentivi, né implicano una partecipazione universale. La sola cosa che comportano, è semplicemente decidere cosa fare, quanto fare e chi (25) Dichiarazione Politica dell’American Meteorological Society, Geoengineering the Climate System, 20.07.2009, «... geoengineering: deliberately manipulating physical, chemical, or biological aspects of the Earth system... Geoengineering proposals fall into at least three broad categories: 1) reducing the levels of atmospheric greenhouse gases through large-scale manipulations (e.g., ocean fertilization or afforestation using non-native species); 2) exerting a cooling influence on Earth by reflecting sunlight (e.g., putting reflective particles into the atmosphere, putting mirrors in space, increasing surface reflectivity, or altering the amount or characteristics of clouds); and 3) other large-scale manipulations designed to diminish climate change or its impacts (e.g., constructing vertical pipes in the ocean that would increase downward heat transport» (consultabile su www.ametsoc.org/.../2009geoengineeringclimate_amsstatement.html). (26) Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), V° Rapporto di Valutazione (AR5) - Proposta di un Incontro tra Esperti sulla Geoingegneria, 32° sessione Busan, 11-14 Ottobre 2010 IPCC-XXXII/Doc. 5, online sul sito: www.ipcc-wg3.de/meetings/expert.../emgeoengineering. «Geoengineering, or the deliberate large-scale manipulation of the planetary environment..... Geoengineering methods can be largely classified into two main groups: Solar Radiatio Management (SRM) and Carbon Dioxide Removal (CDR). While both approaches aim to reduce global temperatures, they clearly differ in their modes of action, the timescales over which they are effective, their effects on temperature and other climate variables (e.g., precipitation), and other possible consequences». 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 deve pagare» (27). Secondo la definizione adottata da uno dei suoi massimi sostenitori, “geoingegneria” è la manipolazione intenzionale dell'ambiente su larga scala; la geoignegneria climatica, in particolare, ha come obiettivo la mitigazione degli effetti negativi prodotti dalla combustione dei carburanti fossili in modo che si possa continuare il loro normale impiego: si tratta, quindi, di «... un espediente che si serve di tecnologia aggiuntiva per contrastare effetti non desiderati senza eliminarne la causa prima» (28). Detto in altri termini, la geoingegneria si serve di nuove tecnologie per cercare di rimediare ai problemi creati dall'impiego di vecchie tecnologie. Per qualificare come intervento di ingegneria climatica una data attività, secondo l’Accademico, occorre che sussistano quattro elementi fondamentali: scala, intenzionalità, tecnologia e azione di contrasto (29). Per il New Oxford Dictionary of English, (la voce è stata aggiunta nel 2010), la geoingegneria consiste nella «... deliberata manipolazione su larga scala di un processo ambientale che influenza il clima terrestre, nel tentativo di contrastare gli effetti del riscaldamento globale» (30). La nozione di geoingegneria accettata a Nagoya durante la 10° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica implica «... senza pregiudizio per le future deliberazioni sulla sua definizione» che: «.... qualunque nuova tecnologia che deliberatamente riduca l’insolazione o aumenti il sequestro di carbonio su larga scala nell’atmosfera con potenziale capacità di influenzare la biodiversità (escludendo la cattura e lo stoccaggio di carbonio prodotto da carburanti fossili, quando la cattura del biossido di carbonio avvenga prima che sia rilasciato in atmosfera) dovrebbe essere considerata come una forma di geoingegneria rilevante per la Convenzione sulla Diversità Biologica, fino a quando ne possa venire elaborata una definizione più precisa » (31). (27) T.C. SCHELLING, The Economic Diplomacy of Geoengineering, in Climatic Change Journal n. 33-1996, pag. 303-307: «... Geoengineering is a new term, still seeking a definition. It seems to imply something global, intentional, and unnatural. For the radiation balance, geoengineering may be fifty years in the future; today's means may be out of date then, and the future means are not yet known. It might immensely simplify greenhouse policy, transforming it from an exceedingly complicated regulatory regime to a problem in international cost sharing, a problem that we are familiar with. Putting things in the stratosphere or in orbit can probably be done by exo-national programs, not depending on the behavior of populations, not requiring national regulations or incentives, not dependent on universal participation. It will involve merely deciding what to do, how much to do, and who is to pay for it ». (28) D.W. Keith è diventato uno dei grandi sostenitori della geoingegneria. La citazione si trova su: D.W.KEITH, Engineering the Planet. Forthcoming, in Climate Change Science and Policy, ed. S. Schneider and M. Mastrandrea, (Island Press, 2009), disponibile su: www.ucalgary.ca/~keith/papers/ 89.Keith.EngineeringThePlanet.p.pdf (29) D.W. KEITH, Geoengineering the Climate: History and Prospect, in Annual Review of Energy and the Environment Vol. 25, 2000, pag. 245-284. (30) A. Stevenson (ed. by) Oxford Dictionary of English, Oxford , 2010. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 293 Tra le autorevoli ONG presenti alle negoziazioni a Nagoya, vi è chi ne ha fatto propria una nozione più estensiva: «La geoingegneria consiste nella manipolazione tecnologica intenzionale su larga scala dei sistemi terrestri, compresi i sistemi climatici» (32). L’uso del termine “geoigegneria” comunque, è controverso anche tra i sostenitori di questo tipo di tecnologie in quanto, ad avviso degli esperti di comunicazione, potrebbe generare reazioni sfavorevoli da parte dell’opinione pubblica. Infatti, durante il congresso di Asilomar (33), tenutosi in California nel marzo del 2010 allo scopo di elaborare le linee guida e il codice di autoregolamentazione del settore, gli scienziati hanno evitato accuratamente di utilizzare il termine proponendo anche di cambiare la denominazione delle tecniche di “gestione della radiazione solare” in "interventi sul clima", considerata più neutrale e quindi più adatta sotto il profilo delle pubbliche relazioni (in altri contesti, similmente, si era preferito parlare di ESTs, “environmental sound tecnologies”, o di “tecnologie innovative”) (34). Un (31) Nagoya 23-29/10/2010, 10° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica, Nagoya, Decisione X/33 Biodiversity and Climate Change, nota 76: «Without prejudice to future deliberations on the definition of geo-engineering activities, understanding that any technologies that deliberately reduce solar insolation or increase carbon sequestration from the atmosphere on a large scale that may affect biodiversity (excluding carbon capture and storage from fossil fuels when it captures carbon dioxide before it is released into the atmosphere) should be considered as forms of geo-engineering which are relevant to the Convention on Biological Diversity until a more precise definition can be developed. Noting that solar insolation is defined as a measure of solar radiation energy received on a given surface area in a given hour and that carbon sequestration is defined as the process of increasing the carbon content of a reservoir/pool other than the atmosphere», consultabile su: http://www.cbd.int/decision/cop/?id=12299. (32) ETC Group, Geopiracy ... cit., pag. 4. (33) Asilomar Conference Center, Asilomar, California, 22-26/3/2010, International Conference on Climate Intervention Tecnologies: Minimizing the Potential Risk to Counter-balance Climate Change and its Impacts, programma e relazioni consultabili sul sito: www.climateresponsefund.org/index.php?...id. Sulla Conferenza di Asilomar l’ETC Group in Geopiracy... cit., pag. 34, riferisce che: «... La Conferenza di Asilomar sugli interventi sul Clima, preparata da due organizzazioni statunitensi (la Climate Response Fund e la Climate Institute), si è tenuta nel marzo del 2010 in California. L’ evento si è ispirato al meeting di Asilomar del 1975 sul DNA ricombinante, che stabilì delle linee guida volontarie sulla ingegneria genetica e che “non solo permise di riprendere la ricerca genetica, ma aiutò anche a convincere il Congresso che non erano necessarie restrizioni legislative; in altri termini, che gli scienziati erano in grado di governarsi da sé”. La cosiddetta Conferenza Internazionale sugli Interventi sul Clima ha messo insieme 172 scienziati ed altri vari esperti, il cui lavoro è stato quello di predisporre delle linee guida volontarie che la “comunità scientifica” potrà usare per “governare” la ricerca e gli esperimenti. Eccetto quattro, tutti gli altri partecipanti di questo meeting “internazionale” provenivano da istituzioni del mondo industriale. Molti tra i partecipanti sono stati finanziati per la loro partecipazione. L’evento è stato finanziato dal Climate Response Fund, pubblicamente criticato per il conflitto di interesse causato dalla scelta degli sponsor e dai suoi legami con le attività commerciali di fertilizzazione degli oceani, e dalla Guttman Initiatives, specializzata nell’incremento ritorno degli investimenti negli affari introducendo nuovi prodotti, generando nuovi profitti, e aumentando il sostegno pubblico dell’industria attraverso pubbliche relazioni positive, proattive e campagne di marketing». (34) Di ESTs (Environmentally Sound Technologies) e di “tecnologie innovative”, si parla in vari punti del testo finale dei negoziati svoltisi durante la 13° Conferenza delle Parti dell’UNFCCC (Con- 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 altro argomento che spesso si evita accuratamente di associare alla “geoingegneria” è quello relativo alle tecnologie di “modificazione delle condizioni atmosferiche” (largamente impiegate, ad esempio, in agricoltura), come si evince anche dal V° Rapporto della Commissione per la Scienza e la Tecnologia presentato al Parlamento Britannico nel marzo del 2010, che le ha espressamente escluse dal novero delle tecniche geoingegneristiche ritenendo che per la loro portata locale e non globale siano inadatte a combattere i cambiamenti climatici (35). Le tecniche di modificazione delle condizioni atmosferiche (vietate dalla Convenzione EN MOD del 1976 quando perseguano scopi militari o ostili (36)), invece, hanno molto in comune per quanto attiene a storia, obiettivi, tecnologie, istituzioni e impatto potenziale, con gli schemi propri dell'ingegneria climatica. venzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico) a Bali, 3-14/12/2007, ove a seguito della previsione di un Piano d’Azione Bali (BAP), è stato istituito un gruppo di lavoro ad hoc per le Azioni Cooperative a Lungo Termine (AWG-LCA). Uno dei quattro pilastri del Piano d’Azione è il ricorso alla tecnologia (sul ruolo attribuito alla tecnologia dagli organi che fanno capo alla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici vedi anche l’opuscolo dell’UNFCCC “Why is Technology so important? (Perché la tecnologia è così importante?, reperibile su: unfccc.int/files/press/backgrounders/.../fact_sheet_on_technology.pdf)”. Secondo il testo, «il ruolo del mondo economico, come fonte di soluzioni al problema del cambiamento climatico globale, è universalmente riconosciuto»). In proposito è opportuno segnalare il rilievo dell’ETC Group sulla circostanza che, almeno sinora, nelle negoziazioni multilaterali in sede UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico), non sono stati presi in considerazione gli aspetti legati al rischio e alla valutazione delle tecnologie. Per quanto è dato conoscere, questo ruolo di analisti è stato svolto dalla UK Royal Society e dal gruppo di accademiche che hanno elaborato i c.d. Oxford Principles (su: http://www.sbs.ox.ac.uk/centres/insis/news/Pages/regulation-geoengineering.aspx), posti a base della recente decisione della Camera dei Comuni del Regno Unito di collaborare con gli Stati Uniti per definire le strategie di governance della geoingegneria in modo coordinato tra i due paesi. (35) The House of Commons Science and Technology Committee, The Regulation of Geoengineering cit., pag.18 «... 28. ... We conclude that weather techniques such as cloud seeding should not be included within the definition of geoengineering used for the purposes of activities designed to effect a change in the global climate with the aim of minimising or reversing anthropogenic climate change», online su: www.parliament.the-stationery-office.co.uk/pa/cm200910/.../221/221.pdf (ultima consultazione 07.04.2011). (36) Sul tema vedi: F. MINI, Owning the weather: la guerra ambientale globale è già cominciata, in LIMES, nov. dic. 2007, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso s.p.a., pag.82-83. Il Generale Mini avverte che: «...Se da un lato le riflessioni sul passato aprono gli occhi sulla verità dei fatti, dall'altro sollecitano le speculazioni sul futuro sulla guerra ambientale soprattutto in quei campo poco noti e tenuti segreti nei quali l'ambiente è diventato l'oggetto, lo strumento e il contenitore delle guerre per le risorse o soltanto per l'egemonia. Nessuno crede più che un terremoto, un'inondazione, uno tsunami o un uragano siano soltanto fenomeni naturali. E nessuno crede più che l'aggravarsi delle condizioni climatiche, vere o presunte, minimizzate o enfatizzate ad arte, sia "soltanto" il frutto di modifiche ambientali anche se causate dai gas serra o dalle emissioni umane. La sfiducia nelle fonti ufficiali corroborata dalle esperienze passate tende ad attribuire all'azione militare segreta, o ritenuta tale, la capacità e la volontà di provocare danni ambientali. Purtroppo molte illazioni non sono peregrine e anzi si basano su capacità e tecnologie ormai accettate e consolidate anche se ufficialmente negate o minimizzate... ». Si veda anche Weather as a force multiplier, uno studio del Dipartimento della Difesa, reso pubblico il 17/06/1996, commissionato dall’aeronautica statunitense al fine di esaminare concetti, capacità e tecnologie necessarie agli USA per rimanere la forza aerea e spaziale dominante, consultabile sul sito: csat.au.af.mil/2025/volume3/vol3ch15.pdf. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 295 3. Le tecnologie Nel settembre del 2009 la U.K. Royal Society ha pubblicato il rapporto Geoengineering the climate - Science, governance and uncertainty (Geoingeegnerizzare il Clima - Scienza, governance e incertezze), laddove per geoengineering deve intendersi: «... la manipolazione deliberata su larga scala dell’ambiente planetario per contrastare il cambiamento climatico antropogenico » (37). Lo studio prende le mosse dalla preoccupazione che il mancato consenso politico internazionale sulla necessità di ridurre le emissioni di gas serra e sull’adozione di misure adeguate per contrastarlo, potrebbe determinare un aumento della temperatura del pianeta fino a 4 gradi centigradi entro il 2100; conseguentemente, si propone di affrontare in modo obiettivo la questione se la geoingegneria possa e debba giocare un ruolo nell’affrontare il cambiamento climatico e a quali condizioni. Le proposte di geoigegneria esaminate nel rapporto hanno lo scopo di intervenire nel sistema climatico modificando deliberatamente l’equilibrio energetico della terra, per ridurre l’aumento delle temperature ed eventualmente stabilizzarle a un livello più basso rispetto a quello che si suppone potrebbe aversi altrimenti (38). Trattandosi di "... un espediente che si serve di tecnologia aggiuntiva per contrastare effetti non desiderati senza eliminarne la causa prima", secondo la definizione fornita da uno dei suoi più ferventi assertori, le proposte in questione si preoccupano esclusivamente di mitigare l’innalzamento della temperatura terrestre o di ridurre le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera (39). I metodi analizzati dalla Royal Society presentano grande variabilità, sia in termini di caratteristiche tecnologiche, sia per il loro possibile impatto sulla natura e sull’uomo, sia per le implicazioni di carattere giuridico e di governance. Pertanto, considerata la difficoltà di trovare dei criteri omogenei di classificazione, alla fine sono stati suddivisi in due gruppi principali: metodi di gestione della radiazione solare (SRM - Solar Radiation Management methods, cioé metodi che riducono l’ingresso della radiazione solare a onda corta, ultravioletta e visibile, deflettendo la luce solare o aumentando l’albedo del- (37) The Royal Society, Geoengineering... cit., pag. 1: «...Geoengineering, or the deliberate largescale manipulation of the planetary environment to counteract anthropogenic climate change, has been suggested as a new potential tool for addressing climate change». (38) Sulla reale sussistenza del presupposto assunto a fondamento giustificativo di siffatti interventi, cioè l’innalzamento della temperatura terrestre di 4 gradi centigradi entro il 2100, si rinvia quanto già detto al paragrafo 1. (39) Vedi sub nota 28. The Royal Society, Geoengineering..., cit., pag. 1: «Most geoengineering proposals aim either to reduce the concentration of CO2 in the atmosphere (CDR techniques, Chapter 2), or to prevent the Earth from absorbing some solar radiation, either by deflecting it in space before it reaches the planet, or by increasing the reflectivity of the Earth’s surface or atmosphere (SRM techniques, Chapter 3)». 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 l’atmosfera (40), delle nuvole o della superficie terrestre). I metodi di gestione della radiazione solare (SRM) possono comprendere interventi sulla superficie terrestre (modifica dell’albedo sulla terra e negli oceani); sulla troposfera (metodi di modificazione delle nuvole ecc.); sull’alta atmosfera (tropopausa e oltre, cioè, stratosfera e mesosfera) e nello spazio. I metodi per la rimozione dell’anidride carbonica (CDR - Carbon Dioxide Removal methods) si propongono di ridurre i livelli di CO2 in atmosfera permettendo alla radiazione di calore ad onda lunga in uscita (termico infrarosso), di fuggire più facilmente e possono operare con diverse modalità: aumentandone la cattura e lo stoccaggio da parte di sistemi biologici terrestri o marini, oppure utilizzando sistemi ingegneristici (fisici, chimici e biochimici). La lista dei metodi presi in considerazione nello studio della Royal Society più volte menzionato non è però esaustiva, in quanto tralascia altre opzioni quali, ad esempio, la copertura dei ghiacciai dell’Artico con materiale isolante o con una pellicola di materiale nanotecnologico per riflettere la luce solare e impedire lo scioglimento del ghiaccio (Stanford University et alt.); la formazione di “nubi” cilindriche alte 60.000 miglia, formate da miliardi di piccoli veicoli spaziali da lanciare a milioni di chilometri per ottenere una deviazione di circa il 10% della radiazione solare che raggiunge la terra (R. Angel e N. Woolf , University of Arizona, USA; D. Miller M.I.T., USA; S. P. Worden, NASA) (41), ed altri. 4. Metodi di gestione della radiazione solare (SMR) La U.K. Royal Society ha considerato questo gruppo di tecnologie come le “più promettenti”. Appresso è riportata, in modo sintetico, la descrizione dei principali metodi di gestione della radiazione solare (SRM) analizzati nel Rapporto. a) Aerosol nella stratosfera (Stratospheric aerosol methods) A giudizio dell’istituzione accademica più volte nominata, questi metodi appaiono i più ricchi di potenzialità, sia per la loro veloce implementabilità, sia perchè dovrebbero esser capaci di determinare cali di temperatura di vasta portata in tempi rapidi, oltre a generare effetti uniformemente distribuiti rispetto ad altri metodi. Si tratta di tecnologie che prevedono l’impiego di una grande varietà di molecole, prevalentemente di anidride solforosa, che dovrebbero essere rilasciate nella stratosfera in quantità massicce allo scopo di riflettere indietro nello spazio la luce solare. Nella scelta delle molecole candidabili, dovrebbero esser presi in consi- (40) L'albedo di una superficie è la frazione di luce o, più in generale, di radiazione incidente che viene riflessa indietro in tutte le direzioni. Essa indica il potere riflettente di una superficie. Se la parola albedo viene usata senza ulteriori specifiche, riguarda la luce visibile. (41) Queste ed altre tecnologie similari sono menzionate alle pagine 19-20 e 30-31-32 del rapporto dell’ETC Group, Geopiracy... più volte citato. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 297 derazione alcuni importanti fattori di differenziazione, quali la loro dimensione e la loro capacità o meno di fungere da conduttori elettrici. Per le molecole non conduttive, la dimensione ottimale per riflettere la luce solare dovrebbe essere di alcune decine di micron. È stata presa in considerazione anche la costruzione di micro-palloni per deflettere la luce solare, realizzati con l’impiego di nanotecnologie. Secondo la Royal Society, gli aerosol creati in laboratorio con l’impiego di tecniche di ingegneria potrebbero aggirare alcuni effetti collaterali importanti propri dell’aerosol a base di solfato e, inoltre, le molecole ottenute mediante ingegneria avanzata potrebbero essere progettate per avere una vita più lunga, per ridurre l’impatto dell’aerosol sulla chimica dell’ozono, o per rendere possibile al forcing radiativo (42) di concentrarsi in zone speciali, come le regioni polari. b) Vulcani artificiali La maggior parte delle eruzioni vulcaniche può aumentare molto significativamente gli aerosol di solfati nella stratosfera, incrementando così la quantità di luce solare che viene rimandata indietro nello spazio, con un potenziale effetto sul clima a livello della superficie terrestre della durata di parecchi anni. Nel 1991, l’eruzione del Monte Pinatubo nelle Filippine ha lanciato venti milioni di tonnellate di biossido di zolfo nella stratosfera e l’intero pianeta si è raffreddato di 0.5 gradi K circa. Sebbene l’idea dei vulcani artificiali non sia nuova, essendo stata proposta per la prima volta nel 1977, l’idea di fondo è stata oggetto di ulteriori elaborazioni negli ultimi anni e, dunque, l’emulazione degli effetti che le grandi eruzioni vulcaniche hanno avuto sul clima globale è stata oggetto di proposte per la geo-ingegnerizzazione del clima (e forse anche di alcuni esperimenti, come nel caso del vulcano Eyjafjallajokull, nel sud dell'Islanda, che l’anno scorso ha bloccato il traffico aereo europeo per oltre una settimana?). Gli scienziati pensano che una riduzione della luce solare pari al 2% potrebbe annullare l’innalzamento della temperatura che deriva dal raddoppio del CO2 in atmosfera. I sostenitori di questa tecnica consigliano di applicarla su scala regionale, per lo più nelle zone artiche, per ricostituire la massa ghiacciata o per fermarne lo scioglimento. Queste proposte mirano ad aumentare artificialmente l’aerosol di solfati (42) Il "forcing radiativo" la cui traduzione in lingua italiana potrebbe corrispondere a "forzante radiativo", è il nome dato all’effetto alterante dei gas serra sul bilancio energetico del sistema Terra-atmosfera. Un cambiamento nella radiazione netta media alla sommità della troposfera (cioè alla tropopausa), causato da un cambiamento o della radiazione solare oppure della infrarossa, è definito come forcing radiativo. Un forcing radiativo, quindi, produce una perturbazione del bilancio tra la radiazione entrante e quella uscente dalla tropopausa. Col tempo il sistema climatico reagisce alla perturbazione ristabilendo il bilancio radiativo. Un forcing radiativo positivo tende, mediamente, a riscaldare la superficie della terra mentre un forcing radiativo negativo tende, mediamente, a raffreddarla. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 nella stratosfera oltre i livelli naturali, causando un aumento dell’albedo planetario e perciò riducendo la radiazione solare in ingresso. Le molecole - per lo più solfati, ma non solo - dovrebbero essere irrorate da jet, idranti, razzi e ciminiere. c) Aumento dell’albedo Le tecnologie comprese in questo gruppo di interventi sono state classificate in base allo scopo che si prefiggono di raggiungere: far sì che tutto il pianeta, nel suo insieme, venga reso più chiaro per poter riflettere una maggior quantità di radiazione solare. • Sbiancamento delle nuvole Si è proposto che la terra possa essere raffreddata provocando l’aumento dell’albedo delle nuvole sugli oceani. Questa proposta nasce dall’osservazione che in alcune parti dell’atmosfera marina relativamente libere da polveri, l’incremento dei nuclei di condensazione (Cloud Condensation Nuclei - CCN) per unità di volume nelle nuvole marine di basso livello, ne accresce in modo significativo l’albedo e probabilmente anche la longevità. È stato dimostrato che, a parità di massa, nelle nuvole piccole molte micro-gocce si sparpagliano e pertanto riflettono più luce rispetto a una quantità minore di gocce più grandi, dato che la superficie occupata è maggiore. È stato anche dimostrato che il raddoppio della concentrazione naturale delle goccioline in quelle nuvole aumenterebbe l’albedo delle nuvole stesse in misura sufficiente a compensare, più o meno, il raddoppio del CO2 in atmosfera. Per l’implementazione di successo di queste strategie, è essenziale risolvere in primo luogo, il problema della creazione di una fornitura di molecole di diametro appropriato e in quantità sufficiente perchè possano fungere da nuclei di condensazione (CCN) e, in secondo luogo, quello dei mezzi per distribuirle. Il rilascio dagli aeroplani di polvere idrofila di tipo adatto può costituire, secondo la Royal Society, un mezzo agevole per scaricare in modo preciso i nuclei di condensazione nella locazione prescelta. Sinora l’attenzione è stata focalizzata sulla generazione di molecole sottili di sale marino ottenute dall’acqua di mare e poi diffuse da vettori marini convenzionali o aerei, o da vettori marini senza equipaggio radio-controllati disegnati ad hoc. Il numero di veicoli necessario a produrre con successo una quantità di raffreddamento planetario sufficiente a riportare le temperature al livello iniziale dell’era industriale, dovrebbe ammontare a 1500 vettori. • Praterie e coltivazioni OGM con maggiore potere riflettente rispetto a quelle naturali Le piante terrestri durante la fotosintesi tendono ad assorbire fortemente la parte visibile dello spettro solare, ma riflettono in larga misura le frequenze infrarosse. Tuttavia, l’albedo può variare significativamente a seconda dei tipi e delle varietà vegetali, in base alla differenza delle proprietà spettrali delle foglie, alla loro morfologia e alla struttura della copertura fogliare. Pertanto è CONTRIBUTI DI DOTTRINA 299 possibile aumentare in modo significativo l’albedo delle superfici ricoperte da vegetazione scegliendo accuratamente sia le specie e la varietà delle colture, sia le praterie. Alterare la radiazione foto-sinteticamente attiva assorbita, però, può ridurre la produttività delle piante e delle coltivazioni alimentari e non alimentari. • Deserti riflettenti Le aree calde desertiche sono circa il 2% della superficie totale terrestre e qui la radiazione solare presenta alti livelli di incidenza. Pertanto, un grande aumento nell’albedo dei deserti ha potenzialmente la capacità di produrre un’enorme forcing radiativo negativo. Si è proposto di ricoprire i deserti con una pellicola di polietilene alluminato per aumentare l’albedo media da 0.36 a 0.8 e fornire un forcing radiativo di -2.75 W/m2. In comune con altri metodi di forcing radiativo localizzato, questo approccio presenta un problema, in quanto può cambiare i modelli di larga scala della circolazione atmosferica, come il monsone dell’Africa orientale che porta la pioggia all’Africa sub-Sahariana. L’impatto ecologico associato a un tale cambiamento climatico e alla copertura del suolo, sarebbe chiaramente molto significativo nelle aree interessate e costituirebbe svantaggi molto seri se questo metodo fosse implementato su una scala larga abbastanza da essere efficace. • Imbiancamento dei tetti e degli insediamenti umani Una delle idee proposte suggerisce di aumentare la riflettività delle zone urbanizzate dipingendo i tetti, le strade e i lastricati di un “bianco” luminoso riflettente. Questa misura avrebbe maggiore efficacia nelle regioni assolate e durante l’estate quando potrebbero esservi dei co-benefici grazie al risparmio dell’aria condizionata. Occorre tenere a mente che il forcing radiativo globale che si può ottenere dipende dalla quantità di area urbana rischiarata, la quale, se non fosse sufficientemente vasta, sarebbe inutile. • Riforestazione La riforestazione su larga scala è generalmente considerata una strategia di mitigazione del cambiamento climatico, ma è stata anche considerata un metodo per incoraggiare il raffreddamento globale per mezzo di effetti bio-fisici. L’impatto complessivo delle foreste sul clima dipende molto dal luogo in cui si trovano. Le foreste delle zone tropicali e sub-tropicali tendono a raffreddare la superficie terrestre aumentandone l’evaporazione e la traspirazione, mentre le foreste situate alle alte e medie latitudini tendono a riscaldarla essendo più scure della neve sottostante e assorbendo, perciò, una maggior quantità di radiazione solare. La Royal Society ritiene che l’impatto biofisico complessivo delle foreste sulla temperatura media globale sia piccolo, ma che si possano avere impatti molto significativi sul clima a livello regionale. Ciò è particolarmente vero in alcune regioni semi-aride, quali il Sahel o alcune parti dell’Australia, che possono sostenere equilibri clima/vegetazione multipli. In questi luoghi è possibile mutare il sistema in uno stato semi-umido 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ripiantando delle foreste, sebbene l’effetto di questa operazione potrebbe provocare un riscaldamento, piuttosto che un raffreddamento complessivo. Molto probabilmente questi approcci non sono in grado di avere un impatto sufficientemente grande sull’equilibrio energetico terrestre complessivo nel pianeta (e perciò non vengono ulteriormente presi in considerazione nel rapporto). d) Metodi di gestione della radiazione solare (SRM) basati sullo spazio I metodi basati sullo spazio si propongono di ridurre la quantità di energia solare che raggiunge la terra posizionando degli scudi solari nello spazio per riflettere o deflettere la radiazione solare. Per ciascuno di questi approcci, i temi tecnici che devono essere affrontati riguardano il design degli scudi, la loro localizzazione, la quantità necessaria, le modalità di posizionamento e di mantenimento nella locazione prescelta. Il rapporto menziona la possibilità di piazzare deflettori di luce solare nelle orbite vicine alla Terra. Da evidenziare, tra le proposte esaminate dalla Royal Society, il posizionamento di 55.000 specchi, ciascuno di 100 metri quadrati, in orbite casuali; la creazione di un anello simile a quello di Saturno fatto di polvere di molecole con satelliti-guardiani posti sul piano equatoriale ad un’altezza tra i 2000 e i 4.500 km. (ciò schermerebbe dal sole i tropici dell’emisfero settentrionale, ma illuminerebbe l’emisfero meridionale di notte). Per conseguire questo risultato sarebbe necessaria una massa totale di 2 miliardi di tonnellate di polvere iniettata dalla terra o dalla Luna o da asteroidi. Una cinta di satelliti ultraleggeri, mantenuti in forma di anello mediante forza elettrodinamica, provvederebbero a svolgere la funzione di “guardiani” delle molecole (43). Un’alternativa al posizionamento di riflettori nella bassa orbita terrestre (43) U.K. Royal Society, Geoengineering... cit., pag. 32: «...A number of proposals have suggested placing sunlight deflectors in near-Earth orbits (Submission: McInnes). One method (US National Academy of Sciences 1992) proposed 55,000 mirrors, each with an area of 100 m2 in random orbits. An alternative suggestion (Mautner 1991) is to create a Saturn-like ring of dust particles with shepherding satellites, in the equatorial plane between altitudes of about 2000 and 4500 km. This would shade the tropics of the winter hemisphere but also tend to illuminate the summer hemisphere during night-time. To achieve a reduction in solar insolation of about 2%, that is approximately the amount of radiative forcing to compensate for a doubling of CO2, it is estimated that a total mass of dust particles of over 2 billion tonnes would be required. This would be injected into space from Earth, or possibly derived from the Moon or asteroids. A development of this idea (Pearson et al. 2006) is a ring of lightweight satellites, electrodynamically tethered into a ring in low Earth orbit so that no other shepherding is required. All of these near Earth orbit systems must trade-off mass against lifetime. If the reflecting systems are made with a very low mass per unit of solar scattering then launch costs could be correspondingly smaller; however, as the mass is reduced the solar scatterers will be rapidlyblown out of orbit by the light-pressure force exerted by the sunlight they are designed to scatter. Orbital decay therefore limits the extent to which mass can be reduced (Keith & Dowlatabadi 1992; Teller et al. 1997). For near earth orbits, the only proposed solution is to add mass but this adds to the total cost of launch and deployment ». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 301 consisterebbe nella scelta di piazzarli vicino al punto L1 (Lagrange1), che si trova a 1.5 milioni di chilometri tra la terra e il Sole, dove l’attrazione gravitazionale dei due corpi celesti si compensa. Per assicurare una riduzione del 2% dell’irraggiamento solare che raggiunge la terra, l’area occupata dagli schermi solari dovrebbe ammontare a circa 3 milioni di chilometri quadrati. Sono state fatte varie proposte per la composizione di schermi in postazione L1 tra le quali: dei rifrangenti fabbricati sulla luna di centomila tonnellate di vetro lunare; una maglia di fili superfini di alluminio dello spessore di un milionesimo di millimetro; uno sciame di trilioni di dischi riflettenti sottili, di cinquanta centimetri di diametro, da fabbricare nello spazio da asteroidi vicini alla terra; uno sciame di circa dieci trilioni di dischi finissimi rifrangenti ad alta definizione, di 60 centimetri di diametro, fabbricati sulla terra e lanciati nello spazio in blocchi di un milione ciascuno, un blocco ogni minuto per circa trent’anni. Questi modelli sperimentali sono disegnati in modo da far sì che la riduzione della radiazione solare assorbita compensi in modo esatto il forcing radiativo dovuto all’aumento della concentrazione dei gas serra. Lo scopo sarebbe quello di tornare a temperature simili a quelle presenti nel mondo pre-industriale, rimanendo nel mondo industriale attuale. Tutti i metodi SRM basati sullo spazio si prefiggono di ridurre la quantità totale di energia solare che entra in atmosfera. 5. Metodi di rimozione del biossido di carbonio (CDR) Nell’introdurre i metodi di rimozione del CO2 (Carbon Dioxide Removal), il Rapporto della Royal Society, fa propria l’ipotesi che l’aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera (CO2, N2O, CH4, O3 e Clorofluorocaburi) costituisca il principale fattore di riscaldamento del sistema fisico terrestre causato dall’uomo. Pertanto, la rimozione di questi gas dannosi dall’atmosfera, in linea di principio, dovrebbe imprimere una decelerazione al riscaldamento del pianeta e, in teoria, determinare una riduzione degli stessi gas fino al punto di bloccare il riscaldamento globale e iniziare un processo di raffreddamento del clima; inoltre potrebbe mitigare altre conseguenze deleterie, come l’acidificazione degli oceani. I metodi di cattura del CO2 (CDR) esaminati nel Rapporto, riguardano essenzialmente nuove tecnologie disponibili e presentano una sub-divisione a seconda che implichino interventi ecosistemici sugli oceani o sulla superficie terrestre, o che si servano prevalentemente di mezzi biologici, chimici o fisici. Nel valutare la potenziale efficacia di questi metodi, dovendosene considerare anche la scala spaziale e temporale di operatività, la Royal Society ha ritenuto improbabile la loro utilizzabilità su una scala sufficientemente vasta da determinare un cambiamento del clima in tempi rapidi, qualora fosse necessaria una «... “azione d’emergenza” per raffreddare il 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 pianeta su larga scala (44) ». a) Interventi sugli Ecosistemi Oceanici Comprendono vari metodi di fertilizzazione degli oceani. Sulla superficie del mare lo scambio di CO2 con l’atmosfera avviene molto rapidamente, mentre è molto più lento nelle profondità oceaniche. La maggior parte del CO2 rilasciato attualmente sulla terra, verrà trasferito in fondo al mare in un periodo di circa 1000 anni. Alcuni ingegneri del clima hanno perciò avuto l’idea di aumentarne la velocità di trasferimento, manipolando il ciclo oceanico del carbonio. Il CO2 dalla superficie oceanica si fissa grazie ai foto-sintetizzatori (fitoplankton, prevalentemente piante microscopiche, alghe). Una certa quantità del carbonio che queste assorbono va a fondo, in forma di materia organica composta dal residuo di fioriture di microalghe, materia fecale e altri detriti della catena alimentare. Questo materiale, nella sua discesa sul fondo degli oceani per forza di gravità, viene utilizzato come cibo da batteri ed altri organismi che progressivamente lo consumano. Respirando, questi, invertono la reazione che provoca la fissazione del carbonio e lo riconvertono in CO2, rilasciandolo poi nell’acqua. L’effetto combinato della fotosintesi in superficie, seguito dalla respirazione a maggiore profondità nella colonna d’acqua, rimuove il CO2 dalla superficie e lo libera in profondità. Questa “pompa biologica” esercita un importante controllo sulle concentrazioni di CO2 nell’acqua di superficie che, di ritorno, influenza fortemente la sua concentrazione in atmosfera. Per aumentare l’efficacia di questa “pompa”, è stato proposto di incrementare la quantità di nutrienti e determinare un aumento del fitoplankton con varie tecniche. • Fertilizzazione con polvere di ferro Questa è la tecnica di fertilizzazione maggiormente studiata, avendo dato luogo da almeno 15 anni a esperimenti su piccola scala. Tuttavia, la sua efficacia è risultata limitata e transitoria, poiché si è conseguito l’aumento desiderato di fitoplankton ma l’efficacia nello stoccaggio in fondo al mare del CO2 è stata «... sminuita da altri elementi limitanti, respirazione o ingestione da parte di zooplankton» (45). Ad oggi sono stati effettuati numerosi esperimenti che, tuttavia, non hanno raggiunto i risultati desiderati. • Fertilizzazione con azoto e fosforo Le conoscenze attuali suggeriscono che, a lungo termine, l’aggiunta di fosforo nella fertilizzazione degli oceani sarebbe più efficace dell’impiego di (44) Royal Society, Geoengineering..., op. cit., pag. 10: « ... It is very unlikely that such approaches could be deployed on a large enough scale to alter the climate quickly and so they would help little if there was a need for ‘emergency action’ to cool the planet on that time scale». (45) Royal Society, Geoengineering..., op. cit., pag. 18: «...These experiments have demonstrated only limited transient effects as increased iron led to the predicted phytoplankton bloom, but the effect is moderated either by other limiting elements, respiration or by grazing by zooplankton (Submission: ACE Research Cooperative; UK Met Office)». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 303 azoto e che l’uso di fosforo promuoverebbe la fissazione dell’azoto. Ad avviso della Royal Society, se paragonata a quella effettuata con polvere di ferro, la fertilizzazione a base di fosfati sarebbe da preferire ma richiederebbe l’impiego di una quantità molto maggiore di materiale, sottraendolo al settore agricolo ove è indispensabile per garantire la sicurezza alimentare. • Fertilizzazione con urea Nella maggior parte delle zone di mare aperto si pensa che uno dei nutrienti carenti sia l’azoto e, pertanto, è stata suggerita anche l’idea di utililizzare l’aggiunta di urea con funzione di fertilizzatore oceanico. • Modificazione dell’affioramento (upwelling) e affondamento (downwelling) oceanico Un secondo gruppo di tecniche, che interessano gli oceani, fonda sull’ipotesi secondo cui la rapidità di trasferimento nelle profondità oceaniche del carbonio presente in atmosfera può essere incrementata modificando l’affioramento o il capovolgimento della circolazione degli oceani. Si è proposto, perciò, di aumentare localmente il tasso di affioramento pompando l’acqua da parecchie centinaia di metri di profondità e promuovendo l’affondamento di acqua densa, nelle acque subpolari. La maggior parte del CO2 è trasportato nelle profondità marine dal capovolgimento della circolazione (“pompa di solubilità”) e non è dovuto alla sedimentazione biologica, per cui il procurato aumento della circolazione potrebbe portare a un sequestro più rapido del CO2. Tuttavia, ancora una volta, l’efficacia di questo metodo deve tener conto degli effetti non-locali dell’intervento; l’aumento dell’affondamento (o dell’affioramento), in una data zona dell’oceano, è compensato da un aumento di affioramento (o affondamento) in un’altra locazione che generalmente si trova dalla parte opposta del pianeta e che, a sua volta, avrà un’influenza sull’equilibrio del carbonio. La quantità di carbonio sequestrata nell’oceano dipenderà in modo critico dalla località e potrebbe addirittura essere negativa provocando il rilascio, piuttosto che l’assorbimento, del carbonio stesso. b) Interventi sugli Ecosistemi Terrestri Metodi correlati al Biochar e alla biomassa Nel crescere, la vegetazione terrestre rimuove grandi quantità di carbonio dall’atmosfera durante la fotosintesi. Quando gli organismi muoiono e si decompongono, la maggior parte del carbonio trattenuto ritorna nell’atmosfera. La crescita di biomassa può essere sfruttata in quattro diversi modi per ridurre l’aumento del CO2 nell’atmosfera: • Siti terrestri per il confinamento del CO2 Il carbonio può essere segregato in situ nel suolo, o sotto forma di biomassa in piedi. • Bioenergia e Biocarburanti Le biomasse possono essere raccolte e utilizzate come carburante in modo che le emissioni di CO2 derivanti dall’uso del carburante possano essere bi- 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 lanciate dalla cattura di CO2 derivante dalla crescita delle piante coltivate per produrre energia. L’impiego di bioenergia e di biocarburanti è considerato uno strumento per ridurre le emissioni, piuttosto che un metodo di geoingegneria, e per questo non viene preso ulteriormente in considerazione nel rapporto della Royal Society. • Bioenergia con cattura e sequestro di CO2 (BECS) Le biomasse possono esser raccolte e utilizzate come carburanti, con cattura e sequestro del risultante CO2. Ad esempio, si può utilizzare la biomassa per generare idrogeno o elettricità e sequestrare il CO2 prodotto all’interno di formazioni geologiche. • Biomasse per il sequestro di CO2 Le biomasse possono essere raccolte e segregate sottoforma di materiale organico, ad esempio, sotterrando scarti derivanti da alberi o coltivazioni, oppure come carbone (biochar). La produzione di bioenergia con sequestro di CO2 (BECS) si innesta sulle tecnologie già esistenti di produzione di bioenergia e biocarburanti e di cattura e sequestro del carbonio (CCS), ereditandone perciò vantaggi e svantaggi. La tecnologia BECS è già stata adottata su piccola scala ma non va necessariamente considerata come geoingegneria, pur presentando delle significative similarità e, pertanto, nel Rapporto della Royal Society è stata presa in considerazione a fini comparativi ma non analizzata in dettaglio. Le biomasse per sequestro di CO2 ed il biochar sono stati proposti come metodi di intervento nel ciclo naturale in modo che, una certa quantità o tutto il carbonio fissati dalla materia organica, possano venir immagazzinati nel suolo o altrove per centinaia o migliaia di anni. Ad esempio, è stato proposto il sotterramento di legna e scarti agricoli per immagazzinare il carbonio sia nel terreno, sia nelle profondità oceaniche, per impedire che la decomposizione lo restituisca all’atmosfera. Anche se non esiste molta letteratura scientifica su questo argomento, l’interesse degli investitori per questa tecnica sta crescendo. I metodi che prevedono il sotterramento di biomassa nel terreno o nelle profondità oceaniche richiedono, però, un consumo addizionale di energia per il trasporto, per il sotterramento e per il trattamento del materiale e, inoltre, esiste il pericolo assai grave che questo processo possa distruggere la crescita, il ciclo nutritivo e la produttività degli ecosistemi interessati: ad esempio, nelle profondità oceaniche, il materiale organico verrebbe decomposto ed il carbonio e i nutrienti restituiti alle acque superficiali posto che, generalmente, vi è presenza di ossigeno (a meno che non venga depositata una quantità di materiale sufficiente a creare condizioni anossiche, il che costituirebbe una perturbazione dell’ecosistema di grandissimo impatto). Il biochar (carbone) si crea con la decomposizione di materiale organico, normalmente attraverso un processo di riscaldamento, in un ambiente con quantità di ossigeno infima o pari a zero. Conosciuto come pirolisi, il processo CONTRIBUTI DI DOTTRINA 305 di decomposizione produce sia biochar sia biocarburanti (syngas e bio-olio). Gli atomi di carbonio presenti nel carbone presentano legami molto più forti tra loro, rispetto alla materia vegetale, e perciò il biochar è in grado di resistere alla decomposizione provocata dai micro-organismi e sigilla il carbonio per periodi di tempo molto più lunghi. La gamma di potenziali “materiali grezzi” (‘feedstocks’) per creare biochar è vasta e include, ad esempio, legname, fogliame, scarti alimentari, paglia e letame; si specula che l’aggiunta di biochar nel terreno possa aumentarene la produttività agricola e, per questi motivi, il biochar viene talvolta proposto come la risposta ideale a un gran numero di problemi diversi. Una delle domande chiave, a proposito del biochar, è se sia meglio sotterrare o bruciare il materiale, rimanendo aperta la questione del grande impatto sui gas serra in atmosfera che il processo di pirolisi della biomassa e di sotterramento del carbone avrebbero, rispetto alla semplice combustione in un normale impianto di produzione energetica. I sostenitori delle tecniche di utilizzazione di biomassa per sequestro affermano che sia possibile ottenere il sequestro di grandi quantità di CO2 (carbon sink da 5.5 a 9.5 GtC/anno entro il 2100). Queste previsioni scommettono sulla futura crescita esponenziale delle risorse destinate alla produzione di biocarburanti e del fatto che una grande porzione di queste verrà riservata alla conversione in biochar. L’impiego di determinate coltivazioni per ottenere biochar su una scala così vasta, tuttavia, potrà facilmente entrare in conflitto con la necessità di utilizzare i terreni agricoli per la produzione alimentare e/o di biocarburante. Inoltre, com’è il caso per i biocarburanti, esiste il fondato pericolo che eventuali incentivi alla produzione abbiano ad esito la riduzione della disponibilità e l’aumento del costo del cibo, se la produzione di coltivazioni per biomassa dovesse diventare più redditizia della produzione alimentare. Le ultime tre tecniche di rimozione del CO2 (CDR) prese in considerazione nel più volte menzionato Rapporto della Royal Society, consistono nell’: • Aumento della dissoluzione di rocce (land and ocean-based methods) Il biossido di carbonio viene rimosso in modo naturale dall’atmosfera dopo migliaia di anni, per mezzo di processi che coinvolgono la dissoluzione delle rocce composte da carbonati e silicati. Le rocce a base di silicati reagiscono al CO2 formando carbonati. Non sussistono dubbi sulla capacità chimica dei silicati e carbonati di provocare un decremento delle emissioni e delle concentrazioni di CO2 presenti in atmosfera. I primi ostacoli, tuttavia, dipendono dalla scala dell’intervento, dai costi e dalle possibili conseguenze ambientali. La scala industriale degli sforzi di mitigazione del CO2 dovrebbe corrispondere, nell’ordine di grandezza, alla scala del sistema energetico che produce il CO2. Alcuni metodi propongono di ricorrere a massicce quantità di silicati, come l’olivina: grandi quantità di roccia dovrebbero essere estratte dalle miniere e ridotte in polvere, per poi essere trasportate sui terreni dove dovrebbero essere disperse. Si stima che servirebbero almeno 7 chilometri cu- 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 bici all’anno di questi silicati, per avere a disposizione la quantità necessaria a compensare il CO2 prodotto. Una variante di questo processo consiste nel rilascio negli oceani dei materiali dissolti. Prima della loro implementazione, queste tecniche hanno bisogno di maggior comprensione degli effetti indesiderati, del costo per l’intero ciclo e dell’impatto ambientale. La loro adozione provocherebbe un grande aumento dell’alcalinità delle acque oceaniche, che potrebbe compensare il problema della loro acidità ma, allo stato attuale, non si sa ancora se tutti gli effetti combinati tra loro saranno o meno benefici per la chimica e per la biologia delle aree d’intervento. Inoltre, per essere adeguate allo scopo, tutte queste proposte richiedono imponenti attività di estrazione mineraria e di trasporto su grande scala. Alcune opzioni, tra l’altro richiedono vastissime quantità di acqua. • Cattura del biossido di carbonio dall’aria Quello della cattura in aria è un processo industriale di estrazione del CO2 dall’aria circostante che produce una corrente di CO2 puro da usare, o di cui disfarsi. Non vi è dubbio che le tecnologie di cattura dall’aria potrebbero essere sviluppate; la loro fattibilità tecnica è dimostrata, ad esempio, dai sistemi commerciali che catturano il CO2 dall’aria per poi utilizzarlo in processi industriali successivi. Molti metodi di cattura dall’aria sono stati studiati in laboratorio, ma nessun prototipo su larga scala è mai stato testato e rimane da verificare se questi metodi siano sostenibili sotto il profilo dei costi. • Gestione dell’uso del suolo, afforestazione, riforestazione e divieto di deforestazione Questi interventi NON sono normalmente considerati geongegneria e, secondo un precedente studio condotto dalla Royal Society nel 2001, a lungo termine, avrebbero un potenziale limitato. Gli ecosistemi terrestri rimuovono circa 3 GtC/anno (gigatonnellate di carbonio per anno) dall’atmosfera grazie alla crescita netta vegetale, che assorbe circa il 30% delle emissioni di CO2 derivate dalla combustione di carburanti fossili e deforestazione netta, mentre gli ecosistemi forestali del mondo catturano oltre il doppio del carbonio presente in atmosfera. Quindi, semplici strategie basate sulla protezione e sulla gestione degli ecosistemi-chiave contribuirebbe in misura significativa ad aumentare l’eliminazione naturale del CO2 dall’atmosfera. Sfortunatamente, le emissioni derivanti dal cambiamento nell’uso del suolo, in primo luogo la deforestazione, contano per un buon 20% di tutte le emissioni di gas serra di origine antropica. Ed è la fonte di emissioni che cresce più rapidamente. 6. Alcuni rilievi critici: impatto sull’ambiente e sulla salute umana Sin qui ci siamo occupati dei principali metodi di geoingegneria presi in esame nel Rapporto della prestigiosa istituzione accademica britannica più volte menzionata la quale, nel rilevare analiticamente i profili problematici propri di ciascuna delle tecniche considerate (46), ha sostanzialmente concluso CONTRIBUTI DI DOTTRINA 307 (46) Secondo la Royal Society, la geoingegneria applicata attraverso metodi di rimozione dell’anidride carbonica (CDR) è tecnicamente fattibile ma lenta e relativamente costosa. I costi diretti e i rischi locali associati ad alcuni metodi particolari differiscono sensibilmente gli uni dagli altri ma sono paragonabili (o maggiori) a quelli dei sistemi di mitigazione del clima convenzionali. Le tecnologie di rimozione del CO2 e molte delle loro conseguenze sono diverse da quelle relative alle tecnologie che comportano la modificazione dell’albedo. I metodi CDR agiscono molto lentamente, e mentre riducono le concentrazioni di CO2, agiscono sulle cause del cambiamento climatico e delle sue conseguenze. Le tecniche CDR più desiderabili sono quelle che rimuovono il carbonio dall’atmosfera senza perturbale altri processi dei sistemi terrestri e senza richiedere deleteri cambiamenti nell’uso delle terra. La cattura ingegnerizzata dall’aria e le tecniche di dissoluzione (di rocce n.d.r.) potenziata sarebbero strumenti altamente desiderabili se fosse possibile affrontarli senza inaccettabili effetti localizzati. Le tecniche CDR che sequestrano carbonio, ma che hanno implicazioni legate all’uso della terra (come il biochar e il sistema di dissoluzione potenziata sul terreno) possono rappresentare un utile contributo ma forse solo su piccola scala e richiedono ulteriori ricerche per identificare le circostanze che le renderebbero economicamente possibili e socialmente sostenibili. Per le tecniche che intervengono direttamente sui sistemi terrestri (come la fertilizzazione degli oceani) la Royal Society ha ritenuto necessaria l’intensificazione delle attività di ricerca per determinare se possono sequestrare carbonio in modo affidabile ed economicamente sostenibile, senza avere inaccettabili effetti collaterali. I metodi di gestione della radiazione solare (SRM), se largamente impiegati, potrebbero conseguire un rapida diminuzione delle temperature globali (da pochi anni a un decennio) a un tasso e a un livello che non potrebbe essere raggiunto attraverso la mitigazione, anche se le emissioni di carbonio fossero istantaneamente ridotte a zero. Tuttavia, tutti i metodi SRM presentano un aspetto non trascurabile: non si dispone di una exit strategy credibile nel caso in cui qualcosa andasse storto. Alcuni degli studi condotti indicano che il clima conseguente al loro impiego sarebbe diverso da quello che si avrebbe se invece si procedesse con le metodiche di riduzione delle concentrazioni di CO2. Ad esempio, con una riduzione uniforme della radiazione solare, probabilmente le precipitazioni tropicali verrebbero ridotte e inoltre, non essendo possibile affrontare accuratamente più di un aspetto del cambiamento climatico alla volta, vi sono serie lacune nella capacità dei modelli attuali di stimare aspetti come le precipitazioni e le tempeste, con conseguente incertezza circa gli effetti delle SRM sotto questo profilo. Ad avviso della Royal Society, i metodi di gestione della radiazione solare possono essere utili in futuro se si potrà provare che i rischi che comportano sono gestibili e accettabili o se si proverà che il sistema climatico si sta avvicinando a un punto di non ritorno. Le tecniche SRM non rappresentano, tuttavia, il modo ideale di affrontare il cambiamento climatico perchè non agiscono su tutti gli effetti e i rischi ad esso connessi (l’acidificazione degli oceani, ad esempio), vi sarebbero probabilmente degli effetti indesiderati (ad es. sull’ozono nella stratosfera), e potrebbero introdurre il rischio, nuovo e vasto, di ottenere effetti sconosciuti sui sistemi terrestri. L’adozione su larga scala di metodi SRM creerebbe un equilibrio artificiale, approssimativo e potenzialmente delicato, tra un riscaldamento da gas serra continuato e la ridotta radiazione solare che dovrebbe essere mantenuto, potenzialmente, per molti secoli. Si dubita che un tale equilibrio sia veramente sostenibile per periodi di tempo così lunghi, particolarmente con una continua e forse aumentata emissione di CO2 e di altri gas serra (ad esempio, attraverso lo sfruttamento di carburanti fossili non-convenzionali come gli idrati di metano). Prima che alcuno dei metodi SRM venga applicato, è prudente e desiderabile che vengano effettuate ulteriori ricerche per migliorare la comprensione dei rischi e del loro impatto, al fine di ridurre le incertezze a un livello accettabile. A causa dei caveats di cui sopra, la valutazione effettuata dalla Royal Society suggerisce che la sola tecnica di gestione della radiazione solare (SRM) sufficientemente efficace e che potrebbe essere implementata rapidamente (entro uno o due decenni) sarebbe l’uso di una qualche forma di aerosol stratosferico, ma si dovrebbero determinare e giudicare relativamente scarsi i potenziali effetti collaterali (ad es., sull’ozono stratosfererico e nelle nuvole nell’alta troposfera). È possibile che entro un secolo un approccio di tipo SRM basato sullo spazio potrebbe essere conveniente sotto il profilo dei costi. Se si riuscisse a dimostrare la fattibilità tecnica e l’assenza di effetti collaterali indesiderabili, i metodi di aumento dell’albedo delle nuvole potrebbero essere applicati in tempi relativamente rapidi. È importante notare che, rispetto all’impatto del cambiamento climatico in sé e per sé, probabilmente gli effetti non voluti provocati dalla geoingegneria sull’ambiente sarebbero meno significativi. L’impatto ambientale della maggior parte dei metodi non è stato ancora adeguatamente valutato, ma è probabile che possa variare considerevolmente in relazione alla loro natura ed 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 affermando che la geoingegneria attuata per mezzo dei metodi di cattura del carbonio è tecnicamente fattibile, ma lenta e relativamente costosa mentre, se realizzata con i metodi di gestione della radiazione solare con aerosol stratosferici, potrebbe conseguire un rapida diminuzione delle temperature globali a un minor costo e costituirebbe il “piano B” ideale se eventi climatici eccezionali ne richiedessero l’implementazione (pur presentando il non trascurabile problema che potrebbe produrre effetti irreversibili sulla vita della terra, non esistendo una exit strategy credibile nel caso in cui qualcosa non funzionasse secondo le aspettative) (47). Interessanti rilievi critici, prevalentemente di carattere tecnico, sulle proposte di manipolazione del clima di cui si è parlato nei paragrafi precedenti, sono giunti anche dalle organizzazioni della società civile più attente all’evolversi degli eventi nel panorama delle politiche ambientali, soprattutto quelle estensione e, in alcuni casi, potrà essere molto difficile da stimare. Per tutti i metodi considerati, particolarmente per i metodi di gestione della radiazione solare (SRM), le condizioni climatiche ottenute non saranno esattamente paragonabili a quelle i cui effetti negativi siano stati cancellati, e ciò a causa di variabili critiche diverse dalla temperatura che sono molto sensibili alle differenze regionali (come ad es., i sistemi atmosferici, la velocità dei venti e le correnti oceaniche). Le precipitazioni sono molto sensibili alle piccole variazioni del clima ed è quindi molto probabile che ne vengano influenzate, in modi difficili da prevedere. Si aggiunga che tutti i metodi avranno molto probabilmente degli effetti collaterali indesiderati sull’ambiente e necessitano di essere attentamente valutati e monitorati: nel caso dei metodi di gestione della radiazione solare (SRM) riguardano la considerazione dell’impatto ecologico su un mondo con alte concentrazioni di CO2 e degli effetti imprevedibili del cambiamento causato da una risposta forzata alla diminuzione della temperatura in condizioni di alta CO2 nei sistemi naturali. Nel caso dei metodi di cattura del CO2 (CDR) l’impatto ambientale sarà provocato dal processo in sé, piuttosto che dagli effetti sul clima, ma per i metodi che comportano la manipolazione di ecosistemi l’impatto potrebbe essere sostanziale. (47) Royal Society, Geoingeneering... cit., pag. 36: « ... ‘Termination effect’ qui si riferisce alle conseguenze di uno stop improvviso o all’insuccesso di un dato sistema di geoingegneria. Per gli approcci SRM, che mirano a bilanciare gli aumenti dei gas serra riducendo la quantità di radiazione solare in assorbimento, l’insuccesso potrebbe comportare un aumento relativamente rapido della temperatura rispetto al quale, l’adattamento, sarebbe più difficile se paragonato alla situazione in cui si verificasse un mutamento delle condizioni climatiche senza interventi di geoingegneria. I metodi SRM che producono la maggior quantità di forcing negativo, e che si affidano alla tecnologia avanzata, sono considerati quelli a più alto rischio sotto questo aspetto», («... ‘Termination effect’ refers here to the consequences of a sudden halt or failure of the geoengineering system. For SRM approaches, which aim to offset increases in greenhouse gases by reductions in absorbed solar radiation, failure could lead to a relatively rapid warming which would be more difficult to adapt to than the climate change that would have occurred in the absence of geoengineering. SRM methods that produce the largest negative forcings, and which rely on advanced technology, are considered higher risks in this respect»; vedi anche, pag. 56: «... Sarebbe rischioso intraprendere una massiccia implementazione su larga scala dei metodi SRM in assenza di una exit strategy chiara e credibile, per esempio, una transizione a fasi verso metodi CDR più sostenibili, dopo alcuni decenni. Ciò implica la necessità di condurre ricerche in parallelo su entrambi i metodi SRM e CDR, dato che metodi CDR richiedono più tempo» «...It would be risky to embark on major implementation of SRM methods without a clear and credible exit strategy, for example a phased transition after a few decades to more sustainable CDR methods. This implies that research would be needed in parallel on both SRM and CDR methods, since CDR methods have a longer lead-time». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 rivolte alla tutela della biodiversità. Infatti, è proprio nell’ambito delle conferenze periodiche della Convenzione di Rio per la Protezione della Diversità Biologica che la decisione generalizzata di vietare ulteriori sperimentazioni dei metodi di geoingegneria più azzardati ha potuto essere adottata. Per quanto siano stati individuati numerosi altri beni e interessi pubblici specifici, protetti da altrettante norme internazionali (48) che potrebbero essere vulnerati dal proseguimento di attività geo-ingegneristiche, la fonte di maggior preoccupazione è certamente costituita dal rischio per la biodiversità vegetale e animale (49) che la diffusione di materiale nanotecnologico o di molecole tossiche o (48) Non esaustivamente: la Convenzione di Vienna sulla Protezione dello Strato di Ozono 1985 e il Protocollo di Montreal del 1987, la Convenzione sulla Proibizione dell’Uso Militare o Ostile delle Tecniche di Modificazione Ambientale del 1976, (ENMOD), la Convenzione di Londra del 1972 e relativo Protocollo del 1996, la Convenzione ECE- ONU sull’Inquinamento Transfrontaliero a Lunga Distanza ((CLRTAP) del 1979, il Trattato sullo Spazio Extra-atmosferico del 1967 (Outer Space Treaty- OST), ecc. (49) Oltre ai problemi legati allo stravolgimento delle condizioni atmosferiche e degli ecosistemi, recentemente, i media hanno riportato la notizia di misteriose morti di massa di uccelli e pesci, a migliaia, in molte parti del mondo, dall’Arkansas alla Svezia, Italia compresa (per una collazione degli principali episodi riferiti dalla stampa vedi: Collation of Dead Birds and Fish 06.01.2011, consultabile online su: http://www.dailynewsupdate.org/post/dead-birds-and-fish-timeline.html). La spiegazione di questo fenomeno è stata ricollegata a vari fattori (fulmini, uragani, spavento dei volatili suscitato dai fuochi d’artificio (Swedish birds “scared to death”: veterinarian www.thelocal.se/31262/20110105/). Dozens of crows fell from the sky in Maine, consultabile su: http://www.sott.net/articles/show/125470-Dead-birdsfalling- from-the-sky-in-Maine; Pelicans Are Falling Out of the Sky (and Other Mysterious Mass Animal Deaths), consultabile su: http://ecosalon.com/pelicans-are-falling-out-of-the-sky-and-othermysterious- mass-animal-deaths/; Truckloads of fish dying in the Murray River, Australia Report is from 2009, situation is ongoing, su: http://www.dailytelegraph.com.au/news/truckloads-of-fish-dying-in-themurray/ story-e6freuy9-1111118907622; New Zealand, dicembre 2010, Penguins, petrels and other seabirds are dying in large numbers and washing up on our shores, says the Department of Conservation (DOC), NZ. http://www.newstalkzb.co.nz/newsdetail1.asp?storyID=188024 http://www.scoop.co.nz/stories/ AK1012/S00781/unusual-weather-conditions-causing-mass-death-among-seabirds.htm; North Carolina, USA. dicembre 2010. Large number of pelicans. Cause: presently unknown (awaiting results) http://www.enctoday.com/news/-86417-jdn--.html; Arizona, USA. 26 dicembre 2010, 70 plus bats. Cause - one theory is because it was “unseasonably warm” http://www.azcentral.com/news/articles/ 2010/12/28/20101228tucson-70-dead-bats-found.html; http://azstarnet.com/news/local/crime/article_ 0c307d8f-baf4-5a2f-ab95-93c7d846ff30.html; Illinois, USA. dalla fine di dicembre 2010 in poi, Multiple birds (estimate 50 - 100), clustered around a few households. Cause unknown: http://www.associatedcontent. com/article/6185536/dead_birds_reported_by_residents_in.html?cat=8; Kentucky, USA. dicembre 2010. Lots of birds (seemed to fall only in this lady’s backyard) Cause unknown http://www.wpsdlocal6.com/news/local/Woman-reports-dozens-of-dead-birds-in-her-yard- 112830524.html; Tennessee, USA. Estimated time of death last week of December 2010 120 blackbirds (very localised cluster). Cause unknown: http://www.wsmv.com/news/26379609/detail.html; Georgia, USA. 30 dicembre 2010. 3 rare cranes (all found together). Cause unknown: http://www.courierjournal. com/article/20110105/NEWS01/301050085/Authorities+investigate+whooping+crane+deaths; Chile, South America, 2 gennaio 2011, Thousands of birds fall from the sky and die: http://www.youtube. com/watch?feature=player_embedded&v=mrlH3BgKPxk; Manitoba, Canada, 3 gennaio 2010. 10,000s of Birds Found Dead in Manitoba Cause : local reports suggest bird flu http://www.bbsradio.com/cgi-bin/webbbs/webbbs_config.pl?md=read;id=11811; Louisiana, USA. (Labarre) 3 gennaio 2011. 500 blackbirds and starlings. Cause presently unknown: http://www.wbrz.com/news/hundreds-of-dead-blackbirds-found-near-new-roads/; Italy, around 3 gen- 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 l’alterazione su larga scala degli ecosistemi ottenuta con altre tecniche potrebbe determinare (quanto ai rischi per la salute umana, limitatamente alla tecnica di raffreddamento della temperatura terrestre che implica l’uso di aerosol a base di fosfati, secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità risalente al 2006, l’inquinamento che ne deriva sarebbe causa di 500.000 morti premature all’anno (50)). Un modellamento preliminare delle metodiche di gestione della radiazione solare (SRM) suggerisce che, se i programmi di geoingegneria dovessero iniziare e poi essere fermati in modo brusco - eventualità facile a verificarsi se l’insorgere di imprevisti lo imponesse - potrebbe aver luogo un rapido aumento delle temperature, estremamente più pericoloso per la vita della terra rispetto ad un eventuale loro aumento graduale. Inoltre, la riduzione della quantità di luce solare, alterando la lunghezza d’onda della luce solare in ingresso, minerebbe alla base il processo naturale della fotosintesi clorofilliana, essenziale per la vita delle piante, esercitando un’influenza nefasta su tutta la catena alimentare. Un altro elemento di criticità è stato recentemente rilevato anche dall’American Meteorological Society che, nella sua bozza di dichiarazione sulla geoingegneria, avverte come le proposte di ridurre la quantità di sole che raggiunge la terra non si limiterebbero ad abbassare la temperatura ma potrebbero «... anche cambiare la circolazione globale, con potenziali gravi conseguenze, quali la modifica dei percorsi delle tempeste e degli schemi di precipitazione, in tutto il mondo. Tra l’altro, un cambiamento del clima indotto dall’uomo e le conseguenze derivate dall’alterazione del percorso della luce solare, quasi certamente, non sarebbero uguali per tutte le nazioni e per tutti i popoli, determinando l’insorgere di questioni di carattere etico, diplomatico, e preoccupazioni naio 2011, 300 doves. Cause unknown at this time http://www.geapress.org/ambiente/faenza-piovonotortore- morte-foto/10282; Japan, 3 gennaio 2011. Multiple birds death. Suspected : avian flu: http://www.nytimes.com/2011/01/04/health/04global.html?_r=4; http://search.japantimes.co.jp/cgibin/ nn20101220a2.html; Sweden, 4 gennaio 2011. 50 - 100 jackdaws. Local vet theorises they were scared by fireworks, landed on a road and “didn’t know how to fly away from cars which hit them”: http://www.thelocal.se/31262/20110105/; East Texas, USA, 5 gennaio 2011. 200 birds found dead on a bridge. Theory: “Hit by cars”; http://www.allvoices.com/contributed-news/7800408-now-east-texasalso- reports-hundreds-of-dead-birds. (50) Citazione dei dati OMS da P. J. CRUTZEN, Albedo enhancement by Stratospheric sulfur injections: a contribution to resolve a policy dilemma?, in Climate Change (Springer), n. 3-4 del 2006, vol. 77, pag. 211-219 «... L’aumento antropogenico delle concentrazioni di solfati raffredda, perciò, il pianeta, bilanciando una frazione incerta dell’aumento antropogenico del riscaldamento da gas serra. Tuttavia, questa fortunata coincidenza si “acquista” a caro prezzo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le molecole inquinanti hanno un impatto sulla salute e hanno provocato oltre 500.000 morti premature all’anno in tutto il mondo» («... Anthropogenically enhanced sulfate particle concentrations thus cool the planet, offsetting an uncertain fraction of the anthropogenic increase in greenhouse gas warming. However, this fortunate coincidence is “bought” at a substantial price. According to the World Health Organization, the pollution particles affect health and lead to more than 500,000 premature deaths per year worldwide (Nel, 2005)»). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 311 legate alla sicurezza nazionale (51)». Un ulteriore rilievo, da non sottovalutare, è che i metodi di gestione della radiazione solare (SRM) si preoccupano soltanto di rallentare o fermare il tasso di riscaldamento del pianeta - ammesso che ciò, come si è detto in premesse, continui ad essere un valido presupposto -, ma sembrano non curarsi di abbassare i livelli di CO2 e di altri gas serra dannosi presenti nell’atmosfera. Mirando esclusivamente ad impedire che una certa quantità di radiazione solare raggiunga la terra, infatti, queste proposte affrontano i sintomi ma non le cause della concentrazione di CO2 nell’aria e, come affermato dagli scienziati indipendenti che hanno assunto posizioni critiche rispetto a queste tecnologie di frontiera, persino i loro più convinti sostenitori ammettono che gli aerosol a base di solfati sparsi nella stratosfera hanno molti effetti potenziali sconosciuti, oltre a quelli già appurati di danneggiamento allo strato di ozono (dovuti al fatto che le molecole di solfato nella stratosfera forniscono superfici aggiuntive che consentono ai gas clorurati, clorofluorocarburi e idrofluorocarburi, di reagire) (52). La capacità di individuare come target le zone specifiche che richiedono una riduzione della luce solare (come le zone Artiche o Groenlandia, ad esempio) è, poi, altamente speculativa ed è probabile che le molecole di solfati o altri metalli verrebbero disperse altrove, con la conseguenza che in alcune regioni i livelli di precipitazione diminuirebbero (com’è già accaduto nel passato allorché, in seguito a grandi emissioni di molecole di solfato di origine vulcanica, alle latitudini tropicali si è verificato un arresto dei monsoni accompagnato da una grave siccità), mentre in altre si determinerebbero delle inondazioni. Da segnalare, a proposito della gestione della radiazione solare attuata mediante diffusione nella stratosfera di particelle inquinanti a base di solfati per bloccare la radiazione solare, è il recentissimo meeting organizzato dalla Royal Society in Inghilterra il 4 aprile 2011 durante il quale, ancora una volta, pare sia emerso che gli scienziati considerano questa tecnica di geoingegneria come l'unica opzione praticabile (53). Alcuni tra i partecipanti (fisici, oceanografi, (51) American Meteorological Society, Geoengineering the Climate System, A Policy Statement of the American Meteorological Society (AMS Council, 20.07.2009), consultabile online su: http://www.ametsoc.org/policy/2009geoengineeringclimate_amsstatement.html (52) Tra i primi ad esprimere considerazioni critiche di carattere scientifico circa la validità delle proposte di Geoingegneria va menzionata la famosa scienziata e attivista indiana Vandana Shiva la quale, con il lancio della campagna H.O.M.E. (Hands Off Mother Earth, Giù le Mani dalla Terra), ha allertato l’opinione pubblica mondiale, generalmente poco informata su questi temi. (53) C. J. Hanley, Geoengineering: Scientists Debate Risks Of Sun-Blocking And Other Climate Tweaks To Fight Warming, 3 aprile 2011: «...Molte tecniche geoingegneristiche sulle quali si è riflettuto appaiono irrealizzabili o inefficaci... Quelle tecniche presentano, necessariamente limiti di scala, tuttavia, e incapaci di alterare il riscaldamento su tutto il pianeta. Un’idea sola che possiede quel potenziale è emersa. “Secondo la maggior parte dei resoconti, il contendente leader è (la tecnica n.d.r.) che impiega molecole di aerosol nella stratosfera”, ha affermato il climatologo John Shepherd della Southampton 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ambientalisti, politici, avvocati, psicologi e un giornalista) hanno avvertito che questa dovrebbe essere comunque accompagnata da una forte riduzione delle emissioni di CO2, altrimenti lo strato degli inquinanti volontariamente immessi nella stratosfera per contrastare il riscaldamento globale dovrebbe essere mantenuto indefinitamente per bilanciare l'effetto dell'accumulo crescente di gas serra. Se questa operazione di gestione della radiazione solare dovesse essere bloccata all'improvviso, la temperatura terrestre si innalzerebbe considerevolmente all'improvviso. In ogni caso, durante la stessa riunione, è stato osservato che probabilmente dovremo dimenticarci i cieli blu («... Hamilton observed. "We might never see blue sky again"...»). Per quanto concerne gli interventi sugli oceani, già oggetto di una moratoria ad hoc seguita alla constatazione della scarsa efficacia e della pericolosità degli esperimenti di fertilizzazione effettuati su vaste aree marine (54), va pre- University in Gran Bretagna (Hamilton ha osservato: “Potremmo non vedere mai più i cieli blu”....» («... Many geoengineering techniques they have thought about look either impractical or ineffective...Those techniques are necessarily limited in scale, however, and unable to alter planet-wide warming. Only one idea has emerged with that potential. "By most accounts, the leading contender is stratospheric aerosol particles," said climatologist John Shepherd of Britain's Southampton University («...Hamilton observed: "We might never see blue sky again."...»); consultabile su: www.huffingtonpost.com/.../geoengineering-sun-blocking_n_844324.html -. (54) UNESCO, 2010. Ocean Fertilization- A scientific summary for policy makers: «... La fertilizzazione su larga scala potrebbe avere effetti indesiderati (e difficili da prevedere) non solo a livello locale, ovvero, il rischio di proliferazione di alghe tossiche, ma anche molto distanti nel tempo e nello spazio...». In particolare, l’UNESCO, giudica sostanzialmente irrilevante la capacità di contrasto del cambiamento climatico, rilevando che: «... Le stime circa l’efficacia complessiva di assorbimento del CO2 in seguito a fertilizzazione oceanica a base di ferro sono diminuite notevolmente (da 5 a 20 volte) negli ultimi 20 anni. Sebbene rimangano ancora delle incertezze, la quantità di carbonio che può essere messa fuori circolazione per mezzo di questa tecnica, a lungo termine (decenni o secoli), sembrerebbe piuttosto piccola rispetto alle emissioni da carburanti fossili... Anche a voler utilizzare le stime più alte nel rapporto tra carbonio esportato ed efficacia di assorbimento atmosferico, la complessiva capacità potenziale di rimozione del CO2 per mezzo di fertilizzazione oceanica è relativamente piccola. Perciò, calcoli recenti relativi alla capacità di sequestro complessivo con imponenti sforzi di fertilizzazione in 100 anni, rientrano in un range di 25-75 Gt (gigatonnellate) di carbonio, da porre a confronto con emissioni cumulative di circa 1.500 Gt di carbonio derivanti dalla combustione di carburanti fossili per lo stesso periodo, entro scenari economici simili» («Large-scale fertilization could have unintended (and difficult to predict) impacts not only locally, e.g. risk of toxic algal blooms, but also far removed in space and time». «...Estimates of the overall efficiency of atmospheric CO2 uptake in response to iron-based ocean fertilization have decreased greatly (by 5 – 20 times) over the past 20 years. Although uncertainties still remain, the amount of carbon that might be taken out of circulation through this technique on a long-term basis (decades to centuries) would seem small in comparison to fossil-fuel emissions... Even using the highest estimates for both carbon export ratios and atmospheric uptake efficiencies, a the overall potential for ocean fertilization to remove CO2 from the atmosphere is relatively small. Thus recent calculations of cumulative sequestration for massive fertilization effort over 100 years are in the range 25-75 Gt (gigatonnes) of carbon, in comparison to cumulative emissions of around 1,500 Gt carbon from fossil fuel burning for the same period under business-as-usual scenarios »). Consultabile su: www.marcgunther.com/.../dumping-iron-probably-not-a-cool-idea/ La BBC riporta i dati di uno studio che rivela come la fertilizzazione degli oceani con polvere di ferro, implementata per assorbire CO2, potrebbe uccidere i mammiferi del mare (vedi: http://news.bbc.co.uk/2/hi/8569351.stm); inoltre, a proposito della sperimentazione di fertilizzazione CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 liminarmente sottolineato che il fitoplankton è la base della catena alimentare marina. Il ferro può sicuramente provocare una crescita esponenziale del numero di micro alghe, ma la sua potenziale facoltà di cattura e di eliminazione del carbonio - come si è visto sub nota 54 - è dubbia. La lista degli effetti collaterali, in compenso, è alquanto lunga, dato che provocherebbe: carenza di ossigeno (anossia) nelle profondità marine, generando le c.d. zone morte; distruzione dell’equilibrio degli ecosistemi marini, in particolare, della catena alimentare; uccisione dei grandi mammiferi; forte probabilità che il rilascio di altri gas serra diversi dal CO2, come l’ossido di azoto, il metano e il gas dimetilsulfide (DMS) aumentino la formazione di nuvole, con conseguente alterazione del clima totalmente imprevedibile; potenziale impatto tossicologico, dovuto alla proliferazione di dinoflagellati (55) responsabili di gravi intossicazioni nel caso di fertilizzazione con l’urea e, infine, un potenziale peggioramento del problema dell’acidificazione delle acque. La fertilizzazione oceanica avrebbe, peraltro, effetti devastanti anche sui mezzi di sussistenza di popolazioni la cui economia dipende da sistemi marini sani. In ordine all’applicazione dei metodi di rimozione del CO2 (CDR), in particolare la cattura con il biochar, occorre ricordare che la geo-ingegneria, per definizione, implica interventi su scala planetaria; anche a voler sorvolare sulla questione di quale dovrebbe essere la provenienza di tutte le biomasse condotta da Lohafex, la stessa BBC riferisce che nonostante le sei tonnellate di ferro sparse su 300 chilometri quadrati nei Mari del Sud, i risultati sono stati assai modesti, in quanto dall’atmosfera è stata eliminata solo una piccola quantità di CO2. Ciò nonostante, la società Climos intende procedere con una ulteriore sperimentazione su 40.000 chimetri quadrati (vedi R. BLACK, Setback for climate technical fix. The biggest ever investigation into "ocean fertilisation" as a climate change fix has brought modest results, 23.03.2009, consultabile su: http://news.bbc.co.uk/2/hi/7959570.stm). D. Wallace, del Leibniz- Institut fur Meereswissenschaften (IFM-GEOMAR), ha dichiarato che: « ...Le ricerche pubblicate suggeriscono che anche interventi di fertilizzazione degli oceani a base di ferro su larga scala rimuoverebbero solamente quantità modeste di biossido di carbonio (CO2) dall’atmosfera in 100 anni» (“The published findings suggest that even very large-scale fertilization would remove only modest amounts of carbon dioxide from the atmosphere over 100 years"): consultabile, unitamente ad altri interessanti riferimenti, su: wattsupwiththat.com/.../ocean-fertilization-to-affect-climate-have-a-lowchance- of-success/ -. Deve peraltro segnalarsi che, sin dal giugno del 2007, i consulenti scientifici delle Parti della Convenzione di Londra sul Diritto del Mare (UCLOS) avevano posto in dubbio la validità degli esperimenti di fertilizzazione condotti sino ad allora e, soprattutto, espresso ufficialmente le proprie preoccupazioni sui suoi effetti collaterali (cfr.: International Marine Organization IMO, Ref. T5/5.01 LC-LP.1/Circ.14, 13.07.2007 Statement of concern regarding iron fertilization of the oceans to sequester CO2, consultabile su: www.whoi.edu/.../London_Convention_statement_24743_29324.pdf -. Sul tema vedi anche l’articolo: Ocean Fertilization 'Fix' For Global Warming Discredited By New Research, consultabile su: http://www.sciencedaily.com/releases/2007/11/071129132753.htm. ScienceDaily (Nov. 30, 2007). (55) I dinoflagellati sono organismi unicellulari, flagellati, marini o di acqua dolce, rivestiti spesso da una corazza di placche cellulosiche. Possiedono caratteristiche sia animali (movimento, fotorecettori, eterotrofia inclusa la predazione) che vegetali (attività fotosintetica, presenza di pigmenti e cellulosa). Alcune specie hanno assunto recentemente una notevole importanza per la salute umana poichè producono tossine (neurotossine, epatotossine etc.) in grado di causare danni all'uomo ed ad altri organismi. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 necessarie per la sua applicazione, dunque, il rimedio potrebbe essere peggiore del male in quanto le polveri sottili generate dal biochar, sostanzialmente, sono fuliggine e, qualora questa dovesse esser soffiata via nell’atmosfera, potrebbe determinare un riscaldamento piuttosto che un raffreddamento del pianeta. L’impiego di piante geneticamente modificate per aumentare l’albedo e di alberi prodotti mediante biotecnologie o biologia sintetica per enfatizzare determinate caratteristiche che si suppongono utili nell’influenzare il clima, oltre a presentare tutte le problematiche legate ai danni per la biodiversità e la salute umana ed ai rischi per la sicurezza alimentare già noti (56), comporta l’ulteriore incognita dovuta alla scala globale degli interventi. Nessuno conosce la quantità di carbonio complessiva contenuta nel carbone e per quanto tempo possa rimanere confinata al suolo; aggiungere carbone può paradossalmente favorire il ritorno nell’atmosfera, sotto forma di CO2, del carbonio già presente nel suolo. Nel passato, in alcune zone gli agricoltori hanno tradizionalmente mescolato una certa quantità di carbone con il compost ed altri residuati organici e che, in tal modo, sono stati creati, tra 2.500 e 500 anni fa, suoli molto fertili come i terreni di Terra Preta nell’Amazzonia Centrale. Nessuno, tuttavia, ha mai carbonizzato vaste quantità di biomasse sotterrandole per il breve periodo di tempo necessario a caratterizzare questa tecnica come un rimedio quick fix contro il riscaldamento globale. Il pericolo maggiore del biochar utilizzato per fini di geoingegneria, è l’ordine di scala richiesto perchè possa essere in qualche modo efficace: centinaia di milioni di ettari di terra dovrebbero essere sottratti all’agricoltura e sfruttati per nuove piantagioni destinate alla produzione delle quantità di biochar necessarie. Direttamente o indirettamente, ciò significherebbe maggiore deforestazione, maggior distruzione di altri ecosistemi, maggior perdita di biodiversità e una maggior quantità di accaparramento di terra e di deportazioni di massa delle popolazioni indigene che abitano nelle foreste. Un altro importante profilo di criticità è rappresentato dalla impossibilità di testare i metodi di geoingegneria prima di implementarli: infatti, per definizione, la scala di intervento implicata è planetaria e non è possibile accedere ad alcuna fase sperimentale che possa avere un qualche valore significativo. Eventuali “esperimenti” o “prove sul campo” equivarrebbero di fatto alla im- (56) G.L., LÖVEI, T. BØHN, e A. HILBECK, Biodiversity, ecosystem services and genetically modified organisms. TWN Biotechnology & Biosafety Series, 2010. Third World Network, Penang, Malaysia; V. SHIVA, Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale, edizioni Ambiente, 2009. L'agricoltura industriale si basa sul consumo intensivo di combustibili fossili, impiegati per produrre fertilizzanti e fitofarmaci. Se è vero che le applicazioni della chimica e della meccanizzazione all'agricoltura hanno assicurato rese che hanno soddisfatto la domanda alimentare crescente, il modello meccanicista ha iniziato a mostrare limiti evidenti. Le risposte - cibi modificati geneticamente, brevetti sulle sementi e sugli organismi e monocolture estreme - vanno nella direzione sbagliata, e rischiano di amplificare i danni già prodotti agli ecosistemi e alle popolazioni che li abitano. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 plementazione massiccia di un dato metodo nel mondo reale, atteso che i test su piccola scala non sono in grado di fornire alcun dato realistico relativamente all’impatto sul clima (che potrebbe anche risultare irreversibile). Nella sua fase di gestione, poi, la geoingegneria può riservare degli effetti collaterali a sorpresa, dovuti a fallimenti di tipo meccanico, errore umano, inadeguata comprensione degli ecosistemi, della biodiversità e del clima terrestre, imprevisti fenomeni naturali, irreversibilità degli effetti di una data tecnica o interruzione dei finanziamenti. Per concludere, non può essere sottaciuto il fatto che procedendo in questa direzione si mercifica il clima e si innalza lo spettro della speculazione finanziaria sui problemi climatici. Tecnologie che possono seriamente alterare il pianeta non dovrebbero mai essere intraprese per motivi commerciali: se si dovesse decidere di ricorrere alla geoingegneria come “piano B” per risolvere i problemi del clima, la prospettiva che ciò sia riservato all’arbitrio di poche mani private si può dire, senza tema di smentita, inquietante. 7. Il problema dei brevetti Non di poco momento è la questione dei diritti di proprietà intellettuale relativi alla “nuova” branca tecnologica di manipolazione del clima, sin qui discussa. Com’è intuibile, il rilascio di brevetti a protezione delle metodiche di intervento geoingegneristico sugli ecosistemi per influire sul clima su scala planetaria pone il delicato problema della loro governabilità. Infatti, lo strumento brevettuale, che si utilizza per proteggere la creazione intellettuale, è giuridicamente soggetto a un controllo di diritto pubblico che ne precede la concessione ma, una volta venuto in essere, ricade tipicamente all’interno di un regime normativo privatistico ed è quindi sottoposto alle leggi di mercato che reggono l’impresa e l’economia. Pertanto se - come adombrato nel Rapporto della Royal Society (57) -, un’emergenza climatica dovesse rendere necessario (57) Royal Society, Geoengineering... cit., pag. 56: «...Geoengineering methods are often presented as an emergency ‘backstop’ to be implemented only in the event of unexpected and abrupt climate change, but this tends to focus attention primarily on methods which could be implemented rapidly, to the detriment of those with longer lead and activation times» («... I metodi geoingegneristici spesso sono presentati come un ‘backstop’ emergenziale da implementarsi solo nel caso in cui si verificasse un cambiamento del clima inaspettato e improvviso, ma questo fatto tende a focalizzare l’attenzione in via primaria sui metodi che possono essere implementati rapidamente, a detrimento di quelli che implicano tempi di attivazione più lunghi»); e anche pag. 59: «... SRM methods should not be applied unless there is a need to rapidly limit or reduce global average temperatures. Because of uncertainties over side effects and sustainability they should only be applied for a limited period and accompanied by aggressive programmes of conventional mitigation and/or CDR, so that their use may be discontinued in due course» («... I metodi SRM non dovrebbero trovare applicazione a meno che si verifichi la necessità di limitare o ridurre rapidamente le temperature medie globali. A causa delle incertezze sui loro effetti collaterali e la loro sostenibilità, dovrebbero trovare applicazione solo per periodi limitati e dovrebbero essere accompagnati da programmi aggressivi di mitigazione convenzionale e/o CDR - rimozione del biossido di carbonio, n.d.r. - , in modo che il loro uso possa essere interrotto a tempo debito». 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 il ricorso a tecniche geoingegneristiche, le determinazioni sul bene comune “clima” sarebbero di fatto alla mercè del settore privato o di un singolo stato, con tutte le immaginabili conseguenze anche di carattere politico e diplomatico che ciò comporterebbe per gli effetti transfrontalieri tipici di alcune tecniche (58). Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno molte preoccupazioni su chi controllerà la geoingegneria e le sue tecnologie e perciò hanno finanziato degli studi per esaminare le possibili opzioni dirette alla loro governance (59). Il compito è stato affidato a due comitati tecnici (rispettivamente, la Camera dei Comuni nel Regno Unito e il Comitato per la Scienza e la Tecnologia della Camera dei Rappresentanti negli USA) i quali, pur trovandosi a diversi stadi di approfondimento della materia, hanno ritenuto strategica la loro collaborazione anche per le importanti implicazioni di carattere internazionale della questione. Il Comitato britannico per la Scienza e la Tecnologia presso la Camera dei Comuni, riferendosi al potere dei diritti di proprietà intellettuale di conformare gli sviluppi e l’uso di queste tecnologie altamente rischiose e, allo stesso tempo, potenzialmente molto redditizie - e, quindi, ai pericoli che potrebbero derivarne se si affidasse la loro circolazione esclusivamente al mercato -, ha proposto che sia meglio regolamentare la geoingegneria come bene pubblico. Tuttavia ha anche riconosciuto che gli investimenti sarebbero minimi in assenza di un regime di proprietà intellettuale (60). (58) Vedi anche A. HEAL, Managing Plan B: The Security Challenges of Geoengineering, in Harvard Kennedy School Review - Ed. 2011, consultabile su: isites.harvard.edu/icb/icb.do?keyword=k74756...icb... (59) The Regulation of Geoengineering - Science and Technology Committee, 5th Report Session 2009-2010, Annex: Joint Statement of the U.K. and U.S. Committees on Collaboration and Coordination on Geoengineering, pubblicato a Londra il 18.03.2010 e consultabile su: www.parliament.the-stationery- office.co.uk/pa/cm200910/.../221/221/pdf (ultima consultazione 07.04.2011). Nella Dichiarazione Congiunta dei Comitati Britannico e Statunitense sulla Coordinazione e Collaborazione in materia di Geoingegneria innanzi citata, si dà atto che nell’aprile del 2009, quando avvenne l’incontro a Washintgton (sede in cui venne deciso l’avvio di una collaborazione stabile tra i due paesi) con il suo omologo statunitense, il Comitato britannico per la Scienza e la Tecnologia presso la Camera dei Comuni aveva già prodotto un rapporto, Engineering: turning ideas into reality (HC (2008-09) 50-I, March 2009), che si concludeva con la raccomandazione al Governo U.K. di sviluppare un programma di finanziamenti pubblici sulla ricerca geoingegneristica (para 217). Il successivo rapporto The Regulation of Geoengineering, pubblicato nel marzo del 2010, contiene una discussione punto per punto dei cosiddetti “Principi di Oxford”, elaborati da un gruppo di esperti della materia. Gli USA, invece, nella Dichiarazione Congiunta si sono impegnati ad elaborare un Rapporto che, prendendo le mosse dai rapporti già pubblicati nel Regno Unito, riunisca i dati della ricerca congiunta per poi sottoporli al Congresso per l’adozione di un pacchetto legislativo che autorizzi «... Gli Stati Uniti ad impegnarsi nella ricerca geoingegneristica a livello federale e internazionale» («... the United States to engage in geoengineering research at the Federal and international level»). (60) The Regulation of geoengineering..., op. cit., pag. 31: «... I principi in materia di diritti di proprietà intellettuale devono essere inquadrati in modo tale da non scoraggiare gli investimenti in tecnologie geoingegneristiche. Senza investimenti privati, alcune tecniche geoingegneristiche non saranno mai sviluppate» («... Principle on intellectual property rights must be framed in such a manner that it CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 La questione se sia opportuno che la geoingegneria venga classificata come bene pubblico (61) è stata affrontata anche da una recente ricerca indipendente in cui è stata, innanzitutto, valutata la situazione dei brevetti geoingegneristici nel panorama statunitense. In questa ricerca viene evidenziato che la dinamica in atto ricalca in pieno lo schema già adottato dalla grande industria globale nel settore delle biotecnologie (sostenuto, all’epoca, dal consapevole rifiuto di legiferare ad hoc da parte del Congresso USA e dalla protezione delle nuove tecnologie mediante il sistema ordinario dei brevetti, lasciate in balia del mercato), che attualmente è oggetto di numerose accuse motivate sulla considerazione che, oltre a lavorare contro l’interesse pubblico, quel modus operandi ha provocato una stagnazione dell’innovazione nel settore. L’esito della ricerca ha inoltre evidenziato che, sebbene sinora negli USA siano stati rilasciati relativamente pochi brevetti, a partire dal 2009-2010 si è verificato un impressionante aumento delle domande, anche da parte di soggetti stranieri. Inoltre, soggetti statunitensi già detentori o in attesa del rilascio di brevetti geoingegneristici, hanno presentato le loro domande anche in altri paesi (Europa, Giappone, ecc.). Ulteriori dati emersi dalla ricerca riguardano la tendenza dei brevetti esistenti ad assicurare coperture molto ampie - prevalentemente su ciascun nuovo “processo” tecnologico, piuttosto che sul “prodotto”-, e la concentrazione dei titoli in poche mani, anche in favore di entità non direttamente operanti (NPEs). La circostanza che siano stati concessi dei brevetti basati su descrizioni generiche comporta un duplice ordine di problemi. Da un lato, infatti, viene does not deter investment in geoengineering techniques. Without private investment, some geoengineering techniques will never be developed»). Per un quadro d’insieme dei punti chiave relativi a diritti di proprietà intellettuale e regolamentazione della geoingegneria come bene pubblico, si rinvia al Memorandum incorporato a pag. 107, Ev 45, del Rapporto. (61) S. PARTHASARATHY, C. AVERY, N. HEDBERG, J. MANNISTO, M. MAGUIRE, A Public Good? Geoengineering and Intellectual Property (Science, Technology, and Public Policy Program 22/09/2010) STPP Working Paper 10-1, consultabile su: www.umt.edu/ethics/EthicsGeoengineering/Workshop/.../Chris%20Avery.pdf. I risultati della ricerca preliminare sul panorama dei brevetti di geoingegneria rilasciati negli USA ha rivelato l’esistenza di: «...1) diversi livelli di attività tra differenti tipi di geoingegneria; 2) una recente rapida crescita nella richiesta di brevetto per le tecnologie di geoingegneria; 3) un linguaggio molto generico nei brevetti, probabilmente per coprire innovazioni future; 4) concentrazione della proprietà dei brevetti tra pochi soggetti; 5) brevetti posseduti da entità che non applicano direttamente queste tecnologie (non-practicing entities NPE’s); e 6) brevetti di geoingegneria rilasciati agli inventori da diversi uffici brevetti in tutto il mondo» («... Analyzing the Geoengineering Patent Landscape. A preliminary investigation2 of the geoengineering patent landscape reveals the following findings: 1) different levels of activity between different types of geoengineering; 2) a recent rapid increase in patent applications covering geoengineering technologies; 3) broad patent language, likely covering many future innovations; 4) concentration of patent ownership among a few entities; 5) patents owned by non-practicing entities (NPE’s); and 6) geoengineering patents issued by multiple patent offices to inventors across the world» (pag. 2). 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 impedito l’ulteriore sviluppo di tecnologie potenzialmente utili e, in tal modo, si accresce il rischio che i pochi detentori nelle cui mani si concentra la proprietà di brevetti strategici possano avere il controllo del clima e degli usi e sviluppi futuri della tecnologia derivata, in aperto contrasto con la nozione di interesse pubblico. Dall’altro, esiste il rischio concreto che applicazioni apparentemente non collegate alla geoingegneria, che dovrebbero essere di esclusivo appannaggio governativo per le implicazioni legate alla sicurezza nazionale, possano trovarsi sotto il controllo di soggetti privati. A tale proposito, la ricerca citata ricorre all’esempio del metodo di gestione della radiazione solare con specchi nell’alta atmosfera per raffreddare la terra, menzionato nel Rapporto della Royal Society, e il brevetto USA n. 5.041.834 (62) che copre un metodo simile ma in realtà molto diverso dal primo per il suo grande potenziale offensivo militare. Su queste premesse, la ricerca condotta ha proposto l’adozione di un sistema di brevetti sui generis modellato sul tipo ideato per l’energia atomica negli USA (63), anche per la geoingegneria. Entrambe le tecnologie, infatti, presentano i tratti caratteristici comuni della globale pericolosità, della potenziale irreversibilità degli effetti e della vulnerabilità agli appetiti monopolistici da parte di gruppi di potere di vario tipo. Ciò consentirebbe ai governi di esercitare un maggiore controllo in favore degli interessi pubblici da proteggere evitando, nel contempo, che i possessori di brevetto dotati di grande potere finanziario possano sacrificare beni comuni non rinnovabili per favorire gli interessi speculativi a breve termine, com’è già accaduto nel settore biotecnologico. Tutte queste tecniche, comunque, sono intrinsecamente transfrontaliere e, mancando attualmente qualunque forma di regolamentazione, dovrebbero essere meditate e disciplinate con accordi internazionali multilaterali. Un piccolo accenno merita, infine, una categoria a sé di brevetti anch’essi (62) KOERT, PETER (1991, August 20). “Artificial ionospheric mirror composed of a plasma layer which can be tilted.” Patent 5,041,834; citazione in nota su A public Good? Geoengineering..., op. cit., pag. 16 (63) S. PARTHASARATHY, C. AVERY, N. HEDBERG, J. MANNISTO, M. MAGUIRE, A Public Good? Geoengineering and Intellectual Property cit., pag. 10-11 «... Sia la geoingegneria che l’energia atomica sono tecnologie ad alto rischio e a potenziale alto rendimento economico: il loro impatto, positivo e negativo, è di portata globale e se dovesse procurare danni, questi sarebbero irreversibili. Soprattutto, la geoingegneria in quanto campo scientifico necessita di urgente attenzione e di sviluppo focalizzato, dato che la cornice temporale entro la quale queste tecnologie potrebbero essere impiegate con successo potrebbe essere breve... Organizzazioni private come Climos o Silver Lining project, perciò, stanno già andando avanti con le loro ricerche, facendo riferimento alla necessità di affrontare immediatamente il cambiamento climatico» («... Both geoengineering and atomic energy are high risk technologies with the potential for a high reward; their impacts, positive and negative, are global in scope and if either does damage, it is likely to be irreversible. Moreover, geoengineering as a scientific field needs urgent attention and focused development, as the window of time during which these technologies can successfully be deployed may be brief.... Private organizations such as Climos and the Silver Lining Project are therefore already going ahead with their own research, citing the need to immediately address climate change (Wood 2009)». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 riconducibili alla “mistica dell’ingegneria ambientale”, che riguarda alcune coltivazioni geneticamente modificate (64). Le principali compagnie sementiere e agrochimiche stanno accumulando centinaia di brevetti per assicurarsi il monopolio dei cosiddetti geni “pronto-clima” che, in teoria, dovrebbero essere capaci di garantire alla piante una resistenza a vari stress ambientali quali siccità, calore, freddo, inondazioni, salinità dei suoli ed altre condizioni estreme (purtroppo, oggi sappiamo che le alte perfomance degli OGM promesse in passato sono rimaste sulla carta, mentre l’onere dei problemi di varia natura causati dal loro impiego è stato trasferito agli agricoltori e alle popolazioni locali). L’ampiezza della protezione accordata da alcuni brevetti è impressionante, posto che con un solo brevetto una compagnia può assicurarsi il monopolio di numerose varietà vegetali. Il focus sui cosiddetti geni “pronto clima” (climate-ready) rappresenta per l’agrobusiness globale un’opportunità unica per imporre l’accettazione delle coltivazioni OGM, nonostante gli ultimi studi ne confermino la pericolosità per la salute umana e animale (65) e per l’ambiente, in quanto vengono presentate come un rimedio strategico per contrastare il cambiamento climatico. (64) ETC Group, Patenting the “Climate Genes”… And Capturing the Climate Agenda, 13.05.2008 su: www.etcgroup.org/en/node/687. Secondo la ricerca le multinazionali BASF, Monsanto, Bayer, Syngenta, Dupont insieme ai loro partner biotech, avrebbero depositato 532 domande di brevetto (per un totale di 55 famiglie di brevetti) sui cosiddetti geni “pronto-clima” (climate ready), presso gli uffici brevetti di vari paesi. Di fronte al caos climatico e con l’aggravarsi della crisi alimentare, “i giganti dei geni” stanno usando un’offensiva di Pubbliche Relazioni per presentarsi come i paladini dell’agricoltura. Oltre agli uffici brevetti statunitense ed europeo, i corrispondenti uffici dei grandi produttori alimentari (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Messico e Sud Africa) sono inondati di richieste di brevetti. Monsanto e BASF (il maggior produttore di sostanze chimiche al mondo), hanno unito le forze per progettare piante resistenti agli stress climatici, attraverso l’ingegneria genetica. Insieme, queste due grandi compagnie possiedono 27 famiglie di brevetti, sulle 55 identificate dalla ricerca di ETC Group. (65) G.-E. SÉRALINI, R. MESNAGE, E. CLAIR, S. GRESS, J. DE VENDÔMOIS, D. CELLIER, Genetically modified crops safety assessments: present limits and possible improvements, in Environmental Sciences Europe, (Springer) Marzo 2011. La ricerca ha passato in rassegna 19 studi su mammiferi alimentati a soia e mais geneticamente modificati in commercio che rappresentano, per tratto (genetico) e per pianta, oltre l’80 % di tutti gli OGM ambientali coltivati su larga scala dopo esser stati modificati per diventare resistenti ai pesticidi, o per produrli. I dati grezzi riguardano test durati 90 giorni su ratti ottenuti a seguito di azioni giudiziarie o di richieste ufficiali e sono comprensivi dei parametri biochimici del sangue e delle urine dei mammiferi allevati a OGM, con numerosi casi di pesatura degli organi e risultati istologici. Molti dati convergenti sembrano indicare problemi al fegato e ai reni come punto finale degli effetti della dieta a base di OGM specificatamente, ai reni nei maschi, e al fegato nelle femmine. Sebbene 90 giorni siano insufficienti per valutare la tossicità cronica, i segni rilevati sui reni e sul fegato potrebbero essere indicativi della malattia cronica. Tuttavia, non esiste alcun test obbligatorio su alcuno degli OGM coltivati su larga scala che prescriva una durata minima, e ciò è socialmente inaccettabile sotto il profilo della tutela della salute del consumatore. Ad avviso degli Autori, le ricerche dovrebbero quindi essere migliorate, prolungate e rese obbligatorie, e soprattutto dovrebbero focalizzarsi sugli ormoni sessuali e sulla salute riproduttiva per più generazioni. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 La questione è stata posta e dibattuta in occasione della nona Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica a Bonn (19-30 maggio 2008) e della Conferenza di Alto livello sulla Sicurezza Alimentare Mondiale, Sfide del Cambiamento Climatico e Bioenergia (3-5 giugno 2008), in cui è stato richiesto che i governi sospendano il rilascio di brevetti su geni e su tratti genetici “pronto clima”. Considerata la portata del rischio per la biodiversità che deriverebbe dal loro impiego ed il potenziale pericolo per la sicurezza alimentare globale - dato che, tra l’altro, si tratta di ritrovati tecnologici che hanno ancora bisogno di essere testati adeguatamente -, in quel contesto è stato anche proposto che le strategie di sopravvivenza e adattamento al cambiamento climatico di matrice contadina tradizionale, che possono vantare millenni di esperienza, ottengano un riconoscimento del proprio status e siano incoraggiate e valorizzate. A proposito di quanto avviene nel panorama delle sementi biotecnologiche non può essere tralasciata la menzione della coincidenza, quantomeno singolare, della messa in commercio di varietà vegetali geneticamente modificate per resistere all’alluminio e ad altri metalli tossici (66), presumibilmente impiegati come aerosol a fini geoingegneristici (67). (66) Vedi l’articolo Toxicity-Resistant Crops, in Technology Review pubblicato dal MIT, 2.10.2008 e consultabile su: www.technologyreview.com/biomedicine/21454/-. Vedi anche F. ZEPEDA, J. CAVALIERI, A, P. ZAMBRANO, Delivering Genetically Engineered Crops to Poor Farmers, 2009, pubblicato dall’International Food Policy Research Institute (IFPRI) «... Una nuova generazione di colture geneticamente modificate mira ad alleviare questa pressione attraverso il miglioramento di coltivazioni per l’alimentazione di base - come la cassava, il sorgo e il miglio - che incorporano tratti - genetici, n.d.r.- come la tolleranza alla siccità, all’acqua, e all’alluminio nel suolo, così come piante con migliore utilizzo dell’azoto e del fosforo» « ... A new generation of genetically engineered (GE) crop research aims to alleviate these pressures through the improvement of subsistence crops - such as cassava, sorghum, and millet - that incorporate traits such as tolerance to drought, water, and aluminum in soils as well as plants with more efficient nitrogen and phosphorus use. However, many developing countries lack the necessary biosafety systems for a timely and cost-effective adoption. This brief focuses on the regulatory reforms necessary for farmers and consumers in developing countries to benefit from GE crops», consultabile su: http://www.monsanto.co.uk/news/ukshowlib.phtml?uid=14393. Per una prospettiva dalla parte degli agricoltori biologici, vedi: B.H. PETERSON, Chemtrails and Monsanto’s New Aluminum Resistance Gene – Coincidence?Why did Monsanto Develop an Aluminum Resistance Gene?, consultabile su: http://farmwars.info/?p=2927 (67) In proposito occorre segnalare che numerosi cittadini ed organizzazioni della società civile, in tutto il mondo, si sono interrogati sull’inspiegabile presenza di quantità massicce di alluminio, bario ed altri inquinanti nell’aria, nell’acqua e persino sulla neve appena caduta al suolo. La presenza di tali particelle tossiche sarebbe confermata da numerose analisi di laboratorio, commissionate in via autonoma e sarebbe da attribuirsi agli aerosol antropogenici, sempre più evidenti nei cieli. Preoccupati per il ruolo che l’intossicazione da alluminio sembrerebbe svolgere nell’insorgenza del morbo di Alzheimer, si sono rivolti alle Autorità competenti per chiedere delucidazioni ottenendo, tuttavia, solo vaghe rassicurazioni. L’associazione Geoengineeringwatch afferma l’esistenza di «... una enorme quantità di dati, test di laboratorio, foto e video provenienti da tutto il mondo, che rendono possibile trarre la conclusione che la CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 8. Conclusioni Premesso che il presente scritto non ha alcuna pretesa di completezza ma intende semplicemente presentare un tema di grande rilievo per i suoi potenziali riflessi sulla vita delle persone e di tutte le creature viventi, non è facile trarre delle considerazioni conclusive dai pochi elementi di geoingegneria sin qui tratteggiati. A livello istituzionale, peraltro, lo scenario comincia appena a delinearsi e le informazioni disponibili al pubblico sono, a dir poco, lacunose, rendendo arduo all’osservatore il compito di formulare ipotesi ed esprimere orientamenti sulla base di conoscenze parziali, frammentarie e, talvolta, contraddittorie. Tuttavia, si possono ordinare i vari tasselli noti e tentare di ricomporli entro un quadro unitario. Per iniziare, come argomentato in precedenza, sul fronte dell’analisi scientifica vi è incertezza perfino sulla reale sussistenza del fenomeno conosciuto come “riscaldamento globale”, che dovrebbe legittimare il ricorso alla geoingegneria. Rimanendo in ambito scientifico, la querelle sulle possibili cause del fenomeno del riscaldamento del pianeta e dei suoi andamenti ciclici non sembra mostrare segni di composizione, anzi, pare aggravarsi con il passare del tempo. Neppure risulta chiaro se i governi che hanno aderito al Protocollo di Kyoto siano sinceramente preoccupati di preservare condizioni ambientali che rendano possibile la continuazione della vita sulla terra (il che, implicherebbe la volontà di agire seriamente per ripristinare la qualità dell’aria, dell’acqua e dei suoli), oppure, se, in verità, preferiscano rimanere inerti finché non diventerà indispensabile ricorrere alla geoingegneria come "... espediente che si diffusione di aerosol è stata ed è una perdurante e letale realtà. La presenza di alluminio, bario e altri elementi chimici è stata comprovata da test condotti sulla superficie dell’acqua e su campioni di aria e di terra in misura pari a centinaia o migliaia di volte superiore rispetto ai livelli ammessi dalla Agenzia di Protezione Ambientale - EPA... («....Volumes of data, lab tests, photos and video footage, from all over the globe, make clear the conclusion that aerosol spraying has been an ongoing lethal reality») ... I brevetti di geoingegneria per la diffusione di aerosol descrivono l’attività di vettori arerei (jet) che spruzzano aerosol con funzione di scie riflettenti che si espandono per formare delle nubi. Il primo elemento tra gli aerosol oggetto del brevetto rilasciato alla Hughes Welsbach è l’alluminio (la descrizione del brevetto è disponibile per esteso su: http://patft.uspto.gov/netacgi/nphParser?Sect1=PTO1&Sect2=HITOFF& d=PALL&p=1&u=/netahtml/PTO/srchnum.htm&r=1&f=G&l=50&s1=5,003,186.PN.&OS=PN/ 5,003,186&RS=PN/5,003,186). Altri brevetti riguardano aerosol a base di bario, zolfo, stronzio ed altro» («... Aerosol spray geoengineering patents describe jet aircraft dispersing aerosols as reflective contrails that expand into clouds. The primary aersol in the Hughes Welsbach patent is aluminum. Other patents call for barium, sulfur, strontium and a host of other potential atmospheric additives»), consultabile su: http://www.geoengineeringwatch.org/. Vedi anche: I. S. PERLINGIERI, Worldwide Environmental Crisis. Gone Missing: The Precautionary Principle, in Global Research, Febbraio 2009, consultabile su: www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12268. Vedi anche I. S. PERLINGIERI, Heavy Metals Poisoning, Brain Injury, and Clandestine Weather Modification Programs, su: http://rense.com/general90/ metc.htm; D. Perl, Uptake of aluminum into the central nervous system along nasal-olfactory pathways, Lancet 1:1028, 1987. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 serve di tecnologia aggiuntiva per contrastare effetti non desiderati senza eliminarne la causa prima” (68). Assai incerta, inoltre, risulta la questione se la sperimentazione o meno di una o più tecniche di geo-ingegneria sia già stata effettivamente praticata ed in quale misura. Infatti, mentre da un lato le autorità governative e scientifiche generalmente lasciano intendere, in modo rassicurante, che le discussioni sul tema sono di tenore astratto e che riguardano eventualità che ipoteticamente potrebbero presentarsi in un non precisato momento futuro (il piano “B”, insomma, nel caso in cui i governi non riuscissero a perseguire gli obiettivi stabiliti nel Protocollo di Kyoto e relativi programmi di azione), dall’altro, in alcuni casi, hanno iniziato ad ammettere in modo vago che qualche intervento di manipolazione, su piccola scala è già stato effettuato (cfr. supra, nota n.11). L’atteggiamento minimizzante delle istituzioni nominate, tuttavia, stride (68) Questa preoccupazione è stata espressa molto chiaramente. Vedi, ad esempio, M. G. LAWRENCE, The Geoengineering Dilemma: To Speak or not to Speak, in Climatic Change, Volume 77, n. 3-4, 2006, pag. 247: «... Sono state espresse molte preoccupazioni sulla possibile futura applicazione della geoingegneria su larga scala. Particolarmente preoccupante è il fatto che potrebbe essere usata come pretesto per non ridurre le emissioni di gas serra, nel qual caso ne discende che l’intensità di qualsivoglia sforzo geoingegneristico - cioè, la quantità di solfati iniettati nella stratosfera ogni anno - dovrebbe anch’essa aumentare per stare al passo con l’accumulazione prolungata di gas serra...» («... Many concerns have been expressed about the possible future application of widespread geoengineering. Especially worrisome is that it could end up being used as an excuse for not needing to reduce greenhouse gas emissions, in which case it follows that the intensity of any geoengineering efforts (e.g., the amount of sulfur injected into the stratosphere per year) would also need to increase to keep pace with accumulating, long-lived greenhouse gases...); pag. 246: «... Inoltre, dovrebbe essere tracciata una chiara linea di demarcazione tra gli esperimenti su piccola scala abbastanza vasti da fornire dati statistici significativi, e ciò che li travalica, per impedire che il concetto di “scienza” venga utilizzato per camuffare tentativi unilaterali di intraprendere sforzi geoingegneristici su larga scala ...» («...Furthermore, a clear line will need to be drawn between allowed scientific experiments which are small-scale yet large enough to have statistically significant signals, and what goes beyond this, so that “science” cannot be used as camouflage for unilateral attempts to undertake largescale geoengineering efforts...»). Vedi anche A. HEAL, Managing Plan B: The Security Challenges of Geoengineering in Harvard Kennedy School Review - Ed. 2011, consultabile su: http://isites.harvard.edu/icb/icb.do?keyword=k74756&pageid= icb.page414554 «... Più sinistre e convincenti sono le campagne di lobbying delle corporations a supporto della geoingegneria come rimedio poco costoso, conveniente ed efficace, al cambiamento climatico. I produttori di carburanti fossili potrebbero spingere i governi su questa via come alternativa alla riduzione delle emissioni su larga scala, che metterebbero in pericolo i profitti. Nelle società poco inclini a porre in essere i sacrifici necessari a ridurre il carbonio, la proposta di soluzioni immediate - quick fix- potrebbe esercitare un forte richiamo. L’Istituto Americano d’Impresa per le Politiche Pubbliche di Ricerca, per lungo tempo contrario alle restrizioni all’impresa in nome della protezione ambientale, ha già fatto riunire dei comitati a supporto della opzione SRM -Gestione della Radiazione solare- » («... More sinister and plausible are corporate lobbying campaigns in support of geoengineering as a cheap, cost-effective “solution” to climate change. Fossil fuel producers might push governments down this route as an alternative to wide-scale emissions reductions that would endanger profitability. In societies unwilling to make the hard sacrifices necessary to cut carbon, this vision of a quick fix could have strong appeal. The American Enterprise Institute for Public Policy Research, long opposed to constraints on business in the name of environmental protection, has already convened panels on the SRM option»). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 323 con le evidenze raccolte da singoli cittadini e da numerose associazioni della società civile - praticamente in tutti i paesi NATO, ma soprattutto negli USA e in Canada, a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso (cfr. nota 66 e anche l’importante lavoro di documentazione svolto da ricercatori indipendenti (69)) -, che presentano una situazione assai diversa rispetto a quella ufficialmente rappresentata. Stride anche con i resoconti relativi alla morte inspiegabile di varie migliaia di volatili e di pesci (vedi nota 49, par. 6) e con quelli resi pubblici dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sin dal 2006, relativamente all’impatto di alcuni esperimenti, consistenti nell’impiego di aerosol stratosferici, sulla «... prematura dipartita di almeno 500.000 persone all’anno in tutto il mondo» (P. Crutzen, Max Plank Institute, vedi nota 50): apparirebbe quantomeno strano se questi dati ufficiali, raccolti evidentemente prima del 2006, fossero frutto di attività e di ricerche ignote ai governi e, certamente, non appare trascurabile la coincidenza dell’improvvisa comparsa sul mercato di sementi geneticamente modificate proprio per resistere alla presenza di alcuni degli elementi chimici contenuti negli aerosol inquinanti che verrebbero irrorati per aumentare l’albedo (azoto, alluminio e fosforo ed altro, vedi nota n. 67). Fermo restando che vi sarebbe da domandarsi, con una discussione aperta al pubblico, se sia davvero possibile combattere il CO2 e gli altri gas serra presenti nell’atmosfera, ormai assurti al rango di principali responsabili del cambiamento climatico, mediante tecniche CDR o mediante irrorazione massiccia di altre sostanze inquinanti per anni o addirittura per secoli (70), rimane anche da chiarire come mai sia stato possibile addirittura pensare di candidare all’ammissione nel Clean Development Mechanism per generare carbon credit la tecnica geoingegneristica di fertilizzazione degli oceani, che consiste nella diffusione di decine di tonnellate di polvere di ferro o altri elementi chimici sui mari della terra (71). (69) S. I. PERLINGERI, Chemtrails: An Updated Look at Aerosol Toxin - Part 1, consultabile su: www.carnicominstitute.org/perlingieri.html (70) Royal Society, Geoengineering, op. cit., pag. 20: «....L’attuale tasso di rilascio di CO2 imputabile alla sola combustione di carburanti fossili è pari a 8.5 GtC/anno, pertanto, perchè gli interventi CDR possano avere effetto, sarebbero necessarie attività su larga scala -parecchie GtC/anno-, mantenute per decenni o, più probabilmente, per secoli» («....The current CO2 release rate from fossil fuel burning alone is 8.5 GtC/yr, so to have an impact CDR interventions would need to involve large-scale activities (several GtC/yr) maintained over decades and more probably centuries»). (71) Persino tra i sostenitori delle nuove tecnologie, eminenti scienziati (hanno espresso le loro perplessità su questo punto «....It may also be sensible to add to Cicerone’s recommendation a further general moratorium against open-market economic gain from geoengineering applications, as discussed by Chisholm et al. (2001) and Lawrence (2002) with respect to proposals for CO2 reduction through oceanic iron fertilization», vedi M.G. LAWRENCE, op. cit., pag. 246. Anche la UK Royal Society, nel suo Rapporto Geoenginering...cit., pag. 5, fa riferimento a questa particolare circostanza: «...Recentemente, questo è diventato un tema (di discussione n.d.r.) dato che le organizzazioni hanno mostrato interesse nelle potenzialità di interventi come la fertilizzazione degli oceani 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Alla luce di questi rilievi, è difficile non qualificare come vagamente retorica la domanda cui si impegnano a dar risposta gli sforzi congiunti dei comitati scientifici britannico e statunitense innanzi nominati laddove, il secondo, con la propria indagine, si propone di chiarire: «... A quali condizioni gli USA dovrebbero prendere in considerazione di iniziare la ricerca o di attuare effettivamente la geoingegneria? (72)». Correlativamente, occorre domandarsi se sia stata presa in considerazione, ed eventualmente in quale misura, l’esistenza di altre opzioni che imprimerebbero una svolta positiva anche al problema delle emissioni di inquinanti nell’acqua, nell’aria e nel suolo restituendo, nel contempo, fertilità e vitalità agli ecosistemi e ricreando il ciclo dell’acqua. Il caso dell’agricoltura è emblematico, a questo riguardo, ed è perfetto per illustrare come un approccio ideologico, meccanicistico, riduzionista, frutto di una visione frazionata della realtà, promuova sulla Natura degli interventi miopi che sinora hanno avuto come esito finale l’aggravarsi di molte situazioni negative cui si sarebbe voluto rimediare. nella cattura di carbonio e nella possibilità di qualificarsi come carbon credit, con certificazione nell’ambito del Clean Development Mechanism del Protocollo di Kyoto. Il coinvolgimento commerciale negli esperimenti sulla fertilizzazione degli oceani ha provocato una rapida e vivace reazione da parte delle comunità politiche e scientifiche internazionali e da parte delle organizzazioni ambientaliste non governative (NGO)» («....Recently, this has become an issue as organisations have shown interest in the potential of interventions such as ocean fertilisation to capture carbon and qualify for carbon credits through certification under the Clean Development Mechanism of the Kyoto Protocol. Commercial involvement in ocean fertilisation experiments has provoked a rapid and vocal response from the international political and scientific communities and environmental non-governmental organisations (NGOs)»). Come chiarito da H.O.M.E. «... Le imprese coinvolte nelle attività di fertilizzazione oceanica sono sia commerciali che scientifiche e negli ultimi vent’anni sono stati effettuati almeno 13 esperimenti in tutti gli oceani del mondo. Un esperimento condotto nel 2007 vicino alle isole Galapagos dalla statunitense startup Planktos Inc. è stato interrotto grazie a una campagna internazionale della società civile. La società vendeva già quote di CO2 on-line e la società CEO ha riconosciuto che le sue attività di fertilizzazione oceanica erano da considerarsi “esperimento di business” tanto quanto “esperimento scientifico” » («...There are both commercial and scientific ventures involved in ocean fertilization and at least 13 experiments have been carried out in the world’s oceans over the past 20 years. A 2007 experiment near the Galapagos Islands by U.S. start-up Planktos, Inc. was stopped because of an international civil society campaign (See example, below.) The company was already selling carbon offsets on-line and the company’s CEO acknowledged that its ocean fertilization activities were as much a “business experiment” as a “science experiment”»), consultatibe su: http://www.handsoffmotherearth.org/learnmore/ what-is-geoengineering/ocean-fertilization/ (72) Royal Society, Regulation of Geoengineering, op. cit. Annex: Joint Statement of the U.K. and U.S. Committees on Collaboration and Coordination on Geoengineering, op. cit: « ... Il Comitato USA sta esaminando tematiche concernenti la ricerca e lo sviluppo delle proposte di geoingegneria, focalizzando la propria indagine sulle seguenti domande: in quali circostanze gli Stati Uniti dovrebbero iniziare la ricerca o la piena attuazione della geoingegneria?» (« ...The U.S. Committee is examining issues regarding the research and development of geoengineering proposals, focusing their inquiry on the following questions: Under what circumstances would the U.S. consider initiating research or the actual deployment of geoengineering?») su: http://www.publications.parliament.uk/pa/cm200910/cmselect/ cmsctech/221/22111.htm CONTRIBUTI DI DOTTRINA 325 Il settore agricolo, pur essendone il maggior responsabile, raramente viene posto in relazione con le emissioni di biossido di carbonio (CO2) e di altri gas serra. Ancor più di rado, ovviamente, lo si associa alla geoingegneria, sebbene alcune forme di produzione agricola industriale rientrino all’interno della categoria “interventi sul clima” discussi nel Rapporto della Royal Society (si tratta della produzione di biomasse per biochar, delle piantagioni a monocoltura di alberi geneticamente modificati, coltivazioni per biocarburanti, ecc.). Secondo quanto riferito dalle associazioni ecologiste più responsabili, il Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) stima che l’agricoltura industriale sia responsabile delle emissioni di gas serra globali in misura pari al 14% (73) a causa della deforestazione necessaria al reperimento di nuove terre da sfruttare e della sua dipendenza dai carburanti fossili lungo tutta la filiera produttiva. A questi dati iniziali occorre aggiungere la quota di emissioni dovuta al sistema industriale alimentare nel suo complesso (includendo, cioè, anche la catena di distribuzione: i trasporti, l’energia necessaria alla refrigerazione, gli imballaggi ed il metano derivato dai rifiuti urbani). La somma di tutte queste fonti di produzione di gas serra, raggiunge una percentuale che va dal 44 al 57% delle emissioni globali (74). Durante le negoziazioni che avvengono periodicamente nell’ambito della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) questo dato di fatto viene regolarmente ignorato, mentre le parti si limitano a discutere l’incremento della “produttività” agricola di tipo industriale, su larga scala, aumentandone artificialmente il valore per mezzo dello sfruttamento delle potenzialità come carbon sink (il bilancio netto tra la quantità di carbonio assorbita ed emessa, generalmente ottenuta facendo ricorso a monoculture a crescita rapida). Ovviamente, ciò comporta maggiore deforestazione per far spazio a nuove monocolture, maggior impiego di fitofarmaci, maggior consumo d’acqua: in una parola, alimenta il circolo vizioso. Uno studio molto importante - specie per l’autorevolezza dei riferimenti e delle fonti dati (75) su cui è basato - ha dimostrato che sostenendo un sistema agricolo ecocompatibile fondato sulla biodiversità e praticato in piccole unità produttive autosufficenti, entro 50 anni, si potrebbe ottenere la cattura dell’attuale eccesso di CO2 nell’atmosfera fino a due terzi, risolvendo contemporaneamente il problema dell’erosione dei suoli agricoli grazie all’aumento della materia organica fertile nella misura di 60 tonnellate per ettaro. Contemporaneamente, verrebbe preservata la diversità dei tratti genetici nelle sementi e (73) ETC Group, Geopiracy..., op.cit., pag. 15; GRAIN, The Climate Crisis is a Food crisis. Small farmers can cool the planet - A way out of the mayhem caused by the industrial food system, dicembre 2009, consultabile su:http://www.grain.org/o/?id=93 (74) ETC Group, Geopiracy..., op. cit, pag 15. (75) GRAIN, The Climate Crisis is a Food crisis, List of references http://www.grain.org/m/?id=275 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 negli animali da cortile, e dunque la loro capacità adattiva, elementi, questi, indispensabili per garantire la sicurezza alimentare in condizioni di instabilità climatica. Verrebbero, inoltre, risolti una serie di altri nodi problematici che travagliano il mondo (76). Come il titolo della ricerca suggerisce, la crisi climatica è una crisi alimentare e per risolverla, molto probabilmente, occorrerebbero piccoli agricoltori e sovranità alimentare (77). Non è detto che le proiezioni dello studio citato siano da ritenersi assolutamente infallibili, come nulla può ritenersi tale, tuttavia, l’esempio è certamente utile per dimostrare alcune cose. La prima è che proposte di questo tipo, generalmente in linea con il sapere tradizionale e con le esigenze dei paesi del Sud del mondo, negli ambienti accademici istituzionali vengono generalmente dismesse con sufficienza e, sinora, non hanno avuto la forza di imporsi politicamente. La seconda è che, dei due paradigmi a confronto, quello di cui è espressione lo studio menzionato (78) e quello proprio dei “geoingegneri”, il primo nasce da un approccio olistico ai problemi e propone interventi capaci di suscitare effetti benefici a cascata, ad ampio spettro, di lunga durata e a basso costo, mentre il secondo, tipico del modello scientifico dominante e spesso ostaggio del mercato, non riesce ad affrontare più di un problema per volta come, del resto, esplicitamente dichiarato nel Rapporto della Royal Society «... Studies show that it is not generally possible to accurately cancel more than one aspect of climate change at the same time...» (79). Inoltre, richiede enormi sforzi economici in termini di ricerca e sviluppo, (oltre ai costi delle “esternalità negative” generalmente non incluso nei calcoli iniziali), e pone le condizioni perchè si determinino degli effetti collaterali indesiderati da risolvere a loro volta i quali, alla fine, aggravano la situazione fino al punto di distruggere la coerenza interna e la capacità di autoriparazione del sistema. Nel caso della geo-ingegneria, la cui piena implementazione, va ricordato, implica interventi su scala planetaria, le “esternalità negative” potrebbero essere definitive. È molto importante che le grandi decisioni che riguardano la base naturale dei diritti umani fondamentali siano frutto della partecipazione più vasta pos- (76) GRAIN, The Climate Crisis is a Food crisis...., cit. (77) Sul punto mi permetto di rinviare al mio Sovranità e diritto dei giudici, in Rassegna Avvocatura dello Stato, n. 2 del 2010, pag. 342 e ss. (78) GRAIN, The climate crisis is a food crisis Small farmers can cool the planet - A way out of the mayhem caused by the industrial food system (La crisi climatica è una crisi alimentare. I piccoli agricoltori possono raffreddare il pianeta - Una via d’uscita dal caos causato dal sistema alimentare industriale), su: www.grain.org/o_files/climatecrisis-presentation-11-2009.pdf. (79) Royal Society, Geoengineering..., op. cit. pag. 50: «Studies show that it is not generally possible to accurately cancel more than one aspect of climate change at the same time, but there are serious deficiencies in the ability of current models to estimate features such as precipitation and storms, with corresponding uncertainties in the effects of SRM on such features». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 327 sibile di tutte le parti coinvolte e non vengano riservati in via esclusiva ai governi e ai circuiti tecnico-scientifici più intaprendenti, ed altrettanto importante è che voci e visioni plurali abbiano pari dignità d’ascolto, quando si tratta di affrontare questioni che riguardano commons come l’aria, l’acqua, lo spazio, gli ecosistemi, compreso quello climatico, e la radiazione solare, che sono patrimonio di tutti gli abitanti del pianeta. L’imposizione al mercato e ai governi di una pausa di riflessione prima di consentire interventi di manipolazione “geoingegneristica” del clima su scala globale, decisa nel contesto multilaterale delle Parti della Convenzione sulla diversità Biologica in applicazione del principio di precauzione, a Nagoya, va quindi salutata con estremo favore e si spera possa suscitare il dibattito e la partecipazione della società civile con l’attenzione che il tema in questione merita. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 La mediazione civile e commerciale di cui al d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 Francesca Scaramuzza* SOMMARIO: 1.- Introduzione 2.- Mediazione e conciliazione 3.- L’obbligo di informativa 4.- L’obbligo di mediazione 5.- Mediazione e giudizio arbitrale 6.- Il problema delle spese di lite 7.- Art. 7 e “Legge Pinto” 8.- Valutazione complessiva dell’istituto. 1. Introduzione Il nuovo istituto della mediazione nelle controversie civili e commerciali, previsto dal d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (pubblicato in G.U. del 5 marzo 2010 n. 53), costituente l’attuazione della legge delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009 n. 69, si inserisce a pieno titolo fra i mezzi alternativi per la risoluzione delle controversie altrimenti detti ADR (acronimo anglosassone che sta per “Alternative Dispute Resolution”). La finalità del d.lgs. n. 28 del 2010 è quella di agevolare la composizione delle liti attraverso un procedimento denominato mediazione che operi stragiudizialmente cercando di risolvere la controversia ed evitando il più lungo e costoso iter dinanzi all’autorità giudiziaria. La normativa in commento rappresenta anche l’attuazione della Direttiva comunitaria 2008/52 del 21 maggio 2008, che deve essere recepita dai Paesi membri entro il 21 maggio 2011 e che disciplina la mediazione e la conciliazione per le controversie trasfrontaliere, cioè per le controversie in cui una delle parti ha la residenza o il domicilio in un Paese dell’Unione europea diverso da quello dell’altra parte. Non a caso la delega di cui al cit. art. 60 della l. 69 del 2009 stabiliva che la disciplina del caso dovesse essere redatta “nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria”. E’ d’uopo segnalare immediatamente che la nuova disciplina è entrata in vigore il 20 marzo 2010, salvo per quel che riguarda il tentativo di mediazione obbligatorio di cui all’art. 5 primo comma del d.lgs. in oggetto, la cui applicazione è postergata di 12 mesi successivi alla data di entrata in vigore del provvedimento (cioè 12 mesi a partire dal 20 marzo 2010). Va, preliminarmente, precisato che il decreto in esame insiste essenzialmente sul concetto di mediazione distinguendolo da quello di conciliazione. 2. Mediazione e conciliazione La mediazione è concepita come il procedimento diretto all’eventuale conciliazione della lite e, quindi, alla sua sottrazione alla cognizione dell’au- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 329 torità giudiziaria. Tanto risulta dalla rubrica del testo di legge nella quale si parla di “mediazione finalizzata alla conciliazione”. Ciò appare, del resto, confermato dalle indicazioni di cui all’art. 1 del decreto, nel quale la mediazione è indicata come “l’attività… svolta da un terzo imparziale”, finalizzata alla “composizione” di una controversia o comunque per la “formulazione di una proposta” per la risoluzione della stessa (lett. a). La conciliazione, invece, è definita come “la composizione” della controversia avutasi a seguito dello svolgimento della mediazione (lett. c). In sostanza, può esservi mediazione senza conciliazione, qualora la prima non riesca a raggiungere l’accordo fra le parti. La legge in commento prevede due tipi di mediazione che possono precedere il ricorso all’autorità giudiziaria, l’una facoltativa e l’altra obbligatoria, oltre a un modello spurio che potrebbe definirsi mediazione ope iudicis. La mediazione facoltativa è praticabile per tutte le controversie di cui all’art. 2, e cioè per ogni controversia civile o commerciale relativa a diritti disponibili. Risultano escluse, quindi, la materia penale, tributaria e amministrativa, salvo per quest’ultima l’ipotesi in cui si tratti di rapporti posti in essere iure privatorum fra il privato e la pubblica amministrazione. Ciò perché, nell’ultimo dei casi sopra segnalati, siamo pur sempre nell’ambito civilistico, dato che la questione dedotta in giudizio, ancorché uno dei poli ne sia la P.A., nasce pur sempre da un rapporto di diritto privato. La mediazione facoltativa richiede che l’avvocato, posto di fronte a una delle controversie di cui al cit. art. 2, debba informare previamente il cliente della possibilità di avvalesi del procedimento di mediazione, pena l’annullabilità del contratto d’opera ove il giudizio non sia stato preceduto dalla citata informativa. La mediazione obbligatoria, invece, si attua in tre ipotesi: 1) la prima, che si potrebbe definire ope legis, riguarda una serie di controversie, dettagliatamente indicate nel primo comma dell’art. 5 e cioè controversie “in materia di condominio, di diritti reali, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti bancari, assicurativi e finanziari”. Emerge, ictu oculi che non possono essere oggetto di mediazione obbligatoria le controversie relative ai diritti di credito derivanti da fattispecie contrattuali non incluse tra quelle previste dal primo comma, come ad esempio la compravendita. 2) La seconda ipotesi in cui la mediazione è obbligatoria, è prevista dal quinto comma dell’art. 5 e concerne il caso della c.d. clausola di mediazione o conciliazione, relativa, cioè, a quella ipotesi in cui la mediazione o la clausola di mediazione siano previste in un contratto oppure nello statuto o nell’atto co- 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 stitutivo di un ente. In tale caso, non si può promuovere il giudizio e neppure un eventuale arbitrato se prima non si fa luogo alla mediazione e alla conciliazione. 3) La terza ipotesi, che potrebbe definirsi ope iudicis e che Mandrioli (1) chiama “delegata”, è prevista dal secondo comma dell’art. 5, il quale consente al giudice, anche in appello, purché prima della precisazione delle conclusioni, di invitare le parti a procedere alla mediazione. Per comprendere quali siano le conseguenze dell’inottemperanza alla normativa sulla mediazione, bisogna innanzitutto distinguere l’obbligo di informazione delle parti della possibilità o dell’obbligo di avvalersi del previo tentativo di mediazione, dal procedimento di mediazione stesso. 3. L’obbligo di informativa L’obbligo di informazione è disciplinato dall’art. 4 terzo comma del decreto e vale per tutti i procedimenti aventi ad oggetto le materie di cui all’ art. 2, tanto se la mediazione è facoltativa, quanto se è obbligatoria, indipendentemente dal tipo di rito utilizzato (ordinario, sommario, camerale, cautelare). L’ obbligo di informativa vale, dunque, anche per i procedimenti di cui al terzo e quarto comma dell’art. 5, per i quali ha dei limiti o appare addirittura escluso il procedimento di mediazione obbligatoria. Le conseguenze della mancata informativa sono duplici: - la prima è: il giudice che verifica la mancata allegazione del documento all’atto introduttivo segnala alla parte la facoltà di chiedere la mediazione. La segnalazione non è legata ad un particolare momento del giudizio, né tanto meno alla prima udienza e vale tanto per la mediazione facoltativa, quanto per quella obbligatoria; - la seconda conseguenza è che la mancata informativa determina l’annullabilità del contratto d’opera tra il professionista e il cliente. Trattasi, come si è detto, di annullabilità e non di nullità, per cui l’unico che può avvalersene è il cliente, con la conseguenza che, se quest’ultimo non lo fa, perché non vuole ricorrere alla mediazione, il giudizio prosegue senza conseguenze. Se invece il cliente, a seguito della segnalazione del giudice, si avvale dell’annullabilità perché intende sfruttare la mediazione, il giudice dovrà consentirgli il ricorso a tale strumento, per cui dovrà “bloccare” il giudizio per dare modo alla parte di porre in essere il procedimento di mediazione. Il modus procedendi altro non può essere che quello previsto dalla seconda parte del primo comma dell’art. 5, il quale è “malamente ricollegato alla sola mediazione obbligatoria, ma non può non valere anche per la mediazione facoltativa” (2). (1) C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile (a cura di G. Carratta), Torino 2010, pag. 397. (2) Così G.F. RICCI, Diritto Processuale Civile, Appendice di Aggiornamento, Torino, 2010. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 331 4. L’obbligo di mediazione Diverso dall’obbligo di informativa è invece l’obbligo di mediazione, allorché esso riguardi alcune delle controversie previste dall’art. 5 primo comma del decreto. In proposito può avvenire che l’avvocato non dia luogo all’informativa di cui all’art. 4, terzo comma e la controversia che gli è dato di risolvere rientri fra quelle di cui al cit. art. 5 comma primo. In tal caso, la proposizione della domanda giudiziale senza il ricorso alla previa mediazione rende il giudizio improcedibile (art. 5 co. 1). Tuttavia, il rilievo del vizio è ancorato a specifiche preclusioni, nel senso che l’ eccezione del convenuto e l’eventuale rilievo del giudice debbono avvenire “non oltre la prima udienza”. Ciò significa che se l’improcedibilità non è rilevata nei termini, il giudizio prosegue e l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione viene meno. Restano, però, gli effetti della mancata informativa al cliente di cui all’art. 4 terzo comma. Può anche verificarsi che l’avvocato ritenga che la controversia sia tra quelle che richiedono una mediazione facoltativa ed avvertire il cliente di conseguenza, mentre il caso rientra nelle ipotesi di cui all’art. 5 primo comma. In tale situazione, ove il vizio non sia rilevato oltre la prima udienza, le conseguenze sono analoghe a quelle già viste per il ricorso alla mediazione ed il rinvio del giudizio si ha solo se il cliente lo desidera. Non si potrà, però, parlare di annullabilità del contratto perché essa è prevista solo per la mancata informativa, non per un’informativa erronea. Bisogna tenere presente che il mancato ricorso alla mediazione può risolversi in un danno per la parte, specie nel caso di rischio di soccombenza della medesima nel giudizio. Dunque, così come è evidente che la parte che vincerà la causa non avrà interesse ad eccepire il difetto dell’informativa e l’invalidità del contratto, è altrettanto evidente un suo interesse a rilevare il vizio se per caso risulti soccombente, mentre la mediazione avrebbe potuto fargli ottenere un risultato più soddisfacente. Ne consegue che gli effetti del difetto di informativa non sono destinati a consumarsi nell’ambito del processo, ma possono permanere anche dopo la sua chiusura quando si siano risolti in uno svantaggio anche potenziale per la parte. Non è necessario che questa dimostri che la mediazione gli avrebbe fatto ottenere un risultato migliore di quello ottenuto nel processo, essendo sufficiente l’astratta possibilità che ciò avrebbe potuto in qualche modo verificarsi. L’altra modalità di mediazione è quella ope iudicis: indipendentemente dalla volontà della parte di avvalersi o meno della mediazione facoltativa o dal caso della mediazione obbligatoria, l’ art. 5 secondo comma prevede che, tanto nel corso del giudizio di primo grado, quanto in appello, il giudice “valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti” può “invitare” le stesse a procedere alla mediazione, purché prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni o, se questa non è prevista, prima 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 della discussione della causa”. Trattasi di una mediazione ufficiosa o “delegata”. Se le parti aderiscono all’invito, il giudice procede assegnando alle parti il termine di 15 giorni per iniziare il procedimento e rinviando l’udienza ad una data successiva alla scadenza del termine di cui all’art. 6. La situazione contemplata nel secondo comma dell’art. 5 non va confusa né con la mediazione obbligatoria, né con l’ipotesi prevista dal terzo comma dell’art. 4 in cui il giudice, accortosi della mancata informativa al cliente, può segnalare allo stesso la possibilità di avvalersi della mediazione durante tutto il corso del processo (e quindi anche oltre le preclusioni di cui all’art. 5 primo comma). Infatti, la citata ipotesi di cui all’art. 4 riguarda il caso in cui sia mancata l’informativa al cliente e tale informativa viene data dal giudice. La situazione in esame, invece, sembra prescindere dal fatto che l’avviso sia stato o meno dato o che la mediazione sia stata rifiutata (se facoltativa) o non abbia avuto esito (se obbligatoria) ed attribuisce, indipendentemente da tutto ciò, la facoltà al giudice, anche in sede di gravame, di consentire alle parti di potersi avvalere ex novo della mediazione rifiutata o che non ha sortito effetto. Ciò è dimostrato dall’inciso contenuto nel secondo comma dell’art. 5, il quale precisa che tale disposizione si applica “fermo restando quanto previsto dal comma 1” dell’articolo. In sostanza il giudice può sempre disporre d’ufficio la possibilità di avvalersi della mediazione. Si noti anche la differenza con quanto previsto dall’ult. comma dell’art. 4, ove si dice che il giudice, il quale si accorge della mancata informativa, rende nota alla parte la possibilità di accedere alla mediazione, mentre nel dispositivo del secondo comma dell’art. 5 si legge tutt’altra dicitura, cioè il giudice può invitare. Non c’ è dunque una semplice informativa ma un invito a procedere al tentativo stragiudiziale di componimento della lite, invito peraltro che non obbliga le parti. In sostanza si potrebbe riassumere la questione in questi termini: - ove l’avvocato abbia dato inizio alla lite senza la dovuta informativa al cliente il giudice può in ogni momento del giudizio informare la parte della possibilità di chiedere la mediazione; - ove la mediazione sia obbligatoria e non vi sia stata informativa o vi sia stata informativa erronea, se la questione è sollevata anche d’ufficio non oltre la prima udienza, si deve far luogo al tentativo obbligatorio di mediazione; - se invece è sollevata successivamente, al tentativo di mediazione si accederà solo se la parte lo richiedesse; - infine, ove vi sia stata corretta informativa e la parte abbia rifiutato la mediazione facoltativa o il tentativo di mediazione obbligatoria non abbia avuto successo, è sempre una facoltà del giudice invitare nuovamente le parti ad effettuare la mediazione, compatibilmente però, questa volta, con i parametri indicati dalla legge relativi alla natura della causa, allo stato dell’istruzione e al comportamento delle parti. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 333 5. Mediazione e giudizio arbitrale Uno dei problemi che si pongono è quello di vedere se le regole sull’informativa della possibilità di avvalersi della mediazione e sul tentativo obbligatorio di mediazione, valgano anche per il processo arbitrale, dato che pure con l’arbitrato si risolvono controversie “civili e commerciali”. Il problema non è di facile soluzione dato che l’art. 4 terzo comma, nell’imporre l’obbligo dell’informativa al cliente, lo ricollega alla generica dizione del “conferimento dell’incarico” per risolvere la controversia, il che potrebbe astrattamente riferirsi anche alla domanda arbitrale. E’ vero che nello stesso comma si fa successivamente riferimento alla domanda giudiziale, ma solo per ciò che riguarda i casi in cui la mediazione è condizione di procedibilità della domanda, cioè i casi di mediazione obbligatoria. Nonostante la genericità della formula, è però da ritenere che l’informativa e l’applicabilità della mediazione non valgano per l’arbitrato. I dati letterali non contano, perché sarebbe assurdo ritenere che l’avvertimento nel caso di giudizio arbitrale dovesse valere solo per la mediazione facoltativa e non per quella obbligatoria. Un elemento decisivo per decidere la questione può comunque essere ricavato dal successivo quinto comma dell’art. 5 il quale è l’unico a menzionare l’arbitrato ma lo fa solo in riferimento alla citata ipotesi in cui questo muova da contratto, da uno statuto o da un atto costitutivo di un ente che preveda la mediazione come obbligatoria. In tali casi, anche l’arbitrato va preceduto dal tentativo di mediazione. La conferma di ciò si evince anche dal fatto che, mentre il citato art. 5 comma 4 menziona il giudice e l’arbitro, l’art. 4 comma 3 (sulla mediazione facoltativa) e l’art. 5 comma 1 (sulla mediazione obbligatoria che non sia legata alla fattispecie del quinto comma) fanno rifermento solo al giudice come organo risolutivo delle liti. Infatti, il primo comma dell’art. 5 prevede che il mancato esperimento del previo tentativo di mediazione obbligatoria “può essere rilevato anche d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza”. Nella stessa prospettiva il terzo comma dell’art. 4 afferma che qualora l’informativa non sia stata effettuata dall’avvocato “il giudice informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”. Ne consegue che tanto la mediazione facoltativa, quanto quella obbligatoria, non legata alle condizioni di cui al quinto comma dell’art. 5, sembrano ricollegabili solo al giudizio dinanzi all’autorità giudiziaria e non a quello arbitrale. In ciò vi è probabilmente una ragione, data dal fatto che la mediazione è un istituto predisposto essenzialmente per la deflazione della domanda di giustizia e per provvedere ad una sollecita decisione delle controversie. Fini questi risolti entrambi anche dal giudizio arbitrale che, da un lato, elimina il contenzioso di fronte al giudice ordinario e dall’altro garantisce rapidi tempi decisori. Onde non avrebbe senso imporre anche per esso la previa mediazione, tranne nei casi di cui al quinto comma dell’art. 5, in cui tale ob- 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 bligo sia stato previsto negli atti scritti contemplati dalla norma espressamente anche per il giudizio arbitrale. Da ciò dovrebbe ricavarsi quanto segue: per l’inizio di un eventuale giudizio arbitrale non v’è l’obbligo della previa mediazione, neppure nei casi in cui essa è obbligatoria, salva l’ipotesi in cui tale obbligo non sia imposto da un contratto oppure da uno statuto o un atto costitutivo di un ente, dai quali l’arbitrato prende vita (tanto in conseguenza di compromesso che di clausola compromissoria). Di conseguenza, nel caso di arbitrato, l’avvertimento di cui all’art. 4, terzo comma, va tutt’al più fatto solo per le ipotesi di cui sopra e non anche in quelle generali degli artt. 4 e 5 primo comma. In ogni caso, a ben guardare, neppure in tali ipotesi sembra obbligatorio l’avvertimento del legale, sia perché di fronte all’arbitro la parte può stare in giudizio anche personalmente e sia soprattutto perché il comma quinto dell’art. 5 si limita a prevedere, per le ipotesi sopra menzionate, che il giudice o l’arbitro diano ingresso all’omesso o non concluso tentativo di conciliazione, ma nulla di più. A ciò si aggiunga il fatto che i casi di cui al quinto comma dell’art. 5 debbono essere pur sempre relativi a diritti disponibili e quindi rientranti necessariamente nel caso dell’art. 4 terzo comma, il quale non contempla affatto l’obbligo di informativa al cliente nel caso di giudizio arbitrale. 6. Il problema delle spese di lite Se l’esito della lite corrisponde al contenuto della proposta, la parte che l’ha rifiutata, anche se vincitrice, non ha diritto al rimborso delle spese di lite maturate dopo la formulazione della proposta ed è condannata anche al rimborso di quelle sostenute dalla parte avversa relative a tale periodo. Inoltre, è condannata al pagamento a favore del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma corrispondente al contributo unificato dovuto. Ancora, a suo carico restano le spese per l’indennità corrisposta al mediatore (art. 23 primo comma). Insomma, in tal caso la parte vincitrice in giudizio che aveva rifiutato la proposta paga tutte le spese del processo e quelle del procedimento di mediazione, in aggiunta al contributo unificato appena menzionato. Inoltre, poiché il testo dell’art. 13 del decreto fa salva l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c., che importa la condanna del soccombente per lite temeraria, “riesce davvero difficile capire come farà il giudice a districarsi nella regolamentazione delle spese di lite” (3). Il secondo comma della norma prevede l’ipotesi che il provvedimento del giudice non corrisponda interamente al contenuto della proposta. In tal caso, il giudice, “se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni da indicare esplicitamente in motivazione può escludere la ripetizione da parte del vincitore (3) G.F. RICCI, op. cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 335 dell’indennità da lui corrisposta al mediatore e del compenso dovuto all’esperto” (secondo comma). In sostanza, in questa seconda ipotesi, la parte vincitrice si trova a non poter recuperare le spese corrisposte per la mediazione. Secondo parte della dottrina la disposizione non sembra aver molto senso perché, se la sentenza è difforme dalla proposta, significa che la proposta era sbagliata ed allora la regolamentazione delle spese dovrebbe essere quella generale dell’art. 91 e seguenti c.p.c. Inoltre, le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 13 non si applicano al giudizio arbitrale (terzo comma). Il collegamento della mediazione al giudizio arbitrale è molto limitato, sussistendo solo nell’ipotesi dell’art. 5 quinto comma del decreto, relativo alla clausola di mediazione inserita in un contratto oppure nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente. In ogni caso non è chiaro il perché dell’esclusione dalle conseguenze delle spese del giudizio del rifiuto alla proposta di mediazione, quando si tratti di arbitrato. Molto probabilmente dipende dalla solita scarsa conoscenza dell’arbitrato e dalla nota ritrosia a considerarlo un vero e proprio processo, regolato per ciò che riguarda le spese come il giudizio ordinario. Per concludere, le sanzioni dettate dall’art. 13 del decreto in tema di spese di lite appaiono eccessive: il fatto che alla parte vincitrice del giudizio che non abbia accettato una proposta di mediazione coincidente con il contenuto della decisione giudiziaria debbano essere accollate le spese di lite proprie e della controparte, costituisce un evidente “deterrente forzato” dal ricorrere alla tutela giudiziaria. Ciò in quanto, di fronte alla proposta del mediatore, la parte quasi sicuramente preferirà non rischiare, finendo per accettare la soluzione stragiudiziale segnalatagli, anche se non è convinta appieno ed anche se può ritenerla ingiusta, piuttosto che ricorrere alla tutela giudiziaria che avrebbe potuto offrirgli un risultato anche migliore. Proprio questo è il punto su cui si giocano dei dubbi di costituzionalità per eccesso di delega con riferimento alla lett. a) dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che aveva posto come preciso criterio direttivo quello per cui l’attuazione della mediazione non dovesse in alcun caso precludere il ricorso alla tutela giudiziaria. 7. Art. 7 e “Legge Pinto” Per finire, l’art. 7 del decreto prevede espressamente che i quattro mesi di durata del procedimento di mediazione stabiliti dal precedente articolo, nonché il periodo all’uopo fissato dal giudice nel caso di mancato esperimento della mediazione “obbligatoria”, non debbano esser computati ai fini della verifica circa la ragionevole durata del processo ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. “legge Pinto”). Nella logica del legislatore evidentemente la ratio dell’art. 7 è la seguente: poiché la mediazione può determinare un rallentamento del singolo processo, 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ma comunque in maniera funzionale a una più rapida soluzione delle controversie, la previsione di un tentativo obbligatorio di conciliazione non deve avere alcun impatto sulla determinazione della ragionevole durata del processo. A prescindere dalla disputa dottrinaria sulla natura di temine ordinatorio o perentorio riferito ai quattro mesi di durata della mediazione, salta subito agli occhi che la sottrazione del periodo di durata del procedimento di mediazione dal computo del termine oltre il quale il processo è da considerarsi irragionevole ai sensi della legge Pinto, è in contraddizione con il primo comma dell’art. 5, per cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Se, infatti, la mediazione è sostanzialmente obbligatoria, l’arco temporale necessario per il suo espletamento deve necessariamente rientrare nel calcolo imposto dalla legge in tema di equa riparazione, costituendo il procedimento di conciliazione un passaggio indispensabile per l’ottenimento della pronuncia giurisdizionale (4). Basti considerare che la Corte di Strasburgo nel procedimento n. 18020 del 31 marzo del 1992 ha statuito che: “in un caso di particolare urgenza, anche un ritardo di quattro mesi può comportare una irragionevole durata del processo”. In conclusione l’unico effetto che l’art. 7 potrebbe avere sarà semmai quello di escludere i ricorsi in base alla legge Pinto, aumentando invece le possibilità di condanna da parte dello Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 8. Valutazione complessiva dell’istituto Dovendo effettuare una valutazione generale sull’istituto della mediazione, si deve rilevare in primis come ogni tentativo volto ad arginare o deflazionare il contenzioso giudiziario sia sempre il benvenuto, a patto che esso sia esattamente coordinato con i principi generali relativi alla tutela giurisdizionale. Sotto questo profilo, nessun problema si pone per la conciliazione facoltativa, che si attua sol se le parti lo vogliono, tanto da non incidere negativamente sul loro diritto di azione, che esse conservano perfettamente integro in luogo di ogni eventuale soluzione della controversia che avvenga al di fuori del giudizio. Può convenirsi anche con la mediazione ope iudicis di cui all’art. 5 secondo comma, che risponde in certo modo alle stesse esigenze della conciliazione giudiziale dell’art. 185 c.p.c., attuabile in ogni momento del processo. Analogamente a quest’ultima, che richiede il consenso congiunto di ambo le parti, l’art. 5 secondo comma si pone nella stessa linea del rispetto del principio dispositivo, dato che il giudice non può imporre, ma solo invitare (4) In termini analoghi G. OLVIERI La ragionevole durata del processo di cognizione in Foro it., 2000. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 337 le parti a dare corso alla mediazione. Tra l’altro, volendo considerare il fenomeno della mediazione in chiave comparatista, “la possibilità di risolvere la lite attraverso il semplice accordo delle parti o quella in cui la sua risoluzione avviene attraverso la proposta fatta dal mediatore alla quale le parti abbiano aderito, corrisponde alle due diverse figure identificate negli ordinamenti di common law, rispettivamente come facilitative mediation e evaluative mediation. E’ evidente il ruolo diverso del mediatore nelle due ipotesi, che si limita a recepire l’accordo delle parti nel primo caso, e che contribuisce a formare il contenuto dell’accordo nel secondo, (da qui la definizione di mediazione evacuative, cioè valutativa, in quanto il mediatore, per formulare la proposta, deve effettuare una valutazione delle diverse prospettazioni delle parti). Fra i due istituti sussistono specifiche differenze, poiché, mentre nella mediazione “facilitativa” la formulazione dell’accordo conciliativo potenzialmente non ha limiti, nel secondo caso, la proposta del mediatore dovrà obbedire alla specifica regola dell’art. 112 c.p.c. (non dovrà fuoriuscire dalla materia del contendere) e quella della formulazione secondo diritto di cui all’art. 113 primo comma c.p.c.”(5). Perplessità sono invece suscitate, secondo Ricci, dalla mediazione obbligatoria che, prescindendo dal consenso dei contendenti, comanda loro, volenti o nolenti, di percorrere la strada della composizione stragiudiziale prima di ricorrere alla tutela giudiziaria. Secondo l’Autore, anche se le conciliazioni obbligatorie non sono più ritenute contrastanti con i principi costituzionali e segnatamente con il diritto di azione, non si può certo dire che esse abbiano avuto un grande successo in pratica, neppure in quel settore nel quale esse hanno potuto vantare i maggiori consensi e cioè nel campo delle controversie di lavoro. Il numero delle controversie laburistiche conciliate in via stragiudiziale è sempre stato esiguo e ciò nonostante siano trascorsi oltre dieci anni dacché in questo campo la conciliazione da facoltativa qual era, è divenuta obbligatoria (cioè dal d.lgs. n. 80 del 1998). A onor del vero, però, bisogna rilevare come il legislatore del 2010 si sia impegnato per superare la “latente inerzia” nella quale, spesso, l’organo conciliativo giace. Ciò è avvenuto con il tentativo di vivificare la struttura dell’istituto cominciando fin dalla nuova etichetta (non più “conciliazione” ma “mediazione”), ma, soprattutto, con il proposito di rielaborare totalmente l’istituto con l’affidarne la gestione a un organo terzo e imparziale, tanto da trasformare quella che comunemente si chiamava conciliazione “paritetica” (gestita dai rappresentanti dei due opposti gruppi) in una specie di conciliazione “eteronoma,” nella quale il mediatore non risponde ad alcun interesse se non quello superiore della giustizia. (5) Così CASTAGNOLA e DELFINI in La mediazione nelle controversie civili e commerciali, Padova 2010. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 Questo sforzo, indubbiamente apprezzabile, si è tentato di raggiungerlo apprestando un complesso di previsioni destinate a garantire non solo l’imparzialità del mediatore (artt. 1 lett. a, 3 e 14 del decreto) o la sua preparazione (art. 14), ma anche un suo ruolo attivo del tutto ignoto ai normali sistemi di conciliazione, consistente nel fatto che egli non deve limitarsi a verificare se le parti intendono o meno conciliarsi od ascoltare le loro (alquanto rare) proposte, ma può formulare esso stesso una proposta di conciliazione (art. 11), sulla quale le parti debbono veramente meditare, anche perché un rifiuto immotivato può portare serie conseguenze per le spese di lite nel futuro processo anche nei confronti del vincitore. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 339 La pubblica amministrazione e la giustizia alternativa Mediazione e arbitrato nei contratti pubblici Francesca Scaramuzza* SOMMARIO: 1.- Arbitrato e riparto di giurisdizione 2.- Arbitrato rituale ed irrituale 3.- Arbitrato e P.A. quando agisce iure privatorum 4.- Arbitrato in materia di esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Un po’ di storia. 5.- Ancora sul riparto di giurisdizione 6.- Il momento in cui può essere proposta domanda di arbitrato: l’accordo bonario 7.- Le modifiche alla disciplina dell’arbitrato apportate dal d.lgs n. 53/2010 8.- L’art. 241 del codice dei contratti pubblici come modificato dal d.lgs n. 53/2010 9.- L’art. 242: la Camera arbitrale 10.- L’art. 243 e le ulteriori norme di procedura 11.- Le regole procedurali secondo la prassi della Camera 12.- Ambito di applicazione del giudizio arbitrale 13.- Efficacia, esecutività e deposito del lodo secondo il novellato art. 241 co. 9 e 10 14.- L’impugnazione del lodo 15.- L’impugnazione degli atti “camerali” 16.- Il doppio regime transitorio. 1. Arbitrato e riparto di giurisdizione Attualmente, l’art. 12 del codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009 n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo, pubblicato in G.U. 7 luglio 2010 n. 156, S.O.) risolve, una volta per tutte, la disputa dottrinaria relativa al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo anche per ciò che concerne l’arbitrato: dispone l’art. 12 “Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto”. Dunque, l’arbitrato è precluso per i diritti indisponibili o laddove, pur essendo il diritto disponibile, vi sia uno specifico divieto legislativo (art. 806 c.p.c.); è, altresì, precluso per le situazioni soggettive di interesse legittimo (di regola devolute al giudice amministrativo). Invece, è ammesso in relazione ai diritti soggettivi disponibili, sia che di essi conosca il giudice ordinario, sia che di essi conosca il giudice amministrativo nelle materie di giurisdizione esclusiva. Tale situazione è stata affermata anche in precedenza dalla l. n. 205/2005 il cui art. 6 co. 2 che ha espressamente ammesso l’arbitrato sui diritti soggettivi (salvi specifici divieti di legge, come per gli arbitrati relativi a opere di ricostruzione post-sismica), a prescindere da quale sia il giudice che ha giurisdizione su quei diritti soggettivi. Si ritiene che l’attribuzione di un dato contenzioso alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo sia sintomatico del carattere autoritativo del provvedimento e, dunque, della indisponibilità degli interessi in gioco e non arbitrabilità del relativo contenzioso. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 L’art. 6 della l. n. 205/2000 e l’art. 12 del nuovo processo amministrativo, poi, hanno innovato completamente rispetto al passato; infatti, secondo il costante orientamento giurisprudenziale precedente, non era ammesso l’arbitrato nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia per quanto riguardava gli interessi legittimi che per i diritti soggettivi di cognizione del G.A. La giurisprudenza, infatti, pur riconoscendo la compromettibilità in arbitri delle controversie relative a rapporti di “diritto civile” con l’amministrazione operante iure privatorum, fisiologicamente appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario ed aventi ad oggetto diritti soggettivi disponibili di natura patrimoniale, non riconosceva, invece, l’accesso a tale alternativa forma di definizione per le controversie involgenti posizioni giuridiche di diritto soggettivo devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (1). Tanto in ragione, oltre che dell’indisponibilità del pubblico interesse, anche della impossibilità che, attraverso l’opposizione del lodo, il giudice ordinario ritornasse a conoscere controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo (2). Si evidenziava la necessità di evitare che, proprio in relazione a controversie attratte nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, potesse riconquistare spazi di giurisdizione il giudice ordinario, destinato a tornare in causa per effetto dell’individuazione nella Corte d’Appello del giudice deputato a conoscere dell’ impugnazione proposta attraverso il lodo. Si rimarcava, inoltre, la contraddittorietà della devoluzione dell’arbitrato alle sole controversie relative a diritti soggettivi, rispetto all’esigenza di assicurare la concentrazione, nella giurisdizione esclusiva, della cognizione di materie connotate dallo stretto intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Si osservava, in specie, che il riconoscimento della possibilità di ricorrere all’arbitrato, pur limitata alle controversie concernenti diritti soggettivi, avrebbe comportato una frammentazione giurisdizionale della materia, in contrasto con il fondamento stesso della giurisdizione esclusiva, consistente nella concentrazione presso il giudice amministrativo della competenza giurisdizionale nelle materie nelle quali è più stretto l’intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Infine, si sosteneva, come rilevato, l’alternatività dell’arbitrato rispetto (1) Vedi Cass., sez. un., 10 dicembre 1993 n. 12166, successivamente Cass., sez. un., 10 novembre 1994 n. 9356. (2) “Il potere giurisdizionale degli arbitri, in quanto trova fondamento nella volontà delle parti di derogare convenzionalmente alla competenza del giudice civile, sussiste solo nell’ambito della giurisdizione di quest’ ultimo; ne consegue che non possono essere devolute al giudice privato controversie che esorbitano dalla giurisdizione del giudice ordinario per essere la materia deferita al giudice amministrativo, sia come giurisdizione generale di legittimità, sia come giurisdizione esclusiva ” (Cass., sez. un., 12 luglio 1995 n. 7463). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 341 alla sola giurisdizione civile ordinaria, non anche alle giurisdizioni speciali, sull’assunto secondo cui lo stesso è ricondotto nell’alveo della giurisdizione ordinaria in sede di omologazione e di impugnazioni (art. 825 e 827 c.p.c.). A tale esito era pervenuto, poco prima del varo della l. 205/2000, lo stesso giudice amministrativo ritenendo non preclusivo della sua giurisdizione l’inserimento di una clausola compromissoria in una convenzione stipulata tra privato e amministrazione per la realizzazione e gestione di un parcheggio. Riteneva il Consiglio di Stato che “non sono deferibili ad arbitri le controversie rimesse alla giurisdizione esclusiva del G.A.”(3). Anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 80/1998, che ha ampliato l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la giurisprudenza aveva negato la deferibilità ad arbitri delle controversie su diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo (4). La dottrina più attenta, però, già prima dell’innovazione introdotta dall’art. 6 l. n. 205/2000, riteneva che dovesse ammettersi l’arbitrato nelle controversie su diritti soggettivi, ancorché rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario. Ciò in base alla duplice considerazione che: l’art. 806 c.p.c. non reca alcuna preclusione in ordine alla compromettibilità di controversie non rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario; inoltre non vi è indisponibilità dell’interesse pubblico laddove l’amministrazione agisce nell’ambito dei rapporti paritetici, a fronte dei quali vi sono situazioni giuridiche di diritto soggettivo (5). Passiamo ora alle novità introdotte dalla legge n. 205/2000 all’art. 6 (disposizione rimasta immutata, nella sostanza, anche nel nuovo codice del processo amministrativo del 2010, all’art. 12): la norma, come si è poc’anzi detto, consente l’arbitrato solo per le controversie attribuite al giudice amministrativo che vertano su diritti soggettivi (non anche per quelle che vertano su interessi legittimi; sul punto v. Cons. St., sez. VI, n. 1052/2004), e consente solo l’arbitrato rituale di diritto (non anche l’arbitrato irrituale e quello secondo equità). Conseguentemente è nulla una clausola contrattuale che preveda un arbitrato irrituale su diritti soggettivi in materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (6). L’arbitrato è configurato come facoltativo, in ossequio al costante orientamento della Corte Costituzionale, che ha sempre stigmatizzato gli arbitrati obbligatori. Trattandosi di arbitrato rituale di diritto, trovano applicazione le previsioni del c.p.c. sia per quel che concerne l’accordo di deferimento della lite ad ar- (3) Consiglio di Stato, sez. V, n. 2337/2001. (4) Cons. St., sez. V, n. 353/2001. (5) F. CARINGELLA, Commento all’art. 6, co. 2 l. n. 205/2000, Milano 2001. (6) Tar Puglia-Lecce, sez. II, n. 5389/2006. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 bitri, sia per quel che concerne le controversie arbitrabili, le modalità di nomina degli arbitri e il procedimento in generale da seguire. 2. Arbitrato rituale e irrituale In applicazione dell’art. 6 comma 2, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, che preveda un arbitrato rituale di diritto su controversie relative a diritti soggettivi, il giudice amministrativo dovrà declinare la propria competenza, in favore di quella degli arbitri, sempre che sia ritualmente proposta la relativa eccezione. Ove le parti eccepiscano l’esistenza di un accordo per la devoluzione della controversia ad arbitrato rituale, formulano una eccezione di incompetenza del giudice adito, incompetenza che, avendo carattere relativo e derogabile, deve essere eccepita dalla parte in limine litis e non può invece essere rilevata d’ufficio. Per contro, l’eccezione con la quale si deduca l’esistenza di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, non comporta deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria ma attiene alla sola proponibilità della domanda: essa non è vincolata ai limiti propri dell’eccezione di incompetenza e può essere fatta valere in ogni momento del giudizio. Siccome l’arbitrato è consentito solo se rituale e di diritto, mentre è precluso l’arbitrato irrituale, una eventuale eccezione di improponibilità della domanda giudiziaria, per essere stato pattuito un arbitrato irrituale, sarebbe irrilevante e inidonea a precludere l’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo (7). Sul punto è intervenuta la Suprema Corte si Cassazione a sezioni unite in una recentissima sentenza (Cass., Sez. Un., n. 8987/2009) che ha escluso la possibilità per la P.A. di avvalersi dell’arbitrato irrituale per la risoluzione di controversie derivanti da contratti di appalto “in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità di scelta degli arbitri irrituali”. Alla luce dell’art. 6, nel processo amministrativo può essere dedotta l’eccezione di incompetenza per essere la controversia devoluta ad arbitrato rituale; posto che la competenza arbitrale è derogabile, l’incompetenza del giudice adito non può essere rilevata d’ufficio, né eccepita per la prima volta in appello. Come si sa, “la distinzione tra arbitrato rituale o irrituale è una questione di ermeneutica contrattuale, che va risolta con riguardo al contenuto obiettivo del compromesso e alla volontà delle parti. Nell’interpretare il compromesso o la clausola compromissoria alla luce della volontà delle parti, si deve ritenere che le parti hanno voluto un arbitrato rituale, se hanno inteso attribuire (7) R. DE NICTOLIS, F. CARINGELLA, V. POLI, Le ADR alternative despute resolution, Roma, 2008. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 343 agli arbitri una funzione sostitutiva del giudice, mentre hanno voluto un arbitrato irrituale se hanno inteso demandare agli arbitri la soluzione di una controversia mediante un negozio di accertamento o strumenti conciliativi o transattivi, sicché il dictum degli arbitri è destinato a riempire il contenuto, in bianco, di un accordo transattivo sottoscritto dalle parti”(8). Ove permanga un dubbio circa la natura dell’arbitrato voluto dalle parti deve ritenersi che le parti abbiano voluto un arbitrato irrituale, “dovendosi ritenere eccezionale l’arbitrato rituale per la deroga che esso comporta alla giurisdizione pubblica”(9). Appare indicativo dell’intento delle parti di addivenire ad un arbitrato rituale l’uso di espressioni come “competenza”, “giudizio”, e, per converso, il mancato uso di espressioni tipiche per individuare l’arbitrato irrituale, quali “amichevole compositore” e la mancata previsione della consegna agli arbitri del c.d. biancosegno, tipica dell’arbitrato irrituale. 3. Arbitrato e P.A. quando agisce iure privatorum Nessuna novità ha recato l’art. 6 co. 2 l. 205/2000, quanto alle controversie nelle quali è sì coinvolta la P.A., ma considerata nella sua veste di soggetto agente iure privatorum, controversie che, in quanto fisiologicamente rientranti nella giurisdizione ordinaria, sono state anche in passato ammesse alla definizione arbitrale. In questo caso, la P.A,. poiché opera in posizione paritetica con il privato, può ricorrere all’arbitrato in ogni caso, anche se questo non sia espressamente previsto dalla normativa che regola i rapporti sostanziali considerati. Si tratta di una soluzione coerente, peraltro, con il sistema, posto che la controversia appartiene alla giurisdizione ordinaria, ed il giudizio arbitrale si risolve, così, in una mera variante procedimentale collocata all’interno di quel sistema. L’istituto dell’arbitrato resta, quindi, alternativo alla giurisdizione ordinaria. 4. Arbitrato in materia di esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Un po’ di storia Varie sono state le tappe che hanno portato all’emanazione del codice dei contratti pubblici: in primis la legge n. 2248 /1865 art. 349 allegato f), poi il D.P.R. n. 1063/1962, la legge n. 741/1981, la legge n. 109/1994 (legge Merloni), la legge Merloni-bis n. 216/1995 e la legge Merloni-ter n. 415/1998. L’originaria versione della legge Merloni sancì il divieto di previsione dell’arbitrato; successivamente la legge Merloni bis stabilì, con una netta inversione di tendenza, che “in caso di mancato raggiungimento dell’accordo (8) R. DE NICTOLIS, F. CARINGELLA, V. POLI, op. cit. (9) Cons. St., sez. VI, n. 1863/2006. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 bonario di cui all’art. 31 bis, la definizione delle controversie è attribuita a un arbitrato ai sensi delle norme del titolo VIII del libro quarto del c.p.c.”. La norma suscitava comunque dubbi esegetici, soprattutto a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 152 del 1996 che sanciva l’illegittimità degli arbitrati obbligatori. Sennonché la legge Merloni ter chiariva sia l’oggetto dell’arbitrato sia la facoltatività dello stesso. Varie furono le leggi che si susseguirono fino alla legge n. 166/2002, finché il Consiglio di Stato sez. IV, con la nota sentenza n. 6335/2003, dichiarava illegittima la norma regolamentare che sottraeva alla libera scelta delle parti la nomina del terzo arbitro. In adeguamento a tale decisione il legislatore ha novellato l’art. 32 l. n. 109/1994 (con l’art. 5, co. 16 sexies d.l. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/2005). Il codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, da un lato ha generalizzato la disciplina finora dettata per i lavori pubblici, estendendola all’arbitrato in materia di appalti relativi a servizi o forniture, dall’altro lato ha tenuto conto dell’ultima riforma attuata con il d.l. n. 35/2005. 5. Ancora sul riparto di giurisdizione In tale contesto può essere ricondotto il contenzioso riguardante la fase dell’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Tradizionalmente, le controversie sugli appalti pubblici e, in generale, sui contratti della P.A. sono state ricondotte alla giurisdizione ordinaria o quella amministrativa in base all’ordinario criterio della causa petendi. In particolare, è stato osservato come il contratto, una volta stipulato, abbia natura di atto negoziale, retto dalle regole di diritto civile, e come la P.A. operi, nella fase di esecuzione del contratto, in posizione di parità con il contraente privato: di qui la consistenza di diritti soggettivi delle posizioni soggettive delle parti, con conseguente giurisdizione del G.O. La fase dell’evidenza pubblica, che precede la stipulazione del contratto, è invece disciplinata dalle norme pubblicistiche posto che la P.A. agisce in veste di pubblica autorità: ne consegue che le situazioni soggettive dei privati hanno natura di interesse legittimo, in quanto tali rientranti nella giurisdizione di legittimità del G.A. (10). Su tale quadro elaborato dalla giurisprudenza, si è innestato l’art. 33 del d.lgs. n. 80/98, poi recepito dall’art. 6 co. 1 della legge n. 205/2000. Detta norma ha “devoluto alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutte le controversie relative a procedure di affidamento svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria (10) Così Cons. St., sez. V, n. 4947/2008. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 345 ovvero al rispetto della normativa interna di evidenza pubblica”. La disposizione è stata da ultimo abrogata per essere recepita dall’art. 244 del codice dei contratti pubblici, a sua volta abrogato dal d.lgs. n. 104/2010 e sostituito dall’art. 133, comma 1 lett e) n. 1 del codice del processo, che ha anche recepito le modifiche apportate dal d.lgs. n. 53/2010 di attuazione della “direttiva ricorsi” 77/2007 (11). La lettera della norma travalica, poi, il tradizionale settore degli appalti della P.A., riferendo la giurisdizione esclusiva del G.A. alle “procedure di affidamento”, di guisa che v’è chi parla, in modo atecnico, di giurisdizione sui pubblici appalti. Riguardo a questi ultimi, la giurisdizione esclusiva si estende a tutti i settori dei contratti pubblici c.d. passivi. Sul piano soggettivo, invece, la norma rinvia alle disposizioni sostanziali, comunitarie ed interne, che stabiliscono quali soggetti siano tenuti a seguire le procedure di evidenza pubblica. La disposizione attiene anche alle procedura di scelta del socio e non solo a quelle di scelta del contraente (12). Convincente, secondo Caringella, appare la dottrina che reputa corretto interpretare in senso ampio l’espressione come comprensiva anche dei comportamenti non provvedimentali, posti in essere nel corso della procedura di affidamento, comprendendovi silenzi, ritardi, rifiuti taciti, comportamenti scorretti nella fase delle trattative che sono fonte di responsabilità precontrattuale anche a prescindere dall’adozione di atti illegittimi. Si segnala, al riguardo, che l’articolo in esame, in ciò differenziandosi dal precedente art. 6, fa esplicito riferimento all’inclusione nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche delle questioni risarcitorie. Tale accenno, se si considera che trattasi di questioni economiche legate alla procedura di scelta del contraente, sembra avallare l’attrazione nell’alveo della giurisdizione esclusiva anche delle controversie relative alla responsabilità precontrattuale in cui incorra la P.A. nel corso della procedura di evidenza pubblica. E tanto a prescindere dalla circostanza che si tratti di violazione delle norme di evidenza che si traducano nell’illegittimità della procedura, ovvero della violazione dei canoni di correttezza comportamentali denotanti la superficialità della negoziazione senza specifiche illegittimità. In entrambi i casi, la connessione con la procedura di evidenza pubblica mette in rilievo un esercizio, almeno mediato, del potere che giustifica l’attrazione delle controversie in capo al giudice amministrativo in veste esclusiva, secondo la ratio decidendi della sentenza n. 191/2006 della Corte Costituzionale. Quanto alla fase di esecuzione del contratto, l’inequivoca espressione uti- (11) F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010. (12) Sulla nozione di procedura di affidamento Cass., sez. unite, n. 9154/2009; 4 febbraio n. 2634/2009. 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 lizzata dal legislatore, attinente alla fase pubblicistica della scelta del contraente, ha indotto la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ad escludere la riferibilità del dato normativo alle controversie relative all’esecuzione del contratto e, dunque, concernenti una fase squisitamente privatistica, successiva alla stipulazione del contratto, come tale rientrante nella giurisdizione del G.O., in base al criterio ordinario di riparto fondato sulla consistenza della posizione soggettiva. La giurisprudenza amministrativa (13), anche alla luce dei parametri limitativi espressi dalle sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006 della Corte delle Leggi in tema di giurisdizione esclusiva, ha escluso la sussumibilità delle vertenze relative a tale fase nell’ambito della giurisdizione esclusiva del G.A., utilizzando i parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 103 della Costituzione. Quest’ultima norma preclude, a parere della Corte, una indiscriminata estensione della giurisdizione amministrativa esclusiva, consentendo di devolvere alla stessa solo le controversie direttamente connesse all’esercizio del potere, non bastando la generica tensione funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico. L’attribuzione al G.A. delle controversie relative alla fase esecutiva, inoltre, comporterebbe un vulnus al principio di ragionevolezza, conferendo a due diversi plessi giurisdizionali liti identiche, afferenti a vicende di inadempimento di obbligazioni di diritto comune (sul punto Cons. St., sez. V, n. 4455/2008). Da ultimo, obbedendo ad esigenze di concentrazione, l’art. 133 del codice del processo, in ossequio alle indicazioni derivanti dal d.lgs. n. 53/2010 di recepimento della direttiva ricorsi, ha devoluto al G.A. in sede esclusiva, anche la cognizione delle questioni relative all’inefficacia del contratto consequenziale alla caducazione degli atti di gara ed alle sanzioni alternative che il G.A. può infliggere ove, nei casi più gravi, non dichiari l’inefficacia del contratto (14). L’art. 244 del d.lgs. n. 163/2006 codice dei contratti pubblici (in cui è stato trasfuso l’art. 6 co. 1 della l. 205/2000) devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie concernenti “le procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture”. L’espressione utilizzata dal legislatore induce a ritenere non sussumibili, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, le controversie attinenti alla esecuzione dei contratti relativi a lavori, servizi e forniture, che restano devolute al giudice ordinario. La chiara espressione normativa si riferisce infatti alle vertenze relative alla fase pubblicistica della scelta del contraente, non anche al contenzioso sorto con riguardo al successivo momento dell’esecuzione del contratto, stipulato a seguito della procedura concorsuale: contenzioso, quest’ultimo, attinente ad una fase privatistica, successiva alla stipulazione del contratto. (13) Tar Sicilia, Palermo, sez. III, n. 238/2009. (14) Così F. CARINGELLA, op. cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 347 Al giudice amministrativo in sede esclusiva, pertanto, vanno devolute tutte le controversie, comprese quelle di annullamento, accertamento e risarcimento del danno, afferenti il procedimento di affidamento del contratto, segnatamente tutte le questioni involgenti atti e comportamenti della stazione appaltante relativi alla fase dell’individuazione del contraente privato e, più in generale, prodromi alla stipulazione del contratto, nonché le controversie relative a provvedimenti di autotutela pubblicistica. Al giudice ordinario vanno invece riservate le vertenze riguardanti i rapporti contrattuali tra le parti, successivi alla stipulazione del contratto di appalto ed afferenti la sua esecuzione, ivi comprese quelle relative ad atti di autotutela privatistici (quali il recesso o la risoluzione). In coerenza con tale impostazione, il legislatore ha ammesso l’arbitrato in relazione ai pubblici appalti, stabilendo una disciplina dettagliata per quanto riguarda l’arbitrato in materia di lavori pubblici. Il codice dei contratti pubblici stabilisce espressamente che l’arbitrato riguarda le “controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee” (art. 241 co. 1). In sostanza, l’arbitrato riguarda una materia, l’esecuzione dei contratti pubblici e sempre che riguardi diritti soggettivi, devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. 6. Il momento in cui può essere proposta domanda di arbitrato: l’accordo bonario La questione è quella se la domanda di arbitrato possa essere proposta anche prima del collaudo finale o solo dopo quest’ultimo. In passato, l’art. 44 del D.P.R. n. 1063/1962 per i lavori prevedeva che la domanda di arbitrato dovesse essere proposta dopo l’approvazione del collaudo; la domanda era ammissibile anche in esecuzione dei lavori solo in ipotesi tassative: a) accordo delle parti a non differire la soluzione della controversia; b) controversie di natura ed entità economiche tali da non potere essere differite; c) rilevanti variazioni dei lavori o ritardi nei pagamenti delle rate di acconto per una somma pari a un quarto dell’importo netto contrattuale. Attualmente, l’art. 240 del codice impone l’accordo bonario sia per i lavori, che per servizi e forniture, prima del collaudo sulle controversie derivanti dall’iscrizione di riserve, eccedenti il dieci per cento dell’importo contrattuale. L’art. 241, a sua volta, dispone che sono deferibili ad arbitri le controversie derivanti dall’esecuzione del contratto, ivi comprese quelle derivanti dal mancato raggiungimento dell’accordo bonario. L’interpretazione più corretta delle due norme riportate è quella che il tentativo di accordo bonario si pone come condizione di procedibilità della 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 domanda di arbitrato proposta prima del collaudo finale (15). Se l’accordo bonario non viene raggiunto è immediatamente possibile il ricorso all’arbitrato, senza attendere il collaudo finale. Tanto vale solo per le controversie suscettibili di accordo bonario ai sensi dell’art. 240, cioè per quelle derivanti dall’iscrizione di riserve eccedenti il dieci per cento dell’importo contrattuale. Giova osservare che al mancato raggiungimento dell’accordo bonario deve essere equiparata, ai fini della procedibilità della domanda di arbitrato, l’ipotesi in cui l’amministrazione non provveda sul tentativo di accordo bonario nei termini previsti dall’art. 240. Tali termini hanno sicuramente carattere ordinatorio, tuttavia, il loro inutile decorso legittima l’appaltatore a non attendere oltre le determinazioni dell’amministrazione, e a proporre la domanda di arbitrato (art. 240 comma 16). Per le controversie di minore valore economico è da ritenere che resti in piedi, per i lavori, la regola di attendere il collaudo finale, a meno che non vi sia l’accordo delle parti per la immediata risoluzione, accordo da ritenersi pienamente ammissibile, attesa la valorizzazione, nel disegno normativo, del carattere volontaristico e facoltativo dell’arbitrato. In conclusione, dalla disamina combinata degli artt. 240 e 241 del codice e degli artt. 32 e 33 del capitolato generale, emerge dunque che la domanda di arbitrato può proporsi prima del collaudo finale nelle seguenti ipotesi: - per lavori, servizi e forniture: controversie su cui non è andato a buon fine il tentativo di accordo bonario; - per i lavori: controversie diverse da quelle di cui all’art. 240 del codice, per le quali la definizione non è differibile nel tempo; - per servizi e forniture: qualsiasi controversia salva diversa previsione nei capitolati. Al di fuori di tali casi, la domanda di arbitrato, per i lavori, è procedibile solo dopo il decorso di novanta giorni dalla trasmissione del collaudo. 7. Le modifiche alla disciplina dell’arbitrato apportate dal d.lgs. n. 53/2010 La legge finanziaria per il 2008 (legge 244/2007) aveva disposto un generalizzato divieto per le pubbliche amministrazioni di inserire nei contratti pubblici clausole compromissorie che demandassero le controversie a collegi arbitrali, con la conseguente nullità della clausola eventualmente inserita in difformità del divieto e la conseguente responsabilità disciplinare o erariale. Il termine di entrata in vigore di tale disposizione è stato più volte differito da una serie di provvedimenti, l’ultimo dei quali (il d.l n. 194/2009, convertito in legge n. 25/2010) lo aveva fatto slittare alla data del 30 aprile 2010, per (15) Cass., sez. I, n. 14971/2007. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 349 consentire la devoluzione delle controversie in materia di contratti pubblici a “sezioni specializzate” della giurisdizione togata. Come noto, la dottrina più attenta (16) aveva già aspramente criticato la legge finanziaria e, in generale, i ripetuti interventi legislativi sulla materia dell’arbitrato in cui sia parte una P.A., interventi altalenanti che inducevano l’Autore a parlare di “insondabile saggezza del legislatore”. Tuttavia, ad evitare il divieto assoluto e definitivo dell’arbitrato in esame è intervenuto il Legislatore con il decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53, il quale, pur in assenza di vincoli comunitari, (atteso che la delega per il recepimento della direttiva ricorsi contiene alcuni criteri in materia di accordo bonario e arbitrato, cioè temi che esulano dalla direttiva ricorsi), ha colto l’occasione per “razionalizzare” l’istituto: pertanto, ha provveduto, da un lato, ad abrogare le norme recanti il divieto di arbitrato in materia di contratti pubblici, dall’altro, ha introdotto una disciplina correttiva dei principali vizi e difetti dell’istituto, in linea con i quattro criteri direttivi contenuti nella legge delega (l. n. 88/2009), finalizzati a: 1) impostare l’arbitrato come rimedio alternativo al giudizio civile; 2) fare in modo che le stazioni appaltanti indichino fin dagli atti di gara se il contratto conterrà o meno la clausola arbitrale, proibendo contestualmente il ricorso al compromesso successivamente alla stipula del contratto; 3) contenere i costi del giudizio arbitrale; 4) introdurre misure acceleratorie del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale. La disciplina ante novella è destinata a trovare applicazione ultrattiva, come si dirà, dal momento che, secondo l’art. 15 del d.lgs. n. 53/2010, le disposizioni razionalizzatrici in materia di arbitrato si applicano ai contratti e ai relativi giudizi arbitrali aggiudicati sulla base degli atti di gara stipulati successivamente alla entrata in vigore dello stesso decreto. Con le disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato contenute nell’art. 5 del d.lgs. n. 53/2010, sono stati modificati solo gli art. 241 e 243 del codice dei contratti pubblici (e parte dell’art. 240) , mentre l’art. 242 recante la disciplina delle funzioni, dei poteri e del funzionamento dell’Istituzione arbitrale è rimasto invariato. 8. L’art. 241 del codice dei contratti pubblici come modificato dal d.lgs. n. 53/2010 L’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006 contiene, ora, un comma 1 bis, secondo il quale “la stazione appaltante indica nel bando di gara o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il (16) Su tutti S. SCOCA in Rivista di diritto processuale amministrativo, dicembre 2009. 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria che, in tale caso, non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. E’ vietato in ogni caso il compromesso”. Dunque, l’art. 241 comma 1 bis ha perfezionato la volontarietà dell’arbitrato, la cui natura facoltativa era già inscritta nel verbo indicativo “possono,” contenuto nel testo ante novella dell’art. 241 comma 1, attraverso l’attribuzione alla stazione appaltante della facoltà di inserire la clausola compromissoria negli atti di gara e l’attribuzione all’aggiudicatario del potere di ricusazione della clausola compromissoria. In sostanza, è stato rispolverato il vecchio istituto della declinatoria, mai espressamente stralciato dall’arbitrato dei lavori pubblici, rivisto e riadattato al nuovo sistema arbitrale, per superare le criticità derivanti dalla sostanziale imposizione dell’arbitrato da parte della P.A., attraverso l’inserimento unilaterale della clausola compromissoria negli atti di gara o negli schemi di contratto, senza possibilità di negoziazione da parte del concorrente. L’antico istituto è stato pertanto reintrodotto con la principale finalità di riportare in posizione paritetica le due parti contrattuali, stazione appaltante e appaltatore. In quest’ottica, il legislatore delegato ha anticipato (rispetto a quanto previsto dal vecchio capitolato generale che disciplinava la declinatoria e consentiva l’esercizio del relativo potere fino al momento dell’inizio della controversia) il momento della scelta dell’organo giudicante alla fase della stipula del contratto pubblico. Per garantire la effettiva tutela della volontarietà dell’arbitrato e quindi il perfezionamento tra le parti dell’accordo compromissorio, in linea con le previsioni del codice civile in materia contrattuale, il Legislatore delegato ha imposto, da una lato, alla stazione appaltante l’obbligo di indicare già negli atti di gara se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria e dall’altro, ha assegnato all’aggiudicatario la facoltà di ricusare detta clausola con comunicazione da effettuarsi nel termine di venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione definitiva (17). Qualora l’aggiudicatario si avvalga di tale facoltà, la clausola compromissoria non potrà essere inserita nel contratto: dal tenore letterale della previsione normativa sembrerebbe, dunque, che, in caso di silenzio da parte dell’aggiudicatario, decorso il suddetto termine di venti giorni, si perfezioni la volontà arbitrale e, quindi, la clausola compromissoria resti inserita nel contratto; il requisito della forma scritta richiesto dal codice di rito (art. 808 c.p.c.) sarebbe, così, rispettato con la sottoscrizione della stessa convenzione pubblico- amministrativa. Si pone, tuttavia, il dubbio sul piano civilistico se effettivamente in tal (17) RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2010. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 351 modo siano rispettate le regole dell’autonomia contrattuale delle parti nella scelta arbitrale: la fattispecie a formazione progressiva della convenzione di arbitrato, infatti, così come strutturata sembrerebbe configurarsi alla stregua di una vera proposta contrattuale irrevocabile ex lege per venti giorni dalla sua comunicazione; ma se così fosse la stessa sarebbe destinata a diventare inefficace, se l’accettazione scritta non dovesse pervenire al proponente nel termine suddetto.Diversamente opinando, pertanto, ritenere comunque perfezionato il contratto di arbitrato in assenza di un’ accettazione espressa, almeno sotto il profilo sostanziale, non formale, sembra comportare una violazione dei principi di volontarietà in materia arbitrale, salvo non voler inquadrare la fattispecie in esame nell’istituto del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente di cui all’art. 1333 c.c. L’applicazione di detta norma, tuttavia, presupporrebbe che al destinatario della proposta di accordo arbitrale possano derivare soltanto vantaggi e, cioè, che solo per l’aggiudicatario l’arbitrato costituisca un effettivo vantaggio. In maniera coerente, è vietato, in ogni caso, il compromesso: in tal modo il nuovo sistema arbitrale ha confinato la scelta arbitrale al momento del perfezionamento del contratto, escludendo qualsiasi successivo ripensamento delle parti. Con riguardo alla novellata disciplina della nomina del terzo arbitro (art. 241 comma 5), il previgente meccanismo garantiva l’indipendenza dell’arbitro presidente, attraverso l’applicazione delle cause di astensione previste dal c.p.c. e imponeva l’obbligo di scegliere il presidente tra soggetti di particolare esperienza nelle materie oggetto del contratto dedotto in arbitrato, senza, tuttavia, sanzionarne l’inosservanza. La novella del 2010, invece, ha posto, a tutela dei necessari requisiti di “tecnicismo” e di “indipendenza,” (che le parti devono rispettare al momento della nomina del presidente del collegio) una efficace sanzione: la violazione delle regole sui nuovi criteri selettivi di professionalità e indipendenza nella nomina del terzo arbitro, infatti, determina, oggi, la nullità del lodo ai sensi dell’art. 829 comma 1, n. 3 c.p.c. A maggiore garanzia di indipendenza dell’intero collegio, è stata prevista un’ulteriore causa di incompatibilità per tutti i componenti del collegio arbitrale, in aggiunta a quelle già previste dall’art. 241 comma 6 del codice dei contratti pubblici: coloro che sulla medesima controversia si siano già espressi in sede di accordo bonario, come responsabili dei procedimenti, o come componenti della commissione di accordo bonario, ovvero come difensori della stazione appaltante o del privato nel procedimento di accordo bonario, in forza della novellata previsione, non possono essere nominati arbitri. Per quanto riguarda i compensi del CTU e dell’ausiliare dell’organo arbitrale, con le nuove previsioni dell’art. 241 comma 13 è stato inserito un più 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 puntuale rinvio alle specifiche disposizioni del d.p.r. n. 115/2002 ed è stato esteso espressamente l’ambito di operatività dello stesso decreto presidenziale agli altri ausiliari del collegio arbitrale (diversi dal c.t.u.), quali potrebbero essere il custode o altri esperti, con esclusione del segretario del collegio. 9. L’art. 242: la Camera arbitrale La specifica disciplina riguardante il funzionamento e le attribuzioni della Camera arbitrale è rimasta sostanzialmente immutata, sia rispetto al sistema precedente l’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, sia rispetto alle novità introdotte dal d.lgs. n. 53/2010 (se si eccettua l’ampliamento della sua competenza funzionale estesa a tutte le controversie relative alla esecuzione dei contratti pubblici, compresi quindi gli appalti di servizi e forniture). La Camera arbitrale, quindi, secondo l’art. 242 comma 1, continua a curare la formazione e la tenuta dell’albo degli arbitri, redige il codice deontologico degli arbitri camerali, e provvede agli adempimenti necessari alla costituzione e al funzionamento del collegio arbitrale nell’ipotesi di cui all’art. 241 comma 15. Pertanto, i componenti del Consiglio arbitrale dovranno, oggi, essere nominati fra soggetti dotati di particolare competenza, non solo nella materia dei contratti pubblici di lavori, ma anche in quella di contratti pubblici di servizi e forniture. Sono state rafforzate inoltre le funzioni di monitoraggio e rilevazione statistica del contenzioso della Camera arbitrale, che, per l’espletamento di tale attività, è stata dotata del potere di richiedere notizie, chiarimenti e documenti relativamente al contenzioso in materia di contratti pubblici (art. 242 comma 5). La Camera arbitrale cura, altresì, la tenuta dell’elenco dei periti al fine della nomina dei consulenti tecnici (art. 242 comma 7 e comma 8), ha il compito di curare la tenuta dell’elenco dei segretari dei collegi arbitrali, nell’ambito del quale, in caso di arbitrato amministrato, il presidente del collegio deve scegliere “se necessario” il segretario (art. 242 comma 10). 10. L’art. 243 e le ulteriori norme di procedura Le “ulteriori norme” contenute nell’art. 243 trovano applicazione allorquando le parti o i loro arbitri non raggiungano l’accordo sulla nomina del terzo arbitro: in tale ipotesi il presidente del collegio arbitrale è nominato dalla Camera arbitrale per i contratti pubblici e la procedura si svolge sotto la “vigilanza” di tale istituzione. A livello comparatistico, l’arbitrato amministrato funziona anche in altri Paesi ed è gestito da appositi organismi o istituzioni, come le camere arbitrali internazionali (la corte internazionale di arbitrato della camera di commercio internazionale di Parigi - CCI, l’ American Arbitration Assootiation di New York - AAA, o infine la corte di arbitrato di Londra - LCIA). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 353 L’art. 243 ante novella era la risultante di tutte le previgenti disposizioni di procedura riguardanti l’arbitrato amministrato (l’art. 32 legge n. 109/1994, come novellato dalla legge n. 80/2005; l’art. 150 d.p.r. n. 554/1999; il d.m. n. 398/2000, l’art. 1, comma 71 della legge 266/2005). Le modifiche apportate all’art. 243 con la novella si sono rese necessarie per coordinare questa norma con il testo novellato dell’art. 241. Infatti, nel nuovo articolo 243 vengono espressamente richiamate le norme sul compenso degli arbitri e dei c.t.u. Si tratta, però, di modifiche non sostanziali. Innovativa appare, invece, la previsione relativa al segretario del collegio arbitrale, la cui nomina, finora necessaria, è stata rimessa, oggi, alla discrezionalità del presidente del collegio, che vi procede “solo se necessario” (art. 243 comma 7). I principali atti e attività contemplati e presupposti dalle “ulteriori” norme di procedura contenute nell’art. 243, che trovano applicazione “in aggiunta” alle norme di cui all’art. 241, possono essere così sintetizzati: 1) mancato accordo sulla nomina del presidente: sul punto la normativa non prevede che il disaccordo debba risultare da un atto scritto (art. 241 comma 15); 2) deposito presso l’Istituzione arbitrale per i lavori pubblici dell’atto di accesso, dell’atto di resistenza e delle eventuali controdeduzioni, dopo la notifica degli stessi, a cura della parte più diligente: tale trasmissione è necessaria ai fini della nomina del terzo arbitro da parte della istituzione, che provvede “sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, scegliendolo nell’albo di cui all’art. 242” (art. 241 comma 15 e art. 243 comma 2, ante e post novella); 3) la determinazione della sede del collegio arbitrale “anche” presso uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio: con l’aggiunta della congiunzione “anche” è stato restituito alle parti, già prima della novella in esame, il potere di stabilire con la convenzione compromissoria la sede arbitrale ed è stata attribuita alle stesse la facoltà di far coincidere, in alternativa, la sede con uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio. Inalterata, invece, è rimasta la disposizione suppletiva in base alla quale in caso di mancata indicazione, ovvero di disaccordo in ordine alla determinazione della sede dell’arbitrato, questa deve intendersi stabilita ex lege presso la sede della Camera arbitrale, cioè Roma (art. 243 comma 3); 4) comunicazione alle parti, a cura della Camera arbitrale, delle modalità e della misura dell’acconto arbitrale, da depositare, a pena di improcedibilità, prima della costituzione del collegio (art. 246 comma 6); 5) liquidazione degli onorari e delle spese di arbitrato effettuata direttamente dalla Camera arbitrale, su proposta del collegio, sempre in base alla tariffa allegata al d.m. 398/2000 (sia pure con i massimi e i minimi “dimezzati”); 6) obbligo per le parti “tenute solidalmente al pagamento del compenso dovuto agli arbitri e delle spese relative al collegio e al giudizio arbitrale” (art. 241 comma 14), di corrispondere gli importi dovuti a saldo nei trenta giorni 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 successivi alla comunicazione del lodo, nella misura liquidata dalla Camera arbitrale (art. 243 comma 8). Anche in questo caso, non sono previste sanzioni per l’eventuale violazione di tale obbligo; pertanto, in caso di mancato pagamento del saldo, agli arbitri non resta che agire legalmente per la soddisfazione del credito. 11. Le regole procedurali secondo la prassi della Camera Il legislatore degli appalti pubblici con il Codice unificato ha abrogato il regolamento di procedura arbitrale portato dal d.m. n. 398/2000: secondo Rubino Sammartano si tratta di una scelta inopportuna, sia perché detto regolamento è stato dichiarato legittimo dal Consiglio di Stato con la nota pronuncia n. 6335/2003, ma anche perché lo stesso disciplinava la procedura arbitrale in maniera abbastanza analitica. Allo stato attuale, le norme di procedura dell’arbitrato amministrato, contenute nell’art. 243, sono abbastanza scarne. Anche se le stesse devono essere integrate con le previsioni contenute nell’art. 241 e, per quanto non previsto, con le disposizioni del codice di procedura civile, alcune fasi dell’attività camerale risultano prive di un’adeguata disciplina. Dopo vari interventi in materia, attualmente si è arrivati all’adozione di un manuale di procedura che, benché rivolto ai segretari dei collegi arbitrali, unitamente ai modelli e schemi allegati predisposti dalla stessa Camera, costituisce un vero e proprio regolamento di procedura per gli arbitrati camerali. 12. Ambito di applicazione del giudizio arbitrale Fermo il principio in base al quale, in materia di appalti pubblici, sono, senza dubbio, arbitrabili tutte le controversie relative alla fase esecutiva degli appalti pubblici (ma anche quelle precontrattuali di tipo risarcitorio), con esclusione, pertanto, di quelle relative alla fase della scelta del contraente, confermata la natura necessariamente rituale dell’arbitrato, la codificazione unitaria del sistema di giustizia alternativa degli appalti pubblici, ha ampliato il raggio di azione dell’arbitrato in esame, fino a far rientrare nel suo spazio: - le controversie relative ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture; - le controversie relative ai lavori del Genio militare, giusta il regolamento di attuazione d.p.r. n. 170/2005; - le controversie riguardanti i contratti dei beni culturali; - le controversie relative ai contratti pubblici nei settori speciali di rilevanza comunitaria (gas, energia, elettricità, acqua e trasporti). Fonte di tutti gli arbitrati degli appalti pubblici resta, ovviamente, la convenzione arbitrale, che può assumere, oggi, però, solo la forma della clausola compromissoria e non anche più del compromesso. Come nel precedente sistema arbitrale, anche nell’arbitrato dei contratti pubblici ante novella, costituiva condizione di ammissibilità dell’atto di accesso all’arbitrato la tempestiva CONTRIBUTI DI DOTTRINA 355 e rituale iscrizione di riserve per un importo uguale o superiore al 10% rispetto all’importo contrattuale: secondo la disciplina del codice dei contratti ante novella, prima ancora di procedere in via arbitrale, tali controversie dovevano passare attraverso il filtro obbligatorio del tentativo di accordo bonario (disciplinato dagli artt. 240 e 240 bis), che, tuttavia, si poneva come condizione di procedibilità piuttosto anomala, posto che la sua inosservanza non era sanzionata né dal codice dei contratti pubblici, né dalla giurisprudenza (18). La novella del 2010 non ha apportato significative modifiche ai ricordati presupposti di ammissibilità e di procedibilità dell’azione arbitrale, se non con riferimento al momento della decorrenza del termine entro il quale la commissione deve formulare la proposta di accordo bonario (art. 240 comma 5) e con riguardo al termine iniziale per poter farsi luogo al giudizio arbitrale in caso di fallimento del tentativo di accordo bonario (art. 240 comma 6). Nulla è cambiato con riferimento alla disciplina degli appalti pubblici di servizi e forniture per i quali non era e non è contemplato l’obbligo di riserve. La disciplina dell’arbitrato dei contratti pubblici deve essere, infine, coordinata con le regole contenute nel capitolato generale (d.m. 145/2000), ancora vigente in mancanza di espressa abrogazione. 13. Efficacia, esecutività e deposito del lodo secondo il novellato art. 241 co. 9 e 10 Già prima della novella, la disciplina del lodo, sia quella applicabile al lodo per arbitrato ordinario, sia quella applicabile al lodo per arbitrato amministrato, era condensata nei commi 9, 10, 11 dell’art. 241. Secondo la disciplina finora vigente in materia di arbitrato (sia ordinario che camerale) dei pubblici contratti di lavori, servizi e forniture: - il lodo si aveva per pronunciato solo con il suo deposito presso la Camera arbitrale, da effettuarsi entro dieci giorni dall’ultima sottoscrizione, a cura del segretario del collegio; - restava salva ai fini dell’esecutività del lodo la disciplina contenuta nel c.p.c.; - all’atto del deposito del lodo andava versata direttamente all’Autorità di Vigilanza, a cura degli arbitri, una somma pari all’uno per mille del valore della controversia. Le differenze della previgente disciplina appena riassunta rispetto alle previsioni del codice di procedura di rito in materia di arbitrato rituale riguardavano, dunque, (oltre agli adempimenti tipici dell’arbitrato amministrato verso l’Istituzione) essenzialmente il momento di perfezionamento del lodo: secondo l’art. 824 bis del codice di rito, infatti, il lodo, dalla data della sua ul- (18) Cass., Sez. Un., n. 5274/2007. 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 tima sottoscrizione, assume gli effetti di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ordinaria ma, per munirlo di efficacia esecutiva, occorre l’exequatur, quindi il decreto di esecutorietà da parte del giudice, nella cui cancelleria il lodo va depositato (art. 825 c.p.c.); il lodo arbitrale in materia di contratti pubblici, invece, si aveva per pronunciato con il suo deposito presso l’Istituzione camerale. A seguito della novella della disciplina il quadro finale è il seguente: - il lodo si intende pronunciato con l’ultima sottoscrizione, ma diventa efficace solo dopo il suo deposito presso la camera arbitrale (art. 241 comma 9); - il deposito presso la camera arbitrale non è più a cura del segretario ma a cura del collegio arbitrale: previsione, questa, divenuta necessaria in conseguenza della nuova disposizione che ha reso solo eventuale la nomina del nuovo segretario; - non è più contemplato il termine di dieci giorni per il deposito del lodo presso l’istituzione (art. 241 comma 10); - il deposito del lodo presso la camera arbitrale, come in passato, va fatto in tanti originali quante sono le parti, oltre ad uno per il fascicolo d’ufficio (art. 241 comma 10); - viene disciplinato in maniera più puntuale e sistematica il rapporto tra il deposito del lodo presso la Camera arbitrale e presso la Cancelleria del Tribunale, agli effetti dell’art. 825 c.p.c.: il Legislatore delegato dice, oggi, espressamente che quest’ultimo deposito deve essere “preceduto” dal deposito del lodo presso l’Istituzione arbitrale; ciò, sotto diverso profilo, comporta che il deposito presso la Camera si configura come presupposto necessario per conseguire l’efficacia esecutiva del lodo; - in aggiunta alle precedenti disposizioni viene stabilito che, su richiesta di parte, il rispettivo originale depositato presso la Camera arbitrale è restituito, con l’attestazione di avvenuto deposito, ai fini degli adempimenti di cui all’art. 825 c.p.c. (art. 241 comma 10); - la previsione contenuta nell’abrogato comma 11 è stata in parte riprodotta nel comma 9 dell’art. 241 con la nuova previsione riguardante la corresponsione dell’uno per mille in favore dell’Autorità di vigilanza e con la precisazione che la somma versata a cura degli arbitri resta a carico delle parti. 14. L’impugnazione del lodo Il d.lgs. n. 53/2010 ha introdotto anche importanti novità riguardanti la fase relativa all’impugnazione del lodo. In precedenza, il codice dei contratti pubblici nulla diceva in proposito, con la conseguenza che il regime delle impugnazioni dei lodi per arbitrato camerale o esterno era quello disciplinato dal codice di rito. L’impugnazione del lodo, quindi, si proponeva per i motivi di nullità elencati nell’art. 829 c.p.c. dinanzi alla Corte d’Appello nel cui distretto era CONTRIBUTI DI DOTTRINA 357 la sede dell’arbitrato, con le modalità e i termini (90 giorni il termine “breve” decorrente dalla notifica del lodo e un anno dalla data dell’ultima sottoscrizione) indicati negli artt. 827 e 828 c.p.c.; la decisione sull’impugnazione per nullità e il relativo procedimento inibitorio avvenivano, invece, secondo lo schema dettato dall’art. 830 c.p.c. Con la razionalizzazione dell’arbitrato dei contratti pubblici, in linea con l’esigenza di ridurre i tempi della giustizia arbitrale, è stata introdotta una disciplina speciale che deroga in parte la disciplina del codice di rito, per quanto riguarda i casi di nullità e i termini di impugnazione: in forza del comma 15 bis il lodo è impugnabile oltre che per i motivi di nullità anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia. Per comprendere tale previsione è necessario ricordare che, a norma del novellato art. 829 comma 3 c.p.c,. l’impugnazione per violazione di regole di diritto del lodo per arbitrato rituale è ammessa solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge; per evitare di lasciare all’autonomia negoziale delle parti l’inserimento di tale motivo di nullità nella clausola arbitrale si è reso necessario intervenire normativamente, garantendo in tal modo un più pregnante controllo da parte della Corte d’Appello su questioni che implicano materie di pubblico interesse. L’impugnazione è proponibile nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo e non è più proponibile dopo il decorso di centoottanta giorni dalla data del deposito del lodo presso la Camera arbitrale. Correttamente è stato raccordato il decorso del termine iniziale breve per l’impugnazione del lodo con la notificazione dello stesso, mentre il termine lungo di un anno, previsto in materia di arbitrato rituale, è stato ridotto a 180 giorni e decorre, non dalla data dell’ultima sottoscrizione, ma dal deposito presso la Camera arbitrale. Fra le novità relative alla fase di impugnazione del lodo vi sono le previsioni introdotte dal nuovo comma 15 ter dell’art. 241, in forza delle quali la Corte d’Appello può, su istanza di parte, sospendere con ordinanza l’efficacia del lodo, se ricorrono gravi e fondati motivi: rispetto al disposto dell’art. 830 c.p.c., dunque, in caso di impugnazione del lodo, i motivi per l’accoglimento dell’inibitoria devono essere non solo gravi ma anche fondati. Si tratta, come è evidente, della traslazione sul piano delle impugnazioni arbitrali del meccanismo relativo alla sospensione della provvisoria esecutorietà in genere delle sentenze, che presiede alla connessione dell’inibitoria da parte dei giudici dell’appello, ai sensi del combinato disposto fra l’art. 283 c.p.c. e l’art. 351 c.p.c., quest’ultimo espressamente richiamato dalla norma in esame. 15. L’impugnazione degli atti “camerali” La natura amministrativa o “paragiurisdizionale” della Camera arbitrale 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 ha fatto sorgere nella prassi giurisprudenziale dubbi sulla individuazione della giurisdizione dei i gravami attraverso gli atti camerali. In considerazione della natura privatistica del giudizio arbitrale amministrato e delle posizioni devolute in arbitrato che sono di diritto soggettivo, con la conseguenza che non sarebbe possibile ravvisare, nell’intervento dell’istituzione, connotati provvedimentali o autoritativi, sembrerebbe pacifico che la giurisdizione appartenga al giudice ordinario. Vi è, tuttavia, il contrario avviso della giurisprudenza amministrativa che ritiene sussistente, con riguardo all’atto di nomina dell’arbitro fatto dalla Camera, la giurisdizione del giudice amministrativo e l’assoggettabilità a gravame dello stesso (19). In egual modo si dibatte sulla possibilità di impugnare il provvedimento camerale di liquidazione dei compensi arbitrali e sulla appartenenza di siffatta impugnazione alla giurisdizione ordinaria o amministrativa: anche in questo caso si fronteggiano le diverse posizioni di coloro che ritengono incontrovertibile la possibilità di impugnare l’ordinanza di liquidazione camerale, atteso che non vi è alcuna norma del codice degli appalti che ne sancisca l’inoppugnabilità; e di coloro che, in linea con la citata sentenza del Consiglio di Stato n. 6335/2003, escludono del tutto la possibilità di impugnare direttamente il provvedimento in questione e, comunque, ritengono che l’eventuale impugnazione apparterrebbe alla giurisdizione ordinaria. A quest’ultimo proposito, si è registrato il contrario orientamento dei giudici amministrativi, i quali hanno recentemente affermato la propria giurisdizione, sul presupposto che il provvedimento camerale di liquidazione dei compensi proviene da un organo amministrativo, che agisce nell’esercizio di un potere autoritativo e discrezionale (20). Sul punto è recentemente intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite (21) che ha stabilito il principio secondo cui “nelle controversie in tema di determinazione del compenso degli arbitri da parte della Camera arbitrale poiché il relativo provvedimento incide su posizioni di diritto soggettivo degli arbitri e si configura come arbitraggio, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario”. 16. Il doppio regime transitorio In conclusione, la stratificazione delle norme modificative e integrative in materia di arbitrato negli appalti pubblici, implica la soluzione di numerose questioni di diritto transitorio. Il Codice De Lise (d.lgs. n. 163/2006) disciplina il diritto transitorio dei (19) TAR Lazio, sez III, n. 4026/2007. (20) Cons. St., sez. IV, n. 1008/2005. (21) Cass. civ., Sez. Un., n. 17930/2008. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 359 contratti pubblici e, segnatamente, dell’arbitrato con una apposita norma, l’art. 253, che distingue i casi in cui la nuova normativa operi retroattivamente e la vecchia operi in maniera ultrattiva, in modo da garantire la fondamentale regola della razionalità o unitarietà del singolo procedimento. A questa norma di diritto intertemporale, si è aggiunta, poi, la previsione transitoria contenuta nell’art. 15 comma 6 del d.lgs. n. 53/2010, secondo la quale “la disciplina introdotta dagli artt. 4 e 5 , (relativa all’accordo bonario e all’arbitrato), si applica ai bandi, avvisi di gara e inviti pubblicati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, nonché ai contratti aggiudicati alla base di essi e ai relativi giudizi arbitrali”. La conseguenza era che il novellato arbitrato si applicava ai giudizi relativi a contratti aggiudicati in forza di atti di gara pubblicati successivamente al 27 aprile 2010 (data di entrata in vigore della novella), mentre gli arbitrati in corso, ovvero relativi a controversie dipendenti da contratti aggiudicati in forza di atti già pubblicati a quella data, si svolgevano secondo le regole previgenti. Ciò significava che si applicava la disciplina precedente, anche quanto a compenso per il collegio arbitrale, se l’arbitrato, anche se si fosse celebrato interamente dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo, avesse riguardato appalti banditi o stipulati prima. Dunque, la disciplina novellata non era applicabile non solo agli arbitrati già in corso, ma anche agli arbitrati successivi all’entrata in vigore del decreto, se riferiti ad appalti anteriori. La previsione era di dubbia razionalità e di poca utilità; si prestava anche a critiche di inefficienza e inefficacia, perché “se si volevano ridurre i costi degli arbitrati con effetti immediati per l’economia, occorreva farlo con norma di immediata applicazione e non con norma ad effetto differito” (22). La disposizione transitoria, tuttavia, ha avuto vita breve. Attualmente, l’art. 15 comma 6 del d.lgs. 20 marzo 2010 n. 53 è stato abrogato dall’art. 4 comma 7 del d.l. 25 marzo 2010 n. 40 , convertito in legge 22 maggio 2010 n. 73. Alla luce della nuova norma, la disciplina introdotta dagli artt. 4 e 5, d.lgs. n. 53/2010 non si applica per i collegi arbitrali già costituiti alla data di entrata in vigore del citato d.lgs., ossia alla data del 27 aprile 2010. In tal modo si desume, a contrario, che la nuova disciplina si applica anche agli appalti già banditi, ai contratti già stipulati, e ai contenziosi arbitrali già avviati, con l’unico limite dell’inapplicabilità se i collegi arbitrali sono già costituiti. Per costituzione del collegio deve intendersi non già che i singoli arbitri (22) R. DE NICTOLIS, Il recepimento della direttiva ricorsi nel codice degli appalti e nel nuovo processo amministrativo, www.giustizia-amministrativa.it. 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2011 sono stati nominati e hanno accettato la nomina, perché tali atti non determinano ancora la formazione di un collegio, ma invece che gli arbitri hanno tenuto la prima riunione, finalizzata appunto alla costituzione del collegio. Quindi la sola nomina e accettazione dell’incarico arbitrale, senza prima riunione, non dando luogo a costituzione del collegio, non è ostativa dell’applicazione della nuova disciplina. Per farsi salva l’applicazione della vecchia disciplina la costituzione del collegio arbitrale deve essere avvenuta entro aprile 2010. Infatti la previsione, ancorché contenuta in atto normativo successivo al d.lgs. n. 53/2010, è sostanzialmente retroattiva facendo riferimento non alla data della entrata in vigore dell’atto normativo che la contiene, bensì del d.lgs. n. 53/2010. Finito di stampare nel mese di luglio 2011 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma