ANNO LXII - N. 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2010 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Maurizio Fiorilli - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Maria Vittoria Lumetti - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. SEGRETERIA DI REDAZIONE: Antonella Quirini HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Ignazio Francesco Caramazza, Vincenzo Cardellicchio, Monica De Angelis, Chiara Di Seri, Enza Faracchio, Flavio Ferdani, Wally Ferrante, Gianfrancesco Fidone, Fabrizio Gallo, Giorgio Gasparri, Michele Gerardo, Lidia La Rocca, Giovanni Palatiello, Gabriella Palmieri, Morena Pirollo, Marina Russo, Francesco Scaglione, Adele Cecilia Tedeschi. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 antonella.quirini@avvocaturastato.it - tel. 066829205 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Patrocinio dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Circolare A.G.S. n. 37 del 15 luglio 2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Direttiva del Consiglio 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato. Cause risarcitorie. Circolare A.G.S. n. 41 del 23 luglio 2010. . Gestione del contenzioso del lavoro. Circolare A.G.S. n. 43 del 29 luglio 2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Protocollo d’intesa con l’Agenzia delle Entrate per il triennio 2010-2013 sottoscritto il 13 maggio 2010. Circolare A.G.S. n. 46 del 9 settembre 2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Chiara Di Seri, Le conseguenze dell’inesatta trasposizione di direttive “attuative” di principi generali del diritto comunitario . . . . . . . . . . . . . 1.- Le decisioni della Corte di giustizia Ue Marina Russo, Le recenti pronunce della Corte in tema di farmacie (C. giustizia, Grande Sezione, sent. 1° giugno 2010 in cause riunite C-570/07 e C-571/07; C. giustizia, I Sez., sent. 1° luglio 2010 in causa C-393/08) Adele Cecilia Tedeschi, I poteri urbanistici e la nozione di appalto pubblio di lavori (C. giustizia, III Sez., sent. 25 marzo 2010 nella causa C- 451/08) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.- I giudizi in corso alla Corte di giustizia Ue Marina Russo, Agricoltura, causa C-229/09 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Previdenza sociale dei lavoratori migranti, cause riunite C-286/09 e C-287/09 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Unione doganale, causa C-495/09 . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Politica sociale, causa C-20/10 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Ambiente e consumatori, causa C-50/10 . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, causa C-145/10 . pag. 1 ›› 3 ›› 16 ›› 22 ›› 25 ›› 46 ›› 69 ›› 84 ›› 89 ›› 97 ›› 104 ›› 130 ›› 138 CONTENZIOSO NAZIONALE Morena Pirollo, Profili di costituzionalità e questioni interpretative della legge Pinto in punto di “durata irragionevole”. La prassi interna e l’orientamento della Corte di Strasburgo (Cass. civ., Sez. Un., sent. 26 gennaio 2004 n. 1340; Cass. civ., Sez. Un., sent. 26 gennaio 2004 n. 1339; Cass., Sez. I civ., sent. 19 novembre 2007 n. 23844; C. cost., sent. 24 ottobre 2007 n. 348). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio Borgo, In materia di elezioni comunali e provinciali (C. cost., sent. 7 luglio 2010 n. 236; C. cost., sent. 15 luglio 2010 n. 257; Cons. Stato, Sez. V, sent. 10 settembre 2010 n. 6526) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Enza Faracchio, Il reclamo nel giudizio cautelare nel rito lavoro: considerazioni in merito allo ius postulandi dei funzionari delegati ai sensi dell’art. 417 bis (Trib. di Vallo della Lucania, ord. 12 novembre 2009). LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ Vincenzo Cardellicchio e Fabrizio Gallo, Stazione Unica Appaltante: tenuta di un impinato e nuovi contesti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Monica De Angelis, Sull’acccesso ai servizi sanitari. Un nodo per le liste di attesa: attuazione delle norme e responsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Sull’Avvocatura dello Stato. Organizzazione e prospettive di riforma nel quadro istituzionale in trasformazione. . . . . . . . . . . . Flavio Ferdani, La cessione dei crediti di impresa. Con particolare riferimento alla disciplina dettata dalla normativa di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Gianfrancesco Fidone, Procedure per l’affidamento di concessioni di lavori pubblici con prelazione per il promotore. Casi e problematicità nella disciplina della finanza di progetto successiva al terzo correttivo . . . . . Giorgio Gasparri, La Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob. Quadro normativo d’insieme e sintesi applicativa . . . . . . . . . . . . . . Lidia La Rocca, “Rassegna giurisprudenziale sul diritto dell’energia. Le recenti decisioni riguardanti il PEARS. Intervento al Seminario di aggiornamento tenutosi a Palermo il 14 e 15 maggio 2010 su “L’evoluzione del diritto dell’ambiente: novità giurisprudenziali e rapporti con il diritto dell’energia”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 145 ›› 174 ›› 193 ›› 201 ›› 226 ›› 251 ›› 279 ›› 285 ›› 304 ›› 346 Riccardo Montagnoli, Un bilancio a vent’anni dalla L. 241/90. Il diritto di accesso nella prassi amministrativa, l’intenzione del legislatore e l’accesso “partecipativo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Scaglione, L’espropriazione per pubblica utilità. Atti emessi in carenza sopravvenuta di potestà ablatoria e pregiudiziale amministrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Simona Briccola, Libertà religiosa e “Res Publica”, Casa editrice CEDAM, 2009. Recensione di Gabriella Palmieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 359 ›› 369 ›› 375 T E M I I S T I T U Z I O N A L I Patrocinio dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata* Come è noto, il D.L. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito con modificazioni, in legge 31 marzo 2010, n. 50, ha istituito l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. L’Agenzia, cui l’art. 1, comma 2, D.L. conferisce “personalità giuridica di diritto pubblico” e autonomia organizzativa e contabile, è affidata al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (art. 8 D.L.: si noti che la norma fa espresso richiamo all’art. 1 R.D. n. 1611/1933, e non all’art. 43, sicché si tratta di patrocinio “necessario”). Le competenze in materia dei beni di cui si tratta, già esercitate dall’Agenzia del Demanio, sono state immediatamente trasferite alla nuova Agenzia, che dunque è inmediatamente subentrata nella gestione dei relativi rapporti, sostanziali e processuali, con il pieno accordo dell’Agenzia del Demanio e con l’avallo di questa Avvocatura Generale, che, con parere del 16 aprile 2010, n. 130714, ha ritenuto detto trasferimento di competenze, funzioni e situazioni giuridiche non condizionato all’adozione dei regolamenti di cui all’art. 4 D.L. Ciò premesso, occorre ritenere che per la validità della costituzione in giudizio, nei procedimenti pendenti, della nuova Agenzia, con il “patrocinio necessano” dell’Avvocatura dello Stato, non sia richiesto il previo interpello dell’Ente. Questo, peraltro, ha rappresentato all’Avvocatura Generale di dover rinunciare ai preavvisi di cortesia che, peraltro opportunamente in un quadro di correntezza e di collaborazione, gli Uffici dell’Avvocatura inviano per ottenere una presa d’atto della costituzione in giudizio; chiarisce l’Agenzia che a tale rinuncia è costretta per l’eccessiva ristrettezza dei “tempi che non con- (*) Circolare n. 37 - 15 luglio 2010 prot. 231342 - dell’Avvocato Generale. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sentono, almeno nell’attuale fase organizzativa, di rispondere nei termini processuali previsti”. L’Agenzia ha sottolineato, con nota del 1° luglio 2010, n. 1905, che comunque, per quanto possa occorrere, essa “esprime fomalmente il consenso a che le varie Avvocature Distettuali dello Stato si costituiscano in giudizio, per conto di questa Agenzia, in tutti i procedimenti giudiziari ... sia pendenti con la costituzione dell’Agenzia del Demanio sia da incardinare con costituzione non ancora eseguita”. Con la predetta nota l’Agenzia Nazionale ha infine evidenziato che in base ad intese raggiunte con la Direzione Generale dell’Agenzia del Demanio, quest’ultima continuerà a curare, per conto di questa Agenzia, gli adempimenti istruttori, riservandosi quest’ufficio la possibiIità di integrazione e modifica ove ritenuto opportuno. Naturalmente comunicazioni e richieste riguardanti procedimenti giudiziari dovranno pervenire oltre che alla scrivente, anche alle filiali ad alla Direzione - Beni Confiscati dell’Agenzia del Demanio”. Le SS.LL. vorranno prendere atto di quanto procede ed assumere i consenguenti comportamenti. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 3 Direttiva del Consiglio 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato. Cause risarcitorie* Con una recente sentenza, il Tribunale di Torino ha accolto la domanda risarcitoria della parte privata (vittima di violenza sessuale da parte di stranieri nullatenenti), ritenendo che lo Sato Italiano non avrebbe correttamente recepito la direttiva in oggetto, omettendo di prevedere specifici sistemi di indennizzo per le vittime dei reati intenzionali violenti. Cause analoghe pendono dinanzi al Tribunali di Roma e, si ha ragione di ritenere, dinanzi agli altri fori erariali; presumibilmente altre verranno promosse a breve, sulla scorta dei principi affermati dal Tribunale di Torino nella suddetta “causa pilota”. Tale nuovo contenzioso riveste notevole importanza per l’Erario che, ove si consolidasse l’orientamento del Tribunale torinese, verrebbe condannato al pagamento di ingenti somme di denaro, con evidenti riflessi negativi sulla finanza pubblica. Questo Generale ufficio ha investito in via informale della questione la Presidenza del Consiglio – Dipartimento per le Politiche Comunitarie, affinché valuti se sia necessario un ulteriore adeguamento del diritto interno alla direttiva 2004/80/CE, alla luce degli orientamenti che si stanno formando in giurisprudenza. Ciò non di meno, in attesa di conoscere le determinazioni in merito della Presidenza, tutte le Avvocatura distrettuali dovranno trattare tali controversie con la massima cura, provvedendo, nel caso di soccombenza, a proporre appello con istanza di inibitoria. Ai fini del coordinamento dell’attività difensiva, si trasmette copia delle difese predisposte in subiecta materia da questa Avvocatura Generale, evidenziando, altresì, che alla data odierna, il Tribunale di Roma ha emesso almeno due sentenze (Trib. Roma, Sez. II, 29 marzo 2010, n.7009; id., 21 aprile 2010, n. 8696) favorevoli alle ragioni erariali, anch’esse allegate. L’Avvocatura distrettuale di Torino è pregata di far qui pervenire, non appena possibile, copia della su citata pronuncia sfavorevole del locale Tribunale. L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza (*) Circolare n. 41 - 23 luglio 2010 prot. 240170 - dell’Avvocato Generale. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Ct 31313/09 – Avv. G. Palatiello TRIBUNALE CIVILE DI ROMA Sezione II – R.G. 62440/09 G.I. Dott. Salvati Prima Udienza del 18 marzo 2010 COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica, e per il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica, entrambi rapp.ti e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ex lege in Roma via dei Portoghesi, 12 convenuti contro G.G. e G. A.M. con gli Avv.ti Claudio Defilippi e Debora Bosi, attori * * * Con atto di citazione notificato in data 11 settembre 2009, i sig.ri G.G. e G. A.M. - allegando che Z. J. (rispettivamente nipote e figlia di essi attori), in data 29 aprile 2006 (mentre si trovava al nono mese di gravidanza ed era, pertanto, prossima al parto), fu barbaramente uccisa dal N.L. - hanno convenuto in giudizio le Amministrazioni dello Stato in epigrafe al fine di sentir accertare la responsabilità delle stesse per il mancato recepimento della direttiva 2004/80/CE, e conseguentemente condannarle al risarcimento del danno morale iure proprio, biologico iure proprio, non patrimoniale da uccisione del congiunto, esistenziale e patrimoniale, per la somma complessiva di € 500.000,000; in subordine, accertare la responsabilità ex artt. 2043 e 2059 c.c. delle medesime amministrazioni e conseguentemente condannarle al risarcimento dei danni subiti, sempre nella misura di € 500.000,00. Con la presente comparsa si costituiscono le Amministrazioni in epigrafe, rilevando l’inammissibilità e l’infondatezza delle avverse domande per le seguenti ragioni in DIRITTO 1. In via pregiudiziale si eccepisce il difetto di legittimazione passiva del Ministero della Giustizia. La domanda risarcitoria di parte attrice trova fondamento nell’asserito mancato recepimento della Direttiva 2004/80/CE e nella Convenzione europea del 24 novembre 1983, entrambe in materia di indennizzo delle vittime dei reati violenti. Orbene, al riguardo, al Ministero della Giustizia non è imputata, né imputabile, alcuna delle condotte esposte nell’atto di citazione, non avendo lo stesso alcuna competenza riguardo all’adozione delle misure di recepimento della Direttiva 2004/80/CE o in merito alla Convenzione. Il mancato recepimento di norme comunitarie, quale fatto complessivamente imputabile allo Stato, è un illecito che trova passivamente legittimata la sola Presidenza del Consiglio quale organo di vertice dell’intero apparato amministrativo statale. 2. La domanda è, comunque, palesemente infondata nel merito. 2 a) Va preliminarmente osservato che la Convenzione europea del 24 novembre 1983, invocata da controparte, non ha alcun rilievo nella presente causa perché non sottoscritta né, tantomeno, ratificata dall’Italia. 2 b) Quanto alla Direttiva 2004/80/CE, contrariamente a quanto ex adverso dedotto, la stessa TEMI ISTITUZIONALI 5 ha trovato pieno recepimento nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 204/2007, emanato nell’esercizio della delega contenuta nella l. n. 29/2006 - Legge comunitaria 2005, ossia della legge con cui l’Italia, annualmente, provvede all’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea. Riguardo a ciò, parte attrice si limita ad affermare, nelle sole conclusioni, che tale Decreto legislativo non costituirebbe attuazione della Direttiva invocata, senza, tuttavia, fornire alcun chiarimento di tale generica ed apodittica asserzione. Dunque, se con ciò parte attrice ha inteso denunciare il non corretto recepimento della Direttiva 2004/80/CE, l’avverso atto di citazione sarebbe da considerasi nullo per mancata indicazione della causa petendi. 2 c) Né le avverse domande possono trovare fondamento diretto nella normativa comunitaria. E’ noto che la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, a partire dalla celebre sentenza “Francovich” (cfr. Corte giust. 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C- 9/90), ha chiarito che i presupposti indispensabili affinché possa configurarsi, in capo allo Stato membro, la responsabilità civile per il mancato recepimento, nei termini stabiliti, delle direttive comunitarie non self executing sono che la Direttiva non recepita attribuisca in via diretta ai singoli un diritto e che vi sia un nesso causale tra il mancato recepimento e il danno lamentato dall’interessato. Ai fini del risarcimento è, dunque, necessario che la direttiva, seppur non autoesecutiva, ovvero non dotata di efficacia diretta, attribuisca diritti ai singoli, e che tali diritti siano chiaramente desumibili dal contenuto della stessa; inoltre, deve sussistere il nesso di causalità tra violazione dell’obbligo e danno lamentato, ciò che si verifica ogni qual volta il danno discenda in via diretta dal fatto che la direttiva non è stata recepita tempestivamente; ovverosia, che il diritto attribuito al singolo in sede comunitaria non possa essere tutelato in altro modo. (cfr. Corte giust. 5 marzo 1996, cause riunite C-46 e 48/93; Corte giust. 8 ottobre 1996, cause riunite C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94; Corte giustizia CE 15 giugno 1999 causa C-140/97; Corte giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01). Entrambe queste condizioni difettano nel caso di specie. Lo scopo della Direttiva in esame è chiarito nei “considerando” che precedono l’articolato; si legge, in particolare, che uno degli obiettivi della Comunità europea è l’eliminazione di ogni ostacolo alla libera circolazione delle persone (1° considerando), di cui la tutela dell’integrità personale dei cittadini che si recano in un altro Stato membro costituisce un corollario (2° considerando); a tal fine, il 7° considerando precisa che “La presente direttiva stabilisce un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, che dovrebbe operare sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”. Ed infatti l’art. 1 prevede proprio che gli Stati membri debbano assicurare che, se un reato intenzionale violento è commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui il richiedente risiede abitualmente, il richiedente ha diritto di presentare la domanda presso un’autorità o qualsiasi altro organismo di quest’ultimo Stato, ossia di quello di residenza. Dunque, scopo della direttiva è disciplinare l’accesso all’indennizzo delle vittime di reati violenti nelle situazioni c.d. “trasfrontaliere” e non attribuisce alcun diritto ai residenti verso il proprio Stato di residenza. E ciò in quanto, come noto, il diritto comunitario non disciplina le “situazioni meramente in- 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 terne”, tanto che l’art. 12 della direttiva prevede che le disposizioni riguardanti l’accesso all’indennizzo nelle situazioni trasfrontaliere si applicano all’interno degli Stati membri sulla base dei rispettivi sistemi, quindi entro i limiti nei quali un sistema di indennizzo sia stato previsto. Il legislatore comunitario, quindi, nell’ambito dei rapporti tra i singoli Stati membri ed i loro residenti rimette alla discrezionalità del legislatore interno la scelta della tipologia dei sistemi di indennizzo da prevedere. Nell’ambito del nostro ordinamento esistono una serie di leggi speciali che prevedono sistemi di indennizzo (1) in relazione ad alcune specifiche tipologie di reati (associazione mafiosa, usura), individuate per il particolare allarme sociale che suscitano e per la loro pervasività, ma non esiste alcun sistema di indennizzo per le vittime dei reati legati alla criminalità comune. Dunque, la direttiva in esame non costituisce fonte di alcun diritto direttamente azionabile dai residenti nei confronti del loro Stato di appartenenza. (1) Nel nostro ordinamento sono, presenti, numerose norme settoriali che disciplinano l’erogazione di speciali elargizioni a favore di particolari categorie di vittime di reato, indicate nel seguente elenco: 1) legge 13 agosto 1980, n. 466, articoli 3 e 4, recante norme in ordine a speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche; 2) legge 20 ottobre 1990, n. 302, articoli 1, 3, 4 e 5, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizata; 3) decreto legge 31 dicembre 1991, n. 419 - convertito dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172 - articolo 1, di istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive; Manuale 80/2004 - ITALIA (it) 2; 4) legge 8 agosto 1995, n. 340, articolo 1 - nel quale sono richiamati gli articoli 4 e 5 della legge n.302/1990 - recante norme per l’estensione dei benefici di cui agli articoli 4 e 5 della legge n. 302/1990, ai familiari delle vittime del disastro aereo di Ustica; 5) legge 7 marzo 1996, n. 108, articoli 14 e 15 recante disposizioni in materia di usura; 6) legge 31 marzo 1998, n. 70 articolo 1 - nel quale sono richiamati gli articoli 1 e 4 della legge n. 302/1990 - recante benefici per le vittime della cosiddetta “Banda della Uno bianca”; 7) legge 23 novembre 1998, n. 407, articolo 2, recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità; 8) legge 23 febbraio 1999, n. 44 articoli 3, 6 , 7 e 8 recante norme in materia di elargizioni a favore dei soggetti danneggiati da attività estorsiva; 9) D.P.R. 28 luglio 1999, n. 510, art. 1, regolamento recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; 10) legge 22 dicembre 1999, n. 512, articolo 4, recante istituzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso; 11) decreto legge 4 febbraio 2003, n. 13 - convertito con modificazioni dalla legge n.56/2003 - recante disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; 12) decreto legge 28 novembre 2003, n. 337 - convertito con modificazioni dalla l.n. 369/2003 - articolo 1, recante disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all’estero; 13) legge 3 agosto 2004, n. 206, articolo 1, recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice; 14) Legge 23 dicembre 2005, n. 266, finanziaria 2006, che all’articolo 1 commi 563, 564 e 565, detta disposizioni per la corresponsione di provvidenza alle vittime del dovere, ai soggetti equiparati ed ai loro familiari; 15) Legge 20 febbraio 2006, n. 91 norme in favore dei familiari dei superstiti degli aviatori italiani vittime dell’eccidio avvenuto a Kindu l’11 novembre 1961; 16) D.P.R. 7 luglio 2006, n. 243 regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere e ai soggetti equiparati. TEMI ISTITUZIONALI 7 2 d) Peraltro, la Direttiva si limita a tutelare i soli cittadini comunitari che si spostino da uno Stato membro ad un altro e che per questo subiscano un reato: essa quindi esclude un diritto proprio all’indennizzo a favore di soggetti (come per esempio i congiunti) diversi da chi è stato la diretta vittima del reato. Anche sotto tale profilo, le avverse domande risultano sprovviste di fondamento nella parte in cui attengono a pretese avanzate iure proprio da soggetti danneggiati, diversi dalla vittima del reato. 2 e) Ulteriore causa di infondatezza delle domande attoree è da individuarsi nella previsione di cui all’art. 18 della Direttiva che, al paragrafo 2, stabilisce che “Gli Stati membri possono prevedere che le disposizioni necessarie per conformarsi alla presente direttiva si applichino unicamente ai richiedenti le cui lesioni derivino da reati commessi dopo il 30 giugno 2005”. Ciò significa che il legislatore comunitario ha rimesso alla discrezionalità degli Stati membri la scelta se rendere o meno (e fino a quale momento) retroattive le disposizioni sull’indennizzo. Ciò, oltre a dimostrare ulteriormente l’inesistenza di qualsivoglia diritto derivante direttamente dalla direttiva, rende ragione della piena legittimità della previsione dell’art. 6 del D.lgs. 204/2007, con il quale, il legislatore nazionale, avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 18 n. 2 della direttiva, ha disposto all’art. 6 che “Le disposizioni del presente decreto si applicano alle procedure per erogazione dei benefici economici conseguenti ai reati commessi dopo il 30 giugno 2005”. 2 f) Ulteriore dimostrazione del fatto che la direttiva non costituisce fonte di alcun diritto in capo ai residenti nei confronti dei loro Stati di residenza è da rinvenirsi nel disposto dell’art. 12 par. 2 della Direttiva, che si limita a stabilire che le normative nazionali garantiscano “un indennizzo equo e adeguato” (art. 12 par. 2), senza, tuttavia, prevedere le condizioni al cui verificarsi è subordinato il diritto all’indennizzo, né tantomeno, come già detto, che a chiunque abbia subito un reato intenzionale violento spetta, per ciò solo, un risarcimento a carico dello Stato. Dunque, la discrezionalità che il legislatore comunitario lascia agli Stati membri nel determinare il modello di tutela indennitaria è amplissima, potendo la stessa – com’è avvenuto in Italia – essere limitata solo ad alcune tipologie di reati ovvero essere subordinata a determinate condizioni (ad esempio, alla verifica del comportamento della vittima, che non deve avere, neppure colposamente, agevolato o provocato la commissione del reato, alla dimostrata insolvenza del responsabile del reato; e così via). Ciò dimostra, inoltre, che la Direttiva non detta disposizioni sufficientemente specifiche e tali da escludere ogni discrezionalità degli Stati membri nel recepirle, con conseguente mancanza di entrambe le condizioni di responsabilità dello Stato, ossia l’esistenza di un diritto derivante direttamente dalla direttiva e il nesso di causalità tra il mancato recepimento e il danno lamentato. Ed infatti, anche qualora lo Stato italiano non avesse recepito la direttiva (cosa che invece, come detto, ha fatto), considerati gli amplissimi margini di discrezionalità lasciati al legislatore interno, non risulterebbe mai dimostrabile che il recepimento della direttiva avrebbe necessariamente comportato l’insorgenza del diritto azionato nell’odierna sede. E’ quindi palesemente infondata anche la domanda proposta a titolo di applicazione diretta della Direttiva. 2 g) Il nesso causale che potrebbe giustificare pretese basate sulla Direttiva in questione è poi insussistente anche sotto l’aspetto dell’impossibilità di ottenere il risarcimento dal responsabile 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 del fatto, che costituisce condizione di accesso all’indennizzo. La sig.ra G. A. M., come la stessa riferisce nell’atto di citazione, si è costituita parte civile nel processo penale che ha visto la condanna del sig. N. L. per l’omicidio di J. Z.. Nella sede penale N. L. è stato condannato anche al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite, da quantificarsi in separata sede, oltre che ad una provvisionale di € 80.000, per quanto riguarda G. A. M.. Riguardo a quest’ultima provvisionale, parte attrice si limita genericamente ad affermare di non essere riuscita ad ottenerne il pagamento, senza specificare che tipo di azioni a tal fine siano state intraprese. Non è, poi, fornita alcuna notizia circa l’avvio del procedimento civile per la quantificazione integrale dei danni subiti. 3. La domanda risarcitoria è, sotto altro profilo, infondata innanzitutto perché è configurata come una domanda di ristoro integrale dei danni che l’attore avrebbe subito direttamente in conseguenza del delitto. Essa è, cioè, configurata nei medesimi termini in cui lo sarebbe stata una domanda indirizzata nei confronti del responsabile civile delle lesioni. Ma la ratio della normativa nazionale e comunitaria in tema di indennizzo delle vittime di reati violenti non è certo quella di sostituire (o aggiungere) lo Stato all’autore del delitto nella responsabilità verso le vittime. L’obbligo che la Direttiva pone agli Stati membri è solo quello di predisporre “un indennizzo equo e adeguato”. I criteri di liquidazione di tale indennizzo (e, quindi, del presunto danno conseguente al mancato recepimento della Direttiva) dovrebbero pertanto essere del tutto autonomi rispetto ai parametri di liquidazione del risarcimento ordinario dovuto dal responsabile del fatto. 3.1.) Né lo Stato, in base al diritto interno, può essere chiamato a rispondere dell’omicidio commesso da N. L., non ricorrendo alcuna delle fattispecie di responsabilità (diretta e/o indiretta) dello Stato per il fatto altrui ai sensi degli artt. 185 cod. pen. e 2043 e 2047 e ss. cod. civ.. 4. Per completezza si osserva che, in ogni caso, la domanda attrice appare del tutto sfornita di prova circa i titoli e l’entità del “risarcimento” richiesto. Esaminando le singole voci di danno richieste – fermo restando quanto già precisato in ordine all’infondatezza delle pretese risarcitorie avanzate iure proprio da soggetti danneggiati, diversi dalla vittima del reato - si osserva che: a) Quanto alle varie voci di danno non patrimoniale richieste iure proprio (ossia il danno morale, il danno biologico, il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, ed il danno esistenziale), è da osservare, in primo luogo, che, nell’avversa citazione, si rinviene soltanto l’allegazione da parte dell’attrice della sua qualità di soggetto che avrebbe subito lesioni, e la trascrizione di principi dottrinali e giurisprudenziali in materia. Manca ogni indicazione delle circostanze concrete che dovrebbero condurre ad ipotizzare la lesione della sfera psico-fisica di parte attrice in conseguenza dell’illecito. E’, poi, da osservare che la più recente giurisprudenza della Suprema Corte, ha evidenziato che sebbene il risarcimento del danno non patrimoniale alla salute debba essere liquidato in modo da tenere conto di tutti i pregiudizi patiti, non risulta, tuttavia, possibile duplicare il risarcimento attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, quale la congiunta attribuzione del danno morale, del danno alla vita di relazione e del danno esistenziale, categoria, quest’ultima, priva nel nostra ordinamento di configurazione autonoma (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008). TEMI ISTITUZIONALI 9 b) Si contesta, comunque, la quantificazione di tutte le voci di danno, effettuata senza l’aggancio ad alcun parametro di valutazione. * * * Sulla base di quanto dedotto, le Amministrazioni in epigrafe rassegnano le seguenti CONCLUSIONI “Voglia il Tribunale adito dichiarare inammissibili o, comunque, infondate le avverse domande. Con ogni consequenziale statuizione in ordine alle spese di lite”. Con riserva di ulteriori deduzioni e/o produzioni nei termini di rito. Salvis Iuribus Roma, 15 febbraio 2010 L’Avvocato dello Stato Giovanni Palatiello Ct 37724/09 – Avv. G. Palatiello TRIBUNALE CIVILE DI ROMA Sezione II – R.G. 74650/09 G.I. Dott. Scalia - udienza 23 febbraio 2011 MEMORIA ex art. 183, comma 6, n.1 Nell’interesse di: Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero della Giustizia con l’Avvocatura Generale dello Stato; convenuti contro P. M., rappr. e dif. come in atti; attore * * * L’ omicidio per cui è causa fu commesso in data 19 maggio 1985, per cui l’attore non può vantare alcun diritto derivante direttamente dalla Direttiva 2004/80/CE, applicabile esclusivamente ai fatti commessi dopo il 30 giugno 2005 (cfr. art. 18, par. 2 della direttiva, nonché l’art. 6 del D.lgs 204/2007): in tale senso si veda Trib. Roma, sezione II, 29 marzo 2010, n. 7009 (est. dott. Pontecorvo, resa nella causa n. 77163/2007 di r.g.). In ogni caso, la disposizione dell’art. 12, par. 2 - a mente del quale “tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l'esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime” - non può essere estrapolata dal testo della direttiva 2004/80/CE e deve essere interpretata alla luce dei “considerando” in essa contenuti, in particolare, ai numeri 1, 2, 6, 7, 11, 12 e 14, dai quali si evince il chiaro intento del legislatore europeo di creare e disciplinare un sistema di collaborazione transfrontaliera in ordine all’avvio ed all’istruttoria della procedura di concessione dell'indennizzo, volto a rendere più agevole il suo ottenimento per le vittime che risiedano in uno Stato membro diverso da quello ove hanno patito le conseguenze dannose del reato. Così come si legge nel considerando n. 7, la “direttiva stabilisce un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l'accesso all'indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 che dovrebbe operare sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori. Dovrebbe essere pertanto istituito in tutti gli Stati membri un meccanismo di indennizzo”. La Corte di Giustizia, chiamata ai sensi dell’art. 234 del Trattato a fornire la corretta interpretazione della direttiva 80/2004/CE, ha confermato che quest’ultimo atto normativo disciplina le situazioni transfrontaliere, chiarendo, al punto 57 della pronuncia resa, che “la direttiva istituisce un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l'accesso all'indennizzo in situazioni transfrontaliere. Essa intende assicurare che, se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede abitualmente, quest'ultima sia indennizzata da tale primo Stato” (Cfr. Corte di Giustizia CE, Sent. n. 467 del 28 giugno 2007). “La direttiva non disciplina, invece, l’indennizzo per le vittime di reati <> allo Stato membro, come è sicuramente nel caso presente”: così Trib. Roma, sezione II, 21 aprile 2010, n. 8696 (est. dott. Cricenti, resa nella causa n. 2028/2008 di r.g.). La direttiva 2004/80/CE, dunque, impone agli Stati membri di attuare misure di collaborazione transfrontaliera al fine di eliminare discriminazioni tra cittadini europei con riferimento al godimento dei diritti di indennizzo conseguenti a reati violenti di cui i medesimi cittadini siano rimasti vittima in uno Stato diverso da quello di residenza. Imprescindibile presupposto di tale collaborazione transfrontaliera è l'esistenza, in ogni Stato membro, di una normativa volta ad assicurare forme di indennizzo a carico dello Stato stesso in favore delle vittime dei reati violenti: tale indispensabile condizione è prevista dall’art. 12, par. 1, secondo cui “Le disposizioni della presente direttiva riguardanti l'accesso all'indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori. (par. 1). Come si è detto, il secondo paragrafo dell’art. 12 soggiunge che: “Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l'esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime”. Il secondo paragrafo della norma non può che essere interpretato alla luce del primo, nel senso che l’art. 12, mentre nel paragrafo primo rimanda ai sistemi di indennizzo già previsti dai singoli Stati membri, nel secondo paragrafo prescrive agli altri Stati membri, che ne siano sprovvisti, di predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, Il secondo paragrafo dell’art. 12 non si applica, dunque, agli Stati membri (come l’Italia) che, all’entrata in vigore della direttiva, si fossero già muniti di un tale sistema di indennizzo (v. nota 1 alle pagine 6 e 7 della comparsa di risposta, ove è stato riportato l’elenco puntuale delle leggi italiane che prevedono indennizzi per i reati più disparati, anche violenti, come i reati di tipo mafioso, i reati di terrorismo ed i reati di estorsione). Né è possibile ritenere che il legislatore europeo abbia voluto imporre a tutti gli Stati membri (anche a quelli, come l’Italia, i cui ordinamenti già prevedessero un adeguato sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori) di introdurre, con legge, una ulteriore ipotesi di indennizzo (rispetto a quelle già esistenti de iure condito) in favore delle vittime del reato di omicidio volontario, come ex adverso supposto. Ed invero, la concreta tipologia di reato rispetto al quale introdurre l’indennizzo è questione meramente interna che non è disciplinata dal diritto europeo al quale, in funzione della coo- TEMI ISTITUZIONALI 11 perazione transfrontaliera nelle procedure indennitarie, interessa solo che un qualche sistema di indennizzo sia previsto nei singoli Stati membri, a prescindere dall’ampiezza di tale sistema e dalle singole ipotesi di reato ivi contemplate. A ben vedere, infatti, la direttiva, che nell'impianto complessivo risulta sufficientemente precisa e analitica con riferimento alla predisposizione delle misure organizzative volte ad ottenere una migliore cooperazione tra gli Stati membri, utilizza, invece, nell’art. 12 in esame, la generica e ampia categoria dei “reati intenzionali violenti”, per i quali è sancito l'obbligo di provvedere alla predisposizione di sistemi di indennizzo (obbligo che, come si è visto, l’Italia ha già adempiuto), ma non menziona mai espressamente il delitto di omicidio, ad ulteriore dimostrazione dell’insussistenza, in capo agli Stati, dell’obbligo di prevedere l’indennizzo anche per tale reato. Un ulteriore argomento a sostegno della tesi qui patrocinata si ricava dalla previsione, nel corpo dell’art. 18, par. 1, della direttiva, di due diversi termini per l'attuazione della stessa: un primo termine, fissato al 1° luglio 2005, entro il quale gli Stati membri (sprovvisti di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti) avrebbero dovuto dare attuazione alla disposizione contenuta nell'art. 12, par. 2, dando immediata comunicazione alla Commissione delle norme approvate al riguardo; ed un secondo, e successivo termine, fissato al 1° gennaio 2006, entro il quale, sulla base dei sistemi di indennizzo introdotti ex art. 12, par. 2, cit., “mettere in vigore” “le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva”. Il termine del 1° luglio 2005 per l'attuazione dell'art. 12, comma 2, è, dunque, stabilito per i soli Stati membri che, sprovvisti di sistemi di indennizzo per le vittime di reati violenti, debbano introdurli ex novo nei rispettivi ordinamenti, onde, poi, potersi conformare, nel successivo termine del 1° gennaio 2006, alle altre norme della direttiva, di natura organizzativa e procedurale, poste a tutela delle situazioni transfrontaliere. Ne è riprova il fatto che la Commissione Europea ha contestato alla Repubblica Italiana unicamente il mancato adempimento, entro il secondo termine menzionato nell'art. 18, par. 1, (1° gennaio 2006), dell'obbligo di adottare “le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva”, e non anche l'inadempimento del par. 2 dell’art. 12; e ciò, evidentemente, perché la Repubblica Italiana, come si è visto, era già munita di un articolato sistema di indennizzo per varie categorie di reati intenzionali violenti (cfr. Corte di Giustizia CE, Sent. 112 del 29 novembre 2007), non imponendo, viceversa, la direttiva alcun obbligo di prevedere forme di indennizzo anche per il reato di omicidio volontario. In via ulteriormente subordinata, nella denegata ipotesi in cui si ritenesse di non condividere gli argomenti che precedono, vorrà codesto Tribunale, data la notevole rilevanza della questione, rivolgere alla Corte di Giustizia dell’UE ex art. 234 Trattato il seguente quesito pregiudiziale: “dica codesta Corte di Giustizia se l’art. 12, par. 2, della Direttiva 2004/80/CE, a mente del quale“tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l'esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime”, debba essere interpretato nel senso che gli Stati membri hanno lo specifico obbligo di introdurre, nei rispettivi ordinamenti, norme nazionali che istituiscano forme di indennizzo in favore delle vittime del delitto di omicidio volontario, o se, invece, tale secondo paragrafo del predetto art. 12 si limiti ad imporre agli Stati membri che ne siano sprovvisti l’obbligo di predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi terri- 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 tori, a prescindere dall’ampiezza di tale sistema e dalle singole ipotesi di reato ivi contemplate, di talché il predetto art. 12, par. 2 non si applica agli Stati membri che, come l’Italia, già prevedessero, alla data di entrata in vigore della direttiva, un adeguato sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”. Con riserva di ulteriori deduzioni e/o produzioni nei termini di rito. Roma, 20 luglio 2010 L’Avvocato dello Stato Giovanni Palatiello REPUBBLICA ITALIANA N. 7009 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA SEZIONE SECONDA In composizione monocratica in persona del giudice dr. Lorenzo Pontecorvo ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa civile di primo grado iscritta al n. 77163 del R.G.A.C.C. dell’anno 2007, trattenuta in decisione nell’udienza del 17.12.2009 e vertente TRA V. P. e S. E. elett.te dom.ti in Roma, via Licia n. 44, presso lo studio dell’avv.to Lauricella M. Federica rappresentati e difesi dall’avv. Claudio Defilippi per delega a margine della citazione. ATTORI E Presidenza del Consigliò di Ministri, Ministero della Giustizia e Ministero dell’Interno elett.te dom.ti in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge CONVENUTI CONCLUSIONI All’udienza di precisazione delle conclusioni del 17.12.2009 i procuratori delle parti hanno come da verbale. Svolgimento del processo Con citazione ritualmente notificata V. P. e S. E. , genitori di A. V., uccisa durante una rapina avvenuta in data 9 agosto 2002 alla periferia di Livorno, hanno convenuto in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri il Ministero della Giustizia ed il Ministero dell’Interno per sentire dichiarare loro responsabili per non avere attuato, nei termini stabiliti, la direttiva del Consiglio CEE 2004/80 che impone agli Stati membri di introdurre norme che prevedano un risarcimento a favore di vittime di reato. A sostengo della pretesa azionata hanno esposto che la legge nazionale di recepimento n. 29/2006, entrata in vigore il 23.2.2006, delega il Governo ad adottare entro il termine di diciotto mesi alla data della sua entrata in vigore i decreti legislativi recanti le norme occorrenti TEMI ISTITUZIONALI 13 per dare concreta attuazione alla direttiva comunitaria. Hanno, altresì, chiesto il risarcimento dei danni “per motivi di cui in narrativa”. In tale narrativa gli esponenti hanno riassunto le diverse indagini che avevano portato all’individuazione ed al rinvio a giudizio di un soggetto al quale è stato imputato l’omicidio di A. V. ed hanno imputato al Ministero della Giustizia di non essersi prontamente adoperato per dar corso ad una rogatoria internazionale nei confronti di un cittadino inglese sospettato dell’omicidio con ciò violando l'art. 2 CEDU nella parte in cui prevede che lo Stato, nel garantire la protezione del diritto alla vita, deve anche protare avnati indagini con lo scopo di individuare le singole responsabilità. Si sono costituite le Ammisnirazioni i convenute escludendo l’esistenza di ritardi imputabili nonché la mancanza delle condizioni stabilite per il riconoscimento del risarcimento. La causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni precisate dalle parti alla udienza in epigrafe indicata. Motivi della decisione La direttiva del Consiglio CEE 2004/80 all’art. 12 dispone che gli Satti membri debbano provvedere a che le loro normative nazionali introducano misure che garantiscano un indennizzo equo ed adeguato in favore delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispetti territori. Il successivo art. 18 consente agli Stati membri di prevedere che le disposizioni necessarie per conformarsi alla direttiva si appicchino unicamente ai richiedenti le cui lesioni derivino da reati commessi dopo il 30 giugno 2005. E’, quindi, intervenuto il DL n. 204/2007, adottato in attuazione della direttiva comunitaria che, all’art. 6, prevede che le disposizioni attributive dei benefici economici si applicano alle procedure conseguenti ai reati commessi dopo il 30 giugno 2005. Considerando pertanto nel caso concreto la fattispecie criminosa si è consumata il 9 agosto 2002 è da escludersi che gli attori possano aspirare all’attribuzione dei benefici invocati. Per lo stesso motivo gli istanti non hanno titolo per potersi dolere della tardiva attuazione della direttiva comunitaria. Gli attori, ad ulteriore supporto della pretesa risarcitoria, sostengono di aver subito danni in qualche modo riferibili alle indagini effettuate a seguito del delitto della loro figlia assumendo che il Ministero della Giustizia non si sarebbe prontamente adoperato per dar corso ad una rogatoria internazionale nei confronti di un cittadino inglese sospettato dell’omicidio. Una tale prospettazione non è condivisibile. Ed, invero – pur volando prescindere dalla assoluta adeguatezza delle indagini, come desumibile dalle stesse pressanti attività investigative evidenziate in citazione, hanno portato, non sola alla individuazione di un imputato ma anche alla sua condanna come da sentenza della Corte di Assise di Livorno emessa in data 12.2.2008 – non è dato in alcun modo desumere in quali termini la parte istante avrebbe subito un danno in relazione ad un presunto (non dimostrato) tardivo adempimento di una rogatoria nei confronti di un soggetto che, come evidenziato dagli stessi attori, sarebbe risultato estraneo ai fatti. La particolare natura della controversia giustifica la integrale compensazione delle spese di lite. PQM Il Tribunale definitivamente pronunciando così provvede: - rigetta le domande proposte da V. P. e S. E. nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’Interno; 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 - compensa interamente tra le parti le spese del giudizio. Così deciso in Roma il 24.3.2010 IL GIUDICE (Lorenzo Pontecorvo) Depositato in Cancelleria Roma, lì 29 MAR. 2010 TRIBUNALE DI ROMA N. 8696 Seconda sezione civile REPUBBLICA ITALIANA In nome del popolo italiano Il TRIBUNALE DI ROMA, sezione seconda civile, in persona del giudice dott. Giuseppe Cricenti, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel procedimento civile di primo grado, recante nr. 2028/2008 vertente tra: M.D., G.D., M.T. D., (Avv. Debors Bosi) ATTORE E Ministero Interno, Ministero Economica, Ministero Giustizia (Avv. Avvocatura Stato). CONVENUTO OGGETTO: Responsabilità per omessa attuazione direttiva Conclusioni dell’attore: come da atto introduttivo Conclusioni del convenuto: come da comparsa. Motivi della decisione Gli attori agiscono quali eredi di G.D.. Essi premettono che il loro fratello (per l’appunto G. D.), è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un tale D.R., condannato pi in via definitiva per tale omicidio. Gli attori ritengono che lo stato avrebbe dovuto recepire la direttiva 2004/80/CE la quale impegna gli Stati membri ad una disciplina di indennizzo per le vittime dei reati violenti. In particolare, gli attori sostengono che il ritardo con la quale lo Stato italiano ha recepito questa direttiva ha comportato l’esclusione dal novero dei beneficiari del fratello ucciso, e dunque dei suo eredi. Chiedono pertanto la condanna dei Ministeri convenuti per la violazione del diritto comunitario, o meglio, per non avere recepito in tempo (o non averlo fatto adeguatamente) la direttiva suddetta. Si sono costituiti i Ministeri, i quali hanno svolto alcune eccezioni che sono del tutto condivisibili. Innanzitutto, non è provata la legittimazione attiva degli attori. E’ pacifico che il defunto D. aveva coniuge e figli, mentre gli attori sono fratelli e sorelle. Si badi che gli attori agiscono, al contrario di quanto vorrebbero sostenere, non già iure pro- TEMI ISTITUZIONALI 15 prio, ma iure hereditatis. Che sia così, è evidente, il congiunto agisce iure proprio per l’uccisione del parente nei confronti dell’autore del fatto. Se il congiunto vuol fare valere un danno proprio derivante dalla morte del parente deve agire nei confronti dell’autore del fatto illecito. Qui, invece, gli attori non fanno valere un diritto proprio, ma agiscono come eredi del defunto. Il diritto all’indennizzo spetta alla vittima del reato violento, non ai suoi parenti, qualunque sia l’ordine ed il grado, e si trasferisce per successione ai suo eredi. I parenti della vittima non possono invocare il diritto all’indennizzo come diritto proprio, perchè il diritto è della vittima, ma lo possono invocare come diritto ereditato da chi era il titolare. Ed infatti, pende altra causa nella quale agiscono gli eredi (coniuge e figli) della vittima. Inoltre difetta la legittimazione passiva dei Ministeri convenuti. Gli attori infatti lamentano una responsabilità dello Stato per la omessa o tardiva violazione della direttiva. Se la causa petendi è questa (come pare che sia) allora il soggetto legittimato è la Presidenza del Consiglio, quale organo di vertice dello Stato apparato. Non è compito dei Ministeri attuare il diritto comunitario. Infine, la domanda è infondata nel merito. Infatti, la direttiva di cui si lamenta la mancata (o tardiva attuazione) (2004/80/CE) è riferita ai reati transfrontalieri, ossia ai casi in cui un cittadino di uno stato membro è vittima di reato in altro stato membro (art.1). Non disciplina l’indennizzo per le vittime di reati «interni» allo stato membro, come è sicuramente nel caso presente. La direttiva non si applica quindi alla fattispecie in esame. Inoltre, anche se fosse, la direttiva ha lasciato discrezionalità agli stati membri circa il dies a quo della sua efficacia, ossia ha lasciato discrezionalità di escludere i reati commessi prima del 30.6.2005 (art. 18 par. 2). Lo Stato italiano ha attuato la direttiva con il decreto legislativo n. 204 del 2007, al cui art. 6 è previsto che, in ottemperanza all’art. 18 della direttiva, l’indennizzo riguarda i reati commessi dopo il 30.6.2005. L’esclusione temporale del caso in esame è dunque non già dovuta ad un illecito, ma ad un potere discrezione dello Stato italiano esercitato conformemente alla direttiva europea. La domanda va pertanto respinta e le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice così provvede: 1. Rigetta la domanda 2. Condanna gli attori al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in complessive 3000,00 €, oltre IVA E CPA. Roma, 15.4.2010 Depositato in Cancelleria Roma, lì 21 APR. 2010 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Sulla gestione del contenzioso del lavoro La circolare sul contenzioso del lavoro n. 43 del 2010 ribadisce, in termini netti, una prassi già in uso, per necessità oltre che per scelta, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, dove le controversie individuali di lavoro (anche se introdotte con rito monitorio o d’urgenza) restano affidate in primo grado per la quasi totalità alla difesa diretta delle amministrazioni interessate, siano esse a “patrocinio obbligatorio” che a “patrocinio facoltativo” . L’aspetto nuovo è che si introducono raccomandazioni e modalità operative con l’obiettivo di indirizzare “dall’esterno” le amministrazioni nella difficile attività di difesa giudiziale. In altri termini l’Avvocatura dello Stato si assume il compito di aiutare gli uffici del contenzioso delle amministrazioni a svolgere meglio il compito di legali d’azienda che l’art. 417 bis c.p.c. sembra, limitatamente al primo grado (1), voler loro attribuire: è di tutta evidenza, infatti, che tale giudizio, con le preclusioni previste dal rito del lavoro, è decisivo per il buon esito delle cause e che gli enti a patrocinio facoltativo spesso non hanno alcuna alternativa tra l’Avvocatura dello Stato ed il ricorso a liberi professionisti esterni. In sintesi tutto ciò che le amministrazioni non avranno in termini di difesa in primo grado sarà fornito – ed è questo il senso della circolare dell’Avvocato Generale – in termini di assistenza tecnica e coordinamento. G. F. Circolare n. 43 - 29 luglio 2010 prot. 245983 In seguito alla devoluzione al Giudice ordinario delle controversie relative al cd. “pubblico impiego privatizzato”, ed in particolare alla introduzione, nel codice di rito, dell’art. 417 bis concernente la difesa in giudizio delle Amministrazioni pubbliche, vennero fornite in sede di prima applicazione direttive interpretative con la Circolare n. 38 del 17 ottobre 1998. Fu inoltre reso un parere da parte del Comitato Consultivo in data 18 ottobre 1999 n. 99204. In particolare, “sotto l’aspetto archivistico”, nella citata Circolare si raccomodava alle Avvocature Distrettuali di evitare “di attribuire un numero di Cs o di Ct alle pratiche trasmesse all’amministrazione per la trattazione da parte di questa in primo grado, riservandosi l’incardinazione del fascicolo solo al momento dell’assunzione dell’affare ai fini dell’eventuale appello o in resistenza all’appello avversario”. Nessuna specifica indicazione relativa alle dette controversie risulta in- (1) V. nota a sentenza su questa Rass., pp. 193-199, Il reclamo nel giudizio cautelare nel rito lavoro: considerazioni in merito allo ius postulandi dei funzionari delegati ai sensi dell’art. 417 bis. TEMI ISTITUZIONALI 17 vece contenuta, quanto ai criteri di impianto, nella Circolare n. 68 del 4 dicembre 2006 - che fa generico riferimento alla necessità di classificare “come affari contenziosi quelli che presuppongono un rapporto processuale in atto nel quale l’Amministrazione assuma la posizione di parte ”-, di tal che l’unica menzione delle controversie stesse è contenuta nella Circolare n. 7/2007, ove, “ai fini della stima aggiornata dei carichi di lavoro”, le Avvocatura Distrettuali sono invitate tra l'altro a “precisare quali, tra gli affari contenziosi che risultato impiantati, siano direttamente trattati da codeste Avvocature, distinguendoli da quelli affidati alle cure dei funzionari delle Amministrazioni, con particolare riguardo alle controversie in materia di lavoro”. Alla luce della prassi affermatasi in questi anni e del consolidarsi della giurisprudenza, atteso anche che si è riscontrata difformità nell’applicazione dei criteri a suo tempo indicati, a fini di uniformità di trattamento degli affari concernenti il contenzioso del lavoro “privatizzato” - tanto nella fase dell’impianto quanto in quella di svolgimento dell’attività professionale -, si rende ora necessario impartire le seguenti direttive in materia. 1. Va in primo luogo ribadito che l’art. 417 bis c.p.c., laddove dispone che, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro, “limitatamente al giudizio di primo grado le Amministrazioni… possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti”, prevede quale regola generale che, nel detto grado, siano le Amministrazioni a provvedere alla difesa giudizio. Ciò appare d’altro canto perfettamente coerente con la previsione (art. 12 D.Lgs n. 165/2001) della costituzione di “uffici del contenzioso” in seno alle Amministrazioni per curare “l’efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti alle controversie”, uffici menzionati anche nella norma processuale in discorso. E’ da ritenere pertanto infondata l’interpretazione – sostenuta inizialmente da talune Amministrazioni – che, valorizzando un argomento puramente letterale (“…possono…”), intendeva rimettere alla Amministrazione la scelta finale sulla difesa in giudizio. Una tale lettura, peraltro in evidente contrasto con il disposto del comma successivo, è agevolmente superata dalla considerazione che la norma intende piuttosto conferire – eccezionalmente, e in deroga ai principi posti dall’art. 82 dello stesso codice – lo ius postulandi in capo a soggetti sprovvisti dei necessari requisti professionali. E’ da sottolineare – avendo la ormai pressoché costante giurisprudenza di merito recepito le argomentazioni sviluppate al n. 1 del parere del Comitato Consultivo sopra richiamato – che nel “grado” va ricompresa anche la eventuale fase cautelare ante causam e quella in sede di revoca, modifica (art. 669 decies c.p.c.) o reclamo (art. 669 terdecies c.p.c.) del provvedimento di urgenza. 2. La costituzione e lo svolgimento di attività difensiva da parte dell’Avvocatura dello Sato costituisce pertanto circostanza assolutamente eccezionale, 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 legata al ricorrere di “questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici”. L’individuazione testuale è evidentemente generica, il che consente alle singole Avvocature – pur nel rispetto del su richiamato principio generale, al quale tutte le Sedi dovranno uniformarsi, di difesa diretta da parte delle Amministrazioni – di tenere conto, nell’applicare i criteri indicati ai numeri 3., 4. e 5. della Circolare n. 38/98 e qui confermati, di eventuali specifiche e significative realtà locali. Conformemente agli indirizzi giurisprudenziali, va confermato che la scelta operata dall’Avvocatura di cui al secondo comma della disposizione citata costituisce atto interno, la cui ostensione in udienza non è necessaria e non può essere richiesta dal Giudice e dalla controparte, e che non è in alcun modo sindacabile giudizialmente in quanto implicante valutazioni organizzative e/o di opportunità (ciò in analogia con quanto ritenuto da Cass., SSUU, 26 maggio 2004, n. 10138). 3. Va, inoltre più esattamente precisato quanto indicato nella circolare del 1998 (cfr. n. 2), al secondo comma, con riferimento ai soggetti ai quali si applica il meccanismo di valutazione da parte dell’Avvocatura in ordine alla difesa nel primo grado, soggetti dalla norma individuati nelle “Amministrazioni statali o ad esse equiparate”. Se è pur vero che tale indicazione deve essere correttamente riferita agli Enti muniti di patrocinio necessario, deve ritenersi incontestabile – come già si evidenzia nella precedente circolare – che lo stesso procedimento può e deve trovare applicazione – in sede interpretativa – anche nei confronti di tutti gli altri soggetti difesi ex art. 43 T.U. n. 1611/33. A tale inevitabile conclusione deve giungersi – laddove ovviamente il coinvolgimento dell’Istituto discenda da una richiesta in tal senso da parte dell’Ente patrocinato, non essendo in tali casi di norma l’atto introduttivo notificato all’Avvocatura dello Stato – ad evitare un’interpretazione della norma scorretta sotto il profilo sistematico. Considerato, infatti, che: all’Ente con patrocinio autorizzato trova applicazione il solo primo comma dell’art. 417 bis, e che lo stesso, pertanto, secondo la regola generale, dovrebbe difendersi in giudizio da solo; atteso che detto Soggetto ben potrebbe tuttavia – come già si osservava nella circolare n. 38/98, al n. 2 – richiedere all’Avvocatura di essere difeso (principio generale, come noto, laddove non ricorrano le eccezioni indicate nei commi 3 e 4 dell’art. 43); se in tal caso l’Avvocatura, a semplice richiesta, fosse tenuta a concedere il patrocinio, essa finirebbe con l’accordare all’Ente non difeso “necessariamente” un trattamento potiore rispetto a quello riconosciuto alle “amministrazioni statali o ad esse equiparate”; conclusione, questa, che non appare evidentemente ragionevole. Deve pertanto ritenersi, scongiurando una inaccettabile lettura della disposizione, che l’Ente a patrocino autorizzato ben possa provvedere alla pro- TEMI ISTITUZIONALI 19 pria difesa secondo quanto previsto dall’art. 417 bis primo comma (difesa diretta, e non a mezzo di avvocato del libero foro, salvo che sia in presenza delle peculiari situazioni sopra richiamate di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 43 del Testo Unico); ma, laddove intenda richiedere la difesa in giudizio da parte dell’Avvocatura fin dal primo grado, non possa che sottostare, come le Amministrazioni statali indicate al secondo comma, alla valutazione da parte dell’Avvocatura sul rilevo delle questioni in trattazione. Ferme restando le valutazioni di opportunità proprie del singolo caso concreto, derivanti anche dalla natura del contensto e del soggetto richiedente, a fronte della richiesta di patrocinio in primo grado si vorrà pertanto manifestare tale orientamento alle Amministrazioni difese ai sensi dell’art. 43 T.U. n. 1611/33, evidenziando come sia applicabile nella fattispecie, quanto meno in via estensiva, la revisione dell’art. 417 bis comma 2. 4. Nel caso in cui il patrocinio sia rimesso all’Amministrazione, nel trasmettere alla stessa il ricorso introduttivo sarà utile evidenziare alla stessa: a) che è opportuno che l’incarico di difesa (impropriamente definita quale “procura” dalla Suprema Corte nella sentenza che si cita qui di seguito) sia formalmente conferito (preferibilmente a funzionario dell’ufficio per il contenzioso del lavoro) dai dirigenti preposti (cfr. Cass. 13 settembre 2006, n. 19558) e sia fatto constare per iscritto. In ciò si ritiene allo stato prudente discostarsi dall’opinione espressa dal Comitato Consultivo nel richiamato parere dell’ottobre 1999, alla luce della pur contestabile opinione espressa in obiter dictum dalla richiamata pronuncia del Supremo Collegio. A nulla rileva invece la connotazione soggettiva del dipendente designato; b) che, all’atto della costituzione, si vorrà espressamente eleggere domicilio presso l’ufficio del contenzioso, ovvero, in caso di controversia fuori sede, presso altro ufficio locale dell’Amministrazione, al fine di evitare notifiche presso la Cancelleria del Tribunale, con possibili anche rilevanti pregiudizi; c) che – benché nulla osti formalmente in senso contrario – appare in linea di principio preferibile tenere distante la designazione di un funzionario dipendente quale “difensore” da quella di “rappresentate dell’Amministrazione” – a conoscenza dei fatti di causa – ai fini dell’interrogatorio libero delle parti; il rappresentate deve essere indicato con atto formale (procura) proveniente dal capo dell’uffio che ha il potere di transigere la controversia, e deve contenere il conferimento di detto potere. Ciò al fine di evitare una possibile confusione nei ruoli dei soggetti che partecipano all’udienza; d) che è indispensabile che tutte le sentenze, ove notificate direttamente all’Amministrazione (notifica utile a far decorrere il termine breve di impugnazione: Cass., 22 febbraio 2008, n. 4690) vengano immediatamente trasmesse all’Avvocatura in una con il fascicolo di parte, copia dei verbali di udienza e una puntuale relazione sui fatti di causa contenente anche una valu- 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 tazione sull’opportunità dell’impugnazione da parte dell’organo competente, eventualmente anticipata per via telematica. Eccezione a tale principio è costituita dalle sentenze di contenuto identico ad altre già trasmesse (“cause ripetitite”), per le quali sia già stata esclusa la necessità di impugnazione. 5. L’Avvocatura potrà invece ritenere di trattare la causa anche in primo grado per la sua “rilevanza di massima” o per i notevoli “riflessi economici”. Come già si ipotizzava nella Circolare n. 38/98, è opportuno che una tale valutazione sia accentrata nella persona dell’Avvocato Distrettuale o altro Avvocato all’uopo dallo stesso designato. Nell’ipotesi che la controversia non involga questioni strettamente locali, la scelta dovrà inoltre essere segnalata all’Avvocato Generale aggiunto, all’uopo designato, per garantire unità di indirizzo su tutto il territorio nazionale. In tali casi la difesa dovrà essere in linea di principiò estesa a tutte le cause similari, al fine di evitare la frantumazione “in una pluralità di impostazioni difensive, che può risolversi in pregiudizio” (così la Circolare n. 38/98). All’invitabile aggravio nello svolgimento della funzione difensiva si potrà sopperire – nel caso di controversie fuori sede – ricorrendo allo strumento della delega alla p.A. ex art. 2 T.U. n. 1611/33 (diversa dall’ipotesi di cui all’art. 417 bis). Anche nei casi di controversie similari a quelle in cui il patrocinio è stato assunto dall’Avvocatura come illustrato al comma prencedente sarà inoltre seriamente da considerare la possibilità che l’Amministrazione si difenda in giudizio ai sensi del comma 1 dell’art. 417 bis nei nuovi giudizi proposti: a) laddove per dette cause l’Avvocatura – costituita in precedenti giudizi – abbia già predisposto esaurienti difese in diritto; b) laddove si sia in presenza di un orientamento oramai consolidato della giurisprudenza (in linea di massima, in senso favorevole). In embrambi i casi sarà cura dell’Avvocatura trasmettere all’Amministrazione copia degli atti difensivi svolti nelle cause precedentemente trattate, affinché gli stessi siano utilizzati nella predisposizione delle relative memorie. In ogni caso, quando si evidenzi la presenza di cause ripetitive, atteso che simili controversie per loro natura possono essere pendenti davanti a autorità giudiziarie di tutti i Distretti di Corte d’Appello, l’Avvocato Distrettuale avrà cura di segnalare senza indugio l’esistenza delle controversie, le difese adottate ed eventuali orientamenti giurisprudenziali già manifestati in sede locale all’Avvocatura Generale dello Stato, ai fini della diffusione a tutte le Avvocature delle necessarie informazioni e della adozione di linee comuni di azione previa eventuale sottoposizione della questione al Comitato Consultivo. 6. In coerenza con quanto fin qui disposto si vorrà pertanto provvedere, all’atto della notifica del ricorso e all’esito della valutazione di assunzione o meno del patrocinio da parte dell’Avvocatura, all’impianto dell’affare secondo le seguenti modalità: TEMI ISTITUZIONALI 21 a) se la difesa è assunta dall’Avvocatura l’affare verrà impiantato con le ordinarie modalità e con attribuzione del relativo “codice-materia”; b) in caso contrario, verrà impiantato un affare contenzioso, al quale verrà però attribuito apposito codice materia secondo le indicazioni tecniche che saranno fornite agli Uffici archivio; c) nel caso b), qualora si pervenga in un secondo momento all’assunzione della difesa da parte dell’Avvocatura, ovvero nell’ipotesi di prosecuzione del giudizio in secondo grado, il codice di cui alla lettera b) dovrà essere esser sostituito dal “codice-materia” relativo al merito della controversia di cui alla lettera a). L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Protocollo d’intesa con l’Agenzia delle Entrate per il triennio 2010-2013 sottoscritto il 13 maggio 2010* In data 13 maggio 2010 è stato sottoscritto con l’Agenzia delle Entrate il Protocollo di intesa, allegato in copia (e già diffuso in pari dati con messaggio di posta elettronica) (1). Alle previsioni della stessa occorre attenersi nei rapporti con gli Uffici della stessa Agenzia. Poiché taluni suoi aspetti innovativi hanno suscitato perplessità applicative, sembra opportuno fornire di seguito alcune precisazioni. Con riguardo ai ricorsi per cassazione in materia tributaria (e di lavoro), va richiamata l’attenzione: a) sul necessario rispetto dei termini di cui ai punti 2.4.3. e 2.4.10 del Protocollo (12 giorni prima della scadenza per i ricorsi; 5 giorni prima per i ricorsi incidentali), per la comunicazione del parere negativo sulla proposta di impugnazione della sentenza e sulla esigenza di evitare comunque decadenze pregiudizievoli per l’Agenzia, in ipotesi di reiterata richiesta di impugnazione da parte della Direzione Regionale di questa (punti n. 2.4.5 e 2.4.6.); b) sulla utilizzazione prioritaria della notifica a mezzo posta da Roma, salvo i casi in cui, eccezionalmente, si ritenga indispensabile avvalersi degli Uffici dell’Agenzia (in tali ipotesi il ricorso stesso dovrà pervenire all’Ufficio competente almeno tre giorni liberi prima della scadenza: punto 2.1.7); c) sulla necessità di avvalersi degli uffici dell’Agenzia (e non di avvocati del libero loro), ai sensi dell’art. 2 del R.D. n. 1611/1933, per le cause che si svolgono davanti ad autorità guidiziaria avente sede diversa da quella dell’Avvocatura, salvo diversa preventiva intesa con l’Agenzia (punto 2.1.6); d) sulla necessità che le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione siano prontamente trasmesse alle competenti Direzioni regionali, per quanto di ulteriore loro competenza. Nel caso di cassazione con rinvio alla CTR, alla comunicazione va allegata – ove la Suprema Corte non abbia provveduto alla liquidazione delle spese della fase di legittimità ex art. 385 comma 3 cp.c. – la nota delle spese relative alla stessa fase, con invito espresso per l’Ufficio di provvedere al suo deposito nell’eventuale giudizio di rinvio ed alla richiesta della relativa liquidazione, nonché di inviare alla Avvocatura Generale la copia della sentenza una volta emessa da quel Giudice (punto 2.5). Le Avvocature Distrettuali dovranno tempestivamente informare l’Avvocato Generale dei casi particolari di conflitto d’interessi tra l’Agenzia ed altre Amministrazioni patrocinate (punto 2.1.9). (*) Circolare n. 46 - 9 settembre 2010 prot. 275256 - dell’Avvocato Generale. (1) Già pubblicato su questa Rass., 2010, II, 1-6. TEMI ISTITUZIONALI 23 Gli Avvocati Distrettuali vorranno, da ultimo, comunicare alla Segreteria particolare il nominativo dell’Avvocato referente per i i rapporti con l’Agenzia (Punto 5). L’AVVOCATO GENERALE Avv. Ignazio Francesco Caramazza I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E Le conseguenze dell’inesatta trasposizione di direttive “attuative” di principi generali del diritto comunitario Chiara Di Seri* IN ALLEGATO: Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, 19 gennaio 2010 , in causa C-557/07, Swedex. Con la sentenza 19 gennaio 2010, la Corte di giustizia si è pronunciata sulle questioni pregiudiziali proposte nell’ambito di una controversia tra una dipendente (la sig.ra Kücükdeveci) ed il suo datore di lavoro (la società Swedex) in merito al criterio di calcolo della durata del preavviso del licenziamento. Il datore di lavoro aveva calcolato il termine di preavviso come se la dipendente avesse avuto un’anzianità di 3 anni - benché fosse alle sue dipendenze da 10 anni - in applicazione di una disposizione del diritto nazionale tedesco che prevede di non tenere conto, per il calcolo della durata del preavviso di licenziamento, del periodo di servizio svolto in azienda prima del compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore. Il giudice tedesco, dubitando della compatibilità di tale disparità di trattamento collegata all’età con il diritto comunitario - ed, in particolare con la direttiva 2000/78/CE, recepita da una legge del 2006 sulla parità di trattamento (Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz) - anche alla luce dei principi enunciati nella sentenza Mangold (1), ha chiesto alla Corte di chiarire: (*) Dottore di ricerca in Diritto amministrativo, Università degli Studi di Roma Tre, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Corte di giustizia delle Comunità Europee, 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, con nota di MASSA PINTO, La Corte di Giustizia ricorda (involontariamente) alla Corte costituzionale lo strumento 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 - se la normativa nazionale determini una disparità di trattamento in base all’età vietata dal diritto dell’Unione, in particolare dal diritto primario o dalla direttiva 2000/78; - se il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, per poter disapplicare una normativa nazionale che ritenga contraria al diritto dell’Unione, a fini di tutela del legittimo affidamento, debba previamente adire la Corte di giustizia in forza dell’art. 267 TFUE, affinché quest’ultima confermi l’incompatibilità di tale normativa con il diritto dell’Unione. A questo proposito, il giudice remittente ha inoltre sottolineato come la Costituzione tedesca impedisca di disapplicare una legge nazionale in assenza di una dichiarazione di incostituzionalità, escludendo che, secondo la sentenza Mangold, i giudici nazionali si vedano comunque attribuire tale potere di disapplicazione allo scopo di dare attuazione ai principi generali del diritto comunitario. La Corte, nell’affrontare la prima questione, ha precisato come il parametro di riferimento per valutare la compatibilità comunitaria della disposizione di diritto nazionale richiamata fosse il principio di non discriminazione in base all’età, principio generale che trova una sua «espressione concreta» nella direttiva 2000/78/CE. Si tratta infatti di un principio che non discende “direttamente” dalla direttiva ma trova la sua fonte nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed è ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Corte ha poi ricordato come, in virtù delle stessa direttiva, gli Stati membri dispongano di un margine di valutazione discrezionale nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di politica sociale e di occupazione, purché i mezzi apprestati siano «appropriati e necessari». La Corte ha tuttavia escluso che gli scopi del legislatore evidenziati dal giudice di rinvio - maggiore flessibilità nella gestione del personale e rafforzamento della tutela dei lavoratori in ragione del tempo trascorso nell’impresa - siano adeguatamente perseguiti con l’adozione di una disciplina differenziata per il computo del termine di preavviso del licenziamento. Pertanto, la disparità di trattamento tra lavoratori aventi la medesima anzianità di servizio a seconda dell’età in cui siano stati assunti è ritenuta priva di giustificazione. Con riferimento alla seconda questione proposta, viene innanzitutto richiamata la giurisprudenza, ormai consolidata, che esclude l’«efficacia orizper riappropriarsi, almeno in parte, della competenza a giudicare in ordine alla conformità delle fonti statali all’ordinamento comunitario?, in www.costituzionalismo.it, CALVANO, Il caso “Mangold”: la Corte di giustizia afferma (senza dirlo) l’efficacia orizzontale di una direttiva comunitaria non scaduta?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e PATERNITI, La Corte di Giustizia apre al «sindacato diffuso di legittimità comunitaria»?, in www.forumcostituzionale.it. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 zontale» delle direttive a seguito della loro mancata o inesatta attuazione (2) e quella in tema di obbligo di «interpretazione conforme» (3). La Corte ha quindi ribadito la centralità del ruolo del giudice nazionale nel dare attuazione al principio generale di non discriminazione alla luce del (2) Secondo la giurisprudenza comunitaria ormai risalente, le direttive c.d. self-executing, in caso di mancato od inesatto recepimento, sono direttamente applicabili. Tale efficacia diretta è stata ammessa solo in senso “verticale”, nel senso cioè di consentire ai singoli di far valere un diritto verso lo Stato inadempiente, e non anche in senso “orizzontale” fra i privati. Muovendo infatti dal principio enunciato nella sentenza 26 febbraio 1986, in causa C-152/84, Marshall, secondo cui una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti, la Corte di giustizia ha successivamente precisato che «la possibilità di far valere una direttiva nei confronti degli enti statali è fondata sulla natura cogente attribuita a tale atto dall’art. 189 (ora 249) del trattato, natura cogente che esiste solo nei confronti dello Stato membro cui la direttiva è rivolta e mira ad evitare che uno Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario. Sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato al quale il legislatore comunitario prescrive l’adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi rapporti, o quelli degli enti statali, con i privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potesse far valere la mancata esecuzione dei suoi obblighi al fini di privare i singoli di detti diritti. Estendere detta giurisprudenza all’ambito dei rapporti tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetti immediati obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti. Ne consegue che, in assenza di provvedimenti di attuazione entro i termini prescritti, un privato non può fondare su una direttiva un diritto nei confronti di un altro privato, né può farlo valere innanzi a un giudice nazione» (Corte di giustizia delle Comunità Europee, 14 luglio 1994, in causa C-91/92, Faccini Dori). L’efficacia verticale è “unidirezionale”: sono i privati che possono invocare l’operatività di una direttiva inattuata nei confronti della Stato, ma non lo Stato a suo vantaggio nei confronti dei privati. La giurisprudenza comunitaria è infatti consolidata nel ritenere che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (da ultimo, Corte di giustizia delle Comunità Europee, 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer). Nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva viene invocata nei confronti di un soggetto dalle autorità di uno Stato membro nell'ambito di procedimenti penali, la Corte, anche di recente, ha ribadito che una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni (Corte di giustizia delle Comunità Europee, 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, Dell'Utri e a.). (3) L’obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario è stato esplicitamente affermato dal giudice comunitario a partire dalla sentenza, 10 aprile 1984, in causa C-14/83, Von Colson, e poi diffusamente nella sentenza 13 novembre 1990, in causa C-106/89, Marleasing SA, secondo cui «l’obbligo degli stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo, loro imposto dall’art. 5 (ora 10) del Trattato, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che, nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189 (ora 249), comma 3, del Trattato». Si cfr., in argomento, CAFARI PANICO, Per un’interpretazione conforme, in Dir. pubbl. Comp. Eu., 1999, 383 e segg.; PALLOTTA, Interpretazione conforme e inadempimento dello Stato, in Riv. It. Dir. pubbl. Com., 2005, 253 e segg.; PINELLI, Interpretazione conforme (rispettivamente, a Costituzione e al diritto comunitario) e giudizio di equivalenza, in Giur. Cost., 2008, 1364 e segg.; RUVOLO, Interpretazione conforme e situazioni giuridiche soggettive, in Europa e Dir. Priv., 2006, 1407 e segg. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 “primato” del diritto comunitario. Infatti, come in precedenza affermato nella sentenza Mangold, il giudice nazionale, investito di una controversia in cui sia invocato il principio di non discriminazione in ragione dell’età, è tenuto ad assicurare «la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge nazionale». Il giudice comunitario ha inoltre escluso che l’obbligo di disapplicazione sia subordinato alla declaratoria di “incompatibilità comunitaria”, pronunciata a seguito di un rinvio pregiudiziale. Ad avviso della Corte, la facoltà «riconosciuta dall’art. 267, secondo comma, TFUE di chiedere alla Corte un’interpretazione pregiudiziale prima di disapplicare la norma nazionale contraria al diritto dell’Unione non può tuttavia trasformarsi in obbligo per il fatto che il diritto nazionale non consente a tale giudice di disapplicare una norma interna che egli ritenga contraria alla Costituzione, se tale disposizione non sia stata previamente dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale». Primauté e principi generali del diritto comunitario La decisione offre spunti interessanti sotto vari profili: nell’affermare il principio della primauté in relazione ai principi generali del diritto comunitario, lambisce il tema degli «effetti orizzontali» delle direttive, della «comunitarizzazione » delle norme della Carta di Nizza e mette in evidenza la distinzione tra il controllo accentrato di legittimità costituzionale ed il sindacato di compatibilità comunitaria, svolto a livello diffuso dai giudici nazionali in funzione di giudici comunitari. Il giudice comunitario ha posto al centro delle proprie argomentazioni il divieto di discriminazione nella sua veste di principio generale. In tale prospettiva, la Corte di giustizia ha evitato di fornire i chiarimenti, auspicati dall’Avvocato generale Bot nelle sue conclusioni (4), sul problema Ove non sia possibile procedere ad un’interpretazione del diritto interno in conformità al diritto comunitario, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando la disposizione nazionale, la cui applicazione, date le circostanze del caso, condurrebbe ad un risultato contrario al diritto comunitario (si vedano, in proposito, Corte di giustizia delle Comunità Europee, 4 febbraio 1988, in causa C-157/86, Murphy e Id., 28 settembre 1994, in causa C-200/91, Coloroll). Il giudice comunitario ha inoltre precisato che «nel caso in cui il risultato prescritto dalla direttiva inattuata dal legislatore nazionale non possa essere conseguito mediante l’interpretazione conforme del giudice nazionale il diritto comunitario impone agli Stati membri di risarcire il danno da essi causati ai singoli in conseguenza della mancata attuazione della direttiva» (così, Corte giustizia delle Comunità Europee, 14 luglio 1994, in causa C-91/92, Faccini Dori). (4) Conclusioni, 19 luglio 2009. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 della scissione tra l’«effetto diretto orizzontale» delle direttive e la loro invocabilità al fine di escludere l’applicazione del diritto nazionale incompatibile nell’ambito di una controversia tra privati. L’Avvocato generale, infatti, muovendo dal presupposto che la norma di riferimento rispetto alla quale doveva essere stabilita la sussistenza o meno di una discriminazione fondata sull’età fosse la direttiva 2000/78/CE, aveva adombrato la possibilità di una specificazione della tradizionale ricostruzione sull’«efficacia orizzontale» delle direttive. Al riguardo, aveva invitato la Corte a riconoscere che la direttiva 2000/78/CE potesse essere invocata ai fini della disapplicazione, ancorché nell’ambito di una controversia tra singoli, e a non limitarsi ad indicare il «palliativo » dell’azione di responsabilità nei confronti dello Stato per l’inesatta trasposizione. Secondo l’impostazione dell’Avvocato generale, la «specificità delle direttive che combattono le discriminazioni» e la «gerarchia delle norme dell’ordinamento giuridico comunitario» permetterebbero di configurare un’“efficacia orizzontale sui generis”, considerato che una «direttiva adottata al fine di agevolare l’attuazione del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione non può diminuirne la portata» (5). Viene tuttavia precisato che l’accoglimento di tale tesi non porterebbe comunque «la Corte a ritornare sulla sua giurisprudenza relativa all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive» (6): ad avviso dell’Avvocato generale, infatti, anche se la Corte persistesse nell’opinione di «non riconoscere in modo generale la scissione tra l’effetto diretto cosiddetto “di sostituzione” e l’invocabilità di esclusione», la particolarità delle direttive volte a combattere la discriminazione le consentirebbe «di adottare una soluzione con una portata più ridottala quale, allo stesso tempo, ha il merito di essere coerente con la giurisprudenza da essa formulata in merito al principio generale di uguaglianza e di non discriminazione. In tale ottica, è in quanto essa applica tale principio, nella sua dimensione che vieta le discriminazioni in ragione dell’età, che la direttiva 2000/78 si vede attribuire una invocabilità rafforzata nelle controversie tra singoli». La Corte di giustizia non ha accolto l’invito dell’Avvocato generale. Tut- (5) Conclusioni, 19 luglio 2009, punto 70. (6) Conclusioni, 19 luglio 2009, punto 88: «infatti, la presente causa ha come oggetto solo l’esclusione di una disposizione nazionale incompatibile con la direttiva 2000/78, in questo caso l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, per consentire al giudice nazionale di applicare le restanti disposizioni di tale articolo, nella fattispecie i termini di preavviso determinati sulla base della durata del rapporto di lavoro. Non si tratta quindi, in questo caso, di applicare direttamente la direttiva 2000/78 ad un comportamento privato autonomo che non segue alcuna particolare normativa statale come, ad esempio, la decisione che adotti un datore di lavoro di non assumere i lavoratori con più di 45 anni di età o con meno di 35 anni di età. Solo tale situazione porterebbe ad interrogarsi sull’opportunità di riconoscere a tale direttiva un vero effetto diretto orizzontale». 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 tavia, pur non soffermandosi sui profili problematici sollevati dal tema degli «effetti orizzontali», è giunta alla medesima conclusione, valorizzando l’assunto che anche i principi generali del diritto comunitario, come il principio di non discriminazione, godono della primauté. Merita, inoltre, qualche considerazione il richiamo operato nella sentenza alla Carta di Nizza (7). La Corte, nel ribadire l’appartenenza del principio di non discriminazione alla categoria dei principi generali del diritto comunitario, sottolinea che il divieto di discriminazione è enunciato anche nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui l’art. 6 TUE attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati (8). La «comunitarizzazione» della Carta costituisce l’epilogo del dibattito, iniziato all’indomani della sua adozione, sulla natura giuridicamente vincolante delle disposizioni in essa contenute (9). Come è stato fatto notare (10), si è determinato un “mutamento di paradigma”: la Carta da documento esterno al diritto dell’Unione è divenuta parte di esso. Sebbene la Corte, nella decisione in esame, non vi faccia più accenno quando viene affermato il “primato” del diritto dell’Unione con riferimento al principio di non discriminazione, il parallelismo “principio fondamentale della Carta - principio generale” evocato dall’incorporazione della Carta nell’ordinamento dell’Unione sembra legittimare la conclusione della diretta applicabilità della stessa al pari del diritto comunitario, con le relative conseguenze in termini di disapplicazione del diritto interno antinomico (11). (7) Punto 22 della decisione. Come è stato evidenziato in una nota a prima lettura alla sentenza (CONTI, La prima volta della Corte di Giustizia sulla Carta di Nizza “vincolante”, in www.ipsoa.it), si tratta della prima volta in cui la Corte di giustizia ha avuto modo di riferirsi alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. (8) L’art. 6 del Trattato di Lisbona prevede che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni». (9) Su tale dibattito si vedano CELOTTO, PISTORIO, L’efficacia della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rassegna giurisprudenziale 2001-2004), in Giur. It., 2005, 427 e segg. e CARTABIA, CELOTTO, La giustizia costituzionale dopo la Carta di Nizza, in Giur. Cost, 2002, 4477 e segg. (10) Così, SANDRO, Alcune aporie e un mutamento di paradigma nel nuovo articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2009, 903 e segg., il quale prospetta un’inversione dei rapporti tra la Carta e la CEDU all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. (11) Sul punto, l’Avvocato generale Bot aveva evidenziato che «riguardo all’intromissione sempre maggiore del diritto comunitario nei rapporti tra privati, la Corte sarà, a mio parere, inevitabilmente confrontata ad altre ipotesi che sollevano il problema dell’invocabilità di direttive che contribuiscono a garantire i diritti fondamentali nell’ambito di controversie tra singoli. Tali ipotesi aumenteranno vero- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 In questa prospettiva, potrebbe consolidarsi, nel nostro ordinamento, l’interpretazione secondo cui il giudice deve sempre applicare le disposizioni della Carta, disapplicando all’occorrenza - senza necessità di una previa sentenza della Corte costituzionale - le norme interne contrastanti (12). L’assimilazione della Carta di Nizza e della CEDU nell’ambito del diritto dell’Unione potrebbe inoltre comportare un mutamento nei rapporti tra le Corti, con prevalenza delle pronunce delle Corti sovranazionali (Corte di giustizia e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) su quelle delle Corti costituzionali nazionali. Il riconoscimento della primauté dei principi generali, che trovano loro espressa enunciazione anche nella Carta di Nizza, assume infatti notevole rilevanza anche alla luce dell’affermazione, contenuta in un’altra recente sentenza della Corte di giustizia, secondo cui l’interpretazione di tali principi fornita in sede di rinvio pregiudiziale è in grado di prevalere su quella resa dalle Corti costituzionali nazionali, che siano state chiamate a pronunciarsi su analoghi principi generali (13). Un ulteriore profilo di interesse della decisione è rappresentato, come si è detto, dalla distinzione tra controllo accentrato di legittimità costituzionale e sindacato diffuso di compatibilità comunitaria. Al riguardo, la Corte, nel prendere atto della «coesistenza» dei due sistemi, ne sottolinea, ancora una volta, l’«indipendenza». Ad avviso del giudice comunitario, «il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, non è tenuto, ma ha la facoltà di sottoporre alla Corte similmente se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea acquisirà in futuro una forza giuridica vincolante, poiché tra i diritti fondamentali ripresi in tale Carta, un determinato numero compare nell’esperienza comunitaria sotto forma di direttive. In tale prospettiva, la Corte deve, a mio avviso, riflettere fin da oggi se l’identificazione di diritti garantiti da direttive come costituenti dei diritti fondamentali permetta o meno di rafforzare l’invocabilità di questi nell’ambito di controversie tra singoli» (Conclusioni, punto 90). (12) Si tratta di un orientamento, già elaborato dalla giurisprudenza di merito con riferimento all’efficacia della CEDU, nonostante la diversa ricostruzione offerta sul punto dalla Corte costituzionale. Per dei riferimenti più puntuali si rinvia a MONTANARI, Giudici comuni e Corti sovranazionali: rapporti tra sistemi, Torino 2002, 130 e segg. e GUAZZAROTTI, I giudici comuni e la Convenzione alla luce del nuovo art. 117 della Costituzione, in Quad. cost., 2003, 25 e segg. (13) L’affermazione è contenuta nella sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee, 7 settembre 2006, in causa C-81/05, Anacleto Cordero Alonso v. Fondo de Garancìa Salarial, adottata nell’ambito di rinvio pregiudiziale relativo all’interpretazione della stessa direttiva oggetto della storica sentenza Francovich, ossia la direttiva 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. In tale occasione, il giudice comunitario è giunto alla conclusione che le istituzioni amministrative e giurisdizionali spagnole, nell’applicare la citata normativa comunitaria, sono vincolate al rispetto del principio dell’eguaglianza dinanzi alla legge e di non discriminazione «risultante dal diritto comunitario, nella portata dell’interpretazione fornitane dalla Corte», precisando altresì che ciò vale anche «quando la normativa nazionale di cui trattasi, secondo la giurisprudenza costituzionale dello Stato membro interessato, è conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall’ordinamento giuridico nazionale ». 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 una questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78, prima di disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria a tale principio. Il carattere facoltativo di tale adizione è indipendente dalle modalità che si impongono al giudice nazionale, nel diritto interno, per poter disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria alla Costituzione». Occorre tuttavia evidenziare che, nonostante l’enfasi da sempre posta sull’essenzialità del ruolo dei giudici nazionali, la Corte non ha mancato in altre occasioni di valorizzare la propria «funzione nomofilattica». Infatti, fin dagli albori del processo di integrazione europea, alla “funzione interpretativa” svolta dalla Corte di giustizia è stato attribuito un ruolo fondamentale nel raggiungimento dell’obiettivo di garantire l’uniforme ed effettiva applicazione del diritto europeo da parte degli Stati membri ed, in particolare, da parte dei loro organi giurisdizionali. Tale posizione di “privilegio ermeneutico” discende innanzitutto dal riconoscimento dell’esclusività delle competenze attribuite alla Corte dal Trattato. A norma dell’art. 19 TUE, la Corte di giustizia è l’istituzione che assicura «il rispetto del diritto comunitario nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati». L’attività di interpretazione è dunque riservata al giudice comunitario in via esclusiva. Tale esclusività si proietta sia all’esterno dell’ordinamento comunitario che all’interno dello stesso. Quanto al primo profilo, infatti, l’art. 344 TFUE (ex art. 292 TCE) dispone che «gli Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso». La risoluzione delle controversie tra gli Stati membri va quindi ricondotta nell’ambito del quadro istituzionale comunitario, mediante la rimessione delle questioni interpretative alla Corte di giustizia, che ha delineato l’ambito delle sue attribuzioni in termini limitativi per l’esercizio della giurisdizione da parte di altre Corti chiamate a giudicare controversie di “rilevanza comunitaria” (14). (14) Sul tema della possibile concorrenza della giurisdizione della Corte di Giustizia con quella degli altri giudici internazionali si veda la completa analisi di SHANY The Competing Jurisdictions of International Courts and Tribunals, Oxford, 2004 e ID., Regulating Jurisdictional Relations between National and International Courts, Oxford, 2007, il quale analizza rispettivamente i rapporti tra ordini giuridici globali e le relazioni tra ordinamenti statali e sovranazionali, considerando ambedue i tipi di “judicial interaction”, dal punto di vista della sovrapposizione e dei conflitti di giurisdizione. In giurisprudenza, si cfr. Corte di giustizia delle Comunità Europee, 30 maggio 2006, in causa C-459/03, MOX Plant, ed i relativi commenti di CASOLARI, La sentenza Mox: la Corte di Giustizia delle Comunità europee torna ad occuparsi dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento internazionale, in Il diritto dell’Unione Europea, 2007, 355 e segg. e LAVRANOS, The scope of the exclusive jurisdiction of the Court of Justice, in European Law Review, 2007, 83 e segg.. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 Quanto, invece, alla manifestazione dell’esclusività della potestà interpretativa all’interno dell’ordinamento comunitario, occorre riferirsi alla sussistenza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale (15), gravante ai sensi dell’art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE), 3° comma, sui giudici nazionali di ultima istanza. In proposito, la Corte di giustizia ha avuto modo di affermare, in molte sue decisioni, che l’obbligo di rinvio «rientra nell’ambito della cooperazione istituita al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto comunitario, nell’insieme degli Stati membri, fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione delle norme comunitarie, e la Corte di giustizia. L’art. 177 (ora 234) mira, più in particolare ad evitare che si producano divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità su questioni di diritto comunitario. La portata di tale obbligo va pertanto valutata tenendo conto di tali finalità in funzione delle competenze rispettive dei giudici nazionali e della Corte di giustizia» (16). In quest’ottica, il sistema del rinvio pregiudiziale si configura come “dialogo tra giudici”, in cui risulta assegnato al giudice comunitario un ruolo di “interprete qualificato”, chiamato a statuire in termini generali, in virtù delle particolari conoscenze che il diritto comunitario richiede (17). La principale originalità del meccanismo del rinvio pregiudiziale si so- Negli ultimi anni, inoltre, si sono moltiplicati gli scritti che hanno approfondito l’emersione del fenomeno di judicial globalization: si vedano, in particolare, CASSESE, La funzione costituzionale dei giudici non statali. Dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2007, 609 e segg. e ID., Quando gli ordinamenti giuridici si scontrano. Dal dialogo alla cooperazione tra le Corti, in www.irpa.eu, DE BURCA, GERSTENBERG, The Denationalization of Constitutional Law, in Harvard International Law Journal, 2006, 243 e segg., FONTANELLI, MARTINICO, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del ‘dialogo nascosto’ fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multi-livello, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2008, 351 e segg., TREVES, Fragmentation of International Law: the Judicial Perspective, in Comunicazioni e Studi, 2008, 42 e segg. (15) Sul meccanismo del rinvio pregiudiziale, si vedano, tra i contributi più autorevoli, FERRARIBRAVO, Commento sub art. 177, in Commentario Cee, a cura di Quadri, Monaco, Trabucchi, Milano, 1965, 1310 e segg., SCHWARZE, Art. 234 EGV, in EU-Kommentar, Baden Baden, 2000, 2009 e segg., ID., The role of the European Court of Justice (ECJ) in the interpretation of uniform law among the member States of the European Communities, Baden-Baden, 1988 e WEILER, The European Court, National Courts and References for Preliminary Rulings – the Paradox of Success: A revisionist View of Article 177 EEC, in AA. VV., Article 177 EEC: Experiences and Problems, 1987, 366 e segg. (16) Corte di giustizia delle Comunità Europee, 6 ottobre 1982, in causa C-283/81, Cilfit, nonché in precedenza Id., 27 marzo 1980, in causa C-61/79, Denkavit Italiana e Id., 27 marzo 1980, in cause riunite C-66, 127 e 128/79, Salumi. (17) Si cfr.no al riguardo le Conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs, 21 marzo 2002, in causa C-136/00, Danner, punto 38, secondo cui «il primo compito della Corte nelle pronunce pregiudiziali non è risolvere controversie specifiche sulla base di fatti scarsamente definiti, o risolvere un problema per il giudice nazionale in una particolare causa, ma stabilire chiaramente e con coerenza, a beneficio di tutti nella Comunità, la corretta interpretazione del diritto, ed emanare pronunce di portata generale. Solo tale più ampia funzione giustifica il sistema delle domande di pronuncia pregiudiziale e spiega tale procedimento unico in cui gli Stati membri e la Commissione sono sistematicamente invitati a presentare osservazioni e appunto il perché la sentenza della Corte e le conclusioni dell'avvocato generale in ogni causa vengano pubblicate in non meno di undici lingue». 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 stanzia quindi nella “cooperazione”, dando vita ad un sistema di controllo unitario dal punto di vista funzionale, senza creare alcun legame gerarchico tra le autorità giudiziarie nazionali e la Corte di giustizia: «al contrario la posizione di quest’ultima nei suoi rapporti con i giudici degli Stati membri è quella di un primus inter pares» (18). Infatti, come è stato ulteriormente osservato, la disposizione sull’obbligo di rinvio non prevede uno strumento processuale per ovviare alle ipotesi in cui i giudici di ultima istanza si astengano dall’adempiere a tale obbligo (19), con la conseguenza che l’attuazione dei principi stabiliti nelle sentenze rese dai giudici del Lussemburgo viene rimessa alla libera scelta dei giudici nazionali (20). Si può così comprendere il motivo per il quale la Corte non abbia mai cessato - nel corso della sua attività e, da ultimo, nella sentenza in epigrafe - di sottolineare il ruolo decisivo dei giudici nazionali nell’attuazione del diritto comunitario, elaborando progressivamente una vera e propria «etica giurisdizionale comunitaria» (21). La «funzione nomofilattica» viene comunque garantita “indirettamente” attraverso altri istituti, alcuni dei quali frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte: il riconoscimento della responsabilità degli Stati membri per violazione dell’obbligo di rinvio commessa dagli organi giurisdizionali di ultima istanza (22), la sospensione dell’efficacia degli atti legislativi nazionali di cui (18) La considerazione è di WEILER, Il contesto istituzionale dell’Unione Europea, in CARTABIA, WEILER, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, 55 e segg. (19) In proposito si veda MANCINI, Le sfide costituzionali alla Corte di Giustizia europea, in Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna, 2004, 63, il quale osserva come «la parte che intenda invocare il diritto comunitario, ma la cui richiesta di rinvio obbligatorio non venga accolta dalle Corti nazionali di ultima istanza, non ha accesso diretto alla Corte di giustizia di Lussemburgo e si trova nella disgraziata posizione di essere titolare di un diritto non giustiziabile». (20) Sul punto, MANCINI, op. ult. cit., 63-64, il quale sottolinea che «la caratteristica più saliente della procedura disciplinata dall’art. 177 (ora 234, nds) del Trattato Ce consiste nel fatto che essa è interamente dipendente dalla buona volontà delle Corti nazionali»: «anche nel caso in cui la Corte nazionale recalcitrante venga persuasa ad effettuare un sia pur riluttante rinvio pregiudiziale e la Corte di giustizia si pronunci solennemente, riconoscendo i diritti attribuiti alle parti dall’ordinamento comunitario, non c’è modo di assicurare che la sentenza sia poi applicata dai giudici nazionali. Questi ultimi, infatti, potrebbero non avere dimestichezza con l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia sulla natura vincolante delle pronunce in via pregiudiziale, o rifiutare di applicarla, oppure semplicemente, potrebbero interpretare erroneamente la sentenza e applicarla in modo scorretto». L’esigenza di una volontà di collaborazione dei giudici nazionali nell’applicare i principi enunciati dalla giurisprudenza comunitaria è sottolineata anche da BARAV, La plénitude de compétence du juge national en sa qualità de juge communautaire, in AA.VV. L’Europe et le droit. Mèlanges en hommage à Jean Boulouis, Parìs, 1991, 1. (21) Per questa considerazione, GREVISSE, BONICHOT, Les incidences du droit communautaire sur l’organization et l’exercice de la function juridictionelle dans l’Ètats members, in AA. VV., L’Europe et le droit, cit., 297 e segg. (22) Corte di giustizia delle Comunità Europee, 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler, in Foro It., 2004, IV, 4, con nota di SCODITTI «Francovich» presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 si contesti la legittimità in sede comunitaria (23) ed, infine, l’affermazione dell’autorità dell’interpretazione resa dal giudice comunitario, in grado di prevalere sul giudicato nazionale (24). Corte di giustizia (Grande Sezione) sentenza del 19 gennaio 2010 - Pres. V. Skouris, Rel. P. Lindh , Avv. gen. Y. Bot - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Landesarbeitsgericht Düsseldorf (Germania) - Seda Kücükdeveci/Swedex GmbH & Co. KG. «Principio di non discriminazione in base all’età – Direttiva 2000/78/CE – Legislazione nazionale in materia di licenziamento che, ai fini del calcolo dei termini di preavviso, non tiene conto del periodo di lavoro svolto prima che il dipendente abbia raggiunto l’età di 25 anni – Giustificazione della norma – Normativa nazionale contraria alla direttiva – Ruolo del giudice nazionale» (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età e della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Kücükdeveci e il suo ex datore di lavoro, la Swedex GmbH & Co. KG (in prosieguo: la «Swedex »), in ordine al calcolo dei termini di preavviso applicabili al suo licenziamento. (23) Nell’ambito del controllo sulla validità degli atti comunitari, l’art. 278 TFUE (ex art. 242 TCE) stabilisce che «i ricorsi proposti alla Corte di giustizia non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando reputi che le circostanze lo richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato». Analogo potere di adottare provvedimenti sospensivi è stato riconosciuto anche in capo ai giudici nazionali con riferimento ai provvedimenti nazionali di esecuzione degli atti comunitari di cui risulta contestata la validità. Oltre alla sospensione degli atti delle Istituzioni, la Corte può disporre provvedimenti provvisori atipici. Infatti, in virtù del successivo art. 279 TFUE (ex art. 243 TCE), la Corte di giustizia «negli affari che le sono proposti, può ordinare i provvedimenti provvisori necessari». (24) Si veda sul punto Corte di giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, in causa C- 119/05, Lucchini. Per un esame approfondito della decisione, si cfr.no, tra i tanti, CONSOLO, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. Dir. Proc., 2008, 225 e segg., FONTANA, Qualche osservazione in margine al caso Lucchini. Un tentativo di spiegazione, in Dir. Comm. Internaz., 2008, 193, NEGRELLI, I1 primato del diritto comunitario e il giudicato nazionale: un confronto che si poteva evitare o risolvere altrimenti. (Brevi riflessioni a margine alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, in causa C-119/05), in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2008, 1217 e segg., PICARDI, Eventuali conflitti fra principio del giudicato e principio della superiorità del diritto comunitario, in Giust. civ., 2008, 559 e segg., SCODITTI, Giudicato nazionale e diritto comunitario, in Foro It., 2007, 533 e segg., STILE, La sentenza Lucchini sui limiti del giudicato: un traguardo inaspettato?, in Dir. Com. Scambi Internaz., 2007, 733 e segg., ZUFFI, Il caso Lucchini infrange l’autorità del giudicato nazionale nel campo degli aiuti statali, in Giur. It., 2008, 382. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 La direttiva 2000/78 è stata adottata sul fondamento dell’art. 13 CE. I ‘considerando’ primo, quarto e venticinquesimo della direttiva sono del seguente tenore: « (1) Conformemente all’articolo 6 del trattato sull’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[, firmata a Roma il 4 novembre 1950,] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. (...) (4) Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. La Convenzione n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro. (...) (25) Il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione della diversità nell’occupazione. Tuttavia in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate e richiedono pertanto disposizioni specifiche che possono variare secondo la situazione degli Stati membri. È quindi essenziale distinguere tra le disparità di trattamento che sono giustificate, in particolare, da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale, e le discriminazioni che devono essere vietate». 4 Ai sensi del suo art. 1, la direttiva 2000/78 mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. 5 L’art. 2 di tale direttiva è del seguente tenore: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; (...) ». 6 L’art. 3, n. 1, di tale direttiva precisa che: «1. Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 pubblico, per quanto attiene: (...) c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…) ». 7 L’art. 6, n. 1, della stessa direttiva così dispone: «Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento». 8 Ai sensi dell’art. 18, primo comma, della stessa direttiva, la sua trasposizione nell’ordinamento giuridico degli Stati membri doveva avvenire al più tardi entro il 2 dicembre 2003. Tuttavia, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo: «Per tener conto di condizioni particolari gli Stati membri possono disporre se necessario di tre anni supplementari, a partire dal 2 dicembre 2003 ovvero complessivamente di sei anni al massimo, per attuare le disposizioni relative alle discriminazioni basate sull’età o sull’handicap. In tal caso essi informano immediatamente la Commissione. (...)». 9 La Repubblica federale di Germania si è avvalsa di tale facoltà, di modo che il recepimento delle disposizioni della direttiva 2000/78, relative alla discriminazione in base all’età e sull’handicap, doveva essere effettuato in tale Stato membro entro il 2 dicembre 2006. La normativa nazionale La legge generale sulla parità di trattamento 10 Gli artt. 1, 2 e 10 della legge generale 14 agosto 2006, sulla parità di trattamento (Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz; BGBl. 2006 I, pag. 1897), che ha trasposto la direttiva 2000/78, così recitano: «Art. 1 – Finalità della legge La presente legge ha l’obiettivo di impedire o di eliminare qualsiasi trattamento sfavorevole basato sulla razza o sull’origine etnica, sul sesso, sulla religione o sulle convinzioni personali, sull’handicap, sull’età o sull’identità sessuale. Art. 2 – Ambito di applicazione (...) 4) zAi licenziamenti si applicano esclusivamente le disposizioni relative alla tutela generale e particolare contro i licenziamenti. 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (...) Art. 10 – Ammissibilità di talune disparità di trattamento collegate all’età Fatto salvo l’art. 8, è ammissibile una disparità di trattamento collegata all’età laddove essa sia oggettiva, ragionevole e giustificata da una finalità legittima. I mezzi per il conseguimento di tale finalità devono essere appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: 1. la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di retribuzione e di licenziamento, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; (…)». La normativa relativa al termine di preavviso di licenziamento 11 L’art. 622 del codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch, in prosieguo: il «BGB») così recita: «1) Il rapporto di lavoro di un operaio o di un impiegato (lavoratore) può essere risolto rispettando un preavviso di quattro settimane, con effetto al quindicesimo o all’ultimo giorno del mese. 2) Per il licenziamento da parte del datore di lavoro, si applicano i seguenti termini di preavviso: – se il rapporto di lavoro nell’azienda o nell’impresa è durato 2 anni: 1 mese, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 5 anni: 2 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 8 anni: 3 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 10 anni: 4 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 12 anni: 5 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 15 anni: 6 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario; – se è durato 20 anni: 7 mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario. Nel calcolo della durata dell’impiego non vanno considerati i periodi di lavoro svolti prima del compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore». Causa principale e questioni pregiudiziali 12 La sig.ra Kücükdeveci è nata il 12 febbraio 1978. Essa lavorava dal 4 giugno 1996, ossia dall’età di 18 anni, alle dipendenze della Swedex. 13 Con lettera 19 dicembre 2006, la Swedex ha licenziato la dipendente, con effetto, considerato il termine di preavviso legale, al 31 gennaio 2007. Il datore di lavoro ha calcolato il termine di preavviso come se la dipendente avesse avuto un’anzianità di 3 anni, benché essa fosse alle sue dipendenze da 10 anni. 14 La sig.ra Kücükdeveci ha contestato il suo licenziamento dinanzi all’Arbeitsgericht Mönchengladbach. Dinanzi a tale organo giurisdizionale essa ha sostenuto che il termine di preavviso nei suoi confronti avrebbe dovuto essere di 4 mesi a decorrere dal 31 dicembre 2006, vale a dire fino al 30 aprile 2007, e ciò in applicazione dell’art. 622, n. 2, primo comma, punto 4, del BGB. Tale termine corrisponderebbe ad un’anzianità di dieci anni. La causa principale vede quindi opposti questi due privati, vale a dire, da un lato, la sig.ra Kücükdeveci e, dall’altro, la Swedex. 15 A parere della sig.ra Kücükdeveci, l’art. 622, n. 2, secondo comma, del BGB, nella parte in cui prevede che per il calcolo della durata del termine di preavviso non sono presi in considerazione i periodi di lavoro svolti prima del compimento del venticinquesimo IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 anno di età, costituisce una misura di discriminazione in base all’età contraria al diritto dell’Unione e va disapplicata. 16 Il Landesarbeitsgericht Düsseldorf, pronunciandosi in appello, ha constatato che alla data in cui è avvenuto il licenziamento il termine per la trasposizione della direttiva 2000/78 era scaduto. Tale giudice ha considerato del pari che l’art. 622 del BGB contiene una disparità di trattamento direttamente collegata all’età, della cui incostituzionalità non è convinto, ma di cui sarebbe invece discutibile la conformità al diritto dell’Unione. Tale giudice si chiede, in proposito, se l’eventuale esistenza di una discriminazione diretta connessa all’età debba essere valutata sulla base del diritto primario dell’Unione, come sembra suggerire la sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold (Racc. pag. I-9981), oppure alla luce della direttiva 2000/78. Sottolineando che la disposizione nazionale di cui trattasi è chiara e non potrebbe essere, eventualmente, interpretata in un senso conforme a detta direttiva, il giudice del rinvio si chiede del pari se, per poter disapplicare tale disposizione in una controversia tra privati, esso debba, al fine di garantire la tutela del legittimo affidamento dei destinatari delle norme, sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte affinché quest’ultima confermi l’incompatibilità di tale disposizione con il diritto dell’Unione. 17 È sulla scorta di tali premesse che il Landesarbeitsgericht Düsseldorf ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) a) Se una normativa nazionale, secondo la quale i termini di preavviso di licenziamento che il datore di lavoro deve rispettare si prolungano progressivamente con l’aumentare della durata dell’impiego, senza tuttavia che siano presi in considerazione i periodi di lavoro svolti dal lavoratore prima di aver raggiunto il venticinquesimo anno di età, sia contraria al divieto di discriminazione in ragione dell’età sancito dal diritto comunitario, e segnatamente dal diritto primario della CE o dalla direttiva (...) 2000/78 (...); b) se una ragione giustificativa del fatto che un datore di lavoro debba rispettare soltanto un termine di preavviso di base per il licenziamento dei lavoratori più giovani possa essere ravvisata nella circostanza che al datore di lavoro viene riconosciuto un interesse economico ad una gestione flessibile del personale – il quale verrebbe pregiudicato da termini di preavviso di licenziamento più lunghi – e che ai giovani lavoratori non viene accordata la tutela dei diritti quesiti e delle aspettative (garantita ai lavoratori più anziani attraverso termini di preavviso più estesi), ad esempio perché si presume una loro maggiore mobilità e flessibilità professionale e personale in ragione dell’età e/o dei minori obblighi sociali, familiari e privati su di essi incombenti. 2) In caso di soluzione affermativa della questione sub 1 a) e negativa della questione sub 1 b): Se il giudice di uno Stato membro investito di una causa tra privati debba disapplicare una normativa contraria al diritto comunitario ovvero se debba tenere conto della fiducia riposta dai destinatari delle norme nell’applicazione delle leggi nazionali vigenti, in modo tale per cui l’inapplicabilità sopravvenga soltanto in seguito ad una decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee sulla normativa contestata o su una normativa sostanzialmente analoga». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 18 Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale – la quale prevede che i periodi 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di lavoro compiuti dal dipendente prima del raggiungimento del suo venticinquesimo anno di età non sono presi in considerazione ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento – costituisca una disparità di trattamento in base all’età vietata dal diritto dell’Unione, in particolare dal diritto primario o dalla direttiva 2000/78. Tale giudice chiede, in particolare, se una normativa siffatta sia giustificata dalla circostanza che occorrerebbe rispettare unicamente un termine di preavviso di base nel caso di licenziamento di giovani lavoratori, da un lato, per consentire ai datori di lavoro una gestione flessibile del personale, ciò che non sarebbe possibile con termini di preavviso più lunghi, e, dall’altro, in quanto sarebbe ragionevole esigere dai giovani lavoratori una mobilità personale e professionale maggiore di quella richiesta ai lavoratori più anziani. 19 Per risolvere tale questione, occorre anzitutto precisare, come invita a fare il giudice del rinvio, se essa debba essere affrontata alla luce del diritto primario dell’Unione o della direttiva 2000/78. 20 In proposito, va inizialmente ricordato che il Consiglio dell’Unione europea, fondandosi sull’art. 13 CE, ha adottato la direttiva 2000/78 in merito alla quale la Corte ha dichiarato che non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro, principio che trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, ma che essa ha il solo obiettivo di stabilire, in dette materie, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su diversi motivi, tra i quali rientra l’età (v. sentenza Mangold, cit., punto 74). 21 In tale contesto, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di un principio di non discriminazione in base all’età che deve essere considerato un principio generale del diritto dell’Unione (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punto 75). La direttiva 2000/78 dà espressione concreta a tale principio (v., per analogia, sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne, Racc. pag. 455, punto 54). 22 Va del pari rilevato che l’art. 6, n. 1, TUE enuncia che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Ai sensi dell’art. 21, n. 1, di tale Carta, «[è] vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, (...) [sul]l’età». 23 Affinché il principio di non discriminazione in base all’età possa applicarsi in una fattispecie come quella di cui alla causa principale, è anche necessario che tale fattispecie rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. 24 A tal proposito, e a differenza della causa conclusasi con la sentenza 23 settembre 2008, causa C-427/06, Bartsch (Racc. pag. I-7245), il presunto comportamento discriminatorio adottato nella presente fattispecie in base alla normativa nazionale controversa ha avuto luogo successivamente alla data limite del termine impartito allo Stato membro per trasporre la direttiva 2000/78, termine che, per quanto riguarda la Repubblica federale di Germania, è scaduto il 2 dicembre 2006. 25 In tale data, la direttiva ha avuto l’effetto di far entrare nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale che affronta una materia disciplinata dalla stessa direttiva, vale a dire, nella fattispecie, le condizioni di licenziamento. 26 In effetti, una disposizione nazionale quale l’art. 622, n. 2, secondo comma, del BGB, per il fatto di prevedere che, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento, non siano presi in considerazione i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima di aver raggiunto il venticinquesimo anno d’età, incide sulle condizioni di licenziamento IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 dei dipendenti. Si deve pertanto considerare che una legislazione siffatta detti norme relative alle condizioni di licenziamento. 27 Da tali considerazioni risulta che è in base al principio generale di diritto dell’Unione vietante qualsiasi discriminazione in base all’età, come specificato dalla direttiva 2000/78, che va esaminato se il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale. 28 Relativamente, poi, alla questione se la normativa controversa nella causa principale contenga una disparità di trattamento in base all’età, va ricordato che, ai sensi dell’art. 2, n. 1, della direttiva 2000/78, ai fini di quest’ultima, per «principio della parità di trattamento » si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della medesima direttiva. L’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva in questione precisa che, ai fini dell’applicazione del suo n. 1, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’art. 1 della direttiva in parola, una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra in una situazione analoga (v. sentenze 16 ottobre 2007, causa C-411/05, Palacios de la Villa, Racc. pag. I-8531, punto 50, e 5 marzo 2009, causa C-388/07, Age Concern England, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 33). 29 Nella fattispecie, l’art. 622, n. 2, secondo comma, del BGB riserva un trattamento meno favorevole ai dipendenti che sono entrati in servizio presso il datore di lavoro prima dei 25 anni di età. Tale normativa nazionale crea quindi una disparità di trattamento tra persone aventi la medesima anzianità a seconda dell’età in cui esse sono state assunte. 30 Così, per due dipendenti aventi ciascuno 20 anni di anzianità, quello assunto all’età di 18 anni avrà diritto ad un termine di preavviso di licenziamento pari a cinque mesi, mentre tale termine sarà pari a sette mesi per colui che è stato assunto all’età di 25 anni. Inoltre, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 36 della sue conclusioni, la normativa nazionale considerata nella causa principale tratta, in generale, in modo più sfavorevole i giovani lavoratori rispetto ai lavoratori più anziani, in quanto i primi – come illustrato dalla situazione della ricorrente nella causa principale – possono essere esclusi, malgrado un’anzianità di servizio nell’impresa di diversi anni, dal poter beneficiare di un aumento progressivo dei termini di preavviso di licenziamento in funzione della durata del rapporto di lavoro, di cui possono invece giovarsi i lavoratori più anziani aventi un’anzianità equiparabile. 31 Ne consegue che la normativa nazionale considerata contiene una disparità di trattamento fondata sul criterio dell’età. 32 Occorre, in una terza fase, esaminare se tale disparità di trattamento sia atta a costituire una discriminazione vietata dal principio di non discriminazione in base all’età cui ha dato espressione concreta la direttiva 2000/78. 33 Al riguardo, l’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78 enuncia che una disparità di trattamento in base all’età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. 34 Tanto dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio, quanto dalle spiegazioni date in udienza dal governo tedesco risulta che l’art. 622 del BGB trae la sua origine in una legge del 1926. La fissazione della soglia di 25 anni ad opera di tale legge sarebbe il frutto 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di un compromesso tra, in primo luogo, il governo dell’epoca che auspicava una proroga uniforme di tre mesi del termine di preavviso di licenziamento per i lavoratori di età superiore ai 40 anni, in secondo luogo, i fautori di una proroga graduale di tale termine per tutti i lavoratori e, infine, i sostenitori di una proroga graduale della durata del preavviso, che non tenesse però conto del periodo lavorato, avendo tale regola lo scopo di sollevare parzialmente i datori di lavoro dall’onere dei termini di preavviso prolungati per i lavoratori di età inferiore ai 25 anni, 35 Secondo il giudice del rinvio, l’art. 622, n. 2, secondo comma, del BGB rispecchia la valutazione del legislatore secondo cui i giovani lavoratori, in genere, reagiscono più facilmente e più rapidamente alla perdita del loro impiego e ci si può attendere da loro una maggiore flessibilità. Infine, un termine di preavviso più breve per i giovani lavoratori ne favorirebbe l’assunzione aumentando la flessibilità della gestione del personale. 36 Finalità del tipo di quelle menzionate dal governo tedesco e dal giudice del rinvio appaiono rientrare in una politica in materia di occupazione e del mercato del lavoro, ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78. 37 Va però verificato, secondo il tenore stesso di tale disposizione, se i mezzi apprestati per conseguire siffatta finalità legittima siano «appropriati e necessari». 38 Si deve, in proposito, ricordare che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di valutazione discrezionale nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di politica sociale e di occupazione (v. citate sentenze Mangold, punto 63, e Palacios de la Villa, punto 68). 39 Il giudice del rinvio indica che l’obiettivo del provvedimento di cui trattasi è quello di offrire al datore di lavoro una maggiore flessibilità nella gestione del personale, alleviando l’onere per tale datore di lavoro per quanto attiene al licenziamento dei giovani lavoratori, dai quali sarebbe ragionevole attendersi una più elevata mobilità personale e professionale. 40 Nondimeno, tale provvedimento non è appropriato per il conseguimento di detto obiettivo giacché si applica a tutti i dipendenti assunti dall’impresa prima del venticinquesimo anno di età, indipendentemente dalla loro età al momento del licenziamento. 41 Per quanto riguarda l’obiettivo, perseguito dal legislatore nell’adottare la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale e ricordato dal governo tedesco, di rafforzare la tutela dei lavoratori in funzione del tempo trascorso nell’impresa, risulta che, in forza di tale normativa, l’allungamento del termine di preavviso di licenziamento a seconda dell’anzianità del dipendente è ritardato per qualsiasi lavoratore assunto dall’impresa prima dei 25 anni di età, anche laddove l’interessato vanti, al momento del licenziamento, una lunga anzianità di servizio in tale impresa. Tale normativa non può pertanto essere considerata idonea a realizzare la finalità dichiarata. 42 Va aggiunto che la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale, come ricordato dal giudice del rinvio, incide sui giovani dipendenti in modo diseguale, in quanto colpisce i giovani che si impegnano presto nella vita attiva, senza formazione professionale, o dopo una breve formazione professionale, e non coloro che iniziano a lavorare più tardi, dopo una lunga formazione professionale. 43 Risulta da tutte queste considerazioni che la prima questione va risolta dichiarando che il diritto dell’Unione, in particolare il principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nella causa principale, che IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 prevede che, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento, non vanno presi in considerazione i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima del raggiungimento dei 25 anni di età. Sulla seconda questione 44 Con la seconda questione il giudice del rinvio si chiede se, allorché è investito di una controversia tra privati, per poter disapplicare una normativa nazionale che ritenga contraria al diritto dell’Unione, egli debba previamente, a fini di tutela del legittimo affidamento dei soggetti di diritto, adire la Corte di giustizia in forza dell’art. 267 TFUE, affinché quest’ultima confermi l’incompatibilità di tale normativa con il diritto dell’Unione 45 Per quanto riguarda, in primo luogo, il ruolo del giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia tra privati nella quale la normativa nazionale appaia contraria al diritto dell’Unione, la Corte ha statuito che spetta ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia (v., in questo senso, sentenze 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I-8835, punto 111, nonché 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, Racc. pag. I-2483, punto 42). 46 A questo proposito, con riferimento a controversie tra privati, la Corte ha dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 48; 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, Racc. pag. I-3325, punto 20, nonché Pfeiffer e a., cit., punto 108). 47 Tuttavia, l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato previsto da quest’ultima, e il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi dei detti Stati, ivi compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali (v., in particolare, in questo senso, sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83, von Colson e Kamann, Racc. pag. 1891, punto 26; 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8; Faccini Dori, cit., punto 26; 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 40; Pfeiffer e a., cit., punto 110, nonché 23 aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 106). 48 Ne consegue che, nell’applicare il diritto interno, il giudice nazionale chiamato ad interpretare tale diritto deve procedere per quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo di tale direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art 288, terzo comma, TFUE (v., in tal senso, sentenze citate von Colson e Kamann, punto 26; Marleasing, punto 8; Faccini Dori, punto 26, nonché Pfeiffer e a., punto 113). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 114). 49 Secondo il giudice del rinvio, tuttavia, per la sua chiarezza e precisione, l’art. 622, n. 2, secondo comma, del BGB non si presta ad un’interpretazione conforme alla direttiva 2000/78. 50 A tal proposito, occorre ricordare, da un lato, che, come già si è detto al punto 20 della presente sentenza, la direttiva 2000/78 si limita a dare espressione concreta – senza 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sancirlo – al principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, d’altro lato, che il principio di non discriminazione in base all’età è un principio generale del diritto dell’Unione, in quanto rappresenta un’applicazione specifica del principio generale della parità di trattamento (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punti 74-76). 51 Ciò considerato, è compito del giudice nazionale, investito di una controversia in cui è messo in discussione il principio di non discriminazione in ragione dell’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge nazionale (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punto 77). 52 Per quel che riguarda, in secondo luogo, l’obbligo che graverebbe sul giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, di chiedere alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione del diritto dell’Unione prima di poter disapplicare una norma nazionale che ritenga contraria a tale diritto, si deve rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che tale aspetto della questione è motivato dal fatto che, in forza del diritto nazionale, il giudice del rinvio non può disapplicare una disposizione vigente della legislazione nazionale se essa non sia stata previamente dichiarata incostituzionale dal Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale). 53 In proposito, occorre sottolineare che la necessità di garantire piena efficacia al principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, comporta che il giudice nazionale, in presenza di una norma nazionale, rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, che ritenga incompatibile con tale principio e per la quale risulti impossibile un’interpretazione conforme a quest’ultimo, deve disapplicare detta disposizione, senza che gli sia imposto né gli sia vietato di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale. 54 La facoltà così riconosciuta dall’art. 267, secondo comma, TFUE di chiedere alla Corte un’interpretazione pregiudiziale prima di disapplicare la norma nazionale contraria al diritto dell’Unione non può tuttavia trasformarsi in obbligo per il fatto che il diritto nazionale non consente a tale giudice di disapplicare una norma interna che egli ritenga contraria alla Costituzione, se tale disposizione non sia stata previamente dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale. Infatti, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, di cui gode anche il principio di non discriminazione in ragione dell’età, una normativa nazionale contraria, rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, deve essere disapplicata (v., in questo senso, sentenza Mangold, cit., punto 77). 55 Risulta da queste considerazioni che il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, non è tenuto, ma ha la facoltà di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78, prima di disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria a tale principio. Il carattere facoltativo di tale adizione è indipendente dalle modalità che si impongono al giudice nazionale, nel diritto interno, per poter disapplicare una disposizione nazionale che ritenga contraria alla Costituzione. 56 In considerazione di tutto quel che precede, la seconda questione va risolta dichiarando che è compito del giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 concretamente dalla direttiva 2000/78, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall’esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall’art 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione di tale principio. Sulle spese 57 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) Il diritto dell’Unione, in particolare il principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente nella direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nella causa principale, che prevede che, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento, non sono presi in considerazione i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima del raggiungimento dei 25 anni di età. 2) È compito del giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall’esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall’art. 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull’interpretazione di tale principio. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Le recenti pronunce della Corte in tema di farmacie (Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, sentenza del 1° giugno 2010 nelle cause riunite C-570/07 e C-571/07; Corte di giustizia dell’Unione europea, Prima Sezione, sentenza del 1° luglio 2010 nella causa C-393/08) Ad un anno dal rigetto del ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità Europee contro la Repubblica italiana, con l’intento di fare affermare che quest’ultima avesse violato gli obblighi di cui agli artt. 43 e 56 del Trattato, mantenendo in vigore una normativa che riserva il diritto di gestire una farmacia al dettaglio privata alle sole persone fisiche laureate in farmacia ed alle società di gestione composte di soli farmacisti, nonché disposizioni legislative che sanciscono l’impossibilità per le imprese di distribuzione di prodotti farmaceutici di acquisire partecipazione nelle società di gestione di farmacie comunali (causa C-531/06 Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana*), la Corte torna ancora una volta ad occuparsi delle farmacie. I principi elaborati nella causa C-531/06 tornano - quindi - di attualità, innanzi tutto nella sentenza che definisce le cause riunite C-570/07 e C-571/07 (Blanco Pérez e Chao Gómez), aventi ad oggetto una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 49 TFUE. La Corte viene chiamata, in particolare, a valutare se la libertà di stabilimento codificata in detto articolo osti ad una disciplina nazionale che condiziona l’apertura di nuove farmacie al rilascio di una licenza concessa in relazione ad una pianificazione su base territoriale. Il punto di partenza del ragionamento seguito dalla Corte viene tratto proprio dalla sentenza C-531/06, che aveva a suo tempo ricondotto le farmacie nell’ambito dei servizi sanitari, il cui livello e la cui organizzazione sono riservati alla competenza degli Stati membri, con salvezza dei soli limiti imposti dal diritto comunitario. Anche in questo caso, dunque, si tratta di valutare se una limitazione alla libertà di stabilimento, qual è indubbiamente la subordinazione delle licenze ad un sistema di pianificazione territoriale, costituisca misura giustificata da un’apprezzabile finalità di interesse pubblico, idonea allo scopo e ad essa proporzionata. La conclusione cui giunge la Corte è positiva, sia pure con qualche pre- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE (*) V. Rass., 2009, III, 74-124. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 47 cisazione. In effetti, lo scopo della misura è il medesimo che – nella causa C-531/06 – era stato individuato come ratio della normativa italiana in quella sede censurata dalla Commissione: assicurare – cioè – un elevato standard qualitativo del servizio, che ciascuno Stato membro è libero di stabilire al livello che reputa corretto. La Corte, poi, non dubita dell’idoneità e proporzionalità a detto scopo di un sistema fondato sulla pianificazione territoriale e, nello specifico, di una pianificazione che tenga conto non solo delle aree geografiche, ma anche di altri parametri, calibrandoli fra loro: la pianificazione territoriale è, infatti, nel caso in esame correlata a distanze minime e “moduli di popolazione”, così da garantire la diffusione adeguata del servizio di distribuzione dei farmaci, anche in zone economicamente poco attraenti che rischierebbero – in difetto di regolamentazione – di restare sguarnite. Non mancano, inoltre, sistemi di “aggiustamento” tali da garantire al meccanismo una ragionevole flessibilità rispetto a situazioni particolari. Il giudizio finale viene reso, quindi, nel senso che l’art. 49 TFUE non osta ad un sistema come quello descritto, purché esso non si risolva - paradossalmente, per zone con caratteristiche demografiche particolari - in un impedimento all’apertura di un numero di farmacie sufficiente ad assicurare un servizio adeguato, ciò che spetta peraltro al giudice nazionale valutare. Al tempo stesso, la Corte puntualizza che l’art. 49 TFUE osta - invece - ad una disciplina in cui i criteri di selezione per l’accesso alle licenze siano (com’è nel caso di specie) discriminatori, in quanto privilegiano gli aspiranti, direttamente o meno, sulla base della cittadinanza. Nella causa 393/08 (Sbarigia), si è posta la questione della compatibilità dei principi comunitari di tutela della libera concorrenza e della libera prestazione dei servizi con l’assoggettamento delle farmacie al divieto di rinuncia alle ferie annuali, di apertura oltre i limiti di massimi di orario attualmente consentiti, e con il necessario assoggettamento - per poter ottenere nel Comune di Roma la deroga ai divieti suddetti - alla previa discrezionale valutazione dell’Amministrazione della specificità dell’ambito comunale di ubicazione delle Farmacie richiedenti; si è sollevata, inoltre, la questione della compatibilità con gli artt 152 e 153 del Trattato dell’Unione Europea dell’assoggettamento del servizio pubblico farmaceutico, a condizioni di limitazione o divieto della possibilità di incremento orario. La difesa del Governo italiano nel suddetto giudizio è stata incentrata sull’argomento della strumentalità di tali divieti alla realizzazione dell’interesse pubblico ad una capillare diffusione del servizio farmaceutico sul territorio, anche nelle zone economicamente non appetibili, finalizzato ad assicurare un elevato standard qualitativo, secondo l’apprezzamento del singolo Stato membro. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Ci si attendeva pertanto - dopo che la sentenza Blanco Pérez ha valorizzato un interesse sostanzialmente analogo, quale giustificazione per la restrizione alla libertà di stabilimento realizzata da un sistema di licenze correlato alla pianificazione territoriale - che la Corte si orientasse in analoga direzione anche per il caso Sbarigia, il cui esito pareva - alla luce della sentenza del 1 giugno 2010 - ragionevolmente prevedibile. In questo caso, tuttavia, la Corte manca l’occasione, arrestandosi ad una pronuncia di irricevibilità del ricorso. Nel caso in esame, in effetti, la questione è limitata ad un solo Stato membro e non coinvolge cittadini di altri Stati. Nel corso del giudizio, si è fatto pertanto riferimento a quella giurisprudenza (richiamata anche nella causa Blanco Pérez, in quel caso per pervenire ad un giudizio positivo sulla ricevibilità ) che riconosce l’utilità di una pronuncia della Corte nei casi in cui il diritto nazionale imponga di riconoscere ad un cittadino gli stessi diritti di cui, in base al diritto dell’Unione, godrebbe un cittadino di altro Stato membro, nella medesima situazione. Tuttavia, nella causa Sbarigia il diritto azionato ha ad oggetto un’istanza che - senza mettere in discussione il sistema generale di regolamentazione degli orari e delle chiusure feriali delle farmacie - mira solo a conseguirne una deroga. Alla Corte è apparsa pertanto evidente l’impossibilità di ricondurre la fattispecie all’ambito applicativo degli artt. 49 e 43 CE (quest’ultimo, a dire il vero, nemmeno indicato dal giudice a quo), come pure in quello delle altre, numerose disposizioni richiamate (peraltro in maniera quanto mai generica) nell’ordinanza di rimessione, risultate del tutto estranee alla fattispecie. Avv. Marina Russo* Corte di Giustizia (Grande Sezione) sentenza de1 1° giugno 2010 nelle cause riunite C- 570/07 e C-571/07 - Pres. V. Skouris, Rel. J. Malenovský, Avv. gen. M. Poiares Maduro - Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Tribunal Superior de Justicia de Asturias - - Spagna - José Manuel Blanco Pérez, María del Pilar Chao Gómez/Consejería de Salud y Servicios Sanitarios (C-570/07), Principado de Asturias (C-571/07) - Intervento Governo italiano (avv. Stato G. Fiengo). «Art. 49 TFUE – Direttiva 2005/36/CE – Libertà di stabilimento – Sanità pubblica – Farmacie – Vicinanza – Approvvigionamento della popolazione in medicinali – Licenze – Ripartizione territoriale delle farmacie – Introduzione di limiti fondati sul criterio della densità demografica – Distanza minima tra le farmacie – Candidati che hanno svolto attività professionale su una parte del territorio nazionale – Priorità – Discriminazione» (*) Avvocato dello Stato. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 49 (Omissis) 1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 49 TFUE. 2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di due distinti procedimenti tra il sig. Blanco Pérez e la sig.ra Chao Gómez, da un lato, e – rispettivamente – la Consejería de Salud y Servicios Sanitarios (Ministero della Salute e dei Servizi sanitari) (causa C-570/07) e il Principado de Asturias (causa C-571/07), dall’altro, in merito ad un bando di concorso per l’assegnazione di licenze per l’apertura di nuove farmacie nella Comunità autonoma delle Asturie. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 A termini del ‘considerando’ 26 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali (GU L 255, pag. 22), che sostanzialmente riprende il secondo ‘considerando’ della direttiva del Consiglio 16 settembre 1985, 85/432/CEE, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti talune attività nel settore farmaceutico (GU L 253, pag. 34): «La presente direttiva non coordina tutte le condizioni per accedere alle attività nel campo della farmacia e all’esercizio di tale attività. In particolare, la ripartizione geografica delle farmacie e il monopolio della dispensa dei medicinali dovrebbero continuare ad essere di competenza degli Stati membri. La presente direttiva non modifica le norme legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che vietano alle società l’esercizio di talune attività di farmacista o sottopongono tale esercizio a talune condizioni». 4 L’art. 1 di detta direttiva enuncia quanto segue: «La presente direttiva fissa le regole con cui uno Stato membro (…), che sul proprio territorio subordina l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio al possesso di determinate qualifiche professionali, riconosce, per l’accesso alla professione e il suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in uno o più Stati membri (…) e che permettono al titolare di tali qualifiche di esercitarvi la stessa professione». 5 L’art. 45 della medesima direttiva, rubricato «Esercizio delle attività professionali di farmacista», dispone che: «1. Ai fini della presente direttiva le attività di farmacista sono quelle il cui accesso ed esercizio è subordinato, in uno o più Stati membri, a condizioni di qualificazione professionale e che sono aperte ai titolari di uno dei titoli di formazione di cui all’allegato V, punto 5.6.2. 2. Gli Stati membri fanno sì che i possessori di un titolo di formazione in farmacia, a livello universitario o a livello considerato equivalente, che soddisfi le condizioni dell’articolo 44, siano autorizzati ad accedere e a esercitare almeno le seguenti attività, con l’eventuale riserva di un’esperienza professionale complementare: a) preparazione della forma farmaceutica dei medicinali; b) fabbricazione e controllo dei medicinali; c) controllo dei medicinali in un laboratorio di controllo dei medicinali; d) immagazzinamento, conservazione e distribuzione dei medicinali nella fase di commercio all’ingrosso; e) preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali nelle farmacie aperte al pubblico; f) preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali negli ospedali; g) diffusione di informazioni e consigli nel settore dei medicinali. 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (…) 5. Se, alla data del 16 settembre 1985, in uno Stato membro esisteva un concorso per esami per scegliere, fra i titolari di cui al paragrafo 2, coloro che diverranno i titolari delle nuove farmacie di cui è stata decisa l’apertura nel quadro di un regime nazionale di ripartizione geografica, tale Stato membro può, in deroga al paragrafo 1, mantenere il concorso e sottoporre ad esso i cittadini degli Stati membri in possesso di uno dei titoli di formazione di farmacista di cui all’allegato V, punto 5.6.2 o che beneficiano del disposto dell’articolo 23 [relativo ai diritti acquisiti]». 6 I nn. 2 e 5 dell’art. 45 della direttiva 2005/36 riprendono, in sostanza, i nn. 1-3 dell’art. 1 della direttiva 85/432. La normativa nazionale 7 Dall’art. 103, n. 3, del testo unico delle leggi sanitarie 14/1986 (Ley General de Sanidad del 25 aprile 1986, n. 14; BOE n. 102 del 29 aprile 1986, pag. 15207) risulta che le farmacie sono soggette alla pianificazione sanitaria alle condizioni stabilite dalla normativa speciale sui medicinali e sulle farmacie. 8 L’art. 2 della legge del 25 aprile 1997, n. 16, sul riordino dei servizi farmaceutici (Ley de Regulación de los Servicios de las Oficinas de Farmacia; BOE n. 100 del 26 aprile 1997, pag. 13450), prevede quanto segue: «1. (…) [A]l fine di organizzare i servizi farmaceutici per la popolazione, le comunità autonome, cui compete assicurare tali servizi, pianificano l’autorizzazione all’apertura di farmacie secondo criteri specifici. (…) 2. La pianificazione delle farmacie tiene conto della densità demografica, delle caratteristiche geografiche e della dispersione della popolazione in modo da assicurare l’accessibilità e la qualità del servizio, nonché una fornitura sufficiente di medicinali, secondo le necessità sanitarie di ciascun territorio. La ripartizione territoriale degli stabilimenti tiene conto del numero di abitanti per farmacia e della distanza tra le farmacie, che le comunità autonome avranno stabilito conformemente ai criteri generali di cui sopra. Le regole di ripartizione territoriale devono garantire, in ogni caso, un servizio farmaceutico adeguato a tutta la popolazione. 3. La popolazione minima ai fini dell’apertura di una farmacia è, di regola, di 2 800 abitanti per stabilimento. In funzione della concentrazione della popolazione le comunità autonome possono fissare moduli di popolazione superiori, con il limite di 4 000 abitanti per farmacia. Solo quando tale soglia è superata, può essere aperta una nuova farmacia e comunque per moduli superiori a 2 000 abitanti. Fatte salve le disposizioni del paragrafo precedente, le comunità autonome possono fissare moduli di popolazione inferiori per le zone rurali, turistiche, di montagna o per le zone dove, a causa delle loro caratteristiche geografiche, demografiche o sanitarie, non è possibile assicurare il servizio farmaceutico applicando i criteri generali. 4. La distanza minima tra le farmacie, tenuto conto dei criteri geografici e di dispersione della popolazione, è, di regola, di 250 metri. In funzione della concentrazione della popolazione le comunità autonome possono autorizzare distanze inferiori; allo stesso modo, le comunità autonome possono limitare l’apertura di farmacie in prossimità di un presidio sanitario». 9 In applicazione delle suddette norme, la Comunità autonoma delle Asturie ha adottato, il 19 luglio 2001, il decreto 72/2001, sull’apertura e sull’esercizio di farmacie e dispensari nel Principato delle Asturie (Decreto 72/2001 regulador de las oficinas de farmacia y boti- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 51 quines en el Principado de Asturias; BOPA n. 175 del 28 luglio 2001, pag. 10135). 10 A termini dell’art. 1, n. 1, primo comma, di tale decreto: «Il territorio della Comunità autonoma è suddiviso in zone farmaceutiche che coincidono, di massima, con le zone sanitarie di base quali stabilite nell’ambito della pianificazione sanitaria del Principato delle Asturie». 11 Secondo le indicazioni fornite dalla Consejería de Salud y Servicios Sanitarios e dal Principado de Asturias, la Comunità autonoma delle Asturie è suddivisa in 68 zone sanitarie di base che coincidono, di massima, con le zone farmaceutiche. 12 L’art. 2 di questo stesso decreto dispone quanto segue: «1. Per ogni zona farmaceutica il numero delle farmacie è stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 2 800 abitanti. Quando tale rapporto è superato, una nuova farmacia può essere aperta in ragione di moduli superiori a 2000 abitanti. 2. In tutte le zone base del sistema sanitario e in tutti i distretti può essere istituita almeno una farmacia». 13 L’art. 3 del decreto 72/2001 così recita: «Ai fini del presente decreto la popolazione è computata sulla base dei dati risultanti dall’ultimo censimento comunale». 14 L’art. 4 di detto decreto dispone: «1. La distanza tra le farmacie non può, di norma, essere inferiore a 250 metri, in qualunque zona farmaceutica esse siano ubicate. 2. La distanza di 250 metri andrà osservata anche rispetto ai presidi sanitari delle zone farmaceutiche, sia pubblici sia privati convenzionati per l’assistenza extraospedaliera o ospedaliera, dotati di ambulatori o di Pronto soccorso, già in funzione o in costruzione. Non valgono distanze minime tra i presidi sanitari nelle zone farmaceutiche con un’unica farmacia né nelle località dove esiste attualmente un’unica farmacia e nelle quali, considerate le caratteristiche del luogo, non è da prevedere l’apertura di nuovi stabilimenti. (…)». 15 La procedura per il rilascio delle licenze di apertura è disciplinata dagli artt. 6-17 del decreto 72/2001. 16 Ai sensi di tali disposizioni, la Comunità autonoma delle Asturie è tenuta ad avviare d’ufficio, almeno una volta all’anno, una procedura di assegnazione di licenze per l’apertura di nuove farmacie, per tener conto dell’evoluzione della densità demografica. 17 Il bando di concorso indica la zona farmaceutica ed eventualmente il comune e la località di stabilimento. Una volta pubblicato il bando, i farmacisti interessati presentano le loro domande e i documenti comprovanti i rispettivi titoli. Successivamente, una commissione composta da personale amministrativo, professionisti e associazioni di categoria si riunisce per valutare i candidati. 18 Ottenuta la licenza, il farmacista aggiudicatario è tenuto ad indicare i locali in cui eserciterà la propria attività. Le autorità competenti verificano se i criteri di pianificazione territoriale imposti dalla normativa siano rispettati. 19 Il decreto 72/2001 reca, poi, in allegato, una tabella dei criteri di selezione, nella procedura summenzionata, di quanti si candidano alla titolarità di una nuova farmacia. 20 Detta tabella tiene conto, in particolare, della formazione dei candidati nonché della loro esperienza professionale e didattica. 21 Il decreto 72/2001 enuncia, inoltre, ai punti 4-7 dell’allegato, quanto segue: «4. Non vengono presi in considerazione l’esperienza di farmacista titolare o contitolare di 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 farmacia né altri titoli di merito allorché sono già valsi ad ottenere un’autorizzazione all’installazione. (…) 6. Il punteggio per meriti professionali attribuito per l’attività svolta nel territorio del Principato delle Asturie è maggiorato del 20%. 7. Nel caso in cui, in applicazione della presente tabella, si ottenga parità di punteggio, le autorizzazioni sono rilasciate secondo il seguente ordine di priorità: a) i farmacisti che non sono mai stati titolari di farmacia; b) i farmacisti che sono stati titolari di farmacie in zone farmaceutiche o in distretti con meno di 2 800 abitanti; c) i farmacisti che abbiano svolto attività professionale nel Principato delle Asturie; (…)». Procedimenti principali e questioni pregiudiziali 22 Nel 2002 la Comunità autonoma delle Asturie decideva di avviare, conformemente agli artt. 6-17 del decreto 72/2001, una procedura di assegnazione di licenze per l’apertura di nuove farmacie. 23 Con decisione 14 giugno 2002 la Consejería de Salud y Servicios Sanitarios bandiva una gara per il rilascio di licenze per l’apertura di farmacie nella Comunità autonoma delle Asturie (BOPA n. 145 del 24 giugno 2002, pag. 8145; in prosieguo: la «decisione del 14 giugno 2002»). 24 Il bando di gara prevedeva l’apertura di 24 nuove farmacie in funzione, segnatamente, della densità demografica, della dispersione della popolazione, della distanza tra le farmacie e dei moduli minimi di popolazione. 25 I ricorrenti nei procedimenti principali, farmacisti laureati, intendevano aprire una nuova farmacia nella Comunità autonoma delle Asturie senza, tuttavia, vedersi applicare il sistema di pianificazione territoriale istituito dal decreto 72/2001. 26 Per questo motivo, nell’ambito del primo procedimento principale, essi hanno impugnato la decisione del 14 giugno 2002 e quella del Consejo de Gobierno del Principado de Asturias, datata 10 ottobre 2002, che la confermava. 27 Nel secondo procedimento principale i medesimi ricorrenti hanno adito il Tribunal Superior de Justicia de Asturias impugnando la decisione implicita di rigetto del reclamo proposto contro il decreto 72/2001, segnatamente contro i suoi artt. 2, 4, 6 e 10 e contro la tabella dei criteri di selezione ad esso acclusa. 28 In queste due controversie i ricorrenti hanno contestato la legittimità delle decisioni summenzionate e del decreto 72/2001 perché avrebbero avuto l’effetto di ostacolare l’accesso dei farmacisti alle nuove farmacie nella Comunità autonoma delle Asturie. Detto decreto avrebbe previsto, inoltre, criteri inaccettabili di selezione dei titolari delle nuove farmacie. 29 In tale contesto il giudice del rinvio si domanda se il sistema istituito dal decreto 72/2001 costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento incompatibile con l’art. 49 TFUE. 30 Per questo il Tribunal Superior de Justicia de Asturias ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale nella causa C-570/07: «Se l’art. [49 TFUE] osti a quanto stabilito agli artt. 2-4 del [decreto 72/2001] nonché ai punti 4, 6 e 7 dell’allegato a tale decreto». 31 Nella causa C-571/07 il Tribunal Superior de Justicia de Asturias ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se l’art. [49 TFUE] osti alle disposizioni normative della Comunità autonoma (…) delle LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 53 Asturie in materia di autorizzazione all’apertura di farmacie». 32 Con ordinanza del presidente della Corte del 28 febbraio 2008, i procedimenti C-570/07 e C-571/07 sono stati riuniti ai fini della fase scritta e orale del procedimento nonché della sentenza. Sulla ricevibilità 33 Il Consejo General de Colegios Oficiales de Farmacéuticos de España nonché i governi ellenico, francese, italiano e spagnolo contestano la ricevibilità delle domande di pronuncia pregiudiziale. 34 Il giudice del rinvio anzitutto non preciserebbe la situazione di fatto dei ricorrenti nei procedimenti principali. Non indicherebbe, poi, con chiarezza le disposizioni nazionali pertinenti né esporrebbe in maniera adeguata i motivi che lo hanno indotto a interrogarsi sulla compatibilità di tali disposizioni con l’art. 49 TFUE. Infine, le questioni sollevate sarebbero ipotetiche, giacché le controversie di cui trattasi vedrebbero coinvolti solo cittadini spagnoli. In assenza di elementi transfrontalieri, le questioni non presenterebbero, così, alcun nesso con il diritto dell’Unione. 35 Ebbene, si deve rammentare che spetta soltanto al giudice nazionale cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte è, in via di principio, tenuta a pronunciarsi (v., in tal senso, sentenze 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099, punto 38, e 10 marzo 2009, causa C-169/07, Hartlauer, Racc. pag. I-1721, punto 24). 36 Ne consegue che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile, così, soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in tal senso, sentenze 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 25, e 7 giugno 2007, cause riunite da C-222/05 a C-225/05, van der Weerd e a., Racc. pag. I-4233, punto 22). 37 Tenuto conto di questa giurisprudenza, si deve osservare, in primo luogo, che nelle ordinanze di rinvio il giudice nazionale ha motivato la sua decisione di formulare questioni pregiudiziali rilevando che la legittimità della normativa in questione nei due procedimenti principali dipende dall’interpretazione che la Corte offrirà per l’art. 49 TFUE. 38 In secondo luogo, non appare in modo manifesto che l’interpretazione richiesta non abbia alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto dei procedimenti principali o che la questione sia di tipo ipotetico. 39 Certamente, è pacifico che i ricorrenti principali sono cittadini spagnoli e che tutti gli elementi dei procedimenti a quibus sono limitati al territorio di un unico Stato membro. Tuttavia, come risulta dalla giurisprudenza, anche in tale circostanza la risposta della Corte può risultare utile al giudice del rinvio, in particolare nell’ipotesi in cui il diritto nazionale gli imponga di far beneficiare un cittadino spagnolo degli stessi diritti di cui godrebbe, in base al diritto dell’Unione, un cittadino di uno Stato membro diverso dal Regno di Spagna nella medesima situazione (v., in particolare, sentenze 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausi- 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 liari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 29, e Cipolla e a., cit., punto 30). 40 Inoltre, se una normativa nazionale come quella oggetto dei procedimenti principali, che si applica indistintamente ai cittadini spagnoli e ai cittadini degli altri Stati membri, deve, di regola, risultare conforme alle disposizioni relative alle libertà fondamentali garantite dal Trattato solo in quanto si applica a situazioni che hanno un collegamento con gli scambi fra gli Stati membri, non si può tuttavia escludere che cittadini di Stati membri diversi dal Regno di Spagna siano stati o siano interessati ad aprire una farmacia nella Comunità autonoma delle Asturie (v., in tal senso, sentenza 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 23 e 24 nonché la giurisprudenza ivi citata). 41 In terzo luogo, occorre constatare che le decisioni di rinvio descrivono a sufficienza il contesto normativo e di fatto dei procedimenti principali e che le indicazioni fornite dal giudice nazionale permettono di determinare la portata delle questioni sottoposte. Tali decisioni hanno, dunque, offerto agli interessati una possibilità effettiva di presentare osservazioni conformemente all’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, come testimonia del resto il contenuto delle osservazioni formulate nei presenti procedimenti. 42 Ciò osservato, le domande di pronuncia pregiudiziale devono essere considerate ricevibili. Nel merito Osservazioni preliminari 43 In primo luogo, occorre ricordare che, conformemente all’art. 168, n. 7, TFUE, come precisato tanto dalla giurisprudenza della Corte quanto dal ventiseiesimo ‘considerando’ della direttiva 2005/36, il diritto dell’Unione non restringe la competenza degli Stati membri ad impostare i loro sistemi di previdenza sociale e ad adottare, in particolare, norme destinate all’organizzazione di servizi sanitari come le farmacie. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri sono tenuti a rispettare il diritto dell’Unione, in particolare le disposizioni del Trattato relative alle libertà fondamentali, le quali comportano il divieto per gli Stati membri di introdurre o di mantenere ingiustificate restrizioni all’esercizio di tali libertà nell’ambito delle cure sanitarie (v., in tal senso, sentenze Hartlauer, cit., punto 29; 19 maggio 2009, causa C-531/06, Commissione/Italia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 35, nonché cause riunite C-171/07 e C-172/07, Apothekerkammer des Saarlandes e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 18). 44 Nel valutare il rispetto di tale obbligo è necessario tener conto del fatto che la salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli Stati membri stabilire il livello al quale intendono garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui tale livello deve essere raggiunto. Poiché detto livello può variare da uno Stato membro all’altro, si deve riconoscere agli Stati membri un margine discrezionale (v., in tal senso, sentenze 11 settembre 2008, causa C-141/07, Commissione/Germania, Racc. pag. I-6935, punto 51, e Apothekerkammer des Saarlandes e a., cit., punto 19). 45 In secondo luogo, occorre rilevare che né la direttiva 2005/36 né alcun altro atto che dia attuazione alle libertà fondamentali enunciano regole di accesso alle attività del settore farmaceutico che intendano porre condizioni per l’apertura di nuove farmacie nel territorio degli Stati membri. 46 È vero che, l’art. 45, n. 5, della direttiva 2005/36 stabilisce che, se, in uno Stato membro, alla data del 16 settembre 1985, era bandito un concorso per esami per selezionare i farmacisti che sarebbero diventati titolari delle nuove farmacie la cui creazione era stata decisa nel contesto di un sistema nazionale di ripartizione geografica, tale Stato membro può mantenere LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 55 questo concorso e sottoporvi anche i cittadini degli altri Stati membri. 47 Ebbene, è pacifico che a quella data in Spagna esisteva un tale concorso e che è proprio di esso che si tratta nei procedimenti principali. Di conseguenza, detto Stato membro può mantenere tale procedura di concorso e sottoporvi tutti i farmacisti, sempre che le norme che la disciplinano siano conformi al diritto dell’Unione. 48 Ciò non vuol dire, però, che le norme che disciplinano la procedura di cui trattasi siano sottratte alle disposizioni del Trattato per quanto riguarda i requisiti relativi alla ripartizione territoriale delle farmacie, giacché questo elemento rimane estraneo all’ambito di applicazione della direttiva 2005/36. 49 La direttiva in questione, infatti, ha come oggetto, conformemente al suo art. 1, di fissare le regole in materia di riconoscimento delle qualifiche professionali per permettere ai titolari delle stesse di esercitare una professione regolamentata, come lavoratori autonomi o subordinati. Per contro, essa non contiene regole che disciplinino lo stabilimento delle farmacie o le condizioni di gestione delle stesse né, più specificamente, la loro ripartizione territoriale 50 Tale constatazione è peraltro corroborata dal ventiseiesimo ‘considerando’ della direttiva 2005/36, a termini del quale quest’ultima non coordina tutte le condizioni per accedere alle attività nel campo della farmacia e lascia, in particolare, la ripartizione territoriale delle farmacie alla competenza degli Stati membri. 51 Ciò considerato, le disposizioni del diritto nazionale qui in causa, relative alla ripartizione territoriale, devono essere esaminate alla luce delle disposizioni del Trattato, in particolare alla luce del suo art. 49. Sulla prima parte delle questioni pregiudiziali, attinente alle condizioni base relative alla densità demografica e alla distanza minima fra le farmacie 52 Con la prima parte delle questioni il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 49 TFUE osti a una normativa nazionale, come quella in causa, che pone limiti al rilascio delle licenze per l’apertura di nuove farmacie prevedendo che: – in ciascuna zona farmaceutica possa essere aperta, in linea di principio, una sola farmacia ogni 2 800 abitanti; – un’ulteriore farmacia possa essere aperta solo quando tale soglia è superata e comunque per moduli superiori a 2 000 abitanti, e – ogni farmacia debba rispettare una distanza minima dalle farmacie già esistenti che, per regola generale, è di 250 metri. Sull’esistenza di una restrizione alla libertà di stabilimento 53 Secondo una giurisprudenza costante, ogni provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato costituisce una restrizione ai sensi dell’art. 49 TFUE, pure se applicabile senza discriminazioni in base alla cittadinanza (v., in tal senso, sentenze 14 ottobre 2004, causa C-299/02, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-9761, punto 15, e 21 aprile 2005, causa C-140/03, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-3177, punto 27). 54 Costituisce una tale restrizione, in particolare, una normativa nazionale che subordini lo stabilimento di un’impresa di un altro Stato membro al rilascio di un’autorizzazione preventiva, poiché essa può ostacolare l’esercizio, da parte di questa impresa, della libertà di stabilimento, impedendole di esercitare liberamente le proprie attività tramite una stabile organizzazione. Infatti, da un lato, detta impresa rischia di sopportare gli oneri amministrativi ed economici aggiuntivi che qualunque rilascio di un’autorizzazione simile comporta. Dall’altro, il sistema di autorizzazione preventiva esclude dall’esercizio di un’attività autonoma 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 gli operatori economici che non rispondano a requisiti predeterminati al cui rispetto è subordinato il rilascio di detta autorizzazione (v., in tal senso, sentenza Hartlauer, cit., punti 34 e 35). 55 Una normativa nazionale costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento altresì quando subordini l’esercizio di un’attività ad una condizione connessa ai bisogni economici o sociali che tale attività deve soddisfare, in quanto mira a limitare il numero dei prestatori di servizi (v., in tal senso, sentenza Hartlauer, cit., punto 36). 56 Nei procedimenti principali si deve osservare, in primo luogo, che la normativa nazionale subordina l’apertura di una nuova farmacia al rilascio di una previa autorizzazione amministrativa, la quale può peraltro essere accordata solo ai vincitori di concorso. 57 In secondo luogo, tale normativa permette, in ciascuna zona farmaceutica, l’apertura di un’unica farmacia per moduli di popolazione di 2 800 abitanti; un’ulteriore farmacia può essere aperta solo quando tale soglia è superata e comunque per moduli di almeno 2 000 abitanti. 58 In terzo luogo, la detta normativa osta a che i farmacisti possano esercitare un’attività economica indipendente nei locali di loro libera scelta, poiché impone loro di rispettare, come regola generale, una distanza minima di 250 metri dalle farmacie già esistenti. 59 Regole come queste hanno pertanto l’effetto di ostacolare e di scoraggiare l’esercizio in forma stabile, da parte dei farmacisti degli altri Stati membri, delle loro attività nel territorio spagnolo. 60 Di conseguenza, una normativa nazionale come quella oggetto dei procedimenti principali costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 49 TFUE. Sulla giustificazione della restrizione alla libertà di stabilimento 61 Secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza, possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso (v. citate sentenze Hartlauer, punto 44, e Apothekerkammer des Saarlandes e a., punto 25). 62 Nei procedimenti principali si deve constatare, in primo luogo, che la normativa nazionale controversa è applicabile senza discriminazioni basate sulla cittadinanza. 63 In secondo luogo, risulta dall’art. 52, n. 1, TFUE che la tutela della sanità pubblica può giustificare restrizioni alle libertà fondamentali garantite dal Trattato come la libertà di stabilimento (v., in particolare, citate sentenze Hartlauer, punto 46, e Apothekerkammer des Saarlandes e a., punto 27). 64 Più precisamente, restrizioni alla libertà di stabilimento possono essere giustificate dall’obiettivo di garantire alla popolazione una fornitura di medicinali sicura e di qualità (v. citate sentenze Commissione/Italia, punto 52, e Apothekerkammer des Saarlandes e a., punto 28). 65 L’importanza di tale obiettivo è confermata dagli artt. 168, n. 1, TFUE e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a termini dei quali, in particolare, nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione europea è garantito un livello elevato di protezione della salute umana. 66 Ne consegue che l’obiettivo di assicurare alla popolazione una fornitura di medicinali sicura e di qualità può giustificare una normativa nazionale come quella oggetto dei procedimenti principali. 67 In terzo luogo, occorre esaminare se tale normativa sia idonea a garantire questo obiettivo. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 57 68 Al riguardo si deve rilevare, per prima cosa, che, tenuto conto del potere discrezionale ricordato al punto 44 della presente sentenza, il fatto che uno Stato membro imponga norme più rigide in materia di tutela della sanità pubblica di quelle stabilite da un altro Stato membro non significa necessariamente che tali norme siano incompatibili con le disposizioni del Trattato relative alle libertà fondamentali (v., in tal senso, sentenza 10 febbraio 2009, causa C-110/05, Commissione/Italia, Racc. pag. I-519, punto 65 e la giurisprudenza ivi citata). 69 Di conseguenza, per la soluzione della presente controversia non è determinante la circostanza che gli Stati membri prevedano normative differenti in tale settore e, più specificamente, che taluni di essi lascino aperto il numero di farmacie che possono essere create nel territorio nazionale, mentre altri contingentino tale numero assoggettandole a norme di pianificazione geografica. 70 Si deve ricordare, per seconda cosa, che, secondo la giurisprudenza della Corte, stabilimenti ed infrastrutture sanitarie possono essere oggetto di una pianificazione. Tale pianificazione può comprendere una previa autorizzazione per l’installazione di nuovi prestatori di cure se questa si riveli indispensabile per colmare eventuali lacune nell’accesso alle prestazioni sanitarie e per evitare una duplicazione nell’apertura delle strutture, in modo che sia garantita un’assistenza medica adeguata alle necessità della popolazione, che copra tutto il territorio e tenga conto delle regioni geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate (v., per analogia, sentenze 12 luglio 2001, causa C-157/99, Smits e Peerbooms, Racc. pag. I-5473, punti 76- 80; 16 maggio 2006, causa C-372/04, Watts, Racc. pag. I-4325, punti 108-110, nonché Hartlauer, cit., punti 51 e 52). 71 Orbene, tale conclusione può essere pienamente trasposta ai prestatori di servizi sanitari di farmacia. 72 Per terza cosa, occorre rilevare che esistono agglomerati che possono apparire a numerosi farmacisti particolarmente redditizi, e per questo più attraenti, come quelli situati nelle zone urbane, ed altre parti del territorio nazionale che invece potrebbero essere considerate meno attraenti, come le zone rurali, geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate. 73 Ciò considerato, non si può escludere che, se non ci fosse alcuna regolamentazione, le farmacie sarebbero concentrate in località reputate attraenti, mentre in alcune località meno attraenti si ritroverebbe un numero di farmacie insufficiente ad assicurare un servizio farmaceutico sicuro e di qualità. 74 Per quarta cosa, si deve ricordare che, qualora sussistano incertezze sull’esistenza o sulla portata di rischi per la salute delle persone, lo Stato membro può adottare misure di protezione senza dover attendere che la realtà di tali rischi sia pienamente dimostrata (v. sentenza Apothekerkammer des Saarlandes e a., cit., punto 30). 75 In un contesto siffatto uno Stato membro può ritenere che sussista un rischio di penuria di farmacie in talune parti del suo territorio e, conseguentemente, un rischio di inadeguato approvvigionamento di medicinali quanto a sicurezza e a qualità. 76 Tenuto conto di questo rischio, uno Stato membro può allora adottare una normativa che preveda l’apertura di non più di una farmacia per un certo numero di abitanti (v. punto 57 della presente sentenza). 77 Ed invero una tale condizione può sortire l’effetto di canalizzare l’insediamento di farmacie verso parti del territorio nazionale dove l’accesso al servizio farmaceutico è lacunoso, poiché, impedendo ai farmacisti di impiantarsi in zone già dotate di un numero sufficiente di farmacie, li invita a stabilirsi in zone nelle quali le farmacie scarseggiano. 78 Detta condizione è quindi idonea a ripartire in maniera equilibrata le farmacie nel ter- 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ritorio nazionale, ad assicurare così a tutta la popolazione un accesso adeguato al servizio farmaceutico e, conseguentemente, ad aumentare la sicurezza e la qualità dell’approvvigionamento della popolazione in medicinali. 79 Occorre inoltre rilevare che da sola la condizione relativa ai moduli di popolazione può non consentire di evitare una concentrazione di farmacie, all’interno di un’area geografica determinata secondo tale condizione, in alcune località attraenti di tale zona. Orbene, una tale concentrazione di farmacie potrebbe comportare una duplicazione delle strutture, mentre altre parti della medesima area potrebbero mancare di farmacie. 80 Ciò considerato, è lecito che uno Stato membro preveda condizioni supplementari che mirino ad impedire tale concentrazione, adottando, per esempio, una condizione come quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che impone distanze minime tra le farmacie. 81 Tale condizione permette, infatti, per sua stessa natura di evitare una simile concentrazione e risulta, così, idonea a ripartire le farmacie in maniera più equilibrata all’interno di una determinata area geografica. 82 La condizione relativa alla distanza minima accresce anche, di conseguenza, la certezza per i pazienti che disporranno di una farmacia nei paraggi e, per ciò stesso, che disporranno di un accesso facile e rapido ad un servizio farmaceutico adeguato. 83 Un tale accesso potrebbe essere ritenuto necessario ove si consideri, da un lato, che la somministrazione di medicinali può rivelarsi urgente e, dall’altro, che tra i clienti delle farmacie vi sono persone a mobilità ridotta, come gli anziani e i malati gravi. 84 Così, la condizione relativa alla distanza minima risulta complementare a quella collegata ai moduli di popolazione e può, pertanto, contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di ripartire in maniera equilibrata le farmacie nel territorio nazionale, di assicurare in tal modo a tutta la popolazione un accesso adeguato al servizio farmaceutico e, di conseguenza, di aumentare la sicurezza e la qualità dell’approvvigionamento della popolazione in medicinali. 85 Occorre rilevare, infine, che il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalle due condizioni summenzionate è rafforzato da taluni criteri che intervengono, a termini del decreto 72/2001, al momento della selezione dei titolari delle nuove farmacie. 86 Infatti, conformemente al punto 7, lett. b), dell’allegato a tale decreto, a parità di punteggio tra i candidati all’assegnazione delle nuove farmacie, le autorizzazioni sono accordate di preferenza, dopo i farmacisti di cui al punto 7, lett. a), a quelli che sono stati titolari di farmacie in zone o in distretti con meno di 2 800 abitanti. 87 Siccome le aree geografiche con meno di 2 800 abitanti sono generalmente considerate dai farmacisti come meno attraenti (v. punto 72 della presente sentenza), detto criterio di assegnazione della licenza tende ad incoraggiare i farmacisti ad installarsi in tali zone con la prospettiva di essere ricompensati in futuro al momento della concessione di nuove licenze per l’apertura di farmacie. 88 Tuttavia, i ricorrenti nei procedimenti principali e la Plataforma para la Libre Apertura de Farmacias fanno valere che il sistema in discussione non potrebbe essere considerato idoneo a raggiungere l’obiettivo addotto, perché comporterebbe che taluni farmacisti siano privati di qualunque accesso all’attività professionale indipendente, mentre quelli già presenti sul mercato beneficerebbero di profitti sproporzionati. 89 Tale argomento non può essere accolto. 90 Occorre rilevare infatti, innanzitutto, che la libertà di stabilimento degli operatori economici deve essere bilanciata con le esigenze di tutela della sanità pubblica e che la gravità degli obiettivi perseguiti in tale settore può giustificare restrizioni che abbiano conseguenze LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 59 negative, anche gravi, per taluni operatori (v., in tal senso, sentenza 17 luglio 1997, causa C-183/95, Affish, Racc. pag. I-4315, punti 42 e 43). 91 Risulta, poi, dal fascicolo che le autorità competenti organizzano almeno una volta all’anno una procedura di concorso per il rilascio delle autorizzazioni all’apertura di nuove farmacie in funzione dell’evoluzione demografica. Infatti, con la decisione del 14 giugno 2002, la Comunità autonoma delle Asturie ha bandito un concorso per l’assegnazione di autorizzazioni all’installazione di 24 nuove farmacie nel proprio territorio a partire dall’anno 2002. 92 Infine, secondo il punto 4 dell’allegato al decreto 72/2001, non vengono in considerazione né l’esperienza professionale di farmacista titolare o contitolare di una farmacia né altro titolo di merito quando siano già serviti per ottenere una licenza. Nello stesso senso, il punto 7, lett. a), del medesimo allegato enuncia che, a parità di punteggio secondo i criteri della tabella, le autorizzazioni sono accordate prioritariamente ai farmacisti che non siano già stati titolari di una farmacia. 93 Una normativa nazionale basata su criteri del genere privilegia, nei suoi effetti, i farmacisti che ancora non hanno ottenuto un’autorizzazione all’installazione e mira, pertanto, a garantire a più farmacisti l’accesso all’attività professionale indipendente. 94 Se emerge da quanto precede che una normativa nazionale come quella oggetto dei procedimenti principali è in linea di principio atta a realizzare l’obiettivo di garantire alla popolazione un approvvigionamento di medicinali sicuro e di qualità, occorre pure che il modo in cui essa persegue il detto obiettivo non sia incoerente. Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, le singole disposizioni, come anche la normativa nazionale nel suo insieme, sono atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo fatto valere solo qualora rispondano effettivamente all’intento di realizzarlo in modo coerente e sistematico (v., in tal senso, citate sentenze Hartlauer, punto 55, e Apothekerkammer des Saarlandes e a., punto 42). 95 Pertanto si deve esaminare se il decreto 72/2001 persegua in maniera coerente e sistematica l’obiettivo di garantire alla popolazione un approvvigionamento di medicinali sicuro e di qualità allorché fissa il numero minimo di abitanti per farmacia, in principio, in 2 800 ovvero 2 000 e la distanza minima tra le farmacie, come regola generale, in 250 metri. Al riguardo occorre tener conto altresì della legge 16/1997, visto che il decreto 72/2001 le dà esecuzione. 96 Sul punto occorre constatare che si presume che le due condizioni previste da detto decreto, applicabili all’intero territorio in questione, garantiscano alla popolazione un approvvigionamento in medicinali sicuro e di qualità sulla base di indicazioni forfetarie che tengono necessariamente conto degli elementi demografici ordinari, considerati come medi. Ne consegue che l’applicazione uniforme delle condizioni così concepite rischia di non assicurare un accesso adeguato al servizio farmaceutico in zone che presentano talune particolarità demografiche. 97 Può essere il caso, innanzitutto, di talune zone rurali dove la popolazione è generalmente sparpagliata e poco numerosa. Tale particolarità può avere l’effetto che, se la condizione del numero minimo di 2 800 abitanti fosse applicata sempre e comunque, parte della popolazione interessata si troverebbe fuori della ragionevole portata locale di una farmacia e mancherebbe, così, di un accesso adeguato al servizio farmaceutico. 98 Al riguardo si deve rilevare che la normativa nazionale prevede taluni meccanismi di adeguamento che permettono di attenuare le conseguenze dell’applicazione della regola di base dei 2 800 abitanti. Ai sensi, infatti, dell’art. 2, n. 3, secondo comma, della legge 16/1997, le comunità autonome possono stabilire moduli di popolazione inferiori a 2 800 abitanti per 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 farmacia per le zone rurali, turistiche, di montagna o per le zone in cui, a causa delle loro caratteristiche geografiche, demografiche o sanitarie, l’applicazione dei criteri generali non consente di assicurare il servizio farmaceutico, e rendere così una farmacia situata in una tale zona particolare più accessibile al segmento della popolazione che vive nei dintorni. 99 D’altro lato, una stretta applicazione dell’altra condizione posta dal decreto 72/2001, relativa alla distanza minima tra le farmacie, può non essere sufficiente ad assicurare un accesso adeguato al servizio farmaceutico in talune zone geografiche densamente popolate. In tali zone, infatti, la densità di popolazione attorno ad una farmacia può superare nettamente il numero di abitanti fissato in via forfetaria. In queste specifiche circostanze l’applicazione della condizione della distanza minima di 250 metri tra le farmacie rischierebbe di condurre ad una situazione in cui il perimetro previsto per una sola farmacia includerebbe più di 2 800 abitanti o addirittura più di 4 000 nell’ipotesi di cui all’art. 2, n. 3, della legge 16/1997. Non si può escludere, pertanto, che gli abitanti delle zone con queste caratteristiche possano trovare difficoltà, in conseguenza della rigida applicazione della regola sulla distanza minima, ad accedere ad una farmacia in condizioni che permettano di assicurare un servizio farmaceutico adeguato. 100 Ciò detto, anche in tale ipotesi queste conseguenze possono essere attenuate dalla misura di flessibilità prevista all’art. 2, n. 4, della legge 16/1997, in base al quale la distanza minima tra le farmacie è fissata come «regola generale» in 250 metri, ma le comunità autonome possono autorizzare, in funzione della concentrazione della popolazione, una distanza inferiore e aumentare, così, il numero di farmacie disponibili nelle zone ad altissima densità demografica. 101 Al riguardo si deve rilevare che, al fine di raggiungere in modo coerente e sistematico, in un caso come quello descritto al punto 99 della presente sentenza, l’obiettivo di assicurare un servizio farmaceutico adeguato, le autorità competenti potrebbero perfino essere indotte ad interpretare la regola generale nel senso che è possibile autorizzare l’apertura di una farmacia a distanza inferiore ai 250 metri non solo in casi del tutto eccezionali, ma ogni volta che la rigida applicazione della regola generale dei 250 metri rischi di non garantire un accesso adeguato al servizio farmaceutico in talune zone geografiche densamente popolate. 102 In tali circostanze spetta al giudice nazionale verificare se le autorità competenti facciano uso, nel senso descritto ai punti 98, 100 e 101 della presente sentenza, della facoltà concessa da disposizioni siffatte in ogni zona geografica con particolari caratteristiche demografiche nella quale l’applicazione rigida delle regole di base dei 2 800 abitanti e dei 250 metri rischierebbe di impedire l’apertura di un numero di farmacie sufficiente ad assicurare un servizio farmaceutico adeguato. 103 Alla luce di quanto precede si deve constatare che, salvo quanto considerato ai punti 94-100 della presente sentenza, la normativa controversa è idonea a realizzare lo scopo perseguito. 104 Resta da esaminare, in quarto luogo, se la restrizione alla libertà di stabilimento non ecceda quanto necessario per raggiungere lo scopo invocato, vale a dire se non esistano misure meno restrittive per realizzarlo. 105 Sul punto i ricorrenti nella causa principale, la Plataforma para la Libre Apertura de Farmacias e la Commissione europea fanno valere, in particolare, che sarebbe sufficiente prevedere un numero minimo di farmacie in zone geografiche determinate (in prosieguo: il sistema «de minimis»). In un tale sistema non potrebbe essere autorizzata l’apertura di nessuna nuova farmacia – come nel sistema attuale – nelle zone già dotate di un numero sufficiente di LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 61 farmacie fino a quando ciascuna delle zone geografiche individuate disponga del numero minimo di farmacie richiesto. Viceversa, l’apertura di nuove farmacie sarebbe libera a partire dal momento in cui ciascuna di queste zone raggiunga tale numero minimo di farmacie. 106 A tale riguardo occorre, tuttavia, osservare che, tenuto conto del potere discrezionale di cui beneficiano gli Stati membri in materia di tutela della sanità pubblica, menzionato al punto 44 della presente sentenza, uno Stato membro può ritenere che il sistema «de minimis» non permetta di raggiungere, con la stessa efficacia di quello attuale, l’obiettivo di assicurare un approvvigionamento in medicinali sicuro e di qualità nelle zone poco attraenti. 107 Anzitutto si deve ricordare che, nel sistema attuale, il fattore che spinge i farmacisti ad installarsi nelle zone sprovviste di farmacie risulta essere quello che non possono installarsi in zone già dotate di un numero sufficiente di farmacie, e ciò in virtù di un criterio demografico oggettivo, vale a dire fino al momento in cui la popolazione di queste zone superi la soglia fissata. Questo sistema non lascia così, in linea di principio, alcun’altra scelta ai farmacisti desiderosi di esercitare un’attività professionale indipendente che quella di installarsi in zone prive di farmacie, dove l’approvvigionamento della popolazione in medicinali è insufficiente e dove l’installazione di farmacie è dunque autorizzata. 108 Occorre, poi, constatare che uno Stato membro, come il Regno di Spagna, può legittimamente decidere un sistema di ripartizione territoriale su scala regionale, ovverosia conferire alle diverse regioni il compito di organizzare la ripartizione delle farmacie tra le aree geografiche dei rispettivi territori. 109 Orbene, per quanto riguarda l’installazione dei farmacisti la situazione può cambiare notevolmente da una regione all’altra. 110 Più precisamente, è possibile che, all’interno di talune regioni, esistano una o più zone geografiche in cui il numero minimo di farmacie prescritto non sia stato ancora raggiunto. Sarà, dunque, solo in queste zone deficitarie che potranno essere aperte nuove farmacie. 111 Al contrario, in altre regioni può succedere che tutte le zone geografiche siano già dotate del numero minimo richiesto di farmacie e che pertanto, nel sistema alternativo «de minimis» descritto al punto 105 della presente sentenza, l’intero loro territorio sia aperto alla libera installazione dei farmacisti, comprese le zone più attraenti. Ebbene, questa situazione potrebbe pregiudicare l’obiettivo nazionale, quale sancito dalla legge 16/1997, di canalizzare i farmacisti verso zone prive di farmacie in qualsiasi regione. Infatti, non si può escludere che i farmacisti interessati preferiscano aggiungersi ai farmacisti già stabiliti nelle regioni sature, e dunque aperte alla libera installazione, anziché prevedere di insediarsi nelle zone prive di farmacie delle regioni non sature. 112 Ciò considerato, non si può ritenere che la normativa in causa ecceda quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito. 113 Tenuto conto di quanto precede, occorre rispondere alla prima parte delle questioni sottoposte dichiarando che l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale, come quella oggetto dei procedimenti principali, che pone limiti al rilascio delle licenze per l’apertura di nuove farmacie prevedendo che: – in ciascuna zona farmaceutica possa essere aperta, in linea di principio, una sola farmacia ogni 2 800 abitanti; – un’ulteriore farmacia possa essere aperta solo quando tale soglia è superata e comunque per moduli superiori a 2 000 abitanti, e – ogni farmacia debba rispettare una distanza minima dalle farmacie già esistenti che, per regola generale, è di 250 metri. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 114 L’art. 49 TFUE osta, tuttavia, a una normativa nazionale siffatta se le regole di base di 2800 abitanti o di 250 metri impediscono, nelle zone geografiche con caratteristiche demografiche particolari, l’apertura di un numero di farmacie sufficiente per assicurare un servizio farmaceutico adeguato, cosa che spetta al giudice nazionale verificare. Sulla seconda parte delle questioni pregiudiziali, attinente ai criteri di selezione dei titolari delle nuove farmacie enunciati ai punti 4, 6 e 7, lett. a)-c), dell’allegato al decreto 72/2001 115 Con la seconda parte delle questioni il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 49 TFUE osti ai criteri di selezione dei titolari di nuove farmacie enunciati ai punti 4, 6 e 7, lett. a)-c), dell’allegato al decreto 72/2001. 116 Per quanto concerne i criteri previsti ai punti 4 e 7, lett. a) e b), di tale allegato, dalle considerazioni esposte ai punti 86, 87, 92 e 93 della presente sentenza risulta che essi contribuiscono, in conformità con l’art. 49 TFUE, a realizzare l’obiettivo di interesse generale invocato. 117 Ciò considerato, resta da esaminare se l’art. 49 TFUE osti ai criteri previsti ai punti 6 e 7, lett. c), dell’allegato summenzionato, atteso che tale articolo impone, in particolare, che i criteri applicabili nell’ambito di un regime di autorizzazioni amministrative non siano discriminatori (v. sentenza Hartlauer, cit., punto 64). 118 A tale proposito occorre ricordare che il principio della parità di trattamento vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato (v. sentenze 26 giugno 2001, causa C-212/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I-4923, punto 24, e 19 marzo 2002, causa C-224/00, Commissione/Italia, Racc. pag. I-2965, punto 15). 119 Così, a meno che non sia obiettivamente giustificata e adeguatamente commisurata allo scopo perseguito, una disposizione di diritto nazionale dev’essere giudicata indirettamente discriminatoria quando, per sua stessa natura, tende ad incidere più sui cittadini di altri Stati membri che su quelli nazionali e, di conseguenza, rischia di essere sfavorevole in modo particolare ai primi (sentenza 18 luglio 2007, causa C-212/05, Hartmann, Racc. pag. I-6303, punto 30). 120 Nel caso di specie, il punto 6 dell’allegato al decreto 72/2001 stabilisce che il punteggio attribuito per meriti professionali è maggiorato del 20% se la professione è stata esercitata nel territorio della Comunità autonoma delle Asturie. 121 Risulta, poi, dal punto 7, lett. c), dello stesso allegato che, a parità di punteggio secondo i criteri fissati nella tabella, le autorizzazioni sono accordate di preferenza, dopo i farmacisti delle categorie descritte al detto punto 7, lett. a) e b), ai farmacisti che hanno esercitato la loro attività professionale nella Comunità autonoma delle Asturie. 122 Tali due criteri privilegiano, dunque, nel procedimento di selezione, i farmacisti che hanno esercitato la loro attività su una parte del territorio nazionale. Orbene, è ovviamente più facile che soddisfino un simile criterio i farmacisti nazionali, i quali esercitano la loro attività economica il più delle volte nel territorio nazionale, che i farmacisti cittadini di altri Stati membri, i quali esercitano tale attività più frequentemente in un altro Stato membro (v., per analogia, sentenza Hartmann, cit., punto 31). 123 La Consejería de Salud y Servicios Sanitarios e il Principado de Asturias sostengono nondimeno che la differenza di trattamento può essere giustificata dalla necessità di mantenere un livello di qualità del servizio farmaceutico, visto che tale livello sarebbe più basso se i farmacisti installati non fossero immediatamente capaci di fornire il servizio farmaceutico. Effettivamente, per essere subito operativi i farmacisti dovrebbero, in particolare, conoscere i LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 63 programmi sanitari decisi dall’amministrazione regionale nonché il funzionamento delle farmacie in tale regione. 124 Tale argomento non può essere accolto, in quanto l’art. 1, nn. 1 e 2, della direttiva 85/432 e l’art. 45, n. 2, lett. e) e g), della direttiva 2005/36 richiedono che i possessori di un titolo di formazione universitaria in farmacia siano autorizzati ad accedere alle attività di preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali nelle farmacie aperte al pubblico nonché alle attività di diffusione di informazioni e consigli nel settore dei medicinali. Alla luce di ciò, i requisiti menzionati al punto precedente non possono valere a giustificare una disparità di trattamento come quella oggetto dei procedimenti principali 125 Tenuto conto di quanto precede, occorre rispondere alla seconda parte delle questioni sottoposte dichiarando che l’art. 49 TFUE, in combinato disposto con l’art. 1, nn. 1 e 2, della direttiva 85/432 e con l’art. 45, n. 2, lett. e) e g), della direttiva 2005/36, deve essere interpretato nel senso che osta a criteri di selezione dei titolari di nuove farmacie come quelli enunciati ai punti 6 e 7, lett. c), dell’allegato al decreto 72/2001. Sulle spese 126 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) L’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale, come quella oggetto dei procedimenti principali, che pone limiti al rilascio delle licenze per l’apertura di nuove farmacie prevedendo che: – in ciascuna zona farmaceutica possa essere aperta, in linea di principio, una sola farmacia ogni 2 800 abitanti; – un’ulteriore farmacia possa essere aperta solo quando tale soglia è superata e comunque per moduli superiori a 2 000 abitanti, e – ogni farmacia debba rispettare una distanza minima dalle farmacie già esistenti che, per regola generale, è di 250 metri. L’art. 49 TFUE osta, tuttavia, a una normativa nazionale siffatta se le regole di base di 2 800 abitanti o di 250 metri impediscono, nelle zone geografiche con caratteristiche demografiche particolari, l’apertura di un numero di farmacie sufficiente per assicurare un servizio farmaceutico adeguato, cosa che spetta al giudice nazionale verificare. 2) L’art. 49 TFUE, in combinato disposto con l’art. 1, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio 16 settembre 1985, 85/432/CEE, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti talune attività nel settore farmaceutico, e con l’art. 45, n. 2, lett. e) e g), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, deve essere interpretato nel senso che osta a criteri di selezione dei titolari di nuove farmacie come quelli enunciati ai punti 6 e 7, lett. c), dell’allegato al decreto 19 luglio 2001, 72/2001, sull’apertura e sull’esercizio di farmacie e dispensari nel Principato delle Asturie (Decreto 72/2001 regulador de las oficinas de farmacia y botiquines en el Principado de Asturias). 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Corte di giustizia (Prima Sezione) sentenza del 1º luglio 2010 nella causa C-393/08 - Pres. A. Tizzano, Rel. E. Levits, Avv. gen. N. Jääskinen - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Emanuela Sbarigia / Azienda USL RM/A, Comune di Roma, Assiprofar - Associazione Sindacale Proprietari Farmacia, Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma - Intervento Governo italiano (avv. Stato M. Russo). «Legislazione nazionale che disciplina gli orari di apertura e i giorni di chiusura delle farmacie – Esenzione – Potere decisionale delle autorità competenti» (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 49 CE, 81 CE - 86 CE, 152 CE e 153 CE. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Sbarigia, titolare di una farmacia, e l’Azienda USL «Roma A» (in prosieguo: l’«ASL RM/A»), autorità competente per il Comune di Roma, in merito alla decisione dell’ASL RM/A che respinge le istanze della sig.ra Sbarigia ai fini dell’autorizzazione a rinunciare agli orari e ai periodi di chiusura, in particolare alla chiusura annuale per ferie nell’estate 2006. Contesto normativo 3 La legislazione applicabile nella causa principale è la legge regionale del Lazio 30 luglio 2002, n. 26, sulla disciplina dell’orario, dei turni e delle ferie delle farmacie aperte al pubblico (Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n. 23, Supplemento ordinario n. 5 del 20 agosto 2002, e GURI n. 24, Serie speciale n. 3 del 14 giugno 2003; in prosieguo: la «L.R. 26/02»). 4 Gli artt. 2-8 della L.R. 26/2002 fissano gli orari di apertura, il servizio volontario di guardia, il riposo settimanale e le ferie delle farmacie. Vengono imposti in particolare orari massimi di apertura, l’obbligo di chiusura nei giorni di domenica e, settimanalmente, per una mezza giornata nonché nei giorni festivi e una durata minima delle ferie. 5 L’art. 10 della L.R. 26/02 ha il seguente tenore: «1. Per il Comune di Roma ciascuna [azienda sanitaria locale; in prosieguo: l’«ASL»)] adotta i provvedimenti di propria competenza previsti dalla presente legge previa intesa con le altre ASL interessate. 2. Per specifici ambiti comunali l’orario settimanale di apertura al pubblico, le ferie delle farmacie urbane e la mezza giornata di riposo settimanale (...) possono essere modificati, con deliberazione della ASL territorialmente competente, d’intesa con il sindaco del comune interessato, dell’ordine provinciale dei farmacisti e delle organizzazioni sindacali provinciali delle farmacie pubbliche e private maggiormente rappresentative». Causa principale e questioni pregiudiziali 6 La sig.ra Sbarigia è titolare di una farmacia, situata in una zona del centro storico di Roma detta del «Tridente». Tale quartiere, interamente pedonale, si trova nel cuore turistico della città. 7 In ragione di tale ubicazione e del rilevante aumento del numero di clienti durante i mesi di luglio e agosto, la ricorrente della causa principale in data 31 maggio 2006 ha presentato, presso l’ASL RM/A, competente per territorio, un’istanza basata sull’art. 10, comma 2, della L.R. 26/02, finalizzata a ottenere l’autorizzazione a rinunciare al periodo estivo di chiusura per ferie per il 2006. Tale istanza è stata respinta con decisione del 22 giugno 2006, im- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 65 pugnata dalla sig.ra Sbarigia dinanzi al giudice del rinvio. 8 Nelle more dell’esito di tale ricorso, con una seconda istanza del 18 ottobre 2006, la sig.ra Sbarigia ha ampliato la sua richiesta nel senso dell’esenzione dalla chiusura per ferie annuali nonché dalla chiusura nei giorni festivi e dell’estensione dell’orario settimanale di apertura per tutto l’anno. A tal riguardo, la sig.ra Sbarigia ha invocato il fatto che un’autorizzazione simile era stata concessa, in data 8 settembre 2006, ad un’altra farmacia, situata nei pressi della stazione ferroviaria «Termini», con la stessa particolare utenza della sua farmacia. 9 Anche tale istanza è stata respinta dall’ASL RM/A, con decisione del 22 marzo 2007, n. 119945/P, rispetto alla quale la sig.ra Sbarigia ha dedotto motivi aggiunti di impugnativa, formulando altresì richiesta di sospensiva. 10 Con ordinanza 22 giugno 2007, il giudice del rinvio ha accolto l’istanza cautelare di sospensione dell’esecuzione della decisione del 22 marzo 2007, ai fini del suo riesame, da parte dell’ASL RM/A. 11 Di conseguenza, l’ASL RM/A ha adottato la decisione del 1° agosto 2007, n. 40249, con cui, su parere sfavorevole del Comune di Roma, dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma nonché delle associazioni professionali Assiprofar – Associazione Sindacale Proprietari Farmacia (in prosieguo: l’«Assiprofar») e Confservizi, ha respinto nuovamente l’istanza della ricorrente della causa principale, sulla base dell’art. 10, n. 2, della L.R. 26/02. 12 La sig.ra Sbarigia ha impugnato quest’ultima decisione deducendo motivi aggiunti di ricorso nell’ambito del procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio. 13 Secondo il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la connotazione del servizio farmaceutico come servizio pubblico a tutela della salute degli utenti non è sufficiente a giustificare le norme dirigistiche in tema di modalità di apertura delle farmacie. Una liberalizzazione degli orari e dell’apertura di tutti gli esercizi – peraltro raccomandata in una segnalazione del 1° febbraio 2007 dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato – consentirebbe un ampliamento in generale dell’offerta a favore dell’utenza (considerato che le piante organiche assicurano una capillarità delle farmacie). 14 Le disposizioni della L.R. 26/02 sembrerebbero, inoltre, eccessive ed ingiustificate. Infatti, l’interesse pubblico e le esigenze sottese al servizio farmaceutico sarebbero certamente meglio garantiti dalla liberalizzazione delle modalità di apertura delle farmacie, utili allo sviluppo della concorrenza. 15 Il giudice del rinvio dubita, pertanto, della compatibilità delle restrizioni in questione, da una parte, con i principi del diritto comunitario in materia di libera concorrenza delle imprese nonché, dall’altra, con l’azione dell’Unione europea diretta al miglioramento e alla tutela della salute. In particolare, a suo giudizio, in contrasto con tale obiettivo, il quadro legislativo relativo all’organizzazione del servizio farmaceutico attualmente in vigore nella Regione Lazio osta ad un contributo efficace alla tutela della salute pubblica. 16 Alla luce di quanto sopra, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le due questioni pregiudiziali seguenti: «1) Se sia compatibile con i principi comunitari di tutela della libera concorrenza e della libera prestazione dei servizi, di cui, tra l’altro, agli artt. 49 [CE] e 81 [CE - 86 CE], l’assoggettamento delle farmacie ai sopra specificati divieti di poter rinunciare alle ferie annuali e di poter rimanere liberamente aperte anche oltre i limiti di apertura massima attualmente consentiti dalle disposizioni sopra specificate di cui alla [L.R. 26/02], e il necessario assoggettamento 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 altresì, ai sensi dell’art. 10 comma 2 della stessa L.R., per poter ottenere nel Comune di Roma la deroga ai divieti suddetti, alla previa discrezionale valutazione dell’Amministrazione (effettuata d’intesa con gli enti e organismi specificati nel medesimo articolo) della specificità dell’ambito comunale di ubicazione delle farmacie richiedenti. 2) Se sia compatibile con gli artt. 152 [CE] e 153 [CE] l’assoggettamento del servizio pubblico farmaceutico, benché finalizzato alla tutela della salute degli utenti, a condizioni di limitazione o divieto, come quelle stabilite dalla L.R. n. 26/2002, della possibilità di incremento orario, giornaliero, settimanale ed annuale del periodo di apertura dei singoli esercizi farmaceutici». Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale 17 Nelle loro osservazioni scritte, i governi italiano ed ellenico mettono in dubbio la ricevibilità della presente domanda di pronuncia pregiudiziale. All’udienza, l’Assiprofar e, implicitamente, l’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma hanno espresso la stessa opinione. 18 In particolare, il governo italiano sostiene che il giudice del rinvio non fornisce alcuna precisazione in merito agli elementi in fatto e in diritto che l’hanno portato a interrogarsi sulla compatibilità della disposizione nazionale pertinente con le disposizioni del Trattato CE da esso menzionate. Il governo ellenico, l’Assiprofar e l’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma affermano, da parte loro, che, in mancanza di elementi transfrontalieri, le questioni pregiudiziali non presentano alcun legame con il diritto dell’Unione. 19 Va ricordato a tale proposito che spetta soltanto ai giudici nazionali cui è stata sottoposta la controversia e che devono assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopongono alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a pronunciarsi (v., in particolare, sentenza 10 marzo 2009, causa C-169/07, Hartlauer, Racc. pag. I-1721, punto 24 e giurisprudenza ivi citata). 20 Ne consegue che le questioni relative al diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da un giudice nazionale è quindi possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi in fatto e in diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in tal senso, sentenze 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 25, nonché 7 giugno 2007, cause riunite da C-222/05 a C-225/05, van der Weerd e a., Racc. pag. I-4233, punto 22). 21 Ebbene, con riferimento all’eccezione di irricevibilità sollevata dal governo italiano, occorre constatare che la decisione del giudice del rinvio descrive a sufficienza il contesto normativo e di fatto del procedimento principale, e che le indicazioni fornite dal giudice del rinvio permettono di determinare la portata delle questioni sollevate. Questa decisione ha, dunque, offerto agli interessati una possibilità effettiva di presentare osservazioni conformemente all’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia, come testimonia del resto il contenuto delle osservazioni sottoposte alla Corte. 22 Ne consegue che l’eccezione in esame non può essere accolta 23 Quanto poi agli argomenti invocati dall’Assiprofar, dall’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma e dal governo ellenico, a giudizio dei quali tutti gli elementi della causa LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 67 principale sono limitati ad un solo Stato membro, occorre ricordare che da una giurisprudenza costante della Corte emerge che la risposta di quest’ultima può risultare utile al giudice del rinvio anche in simili circostanze, in particolare nell’ipotesi in cui il diritto nazionale gli imponga di riconoscere ad un cittadino gli stessi diritti di cui godrebbe un cittadino di un altro Stato membro, in base al diritto dell’Unione, nella medesima situazione (v., in particolare, sentenze 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 29; Cipolla e a., cit., punto 30, nonché 1° giugno 2010, cause riunite C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 36). 24 Nel caso di specie, l’ipotesi evocata nella giurisprudenza citata al precedente punto della presente sentenza riguarda, nell’ambito della causa principale, i diritti di cui un cittadino di uno Stato membro potrebbe godere in base al diritto dell’Unione se si trovasse nella stessa situazione della sig.ra Sbarigia, quale gestore di una farmacia in un’area municipale specifica del Comune di Roma e destinatario di una decisione dell’amministrazione nazionale competente che applica l’art. 10, comma 2, della L.R. 26/02 in merito ad un’istanza che non mette assolutamente in discussione il sistema generale della regolamentazione degli orari di apertura e delle ferie delle farmacie disciplinato da tale legge nazionale, ma che è finalizzata unicamente ad ottenere l’autorizzazione a rinunciare a qualsiasi periodo di chiusura, a titolo di deroga rispetto al suddetto regime generale. 25 In tal senso, alla luce delle specifiche circostanze della causa principale, risulta evidente che l’interpretazione dell’art. 49 CE, richiesta dal giudice del rinvio nella sua decisione, non è pertinente ai fini della soluzione della causa principale. 26 Difatti, come l’avvocato generale ha osservato ai paragrafi 72 e 73 delle sue conclusioni, da una giurisprudenza costante emerge che un cittadino di uno Stato membro che, in maniera stabile e continua, esercita un’attività professionale in un altro Stato membro è soggetto al capo del Trattato CE relativo al diritto di stabilimento e non a quello relativo ai servizi (v., in particolare, sentenze 21 giugno 1974, causa C-2/74, Reyners, Racc. pag. 631, punto 21, e 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 28). 27 Del resto, relativamente proprio alla libertà di stabilimento – benché il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio non abbia espressamente chiesto alla Corte di interpretare l’art. 43 CE – è manifesto che nemmeno l’interpretazione di tale articolo è pertinente nel contesto della causa pendente dinanzi al giudice del rinvio. 28 Infatti, nel caso di specie, come già sottolineato al punto 23 della presente sentenza, la farmacia interessata è una struttura stabile nell’area pedonale del centro della città di Roma, il cui titolare, per ipotesi cittadino di un altro Stato membro, si troverebbe già ad esercitare un’attività lavorativa continua. Pertanto, con tutta evidenza l’esercizio del diritto di stabilimento sancito dall’art. 43 CE non è in questione nella causa principale. 29 Ciò premesso, va constatato che le altre disposizioni del diritto comunitario in materia di concorrenza di cui il giudice del rinvio chiede l’interpretazione, in particolare gli artt. 81 CE - 86 CE, risultano, del pari, manifestamente inapplicabili in un contesto quale quello del procedimento principale. 30 Infatti, in primo luogo, va constatato che gli artt. 83 CE - 85 CE sono del tutto inconferenti nel contesto della controversia di cui il giudice del rinvio è stato investito, poiché si tratta o di disposizioni con carattere meramente procedurale (artt. 83 CE e 85 CE) o di disposizioni transitorie (art. 84 CE). 31 In secondo luogo, quanto agli artt. 81 CE e 82 CE, se è pur vero che essi riguardano esclusivamente la condotta delle imprese e non disposizioni legislative o regolamentari ema- 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 nate dagli Stati membri, resta il fatto che tali articoli, letti in combinato disposto con l’art. 10 CE, che instaura un dovere di collaborazione, obbligano gli Stati membri a non adottare o a mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei ad eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese (v. sentenza Cipolla e a., cit., punto 46 e giurisprudenza ivi citata). 32 A tal proposito, risulta tuttavia manifesto che la normativa nazionale in esame nella causa principale, relativa all’eventuale concessione di una deroga per quanto concerne i periodi di apertura di una farmacia situata in una specifica zona municipale del Comune di Roma, non è idonea, di per sé o con la sua applicazione, a pregiudicare il commercio tra Stati membri ai sensi degli artt. 81 CE e 82 CE (v., ex contrario, sentenze 17 ottobre 1972, causa 8/72, Vereniging van Cementhandelaren/Commissione, Racc. pag. 977, punto 29; 10 dicembre 1991, causa C-179/90, Merci convenzionali porto di Genova, Racc. pag. I-5889, punti 14 e 15, nonché 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino, Racc. pag. I-1529, punto 33). 33 Conseguentemente, si deve considerare che, con riferimento ai citati artt. 81 CE e 82 CE, la prima questione sollevata dal giudice del rinvio è irricevibile. 34 In terzo luogo, il fatto che tali disposizioni del diritto dell’Unione in materia di concorrenza non siano applicabili nella causa principale comporta che non lo è nemmeno l’art. 86 CE. 35 Per quanto riguarda l’art. 28 CE, evocato da alcuni interessati che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte, si deve constatare, per completezza, che, per i motivi evocati al punto 32 della presente sentenza, vanno senz’altro esclusi anche un pregiudizio al commercio tra Stati membri e, pertanto, un eventuale ostacolo alla libera circolazione delle merci. 36 Ne consegue, pertanto, che l’interpretazione dell’art. 28 CE non è pertinente ai fini della soluzione della controversia di cui è stato investito il giudice del rinvio. 37 Quanto, infine, agli artt. 152 CE e 153 CE, richiamati dal giudice del rinvio nella sua seconda questione, basta rilevare che, come affermato dall’avvocato generale ai paragrafi 48-51 delle sue conclusioni, nonché sottolineato da quasi tutti gli interessati che hanno sottoposto osservazioni nel presente procedimento, tali articoli sono rivolti agli organi dell’Unione e agli Stati membri, ed è evidente che non possono essere invocati al fine di far esaminare la conformità di misure nazionali al diritto dell’Unione. 38 Dall’insieme delle considerazioni che precedono risulta che la domanda di pronuncia pregiudiziale in esame dev’essere ritenuta irricevibile. Sulle spese 39 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: La domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con decisione 21 maggio 2008 è irricevibile. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 69 I poteri urbanistici e la nozione di appalto pubblico di lavori (Corte di giustizia dell’Unione europea, Terza Sezione, sentenza del 25 marzo 2010 nella causa C-451/08) Con la decisione in commento, la Corte di Giustizia fornisce chiarimenti sulla corretta interpretazione della nozione di “appalto pubblico di lavori”, così come definita dalla direttiva 2004/18/CE; sulla sua distinzione rispetto alle attività di disciplina urbanistica esercitate dai pubblici poteri; nonché, infine, sulla applicabilità, o meno, di tali istituti ad una fattispecie specifica posta, in via pregiudiziale, da un giudice tedesco. In sintesi, la vicenda sottostante, sollevata dal giudice del rinvio, riguardava la vendita di un terreno da una pubblica amministrazione (comune tedesco) ad un soggetto privato (GSSI) che, successivamente, avrebbe dovuto eseguire alcuni lavori finalizzati a perseguire obiettivi di sviluppo urbanistico definiti dall’amministrazione stessa. Un’altra impresa (Muller) interessata all’acquisto, aveva ritenuto che la vendita non dovesse essere considerata valida proprio perché in violazione delle norme comunitarie sull’appalto. Infatti, non vi era stato alcun procedimento di aggiudicazione regolare del terreno, mentre la vendita di tale bene, per la sua natura pubblica, avrebbe dovuto essere sottoposta al diritto degli appalti pubblici. Inoltre, la vendita era nulla, visto che la ricorrente non era stata informata in tempo utile quale candidata all’acquisto. Il giudice tedesco, investito della controversia, solleva numerose questioni innanzi la Corte di Giustizia evidenziando i presupposti da cui esse muovono. In base alla sua visione, alla GSSI sarebbe stata affidata una concessione di lavori pubblici (con la quale, secondo tale giudice, non sarebbe in contrasto l’acquisizione del diritto di proprietà da parte della GSSI medesima) e quindi, si sarebbero dovute applicare le pertinenti disposizioni del diritto comunitario. Difatti, la preoccupazione maggiore è che alcuni soggetti possano acquisire una posizione di vantaggio senza essere stati prima collocati in una situazione di parità rispetto ad altri soggetti potenzialmente interessati ad acquisire tale posizione. Nel caso in esame, poi, la posizione di vantaggio sarebbe avvalorata dall’aumento di valore del terreno derivante dal permesso, dato dalla pubblica amministrazione stessa, a realizzare alcune attività edilizie. Sembra chiaro ciò che si chiede il giudice tedesco, ossia “se altera o meno la concorrenza, una scelta urbanistica che, privilegiando alcuni terreni e non altri, consente ad un determinato operatore economico un apporto di ricchezza che favorisce oggettivamente il suo programma di investimenti” (1). (1) Il corsivo è tratto dalle osservazioni presentate dall’Avvocatura Generale dello Stato nell’interesse del Governo italiano. 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Appare altresì evidente, tuttavia, come accettare tale posizione significa ammettere l’ipotesi, per quanto assurda, di sottoporre alle regole della direttiva ogni attività di disciplina urbanistica: per definizione, infatti, i provvedimenti che disciplinano le possibilità di realizzare opere edilizie modificano, in maniera anche sostanziale, il valore dei terreni ai quali fanno riferimento. Se tutti tali provvedimenti fossero configurati come delle concessioni ovviamente ciò comporterebbe delle conseguenze non irrilevanti. Ad ogni modo, la Corte adita ha esaminato minuziosamente ogni singola questione pregiudiziale posta dal giudice del rinvio. Con la prima e la seconda questione il giudice tedesco chiede se, affinché si configuri appalto pubblico ex direttiva 2004/18, sia necessario che l’oggetto dell’appalto sia un bene materialmente acquisito dalla p.a. e rappresenti per essa un’utilità economica diretta e se, in caso di risposta affermativa, tale acquisizione possa essere ravvisata nel semplice perseguimento di un fine pubblico (come ad esempio la regolamentazione in materia urbanistica). Al di là delle diverse posizioni delle parti intervenute in giudizio (Governo tedesco ed austriaco, Commissione, Governo dei Paesi Bassi, Avvocato Generale) senz’altro interessanti, ma per le quali si fa rinvio, è importante rammentare le conclusioni chiare della Corte. Secondo il giudice comunitario “il semplice esercizio delle competenze di regolamentazione in materia urbanistica… non ha ad oggetto l’ottenimento di una prestazione contrattuale né la soddisfazione dell’interesse economico diretto dell’amministrazione aggiudicatrice, come richiesto dall’art. 1 n. 2 lett. a) della direttiva 2004/18 ” (secondo cui, ricordiamo, gli appalti pubblici sono contratti a titolo oneroso). Inoltre, l’esercizio di competenze di regolamentazione in materia urbanistica non configura un perseguimento dell’interesse e conomico diretto dell’amministrazione (quindi non si concretizza la condizione di cui all’art. 1 n.2 lett. b) direttiva 2004/18) e quindi non si realizza l’ipotesi di sussumere la regolamentazione in materia urbanistica nelle fattispecie previste dall’art. 1 n. 2 lett. a) e b) della direttiva 2004/18 che identificano rispettivamente le peculiarità degli appalti pubblici e degli appalti pubblici di lavori. Con la terza e la quarta questione il giudice del rinvio chiede se sia essenziale, nell’appalto pubblico di lavori, il fatto che l’appaltatore si obblighi alla realizzazione delle opere e dei lavori e che tale obbligo sia esigibile in sede giurisdizionale. A tale interrogativo la Corte dà risposta affermativa specificando che l’esigibilità in sede giurisdizionale dipende dalle “modalità stabilite dal diritto nazionale”. La quinta e sesta questione pregiudiziale sono relative alla sola terza “variante” della nozione di appalto di lavori (esecuzione con qualsiasi mezzo di un’opera rispondente ad esigenze specificate dell’amministrazione aggiudicatrice). In particolare si chiede se le “esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice” consistano nel fatto che la p.a. ha il potere di garantire LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 71 che le opere da realizzare rispondano ad un interesse pubblico oppure nel potere riconosciuto alla p.a. di esaminare ed approvare i progetti edilizi. Tali questioni traggono origine dal fatto che nella causa principale la p.a. aggiudicatrice (il comune tedesco) si è limitata ad esprimere la propria disponibilità ad esaminare il progetto proposto dall’impresa (GSSI) e ad avviare un procedimento allo scopo di redigere un piano regolatore corrispondente. Alla luce della normativa in esame, la Corte ha però stabilito che le esigenze di cui sopra “non possono consistere nel semplice fatto che un’autorità pubblica esamini taluni progetti di costruzione che le sono sottoposti ovvero assuma una decisione nell’esercizio delle sue competenze in materia di regolamentazione urbanistica” dando così risposta negativa al quesito. Con la settima questione, viene sollevata dall’Oberlandesgericht Dusseldorf una problematica molto interessante. Si chiede, infatti, se si possa configurare una concessione di lavori pubblici ai sensi della direttiva 2004/18 qualora il “concessionario” sia titolare di un diritto di proprietà che già di per sé gli conferisce il diritto di utilizzare il bene oggetto della concessione. Quindi, più in generale si chiede l’ammissibilità, in base al diritto comunitario, di una concessione di durata illimitata e della compatibilità del diritto di proprietà con una concessione di lavori pubblici. Sul punto diverse sono state le posizioni assunte dalle parti intervenute in giudizio. La conclusione a cui giunge il giudice comunitario, dopo un’accurata disamina degli elementi peculiari della concessione e del diritto di proprietà, è di ritenere che “in circostanze quali quelle della causa principale, è escluso che ricorra una concessione di lavori pubblici” (quindi vi è incompatibilità tra l’esistenza di un diritto di proprietà ed una concessione) e che “l’attribuzione di concessioni senza limiti temporali sarebbe contraria all’ordinamento giuridico dell’Unione”. Infine, con le ultime due questioni (l’ottava e la nona) si chiede se la disciplina della direttiva 2004/18 debba trovare applicazione già a partire dal momento in cui la p.a., pur non avendo ancora formalmente deciso di procedere all’aggiudicazione di un appalto pubblico, cede un terreno con l’intenzione di aggiudicare poi un appalto relativo ad esso. Inoltre, si chiede se è possibile considerare come un tutt’uno, sotto il profilo giuridico, la cessione del terreno e la successiva aggiudicazione. Nel caso di specie, le circostanze della causa principale non confermano, secondo il Giudice comunitario, l’esistenza dei presupposti per una simile applicazione della detta direttiva. Infatti, come rilevato dal governo francese, intervenuto in giudizio, “le parti della causa principale non hanno assunto alcun obbligo giuridicamente vincolante” e le intenzioni assunte non rappresentano obblighi vincolanti, né possono in alcun modo soddisfare il requisito di contratto scritto richiesto dalla nozione stessa di appalto pubblico. Alla luce di ciò la Corte di Giustizia ha risolto la questione dichiarando che “in circostanze quali quelle della causa principale, 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 le disposizioni della direttiva 2004/18 non trovano applicazione in una situazione in cui un’autorità pubblica venda un terreno ad un’impresa, laddove un’altra autorità pubblica abbia intenzione di indire un appalto di lavori su detto terreno, pur non avendo ancora formalmente deciso di procedere all’aggiudicazione di tale appalto”. Il caso in esame ha fornito l’opportunità alla giurisprudenza europea di analizzare un’ipotesi giuridica che, se fosse stata accettata secondo la visione, assolutamente notabile, acuta e lungimirante, del giudice del rinvio, avrebbe, di certo, smosso non di poco gli equilibri, anche nazionali, in tema di appalti pubblici e in tema di concessioni da parte della p.a. Le soluzioni a cui giunge la Corte sono state precise e di certo hanno il merito, non solo di fornire una lettura più chiara e facilitata della normativa in esame (direttiva 2004/18), ma soprattutto di ridare il giusto equilibrio alle argomentazioni giuridiche senza permettere un’alterazione dello status quo normativo. Dott.ssa Adele Cecilia Tedeschi* Corte di giustizia (Terza Sezione) sentenza del 25 marzo 2010 nella causa C-451/08 - Pres. e Rel. J.N. Cunha Rodrigues, Avv. gen. P. Mengozzi - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Oberlandesgericht Düsseldorf (Germania) - Helmut Müller GmbH/Bundesanstalt für Immobilienaufgaben - Intervento Governo italiano (avv. Stato G. Fiengo). «Procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori – Appalti pubblici di lavori – Nozione – Vendita da parte di un ente pubblico di un terreno su cui l’acquirente intende eseguire successivamente taluni lavori – Lavori rispondenti ad obiettivi di sviluppo urbanistico definiti da un ente pubblico territoriale» (Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della nozione di «appalto pubblico di lavori» ai sensi della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone la Helmut Müller GmbH (in prosieguo: la «Helmut Müller») alla Bundesanstalt für Immobilienaufgaben (amministrazione federale per le questioni immobiliari, in prosieguo: la «Bundesanstalt»), vertente sulla vendita da parte di quest’ultima di un terreno sul quale l’acquirente doveva eseguire successivamente taluni lavori tesi a perseguire obiettivi di sviluppo urbanistico definiti da un ente pubblico territoriale, nella fattispecie il Comune di Wildeshausen. (*) Dottore in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 73 Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 Ai sensi del secondo ‘considerando’ della direttiva 2004/18: «L’aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico è subordinata al rispetto dei principi del trattato [CE] ed in particolare ai principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché ai principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore ad una certa soglia è opportuno elaborare disposizioni di coordinamento comunitario delle procedure nazionali di aggiudicazione di tali appalti fondate su tali principi, in modo da garantirne gli effetti ed assicurare l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. Di conseguenza, tali disposizioni di coordinamento dovrebbero essere interpretate conformemente alle norme e ai principi citati, nonché alle altre disposizioni del trattato». 4 L’art. 1, nn. 2 e 3, della citata direttiva così recita: «2. a) Gli “appalti pubblici” sono contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva. b) Gli “appalti pubblici di lavori” sono appalti pubblici aventi per oggetto l’esecuzione o, congiuntamente, la progettazione e l’esecuzione di lavori relativi a una delle attività di cui all’allegato I o di un’opera, oppure l’esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice. Per “opera” si intende il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. (...) 3. La “concessione di lavori pubblici” è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo». 5 Ai sensi dell’art. 16, lett. a), della direttiva 2004/18: «La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi: a) aventi per oggetto l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni; (...)». La normativa nazionale 6 L’art. 10, n. 1, del codice delle costruzioni (Baugesetzbuch) del 23 settembre 2004 (BGBl. 2004 I, pag. 2414; in prosieguo: il «BauGB») così dispone: «Il Comune adotta il piano regolatore con decreto». 7 L’art. 12 del BauGB è così formulato: «1) Il Comune può determinare, mediante un piano regolatore in relazione a determinati lavori, la ricevibilità di un progetto qualora il promotore, sulla base di un piano d’esecuzione di un progetto concordato con il Comune nonché sulla base di misure di sviluppo (piano di progetto e di sviluppo), sia disposto a impegnarsi, e effettivamente si impegni, ad attuarlo entro un certo termine e a sostenerne, in tutto o in parte, le spese di pianificazione e di sviluppo prima della decisione ai sensi dell’art. 10, n. 1 (contratto d’esecuzione). (...) (...) 3 a) Laddove un piano regolatore relativo a determinati lavori stabilisca, attraverso la determinazione di un’area edificabile (...) o in altro modo una destinazione delle opere (...), è ne- 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 cessario (...) prevedere che, nell’ambito delle destinazioni stabilite, sono autorizzati esclusivamente i progetti alla cui realizzazione il promotore si è impegnato nell’ambito del contratto di esecuzione. (...) (...)». Causa principale e questioni pregiudiziali 8 La Bundesanstalt era proprietaria di un immobile denominato «caserma Wittekind», di una superficie pari a quasi 24 ettari, sito a Wildeshausen (Germania). 9 Nell’ottobre 2005 il Consiglio municipale del Comune di Wildeshausen ha deciso, nella prospettiva di una riutilizzazione civile dei terreni in questione – che rappresentano circa il 3% delle superfici edificate e non edificate di detto comune – di avviare lo studio di un progetto di sviluppo urbano. 10 Nell’ottobre 2006 la Bundesanstalt ha reso noto, mediante Internet e la stampa quotidiana, che era sua intenzione vendere la caserma Wittekind. 11 Il 2 novembre 2006 la Helmut Müller, un’impresa operante nel settore immobiliare, ha presentato un’offerta d’acquisto per un prezzo di EUR 4 milioni, subordinandola, tuttavia, alla stesura di un piano urbanistico basato sul suo progetto d’utilizzo dei terreni. 12 La caserma Wittekind è stata smantellata all’inizio del 2007. 13 Nel gennaio 2007 la Bundesanstalt ha formulato un bando di gara d’appalto allo scopo di cedere quanto prima tale immobile nello stato in cui si trovava. 14 Il 9 gennaio 2007 la Helmut Müller ha presentato un’offerta pari a EUR 400 000, che è stata portata a EUR 1 milione il 15 gennaio 2007. 15 Un’altra impresa immobiliare, la Gut Spascher Sand Immobilien GmbH (in prosieguo: la «GSSI»), all’epoca in corso di formazione, ha presentato un’offerta pari a EUR 2,5 milioni. 16 Sono state presentate due ulteriori offerte. 17 Secondo una perizia prodotta dalla Bundesanstalt dinanzi al giudice del rinvio, il valore dei terreni in questione era pari, al 1° maggio 2007, ad EUR 2,33 milioni. 18 Secondo la decisione di rinvio, il Comune di Wildeshausen si è fatto presentare i progetti degli offerenti, in presenza della Bundesanstalt, e ne ha discusso con questi ultimi. 19 Nel frattempo, la Bundesanstalt avrebbe valutato i progetti della Helmut Müller nonché della GSSI e avrebbe manifestato la propria preferenza per il progetto di quest’ultima per ragioni urbanistiche, considerando che tale progetto implicasse una crescita di attrattiva per il Comune di Wildeshausen, e l’avrebbe comunicato alla GSSI stessa. 20 Sarebbe stato quindi deciso di cedere il bene solo dopo che il Consiglio municipale del Comune di Wildeshausen avesse approvato progetto. La Bundesanstalt avrebbe affermato che intendeva rimettersi alla decisione del Comune di Wildeshausen. 21 Sempre secondo la decisione di rinvio, il Consiglio municipale del Comune di Wildeshausen si è pronunciato in favore del progetto della GSSI e, in data 24 maggio 2007, ha deciso segnatamente quanto segue: «Il Consiglio del Comune di Wildeshausen è disposto a esaminare il progetto presentato dal sig. R. [l’amministratore della GSSI] e ad avviare un procedimento ai fini della formulazione di un piano regolatore corrispondente (...). La legge non conferisce alcun diritto ad ottenere la formulazione di un piano regolatore (eventualmente collegato ad un progetto). La legge vieta [al Comune di Wildeshausen] di assumere impegni vincolanti in materia di edificabilità o di vincolare il proprio potere discrezionale (che è peraltro giuridicamente circoscritto) prima della conclusione di un regolare procedimento di pianificazione urbanistica. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 75 Le decisioni precedenti non vincolano dunque in alcun modo il piano urbanistico del [Comune di Wildeshausen]. Il promotore e gli altri soggetti interessati al progetto assumono i rischi collegati alle spese di pianificazione e di altro genere». 22 Subito dopo tale decisione del 24 maggio 2007, il Consiglio municipale del Comune di Wildeshausen ha ritirato la decisione da esso assunta, nell’ottobre 2005, riguardante l’avvio di studi preliminari urbanistici. 23 Con contratto stipulato in forma notarile in data 6 giugno 2007 la Bundesanstalt, con il consenso del Comune di Wildeshausen, ha venduto alla GSSI la caserma Wittekind. Essa ne ha informato la Helmut Müller il 7 giugno 2007. Nel gennaio 2008 la GSSI è stata iscritta nel registro immobiliare quale proprietaria del bene in oggetto. Con contratto stipulato in forma notarile il 15 maggio 2008 la Bundesanstalt e la GSSI hanno confermato il contratto di vendita del 6 giugno 2007. 24 La Helmut Müller ha proposto ricorso dinanzi alla Vergabekammer (giudice competente in primo grado in materia di appalti pubblici) sostenendo che non vi era stato alcun procedimento di aggiudicazione regolare, benché la vendita di tale caserma fosse sottoposta al diritto degli appalti pubblici. La Helmut Müller ha affermato che il contratto di vendita era nullo dal momento che essa non era stata informata in tempo utile quale candidata all’acquisto del terreno. 25 La Vergabekammer ha dichiarato il ricorso irricevibile in quanto, in sostanza, alla GSSI non era stato attribuito alcun appalto di lavori. 26 La Helmut Müller ha interposto appello avverso tale decisione di rigetto dinanzi all’Oberlandesgericht Düsseldorf adducendo che, date le circostanze, si doveva ritenere che la GSSI avesse ottenuto un appalto di lavori sotto forma di una concessione di lavori. Secondo la Helmut Müller, le decisioni rilevanti erano state assunte consensualmente dalla Bundesanstalt e dal Comune di Wildeshausen. 27 L’Oberlandesgericht Düsseldorf è incline ad ammettere tale argomentazione. Detto giudice ritiene che, in un futuro non troppo lontano, ma che non può ancora essere precisato, il Comune di Wildeshausen eserciterà il suo potere discrezionale redigendo un piano regolatore in relazione a determinati lavori ai sensi dell’art. 12 del BauGB e aggiudicando alla GSSI un contratto d’esecuzione ai sensi di questo stesso articolo, attribuendo in tal modo alla GSSI un appalto pubblico di lavori. 28 Posto che il Comune di Wildeshausen non sarà tenuto a versare alcuna remunerazione, detto giudice ritiene che tale appalto pubblico di lavori dovrebbe essere aggiudicato nella forma giuridica di una concessione di lavori pubblici e che la GSSI dovrebbe sostenere il rischio economico inerente a tale operazione. Per questo stesso giudice, il trasferimento della proprietà del terreno e l’attribuzione di un appalto pubblico di lavori dovrebbero essere considerati come un tutt’uno dal punto di vista del diritto degli appalti pubblici. Le incombenze spettanti alla Bundesanstalt e al Comune di Wildeshausen sarebbero semplicemente spostate nel tempo. 29 L’Oberlandesgericht Düsseldorf aggiunge di aver assunto la stessa posizione in altre controversie di cui è stato investito, e segnatamente nella sua decisione 13 giugno 2007 riguardante il terreno d’aviazione di Ahlhorn (Germania). La sua analisi non sarebbe stata tuttavia unanimemente condivisa, dal momento che le concezioni prevalenti tra i giudici tedeschi vanno in un’altra direzione. Inoltre, secondo la decisione di rinvio, il governo federale tedesco era sul punto di modificare la legislazione tedesca in senso contrario alla posizione prospettata 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 da detto giudice. 30 Il progetto di legge evocato dal giudice del rinvio prevedeva di apportare alcune precisazioni alla definizione della nozione di «appalti pubblici di lavori» di cui all’art. 99, n. 3, della legge sulle restrizioni alla concorrenza (Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen), del 15 luglio 2005 (BGBl. 2005 I, pag. 2114) nei seguenti termini, ove le modifiche previste sono riportate in corsivo: «Gli appalti di lavori sono contratti aventi ad oggetto l’esecuzione, ovvero la progettazione e l’esecuzione insieme, per l’amministrazione aggiudicatrice, di lavori o di un’opera che sia il risultato di lavori edilizi o di genio civile che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica, o di un’opera che presenti un interesse economico diretto per l’amministrazione aggiudicatrice e che sia eseguita da terzi in conformità alle esigenze da questa precisate». 31 Sarebbe stato altresì previsto di completare l’art. 99 di tale legge con un nuovo n. 6, contenente la seguente definizione della concessione di lavori pubblici: «Una concessione di lavori è un contratto avente ad oggetto l’esecuzione di un appalto di lavori in cui il corrispettivo dei lavori consiste non già in una remunerazione, bensì nel diritto di gestire l’installazione per un periodo determinato o, eventualmente, in tale diritto accompagnato da un prezzo». 32 Poco tempo dopo la proposizione della presente domanda di pronuncia pregiudiziale, simili modifiche sono state adottate nell’ambito della legge sulla modernizzazione del diritto degli appalti pubblici (Gesetz zur Modernisierung des Vergaberechts) del 20 aprile 2009 (BGBl. 2009 I, pag. 790). 33 In tale contesto, l’Oberlandesgericht Düsseldorf ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se ai fini della sussistenza di un appalto pubblico di lavori ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della [direttiva 2004/18], occorra che l’opera, intesa in senso oggettivo o materiale, sia acquisita dall’amministrazione aggiudicatrice e costituisca per essa un vantaggio economico diretto. 2) Nel caso in cui la definizione dell’appalto pubblico di lavori di cui all’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18 non consenta di prescindere dall’elemento dell’acquisizione: se, nell’ambito della seconda variante di tale disposizione, debba ammettersi che si ha un’acquisizione allorché per l’amministrazione aggiudicatrice i lavori siano funzionali al soddisfacimento di un determinato scopo pubblico (per esempio, contribuiscono allo sviluppo urbanistico di una parte del territorio comunale) e dall’appalto scaturisca per l’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di assicurare che lo scopo pubblico sia raggiunto e che l’opera permanga in futuro al servizio di tale scopo. 3) Se la nozione di appalto pubblico di lavori, nella prima e seconda variante di cui all’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, richieda che l’imprenditore si obblighi direttamente o indirettamente all’esecuzione delle opere, e, eventualmente, che si tratti di un obbligo giuridicamente esigibile. 4) Se la nozione di appalto pubblico di lavori, nella terza variante di cui all’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, richieda che l’imprenditore si obblighi all’esecuzione di opere oppure che queste ultime costituiscano l’oggetto dell’appalto. 5) Se rientrino nella nozione di appalto pubblico di lavori di cui alla terza variante dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18 gli appalti attraverso i quali, tramite le esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice, deve essere garantito che l’opera da realizzare sia al servizio di uno scopo pubblico, e attraverso i quali viene conferita all’aggiudicatrice (in LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 77 forza di una clausola contrattuale) la facoltà di assicurare (nel proprio interesse indiretto) la destinazione pubblica dell’opera. 6) Se la condizione delle “esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice” di cui all’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18 sia soddisfatta quando i lavori devono essere eseguiti conformemente a progetti esaminati ed approvati dall’amministrazione aggiudicatrice. 7) Se debba escludersi la sussistenza di una concessione di lavori pubblici ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 2004/18 qualora il concessionario sia o divenga proprietario dell’immobile sul quale l’opera deve essere realizzata, oppure qualora la concessione di lavori venga rilasciata a tempo indeterminato. 8) Se la direttiva 2004/18 debba applicarsi – con il conseguente obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di indire una gara – anche nel caso in cui la cessione di un immobile ad opera di un terzo e l’aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori avvengono in forma differita, qualora al momento della stipulazione del negozio giuridico concernente l’immobile l’appalto pubblico di lavori non sia stato ancora aggiudicato, ma l’amministrazione aggiudicatrice si sia già prefissata l’obiettivo di aggiudicare tale appalto. 9) Se due negozi giuridici, aventi ad oggetto rispettivamente la cessione di beni immobili e un appalto pubblico di lavori, che sono distinti tra loro, eppure connessi, debbano essere valutati come un insieme unitario dal punto di vista della normativa sugli appalti nel caso in cui, al momento della stipulazione del contratto di cessione di beni immobili, l’aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori fosse già prevista, e le parti contraenti avessero consapevolmente messo in atto una stretta connessione tra i contratti dal punto di vista materiale e, eventualmente, temporale (v. sentenza 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705)». Sulle questioni pregiudiziali Osservazioni preliminari 34 Nella maggior parte delle versioni linguistiche della direttiva 2004/18 la nozione di «appalti pubblici di lavori» prevista dall’art. 1, n. 2, lett. b), della stessa, comprende tre ipotesi. La prima consiste nell’esecuzione, eventualmente accompagnata dalla progettazione, di lavori di costruzione rientranti in una delle categorie di cui all’allegato I della direttiva stessa. La seconda ipotesi riguarda l’esecuzione, eventualmente accompagnata dalla progettazione, di un’opera. La terza ipotesi consiste nell’esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice. 35 Per «opera», ai sensi della stessa disposizione, si intende il «risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica». 36 Mentre la maggior parte delle versioni linguistiche utilizza il termine «opera» sia per la seconda che per la terza ipotesi, la versione tedesca utilizza due termini distinti, vale a dire «Bauwerk» (opera) per la seconda ipotesi e «Bauleistung» (attività edilizia) per la terza. 37 Inoltre, la versione tedesca del citato art. 1, n. 2, lett. b), è l’unica che prevede che l’attività cui alla terza ipotesi debba essere realizzata non solo «con qualsiasi mezzo», ma anche «ad opera di terzi» («durch Dritte»). 38 Secondo una giurisprudenza consolidata, la formulazione utilizzata in una delle versioni linguistiche di una disposizione del diritto dell’Unione non può essere l’unico elemento a sostegno dell’interpretazione di questa disposizione né si può attribuire ad essa a tal riguardo un carattere prioritario rispetto alle altre versioni linguistiche. Infatti, tale modo di procedere sarebbe in contrasto con la necessità di applicare in modo uniforme il diritto dell’Unione. In 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche, la disposizione di cui trattasi deve essere intesa in funzione del sistema e della finalità della normativa di cui fa parte (v. sentenze 27 marzo 1990, causa C-372/88, Cricket St Thomas, Racc. pag. I-1345, punti 18 e 19; 12 novembre 1998, causa C-149/97, Institute of the Motor Industry, Racc. pag. I-7053, punto 16, nonché 9 ottobre 2008, causa C-239/07, Sabatauskas e a., Racc. pag. I-7523, punti 38 e 39). 39 È alla luce di tali considerazioni che occorre risolvere le questioni sollevate dal giudice del rinvio. Sulla prima e sulla seconda questione 40 Con le sue due prime questioni, che devono essere esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, esiga che i lavori oggetto dell’appalto siano eseguiti materialmente o fisicamente per l’amministrazione aggiudicatrice e nell’interesse economico diretto di quest’ultima, ovvero se sia sufficiente che tali lavori soddisfino un obiettivo pubblico, quale lo sviluppo urbanistico di una parte di un comune. 41 Si deve precisare anzitutto che la vendita ad un’impresa, da parte di un’autorità pubblica, di un terreno non edificato o contenente immobili già costruiti non rappresenta un appalto pubblico di lavori ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18. Infatti, per un verso, nell’ambito di un simile appalto, l’autorità pubblica deve assumere una posizione di acquirente e non di venditrice. Per altro verso, l’oggetto di un tale appalto deve consistere nell’esecuzione di lavori. 42 Il tenore letterale dell’art. 16, lett. a), della citata direttiva avvalora tale analisi. 43 Pertanto è escluso che una vendita, quale, nella causa principale, la vendita della caserma Wittekind da parte della Bundesanstalt alla GSSI, possa rappresentare di per sé stessa un appalto pubblico di lavori ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18. 44 Tali questioni proposte dal giudice del rinvio non vertono tuttavia su questo rapporto tra venditore e acquirente, bensì piuttosto sui rapporti tra il Comune di Wildeshausen e la GSSI, vale a dire tra l’autorità pubblica competente in materia urbanistica e l’acquirente della caserma Wittekind. Tale giudice intende sapere se siffatti rapporti possono costituire un appalto pubblico di lavori ai sensi della disposizione citata. 45 Occorre rilevare in proposito che, ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. a), della direttiva 2004/18, gli appalti pubblici sono contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto. 46 La nozione di contratto è essenziale nell’ambito della definizione dell’ambito d’applicazione della direttiva 2004/18. Come sancito dal secondo ‘considerando’ della direttiva medesima, questa ha ad oggetto l’applicazione delle norme del diritto dell’Unione all’aggiudicazione degli appalti per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico. Altre categorie di attività gravanti sulle autorità pubbliche non sono prese in considerazione nella citata direttiva. 47 Inoltre, solo un contratto stipulato a titolo oneroso può rappresentare un appalto pubblico che ricade nell’ambito della direttiva 2004/18. 48 Il carattere oneroso del contratto implica che l’amministrazione aggiudicatrice che abbia stipulato un appalto pubblico di lavori riceva, in base allo stesso, una prestazione a fronte di una contropartita. Tale prestazione consiste nella realizzazione dei lavori che l’amministrazione aggiudicatrice intende ottenere (v. sentenze 12 luglio 2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti e a., Racc. pag. I-5409, punto 77, nonché 18 gennaio 2007, causa C-220/05, Auroux e a., Racc. pag. I-385, punto 45). 49 Una simile prestazione, in ragione della sua stessa natura nonché in ragione del sistema LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 79 e degli obiettivi della direttiva 2004/18, deve implicare un interesse economico diretto per l’amministrazione aggiudicatrice. 50 Detto interesse economico è chiaramente accertato ove si preveda che l’amministrazione aggiudicatrice divenga proprietaria dei lavori o dell’opera oggetto dell’appalto. 51 Un siffatto interesse economico può altresì essere riscontrato qualora sia previsto che l’amministrazione aggiudicatrice disponga di un titolo giuridico che le garantisca la disponibilità delle opere che sono oggetto dell’appalto, in vista della loro destinazione pubblica (v., in tal senso, sentenza Ordine degli Architetti e a., cit., punti 67, 71 e 77). 52 L’interesse economico può inoltre risiedere nei vantaggi economici che l’amministrazione aggiudicatrice potrà trarre dal futuro utilizzo o dalla futura cessione dell’opera, nel fatto che essa abbia partecipato finanziariamente alla realizzazione dell’opera o nei rischi che essa assume in caso di fallimento economico dell’opera (v., in tal senso, sentenza Auroux e a., cit., punti 13, 17, 18 e 45). 53 La Corte ha già dichiarato che una convenzione con cui una prima amministrazione aggiudicatrice affidi ad una seconda amministrazione aggiudicatrice la realizzazione di un’opera può costituire un appalto pubblico di lavori, indipendentemente dal fatto che sia o meno previsto che la prima amministrazione aggiudicatrice sia o divenga proprietaria in tutto o in parte di tale opera (sentenza Auroux e a., cit., punto 47). 54 Risulta da quanto precede che la nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, impone che i lavori oggetto dell’appalto siano eseguiti nell’interesse economico diretto dell’amministrazione aggiudicatrice, senza che sia necessario, tuttavia, che la prestazione assuma la forma dell’acquisizione di un oggetto materiale o fisico. 55 Si pone la questione se tali condizioni siano soddisfatte ove i lavori progettati mirino a realizzare un obiettivo pubblico di interesse generale di cui l’amministrazione aggiudicatrice abbia l’obbligo di garantire il rispetto, quale lo sviluppo o la coerenza urbanistica di una parte di un comune. 56 Negli Stati membri dell’Unione europea, l’esecuzione di lavori edili, quanto meno laddove si tratti di lavori di una certa portata, devono normalmente costituire oggetto di un’autorizzazione preliminare dell’autorità pubblica competente in materia urbanistica. Tale autorità è chiamata a verificare, nell’esercizio delle sue competenze di regolamentazione, se l’esecuzione dei lavori sia conforme all’interesse pubblico. 57 Orbene, il semplice esercizio delle competenze di regolamentazione in materia urbanistica, volte alla realizzazione dell’interesse generale, non ha ad oggetto l’ottenimento di una prestazione contrattuale né la soddisfazione dell’interesse economico diretto dell’amministrazione aggiudicatrice, come richiesto dall’art. 1, n. 2, lett. a), della direttiva 2004/18. 58 Di conseguenza, la prima e la seconda questione devono essere risolte nel senso che la nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, non esige che i lavori oggetto dell’appalto siano eseguiti materialmente o fisicamente per l’amministrazione aggiudicatrice, ove tali lavori siano eseguiti nell’interesse economico diretto di tale amministrazione. L’esercizio, da parte di quest’ultima, di competenze di regolamentazione in materia urbanistica non è sufficiente a soddisfare quest’ultima condizione. Sulla terza e sulla quarta questione 59 Con la sua terza e quarta questione, che devono essere esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza se la nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, esiga che l’aggiudicatario assuma direttamente 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 o indirettamente l’obbligo di realizzare i lavori che sono oggetto dell’appalto e che tale obbligo sia esigibile in sede giurisdizionale. 60 Come rammentato ai punti 45 e 47 di questa sentenza, l’art. 1, n. 2, lett. a), della direttiva 2004/18 definisce l’appalto pubblico di lavori come un contratto a titolo oneroso. Tale nozione si basa sull’idea che l’aggiudicatario si impegni a realizzare la prestazione che è oggetto del contratto a fronte di un corrispettivo. Stipulando un appalto pubblico di lavori, l’aggiudicatario si impegna quindi ad eseguire o a far eseguire i lavori che ne rappresentano l’oggetto. 61 È irrilevante che l’aggiudicatario esegua i lavori direttamente ovvero ricorrendo a subappaltatori (v., in tal senso, citate sentenze Ordine degli Architetti e a., punto 90, nonché Auroux e a., punto 44). 62 Posto che gli obblighi derivanti dall’appalto sono giuridicamente vincolanti, la loro esecuzione deve poter essere esigibile in sede giurisdizionale. In mancanza di una disciplina prevista dal diritto dell’Unione, e in conformità al principio di autonomia procedurale, le modalità di esecuzione di simili obblighi sono lasciate al diritto nazionale. 63 Di conseguenza, la seconda e la terza questione vanno risolte affermando che la nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, richiede che l’aggiudicatario assuma direttamente o indirettamente l’obbligo di realizzare i lavori che sono oggetto dell’appalto e che l’esecuzione di tale obbligo sia esigibile in sede giurisdizionale secondo le modalità stabilite dal diritto nazionale. Sulla quinta e sulla sesta questione 64 Con la quinta e la sesta questione, da esaminarsi congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le «esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice», ai sensi della terza ipotesi contemplata dall’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, possano consistere o nel fatto che l’amministrazione aggiudicatrice eserciti la competenza di assicurarsi che l’opera da realizzare risponda a un interesse pubblico, ovvero nell’esercizio della competenza riconosciuta all’amministrazione aggiudicatrice di verificare ed approvare i progetti di costruzione. 65 Tali questioni traggono origine dal fatto che, nella causa principale, la presunta amministrazione aggiudicatrice, vale a dire il Comune di Wildeshausen, non ha redatto alcun capitolato d’oneri riguardante un’opera da realizzarsi sui terreni della caserma Wittekind. Ai sensi della decisione di rinvio, tale Comune si è limitato ad affermare di essere disposto ad esaminare il progetto proposto dalla GSSI e ad avviare un procedimento allo scopo di redigere un piano regolatore corrispondente. 66 Orbene, nell’ambito della terza ipotesi enunciata dall’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, si prevede che gli appalti pubblici di lavori abbiano ad oggetto la realizzazione di un’«opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice». 67 Per potersi ammettere che un’amministrazione aggiudicatrice abbia specificato le proprie esigenze ai sensi di tale disposizione, è necessario che quest’ultima abbia adottato provvedimenti allo scopo di definire le caratteristiche dell’opera o, quantomeno, allo scopo di esercitare un’influenza determinante sulla progettazione della stessa. 68 Il semplice fatto che un’autorità pubblica, nell’esercizio delle sue competenze in materia di regolamentazione urbanistica, esamini taluni progetti di costruzione che le sono sottoposti o che assuma una decisione in applicazione di competenze in tale materia non soddisfa il requisito relativo alle «esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice », ai sensi di tale disposizione. 69 Pertanto, la quinta e la sesta questione devono essere risolte dichiarando che le «esigenze LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 81 specificate dall’amministrazione aggiudicatrice», ai sensi della terza ipotesi contemplata dall’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, non possono consistere nel semplice fatto che un’autorità pubblica esamini taluni progetti di costruzione che le sono sottoposti ovvero assuma una decisione nell’esercizio delle sue competenze in materia di regolamentazione urbanistica. Sulla settima questione 70 Con la sua settima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se una concessione di lavori pubblici, ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 2004/18, sia da escludersi qualora l’unico operatore cui la concessione può essere attribuita sia già proprietario del terreno su cui l’opera deve essere edificata o qualora la concessione sia stata attribuita senza limiti temporali. 71 Ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 2004/18, la concessione di lavori pubblici «è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo». 72 Affinché un’amministrazione aggiudicatrice possa trasferire alla sua controparte il diritto di gestire un’opera ai sensi di tale disposizione, è necessario che tale amministrazione possa disporre della gestione dell’opera stessa. 73 Ciò non avviene, di norma, qualora il diritto di gestione abbia come unica origine il diritto di proprietà dell’operatore interessato. 74 Infatti, il proprietario di un terreno ha il diritto di gestirlo nel rispetto delle norme giuridiche vigenti. Fintantoché un operatore disponga del diritto di gestire il terreno di cui è il proprietario, risulta essere esclusa, in linea di principio, la possibilità che un’autorità pubblica attribuisca una concessione avente ad oggetto la gestione stessa. 75 Si deve inoltre rilevare che l’elemento essenziale della concessione risiede nel fatto che il concessionario sopporta esso stesso il rischio economico principale o, in ogni caso, sostanziale, collegato alla gestione (v. in tal senso, in materia di concessione di servizi pubblici, sentenza 10 settembre 2009, causa C-206/08, Eurawasser, non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 59 e 77). 76 La Commissione delle Comunità europee sostiene che tale rischio può consistere nell’incertezza dell’imprenditore quanto alla questione se il servizio urbanistico dell’ente territoriale in questione approverà o meno i suoi progetti. 77 Tale argomento non può essere accolto. 78 In una situazione quale quella evocata dalla Commissione, il rischio sarebbe collegato alle competenze di regolamentazione dell’amministrazione aggiudicatrice in materia urbanistica e non al rapporto contrattuale derivante dalla concessione. Di conseguenza, il rischio non sarebbe collegato alla gestione. 79 In ogni caso, per quanto riguarda la durata delle concessioni, seri motivi – tra i quali vi è, in particolare, il mantenimento della concorrenza – inducono a ritenere che l’attribuzione di concessioni senza limiti temporali sarebbe contraria all’ordinamento giuridico dell’Unione, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 96 e 97 delle sue conclusioni (v., nello stesso senso, sentenza 19 giugno 2008, causa C-454/06, pressetext Nachrichtenagentur, Racc. pag. I-4401, punto 73). 80 Si deve quindi risolvere la settima questione nel senso che, in circostanze quali quelle della causa principale, è escluso che ricorra una concessione di lavori pubblici ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 2004/18. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Sull’ ottava e sulla nona questione 81 L’ottava e la nona questione del giudice del rinvio sono da esaminarsi congiuntamente. Tale giudice, con la sua ottava questione, chiede in sostanza se le disposizioni della direttiva 2004/18 trovino applicazione qualora un’autorità pubblica venda un terreno ad un’impresa, mentre un’altra autorità pubblica abbia intenzione di indire un appalto di lavori su detto terreno, pur non avendo ancora formalmente deciso di procedere all’aggiudicazione di tale appalto. La nona questione verte sulla possibilità di considerare come un tutt’uno, dal punto di vista giuridico, la vendita del terreno e l’aggiudicazione successiva di un appalto di lavori riguardante il terreno stesso. 82 A tal proposito, è corretto non escludere ab initio l’applicazione della direttiva 2004/18 ad un procedimento d’attribuzione in due fasi, caratterizzato dalla vendita di un terreno che sarà successivamente oggetto di un appalto di lavori, considerando tali operazioni come un tutt’uno. 83 Tuttavia, le circostanze della causa principale non confermano l’esistenza dei presupposti per una simile applicazione della detta direttiva. 84 Come rilevato dal governo francese nelle sue osservazioni scritte, le parti nella causa principale non hanno assunto alcun obbligo giuridicamente vincolante. 85 Anzitutto, il Comune di Wildeshausen e la GSSI non hanno sottoscritto alcun obbligo di tale natura. 86 Inoltre, la GSSI non ha assunto alcun obbligo di realizzare il progetto di ripristino del terreno acquistato. 87 Infine, i contratti di vendita in forma notarile non contengono alcun elemento dell’aggiudicazione che sia assimilabile a un appalto pubblico di lavori. 88 Le intenzioni desumibili dal fascicolo non rappresentano obblighi vincolanti e non possono in alcun modo soddisfare il requisito di contratto scritto richiesto dalla nozione stessa di appalto pubblico, ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. a), della direttiva 2004/18. 89 L’ottava e la nona questione devono quindi essere risolte dichiarando che, in circostanze quali quelle della causa principale, le disposizioni della direttiva 2004/18 non trovano applicazione in una situazione in cui un’autorità pubblica venda un terreno a un’impresa, laddove un’altra autorità pubblica abbia intenzione di indire un appalto di lavori su detto terreno, pur non avendo ancora formalmente deciso di procedere all’aggiudicazione di tale appalto. Sulle spese 90 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara: 1) La nozione di «appalti pubblici di lavori», ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non esige che i lavori oggetto dell’appalto siano eseguiti materialmente o fisicamente per l’amministrazione aggiudicatrice, ove tali lavori siano eseguiti nell’interesse economico diretto di tale amministrazione. L’esercizio, da parte di quest’ultima, di competenze di regolamentazione in materia urbanistica non è sufficiente a soddisfare quest’ultima condizione. 2) La nozione di «appalti pubblici di lavori» ai sensi dell’art. 1, n. 2, lett. b), della di- LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 83 rettiva 2004/18 richiede che l’aggiudicatario assuma direttamente o indirettamente l’obbligo di realizzare i lavori che sono oggetto dell’appalto e che l’esecuzione di tale obbligo sia esigibile in sede giurisdizionale secondo le modalità stabilite dal diritto nazionale. 3) Le «esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice», ai sensi della terza ipotesi contemplata dall’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 2004/18, non possono consistere nel semplice fatto che un’autorità pubblica esamini taluni progetti di costruzione che le sono sottoposti ovvero assuma una decisione nell’esercizio delle sue competenze in materia di regolamentazione urbanistica. 4) In circostanze quali quelle della causa principale, è escluso che ricorra una concessione di lavori pubblici ai sensi dell’art. 1, n. 3, della direttiva 2004/18. 5) In circostanze quali quelle della causa principale, le disposizioni della direttiva 2004/18 non trovano applicazione in una situazione in cui un’autorità pubblica venda un terreno a un’impresa, laddove un’altra autorità pubblica abbia intenzione di indire un appalto di lavori su detto terreno, pur non avendo ancora formalmente deciso di procedere all’aggiudicazione di tale appalto. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Causa C-229/09 - Materia trattata: agricoltura - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundespatentgericht (Germania) il 24 giugno 2009 - Rechtsanwaltssozietät Lovells/Bayer CropScience AG (avv. Stato M. Russo - AL 29076/09). LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE Se, ai fini dell’applicazione dell’art. 3, n. 1, lett. b), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 23 luglio 1996, n. 1610, sull’istituzione di un certificato protettivo complementare per i prodotti fitosanitari, rilevi esclusivamente un’autorizzazione di immissione in commercio a norma dell’art. 4 della direttiva 91/414/CEE , o se un certificato possa essere rilasciato anche sulla base di un’autorizzazione di immissione in commercio ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 91/414/CEE. LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA A. All’origine del presente contenzioso sta la normativa di cui al Regolamento n. 1610/96, sull’istituzione di un certificato protettivo complementare per i prodotti fitosanitari. In particolare, l’art. 3 n. 1 lett. b) di tale regolamento prevede: “Il certificato viene rilasciato se, nello Stato membro nel quale è presentata la domanda di cui all'articolo 7, e alla data di tale domanda: …b) per il prodotto, in quanto prodotto fitosanitario, è stata rilasciata un'autorizzazione, in vigore, di immissione in commercio a norma dell'articolo 4 della direttiva 91/414/CEE o di una disposizione equivalente di diritto nazionale” (enfasi aggiunta); A sua volta, l’art. 4 della Direttiva 91/414/CE disciplina i requisiti alla cui esistenza gli Stati membri devono subordinare la concessione di un’autorizzazione di immissione in commercio definitiva, segnatamente prevedendo: “Gli Stati membri prescrivono che un prodotto fitosanitario possa essere autorizzato soltanto se: a) le sue sostanze attive sono elencate nell'allegato I...”; lo stesso articolo prosegue prevedendo che debbano essere soddisfatti anche una serie di requisiti, individuati nelle successive lettere da b) ad f) (che qui non si riproducono per brevità); B. Il giudizio a quo ha ad oggetto la pretesa, avanzata dalla società ricorrente, di annullamento del certificato complementare rilasciato ad altra società per la sostanza attiva “iodosulfuron”. La domanda di annullamento si fonda I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 85 sulla considerazione che detta sostanza non era coperta, all’epoca della concessione del certificato complementare, né da un’autorizzazione di immissione in commercio rilasciata a norma dell’art. 4 della Direttiva 91/414/CE, né da un’autorizzazione a norma di una disposizione equivalente di diritto nazionale, bensì da un’autorizzazione di immissione in commercio provvisoria, rilasciata a mente dell’art. 8 della citata Direttiva. Tale ultima norma consente il rilascio di un’autorizzazione di immissione in commercio provvisoria, stabilendo: “In deroga all'articolo 4, gli Stati membri possono, allo scopo di permettere una valutazione graduale delle proprietà delle nuove sostanze attive e facilitare la disponibilità per l'agricoltura di nuovi preparati, autorizzare, per un periodo provvisorio non superiore a 3 anni, l'immissione in commercio di prodotti fitosanitari contenenti una sostanza attiva non compresa nell'allegato I…” (enfasi aggiunta), purché siano soddisfatti una serie di requisiti indicati dalla norma stessa; C. Il giudice a quo dubita del fatto che tale ultimo tipo di autorizzazione di immissione in commercio “provvisoria” possa costituire presupposto per la concessione di un certificato complementare, apparentemente ostandovi il tenore letterale dell’art. 3 n. 1 lett. b), il quale allude solo ad un’autorizzazione a norma dell’art. 4. Tuttavia, sempre a detta del giudice rimettente, sussistono anche argomenti a sostegno della tesi contraria: di qui, la decisione di sottoporre alla Corte la questione interpretativa [suesposta]. ** ** ** Il Governo italiano ritiene che un certificato protettivo complementare a mente del Regolamento n. 1610/96, possa essere rilasciato anche sulla base di un’autorizzazione di immissione in commercio ai sensi dell’art. 8 n. 1 della Direttiva 91/414. Ad illustrazione di tale posizione, si svolgono le seguenti osservazioni. I. Il V^ Considerando del Regolamento n. 1610/96 recita: “… il periodo che intercorre tra il deposito di una domanda di brevetto per un nuovo prodotto fitosanitario e l'autorizzazione di immissione in commercio dello stesso riduce la protezione effettiva conferita dal brevetto ad una durata insufficiente ad ammortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca e a generare le risorse necessarie per mantenere una ricerca efficiente” (enfasi aggiunta). Il VI^ Considerando evidenzia che le circostanze esposte al Considerando precedente “… determinano una protezione insufficiente che penalizza la ricerca fitosanitaria e la competitività in questo settore”; il VII^ Considerando recita infine : “… uno degli obiettivi essenziali del certificato protettivo complementare è quello di porre l’industria europea nelle medesime condizioni di competitività delle omologhe industrie nordamericana e giapponese”. Ebbene, volendo realmente garantire il recupero di competitività indispensabile 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ad ammortizzare gli investimenti e mantenere la ricerca, così da superare il problema della riduzione della tutela brevettuale conseguente ai tempi di rilascio dell’autorizzazione di immissione in commercio - il certificato complementare dovrà - sì - garantire al titolare del brevetto una tutela aggiuntiva rispetto a quella assicurata dal brevetto stesso ma, soprattutto, dovrà assicurare una tutela che sia non solo nominale, ma effettiva. Tale considerazione fornisce un utile parametro di interpretazione della norma oggetto del quesito pregiudiziale, come meglio si illustrerà infra, al punto IV; II. L’VIII^ Considerando del Regolamento n. 1610/96 recita: “… il rafforzamento della protezione dell'ambiente impone … di mantenere la competitività economica dell'industria; … il rilascio di un certificato complementare di protezione può essere dunque considerato come una misura positiva a favore della protezione dell'ambiente” (enfasi aggiunta). Da tale statuizione sembra potersi evincere che - in quanto il certificato complementare costituisce “una misura positiva a favore dell’ambiente” - la relativa concessione debba essere (sia pure, ovviamente, nei limiti consentiti dalle norme vigenti) ispirata ad una logica non eccessivamente restrittiva o penalizzante per il richiedente, posto che la tutela dell’ambiente rappresenta comunque un obiettivo privilegiato, a mente dell’art. 2 del Trattato CE: “La Comunità ha il compito di promuovere … un elevato livello di protezione dell'ambiente e il miglioramento di quest'ultimo …”. III. L’interpretazione restrittiva dell’art. 3 n. 1 lett. b), sostenuta dalla ricorrente (nel senso che un’autorizzazione di immissione in commercio “provvisoria” non possa costituire presupposto per la concessione di un certificato complementare) oltre ad essere - in linea di principio - difficilmente conciliabile con la natura di “misura positiva a favore dell’ambiente” propria del certificato, come illustrato al precedente punto, contrasta peraltro anche con una lettura sistematica delle norme del Regolamento n. 1610/96. Infatti, l’art. 13 del Regolamento in questione, nel disciplinare la durata del certificato, prevede, ai punti 1 e 3: “1.Il certificato ha efficacia a decorrere dal termine legale del brevetto di base per una durata uguale al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda del brevetto di base e la data della prima autorizzazione di immissione in commercio nella Comunità, ridotto di cinque anni. … 3. Per il calcolo della durata del certificato si tiene conto di una prima autorizzazione provvisoria di immissione in commercio soltanto se essa è direttamente seguita da un'autorizzazione definitiva relativa allo stesso prodotto”. La norma, dunque, nel computo della durata del certificato, prende in considerazione la prima autorizzazione di immissione in commercio e, per tale, intende anche quella provvisoria, così lasciando intendere che anche quest’ultima sia idonea a fondare il rilascio del certificato stesso. IV. La rilevanza dell’autorizzazione provvisoria ai fini dell’ottenimento del certificato, del resto, appare giustificata anche in considerazione di quanto I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 87 si è detto al punto I, e cioè che tra le finalità del certificato complementare vi è quella di offrire al titolare del brevetto una tutela aggiuntiva a quella assicurata dal brevetto stesso, tutela che – per avere un senso – deve essere effettiva. Se così è, allora non può ignorarsi che l’interesse economico del richiedente ad ottenere tale tutela sussiste fin dal momento della prima autorizzazione di immissione in commercio, anche se soltanto provvisoria, posto che l’inizio dello sfruttamento economico della sostanza coincide, appunto, con il rilascio di tale autorizzazione. Non sarebbe effettiva e reale una tutela che venisse assicurata, non già a partire dal primo sfruttamento economico sul mercato, bensì solo a partire dal momento (successivo) dell’ottenimento di un’autorizzazione di immissione in commercio definitiva. V. Ancora, sarebbe illogico prendere in considerazione la prima autorizzazione (anche se provvisoria e, come tale, cronologicamente anteriore alla definitiva) ai fini della determinazione della durata del certificato (art. 13 del Regolamento: “1.Il certificato ha efficacia a decorrere dal termine legale del brevetto di base per una durata uguale al periodo intercorso tra la data del deposito della domanda del brevetto di base e la data della prima autorizzazione di immissione in commercio …, ridotto di cinque anni” - enfasi aggiunta), e poi non considerarla anche ai fini dell’inizio della decorrenza della protezione economica accordata dal certificato: in sostanza, la prima autorizzazione provvisoria rileverebbe solo in malam partem per il richiedente, avvicinando il dies ad quem del termine di efficacia del certificato al relativo dies a quo (quindi abbreviando la durata della protezione), ma non comportando la contestuale anticipazione dell’inizio della tutela economica. VI. Si osserva ancora che, di fatto, il rilascio dell’autorizzazione definitiva spesso richiede tempi lunghi: ancorare ad esso il rilascio del certificato significherebbe esporre il titolare del brevetto di base al rischio che questo scada nelle more del procedimento autorizzatorio. Il richiedente ha interesse a conseguire il certificato prima che il brevetto venga a scadenza: diversamente, egli rischia di non poter più conseguire il certificato, che presuppone la titolarità di un brevetto di base in vigore al momento di presentazione della domanda, ex art. 3 n. 1 lett. a) del Regolamento, il che contrasta con il fine del Regolamento 1610/96 individuato al punto I. VII. Da ultimo, preme sottolineare che - anche accedendo all’interpretazione estensiva dell’art. 3 n. 1 lett.b) fin qui sostenuta - sarebbe comunque salvo l’obiettivo di tutela dell’ambiente, dell’uomo e degli animali sotteso alla Direttiva 91/414/CE, concernente l’immissione in commercio di prodotti fitosanitari. Infatti, anche l’art. 8 di detta Direttiva – nel disciplinare l’autorizzazione provvisoria – esige un livello di garanzia elevato, posto che comunque trattasi di un livello ritenuto dal legislatore comunitario sufficiente a permettere la diffusione di sostanze attive sul mercato. VIII. Non sembra, infine, che possa rappresentare un ostacolo alla tesi 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sostenuta dal Governo italiano l’eventualità che l’autorizzazione provvisoria non dovesse essere seguita dal rilascio di quella definitiva. Lo stesso giudice a quo, al penultimo paragrafo dell’ordinanza, individua la strada per il superamento di ogni dubbio al riguardo, suggerendo che – in un caso del genere – l’autorizzazione ex art. 8 Dir. 91/414/CE vada revocata e che, di conseguenza – in applicazione analogica dell’art. 14 lett. d) del Regolamento n. 1610/96, il certificato debba estinguersi. Peraltro, anche a voler prescindere dalla soluzione prospettata (si ritiene, correttamente) dal giudice a quo, non può non rilevarsi come in ogni caso l’impossibilità di immettere sul mercato la sostanza, ormai priva di autorizzazione, varrebbe di per sé stessa a privare di ogni pratico effetto il certificato complementare. ** ** ** Il Governo italiano propone pertanto di rispondere come segue al quesito sollevato dal giudice a quo: “ai fini dell’applicazione dell’art. 3 n. 1 lett. b) del Regolamento n. 1610/96, non rileva esclusivamente un’autorizzazione di immissione in commercio a norma dell’art. 4 della Direttiva 91/414; al contrario un certificato può essere rilasciato anche sulla base di un’autorizzazione di immissione in commercio ai sensi dell’art. 8 n. 1 della Direttiva 91/414”. Avv. Marina Russo I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 89 Cause C-286/09 e C-287/09 - Materia trattata: previdenza sociale dei lavoratori migranti - Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dalla Corte d'appello di Roma (Italia) il 24 luglio 2009 - Convenuto: Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) (avv. Stato W. Ferrante - AL 38848/09). LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE Si chiede di statuire in via pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CEE se gli artt. 17, 39 e 42 del Trattato e le normepertinenti del Regolamento n. 1408/71 non debbano essere interpretate nel senso che il principio della totalizzazione di tutti i periodi di assicurazione per l'apertura, il conseguimento ed il mantenimento del diritto alle prestazioni - principio attuato con l'adozione, da parte del Consiglio, del Regolamento n. 1408/71 - trovi applicazione in tutti i casi in cui è necessario ricorrere al sistema della totalizzazione e proratizzazione per il riconoscimento del diritto ad una data prestazione, con la conseguenza che si debbano prendere in considerazione a tale fine sia i periodi di assicurazione compiuti sotto la legislazione di ciascuno Stato membro, che i periodi di assicurazione compiuti nel regime previdenziale applicabile ai dipendenti delle Istituzioni comunitarie. LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA 1. Con le due ordinanze [del 29 aprile 2009 della Corte d’appello di Roma - sezione lavoro - Italia], di analogo contenuto, è stato chiesto alla Corte di Giustizia delle Comunità europee di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, sulla [suesposta] questione pregiudiziale. Fatti di causa 2. La domanda pregiudiziale trae origine da due controversie tra l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (di seguito INPS) e due ricorrenti che hanno prestato attività lavorativa in Italia dal 1 giugno 1951 al 31 maggio 1958 e, rispettivamente, dal 1 dicembre 1953 al 1 agosto 1959, maturando una contribuzione assicurativa presso l’INPS e, successivamente, hanno lavorato presso una Istituzione europea (rispettivamente presso il Comitato Economico e Sociale Europeo e presso la Commissione dell’Unione Europea) dal 1 marzo 1960 al 31 agosto 1999 e, rispettivamente, dal 16 settembre 1975 al 30 giugno 2001. 3. Entrambi sono titolari di pensione di anzianità a carico del regime pensionistico comunitario e, nell’ottobre 2001, hanno chiesto all’INPS la liquidazione di un pro rata di pensione di vecchiaia rapportato al periodo lavorativo svolto in Italia. 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 4. L’INPS ha respinto la domanda, assumendo che l’ente erogatore della pensione di anzianità comunitaria non rientra tra gli enti erogatori di fondi esclusivi, esonerativi o sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria e che pertanto non troverebbe applicazione il principio della totalizzazione dei contributi ai fini del diritto alla pensione a carico del sistema previdenziale italiano. 5. Il Tribunale di primo grado ha ritenuto infondato il ricorso in quanto l’art. 42 del Trattato CE invocato in giudizio fa riferimento, ai fini della totalizzazione, ai contributi versati ai singoli Stati membri e non alle Istituzioni comunitarie. 6. La Corte d’appello rileva che i dipendenti delle istituzioni dell’Unione Europea sono cittadini lavoratori i cui diritti devono essere tutelati al pari di quelli degli altri lavoratori comunitari. 7. Osserva inoltre il giudice del rinvio che il Consiglio, adottando il Regolamento n. 1408/1971 in attuazione dell’art. 42 del Trattato ed estendendone successivamente l’applicazione ai regimi speciali per i dipendenti pubblici, in forza del regolamento n. 1606/98, ha inteso assicurare a tutti i lavoratori migranti il cumulo dei periodi lavorativi presi in considerazione dalle diverse legislazioni nazionali per il sorgere del diritto alle prestazioni previdenziali. 8. Secondo il giudice del rinvio, l’esclusione dei dipendenti delle istituzioni comunitarie dal campo di applicazione della normativa comunitaria in materia previdenziale, comportando la perdita dei diritti pensionistici acquisiti in uno Stato membro prima della loro entrata in servizio presso una istituzione comunitaria, costituirebbe una disparità di trattamento incompatibile con gli articoli 17, 39 e 42 del Trattato. 9. La Corte d’appello richiama in proposito la giurisprudenza della Corte di giustizia che ha stabilito che il complesso delle norme del Trattato relative alla libera circolazione delle persone è volto ad agevolare i cittadini comunitari nell’esercizio di attività lavorative di qualsiasi natura nell’intero territorio della Comunità ed osta ai provvedimenti che potrebbero sfavorirli qualora intendano svolgere un’attività lavorativa nel territorio di un altro Stato membro. 10. In particolare, una normativa nazionale che non tenga conto, ai fini del conseguimento del diritto alla pensione, dei periodi di assicurazione compiuti in affiliazione al regime pensionistico della Comunità europea sarebbe idonea a dissuadere i cittadini di uno Stato membro dall’abbandonare tale Stato per esercitare un’attività professionale nell’ambito di un’Istituzione dell’Unione europea, in quanto accettando un’occupazione presso tale Istituzione, essi perderebbero la possibilità di beneficiare, in base alla normativa nazionale, di una prestazione pensionistica alla quale avrebbero avuto diritto se non avessero accettato tale lavoro (Corte di Giustizia, 16 febbraio 2006, causa C- 137/04, Amy Rockler e causa C-185/04, Ulf Oberg). I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 91 La normativa comunitaria rilevante 11. Per quanto concerne la normativa comunitaria primaria, il giudice del rinvio invoca gli articoli 17, 39 e 42 del Trattato. 12. L’art. 17 CE istituisce la cittadinanza dell’Unione e prevede che i cittadini dell’Unione godano dei diritti e siano soggetti ai doveri previsti dal Trattato. A tal proposito, la Corte di giustizia ha osservato che tale norma non può ricevere un’applicazione autonoma rispetto alle disposizioni specifiche del Trattato che disciplinano i diritti ed i doveri dei cittadini dell’Unione (sentenza del 16 dicembre 2004, causa 293/03, My, punto 32) come, per quanto qui interessa, l’art. 39 CE e l’art. 42 CE. 13. L’art. 39 CE garantisce la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, precisando che essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. 14. L’art. 42 CE detta poi disposizioni specifiche in materia di sicurezza sociale sancendo che “il Consiglio (…) adotta in materia di sicurezza sociale le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori, attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni, sia per il calcolo di queste; b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri” (evidenza nostra). 15. Nulla dice la predetta norma per il caso di lavoro prestato, oltre che in uno o più Stati membri, anche presso una Istituzione comunitaria. 16. Quanto alla normativa secondaria, in attuazione dell’art. 39 CE, il Consiglio ha adottato il regolamento n. 1612/68 del 15 ottobre 1968 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, il cui art. 7 prevede che “1. Il lavoratore cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri Stati membri, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato. 2. Egli gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.” 17. In attuazione dell’art. 42 CE, è stato adottato il regolamento del Consiglio n. 1408/71 del 14 giugno 1971 relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, il cui art. 2 stabilisce che “1. Il presente regolamento si applica ai lavoratori subordinati o autonomi che sono o sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che sono cittadini di uno degli Stati membri, oppure apolidi o profughi residenti nel territorio di uno degli Stati membri, nonché ai loro familiari e ai loro superstiti. 2. Inoltre il 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 presente regolamento si applica ai superstiti dei lavoratori che sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri, indipendentemente dalla cittadinanza dei detti lavoratori, quando i loro superstiti siano cittadini di uno degli Stati membri oppure apolidi o profughi residenti nel territorio di uno degli Stati membri. 3. Il presente regolamento si applica agli impiegati pubblici ed al personale che, in base alla legislazione applicabile, è ad essi assimilato, nella misura in cui siano o siano stati soggetti alla legislazione di uno Stato membro cui è applicabile il presente regolamento.” 18. Anche tale norma non fa alcun riferimento ai lavoratori che hanno lavorato alle dipendenze di un’Istituzione comunitaria, oltre che di uno o più Stati membri. 19. Il paragrafo 3 del predetto articolo 2 è stato peraltro soppresso dall’art. 1, par. 2) del regolamento n. 1606/98 del 29 giugno 1998 che ha disciplinato ex novo il regime previdenziale applicabile ai dipendenti pubblici. 20. In particolare, l’ottavo considerando del predetto regolamento n. 1606/98 precisa che, per tener conto delle peculiarità dei regimi pensionistici speciali per i dipendenti pubblici, è giustificata una deroga limitata al principio generale del cumulo, cosicchè nell’ambito di tali regimi i periodi compiuti in un regime speciale in un altro Stato membro, pur non dovendo essere presi in considerazione, non vanno perduti, poiché si richiede che essi siano presi in considerazione nel regime generale del primo Stato membro, anche quando l’interessato non ha completato un periodo in tale regime. 21. Tale regime derogatorio non sembra applicabile alla fattispecie, atteso che, pur non essendo specificato nelle ordinanze di rimessione se i ricorrenti abbiano lavorato in Italia in qualità di lavoratori privati o di lavoratori pubblici, la prima soluzione sembra derivare dal fatto che la prestazione previdenziale viene fatta valere nei confronti dell’INPS e non già dell’INPDAP, ente previdenziale competente per i dipendenti pubblici. 22. Il principio della totalizzazione dei periodi di occupazione previsto dall’art. 72 del regolamento n. 1408/71 – in base al quale “l’istituzione competente di uno Stato membro la cui legislazione subordina l’acquisizione del diritto alle prestazioni al compimento di periodi d’occupazione, tiene conto a tal fine, nella misura necessaria, dei periodi d’occupazione compiuti nel territorio di ogni altro Stato membro, come se si trattasse di periodi compiuti sotto la legislazione ch’essa applica” – può quindi incontrare delle deroghe. 23. Si tratta quindi di stabilire se lo stesso sia applicabile ai dipendenti delle istituzioni comunitarie. Sul quesito posto alla Corte 24. Il giudice del rinvio chiede nella sostanza alla Corte di chiarire se il principio della totalizzazione dei periodi contributivi debba trovare applicazione anche nei confronti dei dipendenti delle istituzioni comunitarie. I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 93 25. Occorre ricordare che il diritto comunitario non pregiudica la competenza degli Stati membri a organizzare i propri regimi di previdenza sociale e che in mancanza di un’armonizzazione a livello comunitario, spetta alla legislazione di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti per la concessione delle prestazioni di previdenza sociale nonché l’importo e la durata delle stesse. Nell’esercizio di tale competenza gli Stati membri devono tuttavia rispettare il diritto comunitario e, in particolare, le disposizioni del Trattato CE relative alla libera circolazione dei lavoratori o relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione europea di circolare e di soggiornare sul territorio degli Stati membri (Corte di giustizia, sentenza 21 febbraio 2008, causa C- 507/06, Klöppel, punto 16; sentenza 23 novembre 2000, causa C-135/99, Elsen, punto 33). 26. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte infatti (sentenze 24 ottobre 1975, Petroni, causa C-24/75, punto 13; 23 febbraio 1986, De Jong, causa C-254/84, punto 15 e 14 dicembre 1989, Dammer, causa C-168/88, punto 21), lo scopo degli articoli 39-42 del Trattato non potrebbe essere perseguito se, in conseguenza dell'esercizio del diritto di libera circolazione, i lavoratori dovessero perdere vantaggi previdenziali loro garantiti, in ogni caso, dalla sola normativa di uno Stato membro. 27. E’ inoltre pacifico che una normativa nazionale che svantaggia taluni cittadini di uno Stato per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro libertà di circolare e soggiornare in un altro Stato membro rappresenta una restrizione delle libertà riconosciute dagli artt. 18 e 39 CE a tutti i cittadini dell’Unione (Corte di giustizia, sentenza, 11 luglio 2002, causa C-224/98, D’Hoop, punto 31; sentenza 29 aprile 2004, causa C-224/02, Pusa, punto 19). 28. In tale quadro, il regolamento n. 1408/71 mira a realizzare l’obiettivo stabilito dall’art. 42 CE attraverso la prevenzione di possibili effetti negativi che l’esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori potrebbe avere sul godimento, da parte dei lavoratori e delle loro famiglie, delle prestazioni previdenziali, in particolare per quanto riguarda la carriera dei lavori migranti che hanno versato contributi a vari sistemi di previdenza sociale e quindi a offrire loro la certezza giuridica che manterranno i diritti a pensione derivanti dai loro contributi a sistemi previdenziali in modo analogo ad un lavoratore che non ha esercitato il suo diritto alla libera circolazione all’interno della Comunità (Corte di giustizia, sentenza 3 aprile 2008, causa C-331/06, Chuck, punto 32). 29. Ciò premesso, va sottolineato che le sentenze della Corte di giustizia citate nelle ordinanze di rinvio (16 febbraio 2006, causa C-137/04, Amy Rockler e causa C-185/04, Ulf Oberg), si riferiscono ad un caso - contrario rispetto a quello oggetto delle due cause principali - di lavoratori che sono stati alle dipendenze di Istituzioni comunitarie per brevi periodi (rispettivamente un anno e cinque anni) che, successivamente, hanno lavorato presso uno Stato 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 membro e che hanno invocato da tale Stato membro prestazioni previdenziali – nella specie assegni familiari – che tenessero conto del periodo contributivo svolto presso l’Istituzione comunitaria. 30. La Corte ha correttamente concluso che tale periodo dovesse essere preso in considerazione. 31. Nei casi oggetto delle cause principali invece si tratta di due ricorrenti che hanno lavorato per brevi periodi (rispettivamente sette anni e sei anni) presso uno Stato membro (l’Italia) e successivamente hanno svolto tutto il resto della loro carriera lavorativa (rispettivamente 39 anni e 26 anni) presso un’istituzione comunitaria. 32. Gli stessi percepiscono una pensione di vecchiaia a carico del regimo pensionistico comunitario e pretendono il riconoscimento, dallo Stato italiano, di una liquidazione pro rata di pensione di vecchiaia per il periodo di lavoro svolto in detto Stato membro. 33. La cronologia dei fatti è rilevante per la soluzione del quesito. 34. Infatti, lo Statuto del personale delle Comunità europee (di seguito lo Statuto), adottato con regolamento n. 31 (C.E.E.) 11 (C.E.E.A.) relativo allo statuto dei funzionari e al regime applicabile agli altri agenti della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (GU 45 del 14 giugno 1962, pag. 1385), in esecuzione dell’art. 283 CE, prevede una specifica disciplina del trattamento pensionistico dei dipendenti di istituzioni comunitarie. 35. In particolare, l’art. 11, nn. 1 e 2 dell’allegato VIII dello Statuto, nella versione vigente all’epoca dei fatti di cui alle cause principali, distingue due distinte ipotesi, disponendo che: “1. Il funzionario che cessa dalle sue funzioni per: – entrare al servizio di un'amministrazione ovvero organizzazione nazionale o internazionale che abbia concluso un accordo con le Comunità, – esercitare un'attività subordinata o autonoma per la quale egli maturi dei diritti a pensione in un regime i cui organismi di gestione abbiano concluso un accordo con le Comunità, ha diritto di far trasferire alla cassa pensioni di tale amministrazione ed organizzazione, ovvero alla cassa presso la quale il funzionario maturi dei diritti a pensione di anzianità per la sua attività subordinata o autonoma, l'equivalente attuariale dei suoi diritti alla pensione di anzianità maturati nelle Comunità. 2. Il funzionario che entra al servizio delle Comunità dopo: – aver cessato di prestare servizio presso un'amministrazione, un'organizzazione nazionale o internazionale, ovvero – aver esercitato un'attività subordinata o autonoma, ha facoltà, all'atto della sua nomina in ruolo, di far versare alle Comunità sia l'equivalente attuariale sia il forfait di riscatto dei diritti alla pensione di I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 95 anzianità maturati per le attività suddette. In tal caso l'istituzione, presso cui il funzionario presta servizio, determina, tenuto conto del grado di inquadramento, le annualità che computa, secondo il proprio regime, a titolo di servizio prestato in precedenza sulla base dell'importo dell'equivalente attuariale o del forfait di riscatto” (evidenza nostra). 36. Da tale norma si evince che il principio della totalizzazione dei contributi contemplato dal regolamento n. 1408/71 non è applicabile ai dipendenti di istituzioni comunitarie, il cui regime pensionistico è espressamente disciplinato dallo Statuto e si fonda sul principio del trasferimento dei diritti pensionistici dal regime comunitario al regime nazionale e viceversa . 37. Lo Statuto prevede, da un lato, il trasferimento al sistema pensionistico dello Stato membro presso il quale il dipendente ha successivamente lavorato delle contribuzioni e delle posizioni previdenziali precedentemente maturate presso l’istituzione comunitaria (art. 11, n. 1 dell’allegato VIII dello Statuto), dall’altro, il trasferimento al sistema pensionistico comunitario delle contribuzioni precedentemente maturate nei confronti di uno Stato membro, nel caso ricorrente nella fattispecie in esame, in cui il lavoratore abbia lavorato in un istituzione comunitaria in un momento successivo (art. 11, n. 2 dell’allegato VIII dello Statuto). 38. Come statuito dalla Corte di giustizia (sentenza 3 ottobre 2000, causa C-411/98, Ferlini, punto 41; sentenza del 16 dicembre 2004, C-293/03, My, punto 35) i dipendenti delle Comunità europee non possono essere considerati lavoratori ai sensi del regolamento n. 1408/71. Essi non sono infatti assoggettati ad una normativa previdenziale nazionale, come richiesto dall’art. 2, n. 1 del regolamento medesimo. 39. Per contro, lo status di lavoratore migrante di un dipendente delle Comunità europee non può dar luogo ad alcun dubbio. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, un cittadino comunitario che lavori in uno Stato membro diverso dal suo Stato di origine non perde la qualità di lavoratore ai sensi dell’art. 39 n. 1 del Trattato per il fatto di occupare un impiego all’interno di un’organizzazione internazionale, anche se le condizioni per il suo ingresso e il suo soggiorno nel paese in cui è occupato sono specialmente disciplinate da una convenzione internazionale (Corte di giustizia, sentenza Ferlini cit., punto 42; sentenza My cit., punto 37; sentenza 15 marzo 1989, cause riunite C- 389/87 e C-390/87, Echternach e Moritz, punto 11; sentenza 27 maggio1993, causa C-310/91, Schimd, punto 20). 40. Il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 CE viene però tutelato, nel caso dei dipendenti di Istituzioni comunitarie, non già dal regolamento n. 1408/71 bensì dallo Statuto. 41. Il sistema di trasferimento dei diritti pensionistici previsto dall’art. 11, n. 2 dell’allegato VIII dello Statuto, consentendo un coordinamento tra i regimi pensionistici nazionali e quello comunitario, mira ad agevolare il pas- 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 saggio dagli impieghi nazionali, pubblici o privati, all’amministrazione comunitaria e a garantire in tal modo alle Comunità le maggiori possibilità di scelta di personale qualificato che abbia già un’adeguata esperienza professionale (sentenza My cit. punto 44; sentenza 20 ottobre 1981, causa C- 137/80, Commissione/Belgio, punti 11 e 12). Conclusioni 42. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito affermando che gli articoli 7, 39 e 42 del Trattato e le norme pertinenti del Regolamento n. 1408/71 debbano essere interpretate nel senso che il principio della totalizzazione di tutti i periodi contributivi per il conseguimento ed il mantenimento del diritto alle prestazioni previdenziali non trovi applicazione per i dipendenti delle Istituzioni comunitarie, per i quali vige il principio del trasferimento dei diritti previdenziali dal regime nazionale a quello comunitario e vice versa, previsto dallo Statuto del personale delle Comunità europee, altrettanto idoneo a garantire il diritto alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione. Roma, 4 dicembre 2009 Avv. Wally Ferrante I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 97 Causa C-495/09 - Materia trattata: unione doganale - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) il 2 dicembre 2009 - Nokia Corporation/Her Majesty's Commissioners of Revenue and Customs (avv. Stato W. Ferrante - AL 6804/2010 - Poteri delle autorità doganali in caso di transito di merce con marchio contraffatto proveniente e diretto ad un paese terzo, a prescindere dalla possibile imissione in commercio nel territorio dell’Unione). LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE Se merci non comunitarie recanti un marchio comunitario, soggette alla vigilanza doganale in uno Stato membro e in transito da uno Stato terzo ad un altro Stato terzo, siano in grado di costituire «merci contraffatte » ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. a), del regolamento n. 1383/2003/CE, qualora non esistano elementi idonei a provare che tali merci saranno immesse in commercio nell’UE, che sia in conformità ad una procedura doganale o per mezzo di una diversione illegittima. LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA 1. Con l’ordinanza [26 novembre 2009, depositata il 2 dicembre 2009 della Court of Appeal of England and Wales - Regno Unito] è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, sulla [suesposta] questione pregiudiziale. Fatti di causa 2. La domanda pregiudiziale trae origine dal rinvenimento, durante dei controlli aeroportuali, da parte dell’autorità doganale del Regno Unito (Her Majesty’s Commissioners of Revenue and Customs – HMRC), di una partita di merci - telefoni cellulari ed accessori - spedite da Hong Kong e dirette in Colombia, contrassegnate da marchio (NOKIA) pacificamente contraffatto. 3. Accertata la contraffazione del marchio, le autorità doganali inglesi non hanno accolto la richiesta della società titolare del marchio contraffatto di sequestrare le merci in applicazione del regolamento (CE) n. 1383/2003 del 22 luglio 2003, relativo all’intervento dell’autorità doganale nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale e alle misure da adottare nei confronti di merci che violano tali diritti. 4. Le autorità doganali inglesi hanno infatti ritenuto di non poter applicare tali disposizioni comunitarie in assenza di elementi attestanti il fatto che i prodotti sarebbero stati immessi in commercio nell’Unione Europea. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 La normativa comunitaria rilevante 5. La normativa comunitaria di riferimento, costituita dal citato regolamento n.1383/2003 e dal regolamento n.1891/2004, recante disposizioni di applicazione del predetto regolamento n. 1383/2003, si pone l’obiettivo di consentire alle autorità doganali di bloccare le spedizioni contenenti merce contraffatta in tutti i regimi doganali (immissione in libera pratica, esportazione, riesportazione, regimi sospensivi). 6. Tale impostazione, che mira a bloccare il commercio internazionale di merci contraffatte, si evince non solo dai considerando dei due regolamenti ma anche dalle relative disposizioni. 7. Al riguardo il terzo considerando del regolamento n.1383/2003 testualmente recita: “Nei casi in cui le merci contraffatte o usurpative e, in genere, le merci che violano un diritto di proprietà intellettuale sono originarie o provengono dai paesi terzi, occorrerebbe vietarne l’introduzione, compreso il trasbordo, nel territorio doganale della Comunità, l’immissione in libera pratica nella Comunità, il vincolo ad un regime sospensivo, il collocamento in zona franca o in deposito franco, e istituire una procedura adeguata che consenta l’intervento delle autorità doganali per assicurare, il più efficacemente possibile, il rispetto di tale divieto” (evidenza aggiunta). 8. Difatti, l’art. 1, n. 1, lett. b) del regolamento n.1383/2003 stabilisce le condizioni di intervento dell’Autorità doganale anche nei casi in cui le merci contraffatte siano scoperte in occasione di un controllo effettuato su merci vincolate ad un regime sospensivo. 9. L’introduzione della possibilità per le autorità doganali di intervenire anche nei regimi sospensivi è giustamente motivata dalla gravità che ha assunto, a livello mondiale, il commercio di prodotti contraffatti e dalla conseguente necessità di dotare le Autorità doganali di adeguati strumenti di intervento. 10. Pertanto, a livello comunitario, è stato stabilito che in presenza di una spedizione di merce contraffatta, non solo in caso di transito ma addirittura anche in caso di trasbordo, debba essere prevista la possibilità di tale intervento; la connessa e sottostante esigenza è proprio quella di bloccare tale commercio illecito, che costituisce comunque una violazione di un diritto di proprietà intellettuale, a prescindere dal regime doganale sottostante. 11. Pertanto, tale normativa, in un certo senso, ha assimilato, quanto a gravità, il traffico illecito di merce contraffatta al traffico illecito di sostanze stupefacenti, al traffico di armi ed al traffico di T.L.E. (tabacchi lavorati esteri), settori nei quali è stata originariamente prevista la possibilità per le dogane di intervenire anche nei regimi sospensivi. 12. Ai sensi del quarto considerando del regolamento n. 1383/2003, “l’intervento dell’autorità doganale dovrebbe essere applicato anche alle merci contraffatte o usurpative e alle merci che violano taluni diritti di proprietà in- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 99 tellettuale, che sono in procinto di essere esportate, riesportate o in uscita dal territorio doganale della Comunità”(evidenza aggiunta). 13. Il quinto considerando precisa inoltre che “l’intervento dell’autorità doganale dovrebbe consistere o nella sospensione dell’immissione in libera pratica, dell’esportazione e della riesportazione delle merci sospettate di essere contraffatte o usurpative o di violare taluni diritti di proprietà intellettuale, o nel blocco di tali merci quando siano vincolate ad un regime sospensivo, in zona franca o in deposito franco, in procinto di essere riesportate previa notifica, introdotte nel territorio doganale o di lasciare tale territorio per tutto il tempo necessario ad accertare se si tratti effettivamente di merci siffatte”(evidenza aggiunta). 14. D’altro canto, l’ottavo considerando stabilisce che “le procedure avviate per determinare se vi sia stata violazione di un diritto di proprietà intellettuale ai sensi della normativa nazionale, si svolgono in base ai criteri utilizzati per determinare se le merci prodotte nello Stato membro interessato violino i diritti di proprietà intellettuale …” (evidenza aggiunta). 15. Dall’esame delle predette disposizioni emerge che l’intervento dell’Autorità doganale non è condizionato dalla circostanza che sussistano elementi idonei a provare che le merci acquisteranno la posizione di merci comunitarie. 16. Tale condizione non è richiesta, né esplicitamente, né implicitamente dalle disposizioni del regolamento n. 1383/2003. 17. Argomentando “a contrario” e, cioè, subordinando l’intervento da parte delle dogane all’esistenza di indizi che facciano presupporre la volontà da parte del proprietario di immettere in commercio i prodotti contraffatti in uno degli Stati membri (nel quale il marchio gode di tutela), si finirebbe, in sostanza, per legittimare tale traffico illecito, che è poi proprio quello che la disciplina comunitaria intende contrastare. 18. L’Autorità doganale britannica ha tratto tale convincimento dalla definizione contenuta nell’art. 2, par. 1, lettera a) del regolamento n. 1383/2003, in base al quale sono “merci contraffatte” i) merci, compreso il loro imballaggio, su cui sia stato apposto senza autorizzazione un marchio di fabbrica o di commercio identico a quello validamente registrato per gli stessi tipi di merci, o che non possa essere distinto nei suoi aspetti essenziali da tale marchio di fabbrica o di commercio e che pertanto violi i diritti del titolare del marchio in questione ai sensi della normativa comunitaria, quali previsti dal regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario o ai sensi della legislazione dello Stato membro in cui è presentata la domanda per l’intervento delle autorità doganali” (evidenza aggiunta) nonché ii) qualsiasi segno distintivo” e iii) gli imballaggi recanti marchi delle merci contraffatte presentati separatamente” che si trovino nella stessa situazione di cui al punto i). 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 19. A loro volta, l’art. 9 del regolamento (CE) n. 40/94 sul marchio comunitario e l’art. 5 della direttiva 89/104/CEE sul riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa (di analogo contenuto) prevedono che il titolare di un marchio registrato ha il diritto di vietare a terzi di usare tale marchio nel commercio. 20. Secondo l’impostazione dell’autorità doganale britannica, dal momento che le merci in transito non vengono poste in commercio, viene applicato il conseguente sillogismo che non sarebbero, in quanto tali, neanche contraffatte. Sul quesito posto alla Corte 21. Il giudice remittente ha sollevato la questione pregiudiziale dando atto dell’esistenza di due diversi orientamenti interpretativi della Corte di Giustizia in materia. 22. Infatti, in alcune pronunce (sentenza 6 aprile 2000, causa C-383/98 Polo/Lauren e sentenza 7 gennaio 2004, causa C-60/02 Montres Rolex), la Corte di giustizia ha affermato che il previgente regolamento n. 3295/94 del Consiglio del 22 dicembre 1994 relativo all’intervento dell’autorità doganale nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale (precedente rispetto a quello ora vigente ma sostanzialmente analogo nei contenuti) doveva considerarsi applicabile anche alle merci in transito, con riferimento alle quali non vi fossero elementi specifici attestanti la possibile “immissione in commercio” nel territorio dell’UE, mentre in altre decisioni (sentenza del 9 novembre 2006, causa C-281/05 Montex; sentenza del 18 ottobre 2005, causa C-405/03, Class International e sentenza del 23 ottobre 2003, causa C-115/02, Rioglass) la Corte ha affermato l’applicabilità del previgente regolamento, con conseguente potere di sequestrare le merci contraffatte, solo nell’ipotesi in cui il prodotto fosse suscettibile di essere immesso in commercio nello Stato membro nel quale era assicurata tutela. 23. Al riguardo, deve essere evidenziato che nella causa C-383/98, Polo/Lauren, le merci contraffatte, rinvenute in Austria, provenivano da un Paese terzo (Indonesia) ed erano destinate ad altro Stato allora terzo (Polonia), senza che dalla lettura dei fatti di causa, possa emergere che la Corte di giustizia abbia fondato la propria decisione sulla possibilità di immissione in commercio delle merci all’interno dell’U.E.. 24. Anzi al punto 26 della richiamata sentenza, la Corte si è espressamente occupata della possibilità di applicare il regolamento comunitario a merci contraffatte “in transito” da e per paesi terzi, chiarendo che l’espressione “regime sospensivo delle merci” indica in particolare il transito esterno, cioè un regime doganale che consente la circolazione da un punto ad un altro del territorio doganale della Comunità di merci non comunitarie senza che queste merci siano assoggettate a dazi all’importazione e agli altri tributi del codice doga- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 101 nale comunitario. 25. La Corte ha espressamente affermato l’applicazione delle disposizioni comunitarie in tale ipotesi (punto 27), in quanto “il transito esterno di merci non comunitarie non è un’attività esterna al mercato interno” e “questa operazione può aver un’incidenza sul mercato interno in quanto merci contraffatte vincolate al regime di transito esterno rischiano di essere fraudolentemente introdotte nel mercato comunitario”(punto 34). 26. Tale principio è a maggior ragione applicabile alla fattispecie se si considera che il titolare del diritto di proprietà intellettuale, che nel caso Polo/Lauren era non comunitario, nel caso della causa principale è comunitario, essendo la NOKIA una società finlandese. 27. Anche nella sentenza Montres Rolex (causa C-60/02) la Corte ha affermato che il previgente regolamento era applicabile al caso in cui merci in transito fra due Stati che non sono membri della Comunità europea sono provvisoriamente bloccate dalle autorità doganali di uno Stato membro (punto 64), facendo salva tuttavia la legislazione nazionale in materia di sanzioni penali, rette dal principio della certezza del diritto e della irretroattività (punto 61) 28. Nelle sentenze in cui sembra essere stato affermato un principio contrario, in particolare nella causa C-281/05, Montex, dalla lettura dei fatti di causa, emerge che le merci lesive di un diritto di marchio nello Stato membro nel quale erano state rinvenute (Germania), erano pacificamente dirette in un diverso Stato membro (Irlanda) nel quale il titolare del marchio non poteva godere di un analogo diritto di esclusiva. 29. Quanto alla causa C-405/03, Class International, risulta che, in quel caso, le merci provenienti dal Sud Africa ed in transito in Olanda, dopo essere state sospettate di contraffazione, si erano poi rivelate originali. 30. Analoga situazione è rinvenibile nella causa C-115/02, Rioglass in cui la Corte si è occupata di merci legalmente fabbricate in uno Stato membro (Spagna) e destinate, dopo essere transitate nel territorio di un altro Stato membro (Francia), ad essere immesse in commercio in un Paese all’epoca terzo (Polonia). 31. La fattispecie della causa principale riguarda invece un caso di accertata contraffazione e sembra essere piuttosto riconducibile al caso analizzato nella causa C-383/98, Polo/Lauren. 32. Deve, inoltre, rilevarsi che se la ratio del regolamento n. 1383/2003 è quella di vietare l’introduzione, compreso il trasbordo, nel territorio doganale della Comunità, l’immissione in libera pratica nella Comunità, il vincolo ad un regime sospensivo, di merci contraffatte o usurpative (terzo considerando) assicurando l’intervento dell’autorità doganale anche sulle merci contraffatte o usurpative e sulle merci che violano taluni diritti di proprietà intellettuale, che sono in procinto di essere esportate, riesportate o in uscita dal territorio doganale della Comunità (quarto considerando), una interpretazione della di- 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sciplina comunitaria, che richieda l’accertamento del rischio che le merci contraffatte vengano immesse nel territorio comunitario per applicare il blocco delle merci stesse, non garantirebbe il perseguimento delle finalità della norma. 33. Peraltro, deve essere rilevato che la commercializzazione anche in paesi terzi di merci contraffatte è comunque idonea a ledere il mercato interno, se si considera che la immissione in commercio di tali merci sarà presumibilmente causa di una diminuzione della domanda di merci originali, con intuibili conseguenze sulla produzione e diffusione delle merci originali. 34. Infatti, solo un’interpretazione non restrittiva della disciplina comunitaria, può costituire un valido deterrente alla commercializzazione di merci contraffatte e garantire il pieno conseguimento degli obiettivi esposti nei considerando del regolamento. 35. A tale proposito, non può che ribadirsi come il carattere contraffatto o meno di una merce non può derivare dalla possibilità che la stessa sia messa in commercio, essendo invece necessario attenersi alla definizione di merce contraffatta contenuta nei regolamenti n.1383/2003 e n.1891/2004. 36. Come si è visto, dalla lettura del terzo considerando del regolamento n. 1383/2003, si evince che la ratio del regolamento è quella di attribuire all’autorità doganale il potere di bloccare e sequestrare le merci contraffatte sia quando esse siano immesse in libera pratica, sia in caso di mero transito attraverso uno Stato membro. 37. Non è essenziale ai fini del sequestro, pertanto, l’esistenza di elementi idonei a provare che le merci in transito acquisteranno la posizione di merci comunitarie in quanto il transito delle merci contraffatte attraverso Stati membri, per essere esportate verso un altro Paese terzo, comporta il rischio generalizzato che tali merci siano fraudolentemente introdotte nel mercato comunitario. 38. Occorre sottolineare, inoltre, che l’ottavo considerando del citato regolamento sancisce il principio del “Manufacturing Fiction” (finzione della produzione), in base al quale l’autorità doganale e, di conseguenza i tribunali, al fine di valutare se le merci violino o meno diritti di proprietà intellettuale, devono considerarle come se fossero prodotte nel territorio dello Stato in cui sono state sottoposte a fermo. 39. Pertanto il Governo italiano ritiene che il regolamento n. 1383/2003 sia applicabile anche qualora non esistano elementi idonei a provare che le merci contraffatte, in transito da un Paese terzo ad altro Paese terzo, saranno immesse nel commercio UE. Conclusioni 40. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito affermando che merci non comunitarie recanti un marchio comunitario, soggette alla vigilanza doganale in uno Stato membro e in transito da uno Stato I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 103 terzo ad un altro Stato terzo, costituiscono “merci contraffatte” ai sensi dell’art. 2 n. 1, lett. a), del regolamento n. 1383/2003/CE, anche qualora non esistano elementi idonei a provare che tali merci saranno immesse in commercio nell’UE, che sia in conformità ad una procedura doganale o per mezzo di una diversione illegittima. Roma, 31 marzo 2010 Avv. Wally Ferrante 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Causa C-20/10 - Materia trattata: politica sociale - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Trani (Italia) il 13 gennaio 2010 -Vino Cosimo Damiano/Poste Italiane SpA (avv. Stato W. Ferrante - AL 18447/10). LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1) Se la clausola n. 8.3 dell'Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEF, abbia introdotto nell'ordinamento interno una fattispecie «acausale» per l'assunzione a termine dei dipendenti della s.p.a. Poste Italiane; 2) se per giustificare una reformatio in peius della precedente normativa in tema di contratto a tempo determinato e perché non operi il divieto di cui alla clausola n. 8.3 dell'accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE sia sufficiente il perseguimento — da parte del legislatore interno — di un qualsiasi obiettivo, purché diverso da quello di dare attuazione alla richiamata Direttiva, o se sia necessario che questo obiettivo non solo sia meritevole di una tutela quantomeno equivalente a quello penalizzato, ma sia anche espressamente «dichiarato»; 3) se la clausola n. 3.1 dell'Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEP abbia introdotto nell'ordinamento interno una fattispecie «acausale» per l'assunzione a termine dei dipendenti della S.p.a. Poste Italiane; 4) se il principio generale di non discriminazione e di uguaglianza comunitario osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEP abbia introdotto nell'ordinamento interno una fattispecie «acausale» che penalizzi i dipendenti della S.p.a. Poste Italiane, nonché, rispetto a questa Società, anche altre imprese dello stesso o di altro settore; 5) se gli artt. 82, comma 1, e 86, commi 1 e 2, del Trattato CE ostano ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEP ha introdotto nell’ordina- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 105 mento interno una fattispecie «acausale» a beneficio della sola S.p.a. Poste Italiane (impresa con capitale interamente pubblico), realizzando un’ipotesi di sfruttamento di posizione dominante; 6) nel caso in cui le precedenti questioni vengano risolte affermativamente, se il Giudice nazionale sia tenuto a disapplicare (o a non applicare) la normativa interna contrastante con il diritto comunitario. LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA 1. Con l’ordinanza [del 23 novembre 2009, depositata il 25 novembre 2009 del Tribunale di Trani in funzione del Giudice del lavoro - Italia] è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulle [suesposte] questioni pregiudiziali. Fatti di causa 2. La domanda pregiudiziale trae origine da una controversia instaurata nel 2009 da un lavoratore nei confronti di Poste italiane S.p.A. avente ad oggetto l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto il 28 marzo 2008 ai sensi dell’art.2, comma 1 bis del d.lgs. n. 368/2001. 3. In forza di detto contratto, il lavoratore ha lavorato con la qualifica di portalettere junior dal 1 aprile 2008 al 31 maggio 2008. La normativa comunitaria rilevante 4. La direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato premette, nel suo terzo considerando: “il punto 7 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilisce tra l'altro che la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea. Tale processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni, che costituisca un progresso, soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro interinale e il lavoro stagionale” (evidenza nostra). 5. Al quinto considerando, la predetta direttiva, ricorda che le conclusioni del Consiglio europeo di Essen hanno sottolineato la necessità di provvedimenti per “incrementare l'intensità occupazionale della crescita, in particolare mediante un'organizzazione più flessibile del lavoro, che risponda sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività” (evidenza nostra). 6. Il sesto considerando della citata direttiva sottolinea inoltre che la risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1999 relativa agli orientamenti in ma- 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 teria di occupazione per il 1999 invita le parti sociali a tutti i livelli appropriati a negoziare accordi “per modernizzare l'organizzazione del lavoro, comprese forme flessibili di lavoro, al fine di rendere le imprese produttive e competitive e di realizzare il necessario equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza” (evidenza nostra). 7. L’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo, l’accordo quadro), che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE, prevede, nel suo preambolo: “il presente accordo stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali” (evidenza nostra). 8. La clausola 3 dell’accordo quadro prevede che l'apposizione del termine deve essere determinata "da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico". 9. La clausola 8 dell’accordo quadro dispone che "gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori", ma "che l'applicazione dell'accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello di tutela offerto al lavoratore nell'ambito coperto dall'accordo". 10. Ai sensi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70/CE, gli Stati membri erano tenuti a mettere in atto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi ad essa entro il 10 luglio 2001. La normativa nazionale 11. Con legge 29 dicembre 2000, n. 422, recante disposizioni per l’adempimento degli obiettivi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 2000, il legislatore nazionale ha delegato il governo italiano ad emanare i decreti legislativi necessari per recepire le direttive comunitarie di cui agli allegati A e B di tale legge. Nell’allegato B è in particolare menzionata la direttiva 1999/70/CE. 12. L’art. 2, n. 1, lett. b), della legge n. 422 del 2000 dispone in particolare che, “per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, saranno introdotte le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse …”, e la stessa disposizione, alla lett. f), prevede che “i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime”. 13. La delega è stata attuata dal Governo italiano con l’adozione del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, recante attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 107 europea), dal CEEP (centro europeo dell’impresa a partecipazione pubblica) e dal CES (Confederazione europea dei sindacati). 14. L’art. 1, n. 1, del decreto legislativo n. 368 del 2001 dispone che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro” (la parte in evidenza è stata aggiunta dall’art. 21 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria). L’art. 1, comma 2 prevede che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”. Al comma 1 è stato premesso dall’art. 1, comma 39 della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (legge finanziaria 2008) il seguente periodo: “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”. 15. L'art. 2 del d.lgs. n. 368 stabilisce che "E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l'assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell'organico aziendale che, al 1° gennaio dell'anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale può essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione della direzione provinciale del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente articolo”. 16. La previsione riportata ripete pedissequamente la formula già usata nella lettera f) del c. 2, dell'art. 1 della legge n. 230/1962, introdotta dall'articolo unico della legge 25 marzo 1986, n. 84 che elencava le condizioni legittimanti l'assunzione a termine nelle aziende di trasporto aereo o esercenti i servizi aeroportuali. 17. Si deve anche rilevare come la previsione di cui all'articolo 2 del d.lgs. 368/2001 non sia l'unica nella quale viene consentito il ricorso al lavoro a termine indipendentemente dalla prova di una ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. 18. Altre ipotesi sono: - le assunzioni a termine nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 per l'esecuzione di speciali servizi non superiori a tre giorni ai sensi dell'art. 10, c. 3 d.lgs. 368/2001; - le assunzioni di dirigenti, ammesse con il limite massimo di durata di cinque anni e senza obbligo di forma scritta in quanto fattispecie contrattuali unicamente soggette alle disposizioni degli artt. 6 e 8 (art. 10, c. 4 d.lgs. 368/2001); - la prosecuzione del lavoro del personale dipendente che abbia differito il pensionamento di anzianità ai sensi della legge n. 388/2000 art. 75 (art. 10, e 6 d.lgs. 368/2001); - le assunzioni di lavoratori in mobilità, ex art. 8 c. 2,1. n. 223/1991; - le assunzioni dei disabili ex art. 11 legge n. 68/1999. 19. Il comma 1 bis dell'articolo 2 del decreto legislativo n. 368/2001 estende il campo di applicazione del primo comma. Esso stabilisce, infatti, che: "le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l'assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma". 20. Per quanto riguarda la disciplina del settore postale in Italia, occorre precisare che, inizialmente, i servizi di cui all'art. 1 del codice postale erano forniti dall'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni; l'art. 1 del decreto legge 1° dicembre 1993, n. 487 (Trasformazione dell'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni in ente pubblico economico e riorganizzazione del Ministero), convertito in legge, con modificazioni, con la legge 29 gennaio 1994, n. 71, ha trasformato l'Amministrazione in un ente pubblico economico denominato "Ente Poste Italiane". 21. Successivamente, in base alla previsione già contenuta nel c. 2 dello stesso art. 1 del decreto legge n. 487 del 1993, con la deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica 18 dicembre 1997, n. 244, l'Ente Poste Italiane è stato trasformato, a decorrere dal 28 febbraio 1998, in una società per azioni denominata "Poste Italiane Spa". Tutte le azioni di quest'ultima sono state attribuite al Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica. 22. Pur dopo la privatizzazione, la società Poste Italiane ha continuato a svolgere - in ossequio agli obblighi imposti dalla legge 29 gennaio 1994, n. 71 - determinate funzioni eminentemente pubblicistiche, e cioè servizi non oggettivamente postali. 23. L'art. 2 della legge n. 71/94, relativo all'attività di Poste Italiane, prevede che questa svolga le attività e i servizi determinati nello statuto e nel con- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 109 tratto di programma che deve essere concluso tra il Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni ed il Presidente di Poste Italiane. 24. L'art. 6 del contratto di programma concluso nel 1995 stabilisce: "Ferma la garanzia da parte [di Poste Italiane] di assicurare lo svolgimento dei servizi universali, riservati o non, [...] su tutto il territorio nazionale, [Poste Italiane] individuerà i piccoli uffici postali periferici operanti in zone remote che non garantiscono condizioni di equilibrio economico, predisponendo per essi interventi di razionalizzazione della gestione tali da garantire la progressiva riduzione della perdita di gestione imputabile a ciascuno. Sulla base del principio di distinzione fra le funzioni imprenditoriali e le funzioni sociali [di Poste Italiane], le parti determineranno entro 3 mesi dalla chiusura di ciascun esercizio, l'entità degli obblighi di servizio universale derivanti dal mantenimento degli uffici predetti. A tal fine dovranno essere considerati per ciascun piccolo ufficio esclusivamente i costi diretti o indiretti, determinati su base consuntiva, di univoca imputabilità all'ufficio stesso a fronte dei quali non risultino ricavi derivanti dall'attività del medesimo [...] Ove lo Stato stabilisca a carico [di Poste Italiane] comportamenti da cui scaturiscano oneri impropri ovvero l'applicazione di tariffe particolari esso provvederà comunque ad assicurare la copertura delle spese o dei mancati ricavi [di Poste Italiane]". 25. Al fine di garantire "eque condizioni di concorrenza rispetto alle tariffe praticate per analoghi servizi dalle aziende concorrenti", Poste Italiane si è impegnata, all'art. 11 dello stesso contratto di programma, ad adottare un sistema di contabilità su conti separati destinato a "consentire in particolare la verifica dell'insussistenza di sussidi incrociati tra i servizi riservati a favore di quelli non riservati nonché di pratiche discriminatorie". 26. Tale obbligo è stato confermato dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662, relativa a misure di razionalizzazione delle finanze pubbliche, il cui art. 2, n. 19, ultimo periodo, stabilisce: "è fatto obbligo all'ente di tenere registrazioni contabili separate, isolando in particolare i costi e i ricavi collegati alla fornitura dei servizi erogati in regime di monopolio legale da quelli ottenuti dai servizi prestati in regime di libera concorrenza". 27. L'art. 41 del codice postale è stato abrogato dal decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, che è entrato in vigore il 6 agosto 1999 e che ha dato attuazione nell'ordinamento italiano alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/67/CE, concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari ed il miglioramento della qualità del servizio. 28. In base all’art. 1 della direttiva 97/67/CE, "La presente direttiva fissa le regole comuni concernenti: - la fornitura di un servizio postale universale nella Comunità; - i criteri che definiscono i servizi che possono essere riservati ai fornitori del servizio universale e le condizioni relative alla fornitura dei servizi non 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 riservati; - i principi tariffari e la trasparenza contabile per la fornitura del servizio universale; - la fissazione di norme di qualità per la fornitura del servizio universale e la creazione di un sistema che garantista il rispetto di queste norme; - l'armonizzazione delle norme tecniche; - la creazione di autorità nazionali di regolamentazione indipendenti”. 29. L'art. 9, n. 4, della direttiva 97/67/CE prevede che, per garantire la salvaguardia del servizio universale come definito all'art. 3, gli Stati membri possono istituire un fondo di compensazione, che è destinato a indennizzare il fornitore del servizio universale per gli oneri finanziari non equi che ad esso derivano dalla fornitura di tale servizio. Tale fondo può essere finanziato mediante contributi di operatori autorizzati a fornire servizi non riservati, indipendentemente dalla loro appartenenza o meno al servizio universale. 30. Inoltre, l'art. 14 della direttiva 97/67/CE obbliga gli Stati membri ad adottare le misure necessarie per garantire che, entro due anni dalla data della sua entrata in vigore, i fornitori del servizio universale operino, nella loro contabilità interna, una separazione tra i diversi servizi riservati ed i servizi non riservati. 31. Come risulta dal ventottesimo considerando della direttiva 97/67/CE, questa separazione contabile ha come finalità di rendere trasparenti i costi effettivi dei vari servizi e di evitare che sovvenzioni incrociate dal settore riservato al settore non riservato possano alterare sfavorevolmente le condizioni di concorrenza in quest'ultimo settore. 32. Occorre poi evidenziare che, con l'art. 23 comma 2, d.lgs. 261/1999, è stato formalizzato l'affidamento a Poste Italiane della concessione relativa al Servizio Universale di durata quindicinale (decorrente dal 6 agosto 1999), con successiva conferma da parte del Decreto Ministeriale 17 aprile 2000. 33. Il quadro sin qui delineato già lascia intendere la rilevanza pubblicistica e sociale delle funzioni affidate alla società Poste Italiane e quindi la posizione peculiare rivestita, nel sistema, dalla stessa, sia per l'aspetto soggettivo (esclusiva partecipazione statale), sia per l'innegabile rilevanza pubblica del servizio postale universale reso. 34. In particolare, quanto a quest'ultimo profilo, gli attributi di necessaria continuità, capillarità, qualità ed economicità del servizio affidato connotano, in maniera decisiva ed esclusiva il medesimo, ben giustificando un trattamento normativo a sé stante nel contesto ordinamentale. 35. Si consideri, infatti, che l'art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146, recante norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, alla lett. e) del c. 2, inserisce nel proprio ambito applicativo anche i servizi relativi alle "poste", in quanto riguardanti "la libertà di comunicazione". I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 111 36. Inoltre, come si è visto, Poste Italiane è tenuta a mantenere strutture organizzative periferiche anche se diseconomiche, in adempimento delle proprie "funzioni sociali". 37. Non può negarsi, allora, che ci trova dinanzi ad un soggetto in posizione non equiparabile ad ogni altro imprenditore privato operante sul mercato, con la conseguente razionalità, ed anzi necessità, di una sottodisciplina mirata. 38. Nel contesto ora delineato, il ricorso ai contratti a termine, storicamente, è stato determinato dalla necessità di mantenere inalterato il flusso dei servizi postali, anche durante i periodi di ferie o di assenza a qualsiasi titolo del personale, come del resto avveniva nel corso del previgente regime pubblicistico, senza però determinare quel permanente appesantimento di bilancio e quella rigidità gestionale derivanti da un eventuale aumento, non necessario ma definitivo, dell'organico. 39. La ratio del comma 1 bis dell'art. 2 del decreto legislativo n. 368/2001 in esame risiede evidentemente, in primo luogo, in ragioni di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, come attesta la stessa collocazione nella legge finanziaria 2006 (Legge 23 dicembre 2005, n. 266), cioè in una legge contenente istituzionalmente "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato". 40. Nella stessa legge, peraltro, sono contenute altre disposizioni che, parallelamente e per altri profili, proprio in considerazione dell'essenza pubblicistica della proprietà e delle funzioni attribuite, si preoccupano di salvaguardare l'equilibrio finanziario e gestionale della società Poste Italiane. 41. In particolare, al comma 31, del medesimo art. 1 si prevede che "Il Ministero dell'economia e delle finanze e Poste italiane Spa determinano con apposita convenzione i parametri di mercato e le modalità di calcolo del tasso da corrispondere a decorrere dal 1 ° gennaio 2005 sulle giacenze dei conti correnti in essere presso la tesoreria dello Stato sui quali affluisce la raccolta effettuata tramite conto corrente postale, in modo da consentire una riduzione di almeno 150 milioni di euro rispetto agli interessi a tale titolo dovuti a Poste italiane Spa dall'anno 2005". 42. Inoltre, al successivo comma 96 si dispone che "ai fini dell'applicazione del contratto di programma 2003-2005 tra il Ministero delle comunicazioni, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze per quanto attiene gli aspetti finanziari, e Poste italiane Spa, in relazione agli obblighi del servizio pubblico universale per i recapiti postali, il Ministero dell'economia e delle finanze è autorizzato a corrispondere a Poste italiane Spa l'ulteriore importo di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008". L'intenzione di fondo della Finanziaria 2006, sul punto, è stata quella di predisporre misure di supporto finanziario o di contenimento di spesa, convergenti verso l'obiettivo di preservare, mediante interventi statali diretti, l'equilibrio 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di bilancio di Poste Italiane. 43. Quanto alla genesi storico-politica contingente del comma 558 dell'articolo 1 della Finanziaria 2006 (che ha appunto introdotto il comma 1 bis dell'articolo 2 del d.lgs. 368/2001), sistematicamente correlato con le norme testé riportate, vanno tenuti presenti i seguenti dati storici: - l'esistenza di un vastissimo contenzioso in tema di assunzioni a termine da parte di Poste Italiane, con insorgenza di costi non preventivati ed incertezze gestionali; - la perdurante oggettiva necessità di risorse umane, pur quantitativamente limitate, ma comunque disponibili ratione temporis (punte o assenteismo stagionali) o per flessibilità pura, in connessione con la natura dei servizi; - l’insostenibilità finanziaria dell'aggravio di quei costi fissi conseguenti all'eventuale ridimensionamento incrementativo in via definitiva della pianta stabile; - la non necessarietà di aumento fisso del personale, col pericolo (già concretizzatosi nella fase di trasformazione) di eccedenze ed esuberi. 44. Invero, le peculiari condizioni, non completamente comparabili con quelle di un normale imprenditore privato, in cui le Poste sono chiamate ad operare, sia per quanto riguarda il contenuto dei servizi sia per quanto riguarda l'autonomia e l'ambito delle scelte, ben giustificano sottodiscipline di settore; queste ultime, peraltro, in quanto rispondenti ad obiettive esigenze di interesse pubblico e sociale, portano ad escludere la lesione del principio di eguaglianza (che viene paventata con il quesito sub d) della ordinanza di rimessione del Giudice del Lavoro di Trani), con riguardo alla diversità di trattamento introdotta sia tra i lavoratori di Poste Italiane e gli altri lavoratori del settore privato, sia tra i lavoratori della predetta società assunti con le diverse clausole utilizzabili. 45. La Corte costituzionale, chiamata già in passato a pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale riguardanti norme che ponevano limitate deroghe ai principi della legge n. 230 del 1962 ha affermato che "rientra nella discrezionalità del legislatore, insindacabile se non risulti esercitata in modo irrazionale ed arbitrario, la scelta di quei settori relativamente ai quali, stanti le loro peculiari caratteristiche ed esigenze nonché la necessità di soddisfazione delle più impellenti e pressanti finalità occupazionali specie giovanili, possa ragionevolmente disporsi una deroga al principio sancito dalla l. n. 230 del 1962" (ordinanza n. 347 del 1988). 46. La legittimità costituzionale di discipline differenziate del lavoro a termine, giustificate dalle peculiari caratteristiche dei singoli rapporti di lavoro, è stata quindi già riconosciuta dalla Corte costituzionale italiana (sentenza n. 80 del 1994, ordinanza n. 347 del 1988, cit.) ed ha costituito, in particolare, uno dei fulcri argomentativi della ritenuta legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, ultimo periodo, del decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Di- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 113 sposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito nella legge 28 novembre 1996, n. 608, secondo cui "le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall'ente Poste Italiane, a decorrere dalla data della sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto". 47. In tale occasione, la Corte costituzionale osservò appunto che "è sufficiente osservare che l'ente Poste Italiane ha operato in regime di concorrenza limitatamente ai servizi di tipo non universale e non riservato, restando peraltro obbligato - in base all'art. 1, c. 3, del contratto di programma del 17 gennaio 1995 - ad assicurare la prestazione, espressamente qualificata nello stesso Contratto di programma come prioritaria, di tutti i servizi universali e riservati, già svolti dall'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni. Non sussistendo, dunque, nell'ambito dei servizi postali, una situazione di piena concorrenza, deve conseguentemente escludersi che la deroga apportata dalla norma denunciata alla disciplina dei contratti di lavoro a termine, limitatamente a quelli stipulati dall'ente Poste Italiane, possa considerarsi in contrasto con la libertà di iniziativa economica privata sancita dall'art. 41 Cost". Quesito sub 1): In merito alla asserita "acausalità" dell'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368/2001 48. L'ordinanza del Tribunale remittente è fondata sul presupposto per cui il legislatore italiano, abbia introdotto con il decreto legislativo n. 368/2001 - anzi, più correttamente, con la legge 23 dicembre 2005, n. 266 che ha novellato il citato decreto legislativo n. 368 - "una fattispecie 'acausale' per l'assunzione a termine dei dipendenti della s.p.a. Poste Italiane". 49. In proposito, si deve evidenziare come la disposizione in esame introdotta dalla Finanziaria 2006 sia giustificata da evidenti esigenze produttive di carattere eccezionale, pur se riferite all'attività ordinaria del settore postale. 50. La tipizzazione di una causale valida di assunzione a termine non fa altro che cristallizzare nel diritto positivo fenomeni riconosciuti come consolidati ed ineliminabili nella realtà dei rapporti giuridici e nelle pronunce giurisprudenziali che, già sotto il vigore della legge n. 230/1962, erano giunte a ritenere sussistenti in concreto certe causali di assunzione a termine sulla base della "comune esperienza" (ex multis, Corte di cassazione n. 276/1990). 51. Infatti, oltre alle citate e contingenti esigenze finanziarie, si deve prendere atto che per Poste Italiane S.p.a. è necessario, in maniera ineludibile, poter disporre di un certo numero di risorse umane a tempo determinato per fronteggiare l'imprevedibilità delle concrete vicende gestionali, e ciò durante tutto il corso dell'anno e massimamente nel periodo estivo. 52. La scelta legislativa, risulta, dunque, in radice assolutamente giusti- 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ficata, ed anzi apprezzabile, sul piano del senso comune e della logica, rispondendo a criteri di razionalizzazione dell'assetto complessivo dell'impresa, risultando realmente funzionale a scongiurare, nell'immediato e per singoli settori, scompensi contingenti cui potrebbe essere contraddittorio, diseconomico ed irragionevole provvedere con assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale, e ciò sempre rimarcando la rilevanza sociale delle funzioni assicurate dalla società. 53. Pertanto, mentre nell'articolo 1, con l'uso di una categoria riassuntiva (clausola generale), la legge ha lasciato all'autonomia contrattuale dei privati la concretizzazione delle ragioni per la contingente assunzione a termine, nell'art. 2, all'opposto, la stessa ha tipizzato una volta per tutte un'ipotesi, qualificata in via astratta e generale come giustificativa dell'apposizione di un termine finale. 54. In tale direzione, all'art. 2 sono fissati, in maniera rigida e tassativa, requisiti soggettivi (qualità del soggetto datore di lavoro) ed oggettivi (sia di tipo teleologico/mansionistico. sia di tipo temporale e quantitativo), che servono a tratteggiare una fattispecie astratta già qualificata come giustificativa dell'assunzione a termine. Corollario ne è che, quando ricorrono i presupposti indicati, è automaticamente e certamente "consentita l'apposizione di un termine". 55. In realtà, le ipotesi di lavoro a termine dell'art. 1 e dell'art. 2 si differenziano non per il requisito causalistico (in ambedue presente), ma solo per la tecnica normativa utilizzata: nell'articolo 1 l'uso di categorie riassuntive e concetti giuridici indeterminati, quindi l'atipicità delle fattispecie, è controbilanciata dal controllo giudiziale intrinseco veicolato attraverso oneri formali specifici e pregnanti; nell'articolo 2, l'uso di formule normative tassative e dettagliate limita il ruolo del giudice al controllo esteriore della mera sussumibilità del caso concreto nell’ambito della fattispecie normativa e rende, quindi, superflui ulteriori oneri formali. 56. Infatti, a differenza dei casi atipici di cui all'art. 1, dove la indeterminatezza delle ipotesi richiede la correlata "specificazione" scritta delle ragioni contingenti investite (per consentire il controllo giudiziale causalistico), nel caso che interessa le ragioni sono in realtà già contenute nella norma di legge. 57. Pertanto, in sede contrattuale, non è assolutamente necessaria l'indicazione di ulteriori causali concrete, rimanendo ben sufficiente il mero richiamo alla fattispecie di legge. 58. Detta soluzione - in relazione all'altra ipotesi contemplata dall'articolo 2 del d.lgs. 368/2001 e cioè in relazione al trasporto aereo - è stata immediatamente sposata anche dal Ministero del Lavoro il quale nella Circolare 1 agosto 2002, n. 42 (in G.U. 13 agosto 2002, n. 189) ha chiarito che, nel caso del trasporto aereo, "non è richiesta la sussistenza di specifiche ragioni né, ovviamente, la relativa indicazione nel contratto". I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 115 59. In particolare, osserva il Ministero "le imprese di quel settore possono utilizzare tale tipologia contrattuale nei limiti di tempo prescritti dalla legge senza pur tuttavia essere tenute a specificarne le motivazioni. Ciò si spiega in ragione del fatto che il settore in esame e caratterizzato da ciclici e ricorrenti incrementi di produttività che il legislatore ha inteso codificare. Non è escluso, peraltro, che le stesse imprese si avvalgano della norma generale di cui all'art. 1 per ulteriori necessità di implementazione temporanea dell'organico in periodi diversi e/o maggiori di quelli stabiliti dalla disposizione in esame, la quale - è opportuno rilevarlo - non opera in via esclusiva ma è limitata a sopperire alle sole implementazioni stagionali del settore che sono ritenute strutturali". 60. La chiusura e la tenuta del sistema sono, poi, assicurate dal controllo sindacale finale, veicolato attraverso gli obblighi di informazione prescritti dalla norma, nel rispetto della clausola di contingentamento. 61. La correttezza di tali argomentazioni è stata confermata, da ultimo, dalla stessa Corte Costituzionale che, con la sentenza 19 luglio 2009. n. 214 ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1 bis del decreto legislativo n. 368/2001. 62. La Corte Costituzionale ha in proposito affermato che "la norma censurata costituisce la tipizzazione legislativa di un'ipotesi di valida apposizione del termine. Il legislatore, in base ad una valutazione - operata una volta per tutte in via generale e astratta - delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine. Tale valutazione preventiva ed astratta operata dal legislatore non è manifestamente irragionevole. Infatti, la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell'organico, è direttamente funzionale all'onere gravante su tali imprese dì assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica i quali «costituiscono attività di preminente interesse generale», ai sensi dell'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l'Italia deve assicurare lo svolgimento del ed. "servizio universale" (cioè la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii postali fino a 2 chilogrammi; la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 chilogrammi; i servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii assicurati: art. 3, comma 2, del 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 d.lgs. n. 261 del 1999); tale servizio universale «assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti» (art. 3, comma 1); l'impresa fornitrice del servizio deve garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall'autorità di regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica (art. 3, comma 4); il servizio deve esser prestato in via continuativa per tutta la durata dell'anno (art. 3, comma 3). Non è, dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute per legge all'adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. Si aggiunga che l'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni a termine, prevedendo così un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l'effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma”. 63. Pertanto, l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Trani si fonda sull'erroneo presupposto che il legislatore italiano abbia introdotto (con il comma 588 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 che ha novellato l'art. 2 del d.lgs. 368/2001 inserendovi il comma 1 bis) una fattispecie "acausale". 64. Non si tratta affatto - come ha chiarito la Corte Costituzionale - di una fattispecie acausale, bensì di una ragione obiettiva che giustifica il ricorso al lavoro a termine tipizzata dallo stesso legislatore una volta per tutte, tenendo conto delle esigenze delle imprese del settore di disporre di una quota (15%) di organico sicuramente flessibile. 65. Fra la norma in questione e l'articolo 1 del decreto legislativo n. 368/2001 v'è quindi l'unica differenza che - secondo una legittima scelta del legislatore - nel caso in esame si impone al giudice di verificare solo la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi della dettagliata fattispecie legale, laddove invece l'articolo 1 impone un controllo giudiziale sulla sussistenza caso per caso di una ragione oggettiva giustificante il termine da specificarsi per iscritto nel contratto proprio in funzione di tale controllo. 66. La clausola 3.1 dell'Accordo Quadro ("ai fini del presente accordo, il termine "lavoratore a tempo determinato " indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico") non imponeva, come scelta necessaria, una normativa, come quella poi adottata dal legislatore italiano, che prevedesse la legittimazione del contratto a termine con la "clausola generale" stabilita dal- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 117 l'articolo 1 del decreto legislativo n. 368/2001. 67. E' una opzione, quella adottata dal legislatore italiano, che certo ben si conforma allo spirito antifraudolento della disciplina del lavoro a termine in quanto impone alle parti di esplicitare in anticipo, e cioè in sede di stipulazione del contratto, la specifica causale obiettiva (di tipo tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo), di modo che la effettività di tale causale (e la stessa congruità del termine) siano poi verificabili ex post in caso di contenzioso giudiziale; ovvero (verificabili) anche ex ante, qualora le parti decidano di avvalersi della procedura di certificazione del contratto introdotta dalla legge n. 30/2003 e dal successivo decreto legislativo di attuazione n. 276/2003 (legge Biagi), ottenendo così una asseverazione in via amministrativa (con effetti di certezza del rapporto) della genuinità della qualificazione del contratto. 68. La clausola n. 3 dell'Accordo Quadro non vieta però certo al legislatore di prevedere ex ante la legittimità di contratti a termine in ragione di specifiche condizioni, così come ha appunto fatto le legge italiana in ragione della valutazione delle esigenze delle imprese che operano nel settore del trasporto aereo, dei servizi aeroportuali e delle imprese concessionarie di servizi postali. 69. D'altra parte, il diritto vivente nella magistratura italiana che si è occupata del tema delle assunzione a termine nel settore postale in base all'art. 2 del d.lgs. n. 368/2001 è proprio nel senso qui prospettato. L'assunzione a termine è cioè consentita non in maniera acausale, bensì previa valutazione dei requisiti soggettivi del datore di lavoro (che, per le peculiarità ritenute dal legislatore legittimano il ricorso a questa tipologia contrattuale), dei limiti quantitativi e dei limiti temporali dettati dalla legge (cfr., ex multis, da ultimo: Trib. Trapani 14 ottobre 2009, Corte d'Appello di Torino 11 ottobre 2007, n. 1103, Trib. Milano 8 ottobre 2007, n. 3231). 70. Come ha ribadito il Tribunale di Milano nella sentenza n. 3231/2007 ora richiamata: "Come già sostenuto da precedenti di questo Tribunale (tra gli altri sentenza 2996/07) con il citato articolo 2 comma 1 bis il legislatore ha introdotto una ipotesi tipizzata in analogia con quanto già previsto dall'articolo 2 comma 1 dello stesso decreto legislativo 368/01 [...] In buona sostanza il legislatore ha ritenuto opportuno estendere anche al settore postale una normativa più snella che non indaga sulla singola ragione giustificatrice del termine in relazione a contratti comunque stipulati in un periodo che normalmente giustifica da un lato un incremento di attività (traffico di persone e merci) e dall'altro una maggiore assenza del personale in pendenza delle ferie". 71. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 214/2009 già richiamata, ha affermato che la norma in questione "si limita a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (non già l'indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell'organico complessivo). Pertanto il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale". Quesito sub 2): In merito alla asserita violazione della clausola di non regresso 72. Non condivisibile è altresì la tesi del Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani in merito alla asserita violazione della clausola di non regresso stabilita al punto 8, comma 3, dell'Accordo Quadro (l'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso). 73. La disposizione dell'Accordo inibisce ai legislatori nazionali di recepire la fonte comunitaria in modo tale da introdurre discipline peggiorative rispetto a quelle già vigenti in ciascuno Stato dell'Unione Europea. 74. La normativa italiana di recepimento della direttiva comunitaria non ha comportato un regresso del livello generale di tutela dei lavoratori con contratto a termine. 75. Sotto un primo profilo, il concetto di "ambito coperto dall'accordo stesso" espresso nella clausola di non regresso deve essere interpretato in maniera restrittiva in quanto si riferisce esclusivamente alla materia espressamente disciplinata dalle parti sociali. 76. Per espressa previsione di cui alla clausola 2, paragrafo 1, l'accordo quadro si applica, infatti, ai "lavoratori a tempo determinato con contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro" e non certo alla platea indistinta dei soggetti potenzialmente interessati ad una assunzione a termine. 77. Stando alla lettera dell'articolo 8, paragrafo 3, ciò che si dovrà valutare è, a ben vedere, non la disciplina sul lavoro a termine in generale, ma unicamente quei profili che sono direttamente e specificatamente disciplinati dall'accordo stesso, di modo che il giudizio sulla eventuale violazione della clausola di non regresso andrà compiuto unicamente rispetto alle disposizioni in tema di parità di trattamento e in tema di proroga e rinnovazione del contratto, non rientrando infatti le ipotesi di apposizione del termine al contratto di lavoro nell'ambito coperto dall'accordo. 78. Pertanto, poiché la direttiva si occupa esclusivamente di regolare il rispetto del principio di non discriminazione e di prevenire gli abusi derivanti dalla successione di rapporti a termine, è in riferimento a queste materie che deve essere valutata la nuova normativa nazionale, che, per questi temi, certamente non viola la fonte comunitaria. 79. La questione delle ipotesi di legittima apposizione del termine, per I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 119 contro, esula dagli obiettivi e dall'ambito coperto dall'accordo quadro, come espressamente stabilito dalla clausola 1, che parla di un quadro di garanzie volte a rendere effettivo il principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, da un lato, e a creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti a termine, dall'altro lato. 80. Per altro verso si può sottolineare come la disposizione contenuta nell'Accordo Quadro si limita a stabilire che l'applicazione della direttiva non deve costituire un "motivo valido per ridurre il livello generale di tutela... ". In sostanza il recepimento della fonte europea non può diventare il "pretesto" per interventi regolatori che peggiorino la protezione garantita ai lavoratori dalla disciplina nazionale. 81. Nel 14° considerando della direttiva e nel preambolo dell'accordo, si dispone "il presente accordo stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali. Esso indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori". 82. Dunque il legislatore europeo afferma espressamente la sua volontà di stabilire dei minimi di regolamentazione, lasciando gli Stati membri liberi, a fronte di situazioni nazionali particolari, di introdurre regole di dettaglio anche diversificate: l'accordo quadro è infatti un mero accordo cornice. Dunque, anche in questa prospettiva, la clausola di non regresso non pare violata. 83. Sul punto si deve richiamare la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia che, con la sentenza del 22 novembre 2005, Grande Sezione, causa C-144/04, Mangold, affronta espressamente il problema della clausola di non regresso prevista dall'articolo 8 dell'accordo quadro in materia di contratto a termine. 84. La sentenza afferma che la clausola di non regresso non riguarda soltanto la normativa che recepisce la direttiva che contiene la clausola, ma anche le altre disposizioni legislative nazionali successive a quella che implementa la fonte comunitaria e che completano o modificano le norme nazionali già adottate. 85. Si sottolinea, però che una riforma peggiorativa "della protezione offerta dei lavoratori del settore dei contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l'applicazione di questo'' (punto 52). 86. Peraltro, è degno di rilievo che nelle conclusioni dell'Avvocato Generale nella predetta causa, viene riconosciuto che "non si è qui in presenza 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di una clausola di stand-still che vieti in assoluto un abbassamento del livello di protezione esistente nel diritto nazionale [...] si tratta invece [...] di una clausola di trasparenza [...] ciò emerge anzitutto dalla lettera della clausola, la quale non preclude in generale la riduzione del livello di protezione assicurato ai lavoratori, ma esclude che l'applicazione della direttiva possa essa stessa costituire un motivo valido per operare tale riduzione. A ben vedere una diversa interpretazione non solo contraddirebbe la lettera, assai chiara della clausola, ma contrasterebbe anche con il sistema di ripartizione delle competenze voluto dal Trattato, il quale nel campo della politica sociale riserva alla Comunità il compito di "sostenere e completare l'azione degli Stati membri" in specifici settori". 87. Nella specie, la legislazione tedesca sottoposta alla valutazione della Corte non è stata ritenuta introdotta per la necessità di applicare l'accordo quadro ma per realizzare la diverse finalità "di incentivare l'occupazione delle persone anziane in Germania"; pertanto, l'eventuale riforma peggiorativa doveva considerarsi legittima. Pertanto, una legge nazionale motivata da ragioni diverse dall'applicazione di una direttiva all'interno di uno Stato membro può anche peggiorare lo standard di tutela preesistente purché vi sia una valida ragione giustificativa. 88. Si deve poi ricordare anche la sentenza della Corte di giustizia, Terza sezione, del 23 aprile 2009 cause riunite da C-378/07 a 380/07, Angelidaki che ha affermato che è compito del Giudice nazionale verificare l'esistenza di un regresso del "livello generale" della tutela dei lavoratori. 89. Al riguardo, le sentenza precisa che: "140. Per quanto concerne, in secondo luogo, la condizione secondo cui la reformatio in peius deve riguardare il “livello generale di tutela” dei lavoratori a tempo determinato, essa implica che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato può rientrare nell'ambito applicativo della clausola 8, n. 3, dell 'accordo quadro. 141. Tuttavia, nel caso di specie, per quanto riguarda la modifica derivante dall'esclusione dei lavoratori che hanno stipulato un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato dall'ambito di applicazione del decreto presidenziale 164/2004, sembra che detta modifica non incida su tutti i lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato, ma soltanto su quelli che, da un lato, operano nel settore pubblico, e, dall'altro, non sono parti contraenti di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. 142. Fintanto che questi ultimi lavoratori non rappresentano una porzione significativa dei lavoratori impiegati a tempo determinato nello Stato membro in questione, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, la riduzione della tutela di cui gode una siffatta, ristretta, categoria di lavoratori non è di per sé tale da influenzare complessivamente il livello di tutela I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 121 applicabile nell'ordinamento giuridico interno ai lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato". 90. Secondo quanto si evince dalla giurisprudenza comunitaria ora richiamata, pertanto: - la normativa nazionale non può essere considerata contraria alla clausola di non regresso nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non sia in alcun modo collegata con l'applicazione dell'accordo quadro. Ciò avverrebbe qualora detta reformatio in peius fosse giustificata non già dalla necessità di applicare l'accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, da essa distinto (sentenza Mangold, punto 52); - al fine di verificare la violazione della clausola di non regresso, si deve verificare altresì se sia avvenuta una regressione del "livello generale" della tutela dei lavoratori, tenendo conto anche del dato numerico dei lavoratori coinvolti dalla applicazione della norma in questione e cioè se essi rappresentano una porzione significativa dei lavoratori impiegati a tempo determinato nello Stato membro (sentenza Angelidaki, punto 142). 91. Ora, applicando i canoni ermeneutici tracciati, deve ribadirsi il rispetto della clausola di non regresso. In primo luogo, non solo non si individuano margini di effettivo deterioramento delle condizioni giuridiche dei lavoratori, alla luce degli argomenti sopra spesi, ma, in ogni caso, sussistono, come spiegato, plurime ragioni oggettive pienamente giustificative dell'assetto voluto. 92. Come si è già ampiamente sostenuto, la legge Finanziaria 2006 è intervenuta a motivo delle peculiari esigenze del settore e le ragioni dell’intervento sono senza dubbio valide. 93. Inoltre, i dipendenti con contratto a termine del settore dei servizi postali (21.732, come risulta dall’ordinanza di rimessione) non rappresentano certo una porzione maggioritaria dei lavoratori impiegati a tempo determinato in Italia. Quesito sub 3): In merito alla asserita violazione della clausola 3.1. dell'Accordo Quadro 94. La tesi del Tribunale di Trani - secondo cui la disposizione introdotta dalla Finanziaria 2006 in tema di assunzioni a termine nel settore dei servizi postali sarebbe contraria alla clausola n. 3.1 dell' Accordo Quadro - è infondata sotto diversi profili. 95. Il risultato imposto dalla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato è chiaramente sancito dall'articolo 1 della medesima, che recita: "scopo della presente direttiva è attuare l'accordo quadro sui contratti a tempo determinato". 96. L'accordo quadro, a sua volta, alla clausola n. 1, titolata "obiettivo" dispone: "l'obiettivo del presente accordo quadro è a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il ri- 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 spetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato". 97. Tali scopi sono ripetuti anche nel 14° considerando della direttiva e nel preambolo dell'accordo, dove in aggiunta si dispone "il presente accordo stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali. Esso indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori". 98. La direttiva è quindi incentrata essenzialmente sulla volontà di prevenire abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato: la ratio legis è polarizzata sull'intento di controllare, limitandolo, l'uso continuato nel tempo dello schema tipologico in esame. Ciò è tanto vero che nella clausola n. 5 rubricata "misure per prevenire gli abusi", si introduce una disciplina specifica, proprio volta a delimitare con requisiti causalistici o con limiti massimi di durata, i casi di rinnovo o successione di più contratti a termine. 99. All'opposto, per la diversa ipotesi del primo ed unico contratto a tempo determinato, le previsioni comunitarie sono molto meno incisive, limitandosi, la clausola n. 3 a prevedere che il termine sia "determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico". 100. A conferma di ciò si ricordi che la nota sentenza della Corte di Giustizia del 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adelener non è assolutamente riferita alle causali del primo contratto a tempo determinato, ma soltanto alle ragioni obiettive previste nella direttiva 1999/70/CE che giustificano i rinnovi contrattuali. 101. Il risultato abusivo che la direttiva vuole scongiurare, come confermato dalla giurisprudenza comunitaria in materia, è quindi l'utilizzo plurimo di contratti a termine. 102. Pertanto, si coglie la volontà del legislatore comunitario (14° considerando) di ridurre l'intervento regolativo a quel minimum di tutela ritenuto necessario e comune a tutte le tipologie lavorative, riconoscendosi la possibilità ed anzi la necessità ("deve tener conto") di una modulazione delle tutele di dettaglio, declinata nel particolare, secondo gli specifici ambiti interessati, sul piano nazionale (quindi politico-¬ordinamentale), sul piano settoriale (quindi aziendale-produttivo) e sul piano stagionale (cioè temporale-organizzativo). I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 123 103. Sul punto si richiama la pronuncia già sopra citata del Tribunale di Milano n. 3231/2007, a conferma dell'interpretazione della norma da parte della magistratura italiana. "Né a conclusioni diverse si può pervenire sulla base delle definizioni contenute nella clausola 3 del accordo quadro ovvero in relazione alla definizione di lavoratore a tempo determinato contraddistinto dalla sussistenza di un contratto nel quale il termine sia determinato da condizioni oggettive quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. Anche questa clausola non richiede affatto una indicazione specifica della causa giustificativa della apposizione del termine ma richiede unicamente la sussistenza di condizioni oggettive derivanti proprio dal raggiungimento di una certa data, requisito assolutamente presente nell'articolo 2 citato allorché si fa riferimento a contratti a termine da stipularsi tra l'aprile e l'ottobre". 104. Ed ancora, motiva il Tribunale di Milano: "d'altro canto dal "considerando" numero 10 dell'accordo medesimo si evince come sia stata demandata agli Stati membri e alle parti sociali la formulazione di disposizioni volte all'applicazione dei principi generali, dei requisiti minimi e delle norme in esso contenuti al fine di tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni, comprese le attività di tipo stagionale: l'articolo 2 del decreto legislativo 368/01 non è altro che la realizzazione di una normativa specifica appunto a due particolari settori”. 105. L'articolo 2 del d.lgs. 368/2001 è dunque una norma che rispetto alla prima ed unica assunzione a termine tipizza in astratto un'adeguata e oggettiva ragione di assunzione a tempo determinato, con l'aggiunta di concorrenti sistemi delimitativi. Dunque, si è nel pieno rispetto dei dettami della direttiva. 106. In questa direzione, avvalendosi di concetti propri della teoria generale del diritto, la norma del c. 1 bis non è affatto una norma eccezionale, cioè derogatoria rispetto ad un canone generale, del quale definirebbe una stortura regolativa; la stessa, al contrario, concretizza una norma che riflette e rispetta il criterio normativo generale, realizzando nel contempo un adattamento, sottotipologico, rispetto a fattispecie peculiari. Quesito sub 4): In merito alla asserita violazione del principio generale di non discriminazione e di eguaglianza 107. I principi di eguaglianza e di non discriminazione comunitari trovano sostanziale analogia con i principi sanciti dall'articolo 3 della Costituzione italiana. 108. L'articolo 3 della Costituzione - secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge e devono essere 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale - comporta, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, la illegittimità delle norme che apportino irragionevoli discriminazioni. 109. Quanto alla asserita violazione del principio di non discriminazione e di eguaglianza, si deve allora richiamare integralmente la sentenza della Corte Costituzionale n. 214/2009 già sopra citata, che ha escluso espressamente la illegittimità dell'articolo 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368/2001 rispetto all'articolo 3 della Costituzione. 110. Come sopra si è ampiamente sostenuto la norma in questione non pone una irragionevole discriminazione di situazioni giuridiche simili; semplicemente, il legislatore - con ragionevole esercizio della propria discrezionalità politica - ha tenuto conto delle peculiari esigenze del settore postale. Quesito sub 5): In merito all'asserito sfruttamento di posizione dominante 111. Infondata, infine, la tesi del Tribunale remittente circa un presunto sfruttamento di posizione dominante. 112. Gli articoli del Trattato asseritamente violati sarebbero gli articoli 82 ed 86, commi 1 e 2. 113. L’art. 82 dispone che: “E' incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo. Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque, b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori, c) nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza, d) nel subordinare la conclusione di contratti all’ accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi”. 114. I primi due commi dell'art. 86 prevedono quanto segue: “1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81 a 89 inclusi. I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 125 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”. 115. La tesi che il Tribunale remittente pare voler sostenere si fonderebbe sul presupposto che la norma considerata consentirebbe a Poste Italiane S.pA. di utilizzare uno strumento di flessibilità nell'individuazione del personale da impiegare a termine con un'ampiezza e una possibilità operativa negate alle altre imprese che operano nel settore dei servizi postali, cui si applica (per non essere imprese "concessionarie") la più rigida normativa generale prevista dall'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001. 116. L'assunto non è condivisibile. E' necessario tener presente infatti che, ai sensi dell'art. 90, n. 1, del Trattato, gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche o delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del Trattato, in particolare all'art. 86. 117. L'art. 86 del Trattato vieta, qualora possa essere pregiudizievole per il commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo. 118. Per quanto qui interessa, la giurisprudenza comunitaria, assolutamente concorde, ritiene applicabile la norma in parola alle seguenti condizioni: - l'impresa detiene una posizione dominante, tenendo conto della sua quota di mercato nonché di altri fattori, quali la presenza di concorrenti credibili, l'esistenza di una rete di distribuzione propria, l'accesso privilegiato alle materie prime e così via, fattori che complessivamente consentono all'impresa di sottrarsi alle normali regole della concorrenza; - l'impresa domina il mercato comune europeo o una sua "parte sostanziale"; - l'impresa abusa della propria posizione dominante, ad esempio praticando prezzi troppo elevati o prezzi troppo bassi per escludere dal mercato i concorrenti o i nuovi operatori o accordando a taluni clienti vantaggi discriminatori. 119. La Corte di giustizia ha già in passato analizzato la posizione di Poste Italiane S.p.A., escludendo gli estremi di violazione delle norme del trattato in materia di concorrenza. 120. Si tratta dell'importante sentenza della Corte di giustizia, Sesta Sezione del 17 maggio 2001, Causa C-340/99, TNT Traco S.p.A. contro Poste Italiane S.p.A. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 121. L’autorevolezza, completezza e persuasività degli argomenti spesi nella predetta pronuncia inducono semplicemente a ripercorrerne i tratti motivazionali salienti, assolutamente aderenti alla fattispecie in esame in questa sede. 122. La Corte sottolinea, innanzi tutto, che "è indiscutibile che Poste Italiane, che è titolare dei diritti speciali o esclusivi indicati, detiene una posizione dominante ai sensi dell'art. 86 del Trattato, in quanto risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che il territorio di uno Stato membro, al quale si estende una posizione dominante, può costituire una parte sostanziale del mercato comune (v., in tal senso, sentenza 25 giugno 1998, causa C- 203/96, Dusseldorp e a., Race, pag. 1-4075, punto 60; 26 novembre 1998, causa C-7/97, Bronner, Race. pag. 1-7791, punto 36, e 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany, Race. pag. 1-5751, punto 92)". 123. La medesima ritiene però "importante ricordare, in secondo luogo, che, secondo la giurisprudenza comunitaria il semplice fatto di creare una posizione dominante mediante la concessione di diritti speciali o esclusivi non è, di per sé, incompatibile con l'art. 86 del Trattato; tuttavia, uno Stato membro viola i divieti posti dal combinato disposto dell'art. 90, n. 1, e dell'art. 86 del Trattato quando adotta una misura legislativa, regolamentare o amministrativa che crea una situazione in cui un'impresa alla quale ha conferito diritti speciali o esclusivi è necessariamente indotta ad abusare della propria posizione dominante" (v. in tal senso, in particolare, sentenze 17 luglio 1997, causa C-242/95, GT-Link, Race, pag. 1-4449, punto 33, e Dusseldorp e a., sopra menzionata, punto 61). 124. La Corte di giustizia spiega anche che esiste sfruttamento abusivo di una posizione dominante quando l'impresa detentrice di quest'ultima esige per i suoi servizi un corrispettivo iniquo o sproporzionato rispetto al valore economico della prestazione fornita (v., in particolare, sentenze 5 ottobre 1994, causa C-323/93, Centre d'insémination de la Crespelle, punto 25, e GT-Link, sopra menzionata, punto 39). 125. La Corte rileva altresì, che, come risulta dalla formulazione dell'art. 86 del Trattato, tale normativa è vietata ai sensi degli artt. 86 e 90, n. 1, del Trattato solo in quanto può essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri. 126. A tale riguardo nella decisione in esame si riconosce "che in effetti dal combinato disposto dei nn. 1 e 2 dell'art. 90 del Trattato risulta che il n. 2 di tale norma può essere fatto valere per giustificare la concessione, da parte di uno Stato membro, ad un'impresa incaricata della gestione di servizi di interesse economico generale, di diritti speciali o esclusivi contrari, in particolare, all'art. 86 del Trattato, qualora l'adempimento della specifica missione affidatale possa essere garantito unicamente grazie alla concessione di tali diritti e purché lo sviluppo degli scambi non risulti compromesso in misura I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 127 contraria agli interessi della Comunità (v. in tal senso, in particolare, sentenza 23 maggio 2000, causa C-209/98, Sydhavnens Sten & Grus, punto 74)". 127. Al punto 53 della decisione si legge "Occorre constatare, in secondo luogo, che un'impresa quale Poste Italiane, incaricata in forza della normativa di uno Stato membro di assicurare il servizio postale universale, il che implica l'obbligo di raccogliere, trasportare e distribuire corrispondenza su tutto il territorio dello Stato membro interessato indipendentemente dalla redditività del settore in cui viene fornito il servizio, costituisce un'impresa incaricata della gestione di un servizio di interesse economico generale ai sensi dell'art. 90, n. 2, del Trattato". 128. Ed ancora: "In terzo luogo, dalla giurisprudenza della Corte risulta che non è necessario, affinché siano soddisfatte le condizioni di applicazione dell'art. 90, n. 2, del Trattato, che risulti minacciato l'equilibrio finanziario o la redditività economica dell'impresa incaricata della gestione di un servizio di interesse economico generale. E' sufficiente che, in mancanza dei diritti controversi, possa risultare compromesso l'adempimento delle specifiche funzioni assegnate all'impresa, quali precisate dagli obblighi e dai vincoli impostile, o che il mantenimento dei diritti di cui trattasi sia necessario per consentire al loro titolare di adempiere le funzioni di interesse economico generale affidategli in condizioni economicamente accettabili (v., in particolare, sentenza Albany, soprammenzionata, punto 107)". 129. A tal fine la Corte ritiene che possa addirittura risultare necessario prevedere non solo la possibilità di una compensazione tra i settori di attività redditizi e i settori meno redditizi del titolare della "missione d'interesse generale" costituita dalla gestione del servizio universale (v., in tal senso, sentenza Corbeau, sopra menzionata, punto 17), ma anche l'obbligo per i fornitori di servizi postali che non rientrano in tale servizio universale di contribuire, mediante il pagamento di un diritto postale, al finanziamento di questo servizio universale e di consentire così al titolare di tale missione di interesse generale di adempierla in condizioni economicamente equilibrate nei limiti dell'importo necessario per compensare le eventuali perdite che la gestione del servizio postale universale causa all'impresa che ne è incaricata. 130. Dunque, in totale aderenza alle considerazioni della Corte, deve escludersi che Poste Italiane, attraverso la norma del c. 1 bis, realizzi un abuso di posizione dominante. 131. Difatti, in sintesi: - tale norma non crea una situazione in cui l'impresa alla quale ha conferito diritti speciali o esclusivi è "necessariamente indotta ad abusare della propria posizione dominante"; - tale norma non risulta pregiudizievole al commercio tra Stati membri; - tale norma si giustifica comunque perché riguarda un'impresa incaricata della gestione di un servizio di interesse economico generale ai sensi dell'art. 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 90, n. 2, del Trattato; - il mantenimento dei diritti di cui trattasi appare necessario per consentire al loro titolare di adempiere le funzioni di interesse economico generale affidategli in condizioni economicamente accettabili. 132. Dunque, anche per l'aspetto da ultimo considerato le assunzioni a termine avvenute ai sensi dell'art. 2, c. 1 bis, d.lgs. n. 368/2001, sono compatibili con l'ordinamento comunitario. Quesito sub 6): In merito al potere del giudice nazionale di disapplicare la normativa interna contrastante con il diritto comunitario 133. Avendo risposto negativamente alle precedenti questioni, il Governo italiano non ritiene necessario rispondere al quesito sub 6). Conclusioni 134. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito sub 1) nel senso che la clausola n. 8.3 dell'Accordo Quadro non osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE, abbia introdotto nell'ordinamento interno una disciplina particolare per l'assunzione a termine dei dipendenti della s.p.a. Poste Italiane; 135. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quesito sub 2) nel senso che per giustificare una reformatio in pejus della precedente normativa in tema di contratto a tempo determinato e perchè non operi il divieto di cui alla clausola n. 8.3 dell'accordo quadro è sufficiente il perseguimento - da parte del legislatore interno - di un obiettivo meritevole di una tutela quantomeno equivalente a quello penalizzato; 136. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quesito sub 3) nel senso che la clausola n. 3.1 dell'Accordo Quadro non osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'articolo 2, comma 1 bis del d.lgs. 368/2001) che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE, abbia introdotto nell'ordinamento interno una disciplina particolare per l'assunzione a termine dei dipendenti della s.p.a. Poste Italiane; 137. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quesito sub 4) nel senso che il principio generale di non discriminazione e di uguaglianza comunitario non osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. 368/2001) che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE, abbia introdotto nell'ordinamento interno una disciplina particolare per i dipendenti della s.p.a. Poste Italiane rispetto a quella di altre imprese dello stesso o di altro settore; 138. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quesito sub 5) nel senso che gli articoli 82, comma 1, e 86, commi 1 e 2, del Trattato CE non ostano ad una disciplina interna (come quella dettata dal- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 129 l'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. 368/2001) che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE, ha introdotto nell'ordinamento interno una disciplina particolare a beneficio della sola S.p.a. Poste Italiane (impresa con capitale interamente pubblico); 139. Avendo risposto negativamente alle precedenti questioni, il Governo italiano non ritiene necessario rispondere al quesito sub 6). Roma, 4 giugno 2010 Avv. Wally Ferrante 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Causa C-50/10 - Materia trattata: ambiente e consumatori - Ricorso presentato il 29 gennaio 2010 - Commissione europea/Repubblica italiana (avv. Stato M. Russo - AL 6807/10). IL CONTRORICORSO DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 258 II comma del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, notificato in data 11 febbraio 2010, la Commissione Europea ha adito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea allo scopo di far constatare che “non avendo adottato le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli artt. 6 e 8, ovvero nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, che tutti gli impianti esistenti ai sensi dell’art. 2 paragrafo 4 della direttiva 2008/1/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2008, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento, funzionino secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10 e 13, all’art. 14, lettere a) e b) ed all’art. 15 paragrafo 2, della stessa direttiva, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi imposti dall’art. 5 paragrafo 1 della suddetta direttiva”. 1) La normativa comunitaria 1.1. La Direttiva n. 2008/1/CE del Parlamento e del Consiglio (d’ora in poi, la Direttiva IPPC) reca norme “sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento”. Essa reca altresì, “a fini di razionalità e chiarezza”, (I^ Considerando”) la codificazione, della direttiva 96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento. 1.2. L’art. 2 paragrafo 4 della Direttiva IPPC, reca la definizione di “impianto esistente” “… un impianto che al 30 ottobre 1999, nell’ambito della legislazione vigente anteriormente a tale data, era in funzione o era autorizzato o che abbia costituito oggetto, a giudizio dell’autorità competente, di una richiesta di autorizzazione completa, purché sia poi entrato in funzione non oltre il 30 ottobre 2000”; 1.3 All’art. 5 paragrafo 1 della stessa Direttiva, è stabilito: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, che entro il 30 ottobre 2007 gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti di cui agli articoli 3, 7, 9, 10 e 13, all’articolo 14, lettere a) e b) ed all’articolo 15, paragrafo 2, fatte salve altre disposizioni comunitarie specifiche”. I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 131 2) La normativa nazionale 2.1 Con Decreto legislativo 18 febbraio 2005 n. 59, è stata disposta l’ “Attuazione integrale della Direttiva 96/61/CE”. L’art. 5 comma 18 del medesimo D.lgs., nel suo testo originario, stabiliva: “Ogni autorizzazione integrata ambientale deve includere le modalità previste per la protezione dell'ambiente nel suo complesso di cui al presente decreto, secondo quanto indicato all'articolo 7, nonché l'indicazione delle autorizzazioni sostituite. L'autorizzazione integrata ambientale concessa agli impianti esistenti prevede la data, comunque non successiva al 30 ottobre 2007, entro la quale tali prescrizioni debbono essere attuate. Nel caso in cui norme attuative di disposizioni comunitarie di settore dispongano date successive per l'attuazione delle prescrizioni, l'autorizzazione deve essere comunque rilasciata entro il 30 ottobre 2007. L'autorizzazione integrata ambientale concessa a impianti nuovi, già dotati di altre autorizzazioni ambientali all'esercizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, può consentire le deroghe temporanee di cui al comma 5, dell'articolo 9”; 2.2 Con Decreto legge n. 180 del 30 ottobre 2007, convertito in legge n. 243 del 19 dicembre 2007, è stato disposto il differimento del termine di cui al precedente punto al 31 marzo 2008. Infatti, all’art. 1 del Decreto Legge stesso si legge: “All’art. 5 comma 18 del decreto legislativo 18 febbraio 2005 n. 59, le parole “30 ottobre 2007” sono sostituite dalle seguenti: “31 marzo 2008””; 2.3 All’art. 2 del medesimo decreto legge 180/07, di cui al precedente punto, come integrato e modificato dalla legge di conversione, è prevista la seguente norma transitoria: “1. Fino alla data del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, gli impianti esistenti di cui al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, per i quali sia stata presentata nei termini previsti la relativa domanda, possono proseguire la propria attività, nel rispetto della normativa vigente e delle prescrizioni stabilite nelle autorizzazioni ambientali di settore rilasciate per l’esercizio e per le modifiche non sostanziali degli impianti medesimi; tali autorizzazioni restano valide ed efficaci fino alla scadenza del termine fissato per l’attuazione delle relative prescrizioni, ai sensi dell’articolo 5, comma 18, del citato decreto legislativo n. 59 del 2005, come modificato dall’articolo 1, comma 1, del presente decreto. 1-bis. Le autorità che hanno rilasciato le autorizzazioni di settore di cui al comma 1 provvedono, anche su segnalazione del gestore, ove ne rilevino la necessità al fine di garantire il rispetto della normativa vigente, nonché degli articoli 3, 7, come modificato dall’articolo 2-bis del presente decreto, e 8 del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, all’adeguamento di tali autorizzazioni, nelle more del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale. In mancanza del rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale entro il 31 marzo 2008, in sede di prima 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 applicazione, per le domande di autorizzazione integrata ambientale relative ad impianti esistenti, regolarmente presentate entro i termini, i gestori possono procedere all'esecuzione degli interventi proposti finalizzati all'adeguamento dell'impianto alle migliori tecniche disponibili, con le modalità e i termini indicati nella domanda, qualora gli stessi interventi non siano soggetti a valutazione di impatto ambientale o, se a questa soggetti, per essi sia già stato emanato provvedimento favorevole di conformità ambientale, dando contestualmente pieno avvio alle attività di monitoraggio e controllo indicate nella domanda medesima. Le competenti Agenzie per la protezione dell'ambiente possono verificare, con oneri a carico del gestore, l'attuazione degli interventi e del piano di monitoraggio e controllo, riferendo, entro tre mesi dall'ultimazione degli interventi, all'autorità competente in ordine alle verifiche effettuate e all'efficacia degli interventi stessi rispetto a quanto dichiarato dal gestore. Le risultanze delle verifiche possono costituire causa di riesame del provvedimento di autorizzazione, di esse dovendosi comunque tenere conto nell'emanazione del provvedimento medesimo. 1-ter. Al fine di assicurare il rispetto dei termini di cui all’articolo 5, comma 18, del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, come modificato dall’articolo 1, comma 1, del presente decreto, il Governo è autorizzato ad esercitare il potere sostitutivo di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ove necessario applicando immediatamente la procedura d’urgenza di cui al comma 3 del medesimo articolo 5”. 3) La procedura precontenziosa 3.1. Nel corso della procedura precontenziosa, la Commissione ha contestato al Governo italiano di essere venuta meno agli obblighi di cui all’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva IPPC, segnatamente: - per non aver tempestivamente adottato tutte le autorizzazioni richieste e non aver concluso, al 30 ottobre 2007, tutte le procedure di autorizzazione in corso; - per non aver fornito dati attendibili e completi relativamente allo stato di attuazione della Direttiva IPPC; 3.2 La Commissione ha quindi notificato parere motivato a mente dell’art. 226 T.C.E., assegnando al Governo italiano un termine per conformarvisi di due mesi, decorrenti dalla data della notifica del parere stesso. Detto termine è scaduto il 2 aprile 2009. Il Governo ha risposto al parere con nota del 14 aprile 2009 (prodotta dalla Commissione in allegato 10 al proprio ricorso), ma la Commissione stessa, ritenute insoddisfacenti le argomentazioni addotte dal Governo, ha proceduto a notificare ricorso a mente dell’art. 258 TFUE. 3.3 Secondo i dati forniti dal Governo italiano con la nota del 14 aprile 2009, menzionata al precedente punto, a fine 2008 l’85% degli impianti era dotato di autorizzazione integrata ambientale (d’ora in avanti, A.I.A.). Per il I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 133 7% degli impianti esistenti, il rispetto della disciplina di cui alla Direttiva IPPC era stato garantito tramite l’adeguamento delle preesistenti autorizzazioni, in base al D.L. 180/07 conv. in l. 243/07. Per il restante 8% degli impianti, non era stata rilevata, da parte delle autorità competenti, la necessità di modificare le autorizzazioni preesistenti nelle more del rilascio delle A.I.A.. 3.4 Il Governo italiano, con successiva nota del 18 novembre 2009 (prodotta dalla Commissione in allegato 11 al proprio ricorso), forniva elementi integrativi precisando i dati di cui al precedente punto, secondo le informazioni aggiornate disponibili alla data del 30 ottobre 2009, come segue: il 79% degli impianti esistenti è dotato di A.I.A.. Per tutti i rimanenti, il rilascio dell’ A.I.A. è in corso. Per il 10% degli stessi impianti, le autorizzazioni preesistenti sono state riesaminate e, in qualche caso, aggiornate dopo il recepimento della disciplina IPPC. Per l’11% degli impianti, le autorità competenti non hanno rilevato la necessità di riesaminare le autorizzazioni preesistenti per garantirne la conformità alla disciplina IPPC nelle more del rilascio delle A.I.A.. ** ** ** Il Governo italiano, alla luce di tutto quanto fin qui esposto, ritenendo di aver rispettato gli obblighi di cui all’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva IPPC, svolge le seguenti osservazioni. 4) Nel ricorso della Commissione, ai punti da 28 a 30, si sostiene in sintesi che: - il Governo italiano non avrebbe tempestivamente adempiuto agli obblighi di cui all’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva IPPC; - tale inadempimento persisterebbe alla data (2 aprile 2009) di scadenza del termine indicato nel parere motivato della Commissione, nonché alla data di introduzione del presente giudizio; - i dati forniti dal Governo italiano sarebbero inattendibili; 4.1 Il Governo italiano ritiene che gli assunti di cui al precedente punto siano infondati. Innanzi tutto, preme evidenziare come – in base ai dati da ultimo forniti (punto 3.4.) – per il 79% degli impianti sia stata ormai rilasciata l’A.I.A, mentre per un altro 10% sia stato effettuato il riesame delle autorizzazioni esistenti. Il contestato inadempimento consisterebbe dunque, ad oggi, nel fatto che – secondo i dati forniti dal Governo - una percentuale (l’11%) degli impianti esistenti non sarebbe stata sottoposta né a rilascio di una nuova autorizzazione conforme alla direttiva, né al rinnovo delle autorizzazioni esistenti, per renderle conformi alla Direttiva. A ben considerare, tuttavia, l’inadempimento contestato dalla Commissione non corrisponde esattamente agli obblighi istituiti dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva IPPC 2008/01/CE. È proprio questa norma, infatti, ad ammettere - oltre al rilascio di A.I.A. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 - altresì il semplice riesame, senza aggiornamento, delle prescrizioni preesistenti, ove non si rilevi la necessità di altre azioni: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, che entro il 30 ottobre 2007 gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti …” (enfasi aggiunta). I seicentonove impianti (rappresentanti l’11% del totale) cui fa riferimento la Commissione nel suo ricorso, erano appunto in tale situazione al 30 ottobre 2009: le autorità competenti ad avviare procedimenti di riesame ed eventuale aggiornamento delle autorizzazioni di settore non avevano, cioè, rilevato la necessità di intervenire su tali autorizzazioni per garantire il rispetto degli elementi fondamentali della disciplina IPPC, anche in considerazione delle nuove prescrizioni medio tempore introdotte dalla normativa ambientale, entrata in vigore dopo l’emanazione della direttiva 96/61/CE e, tra l’altro, dal D.Lgs. 152/06 recante “Norme in materia ambientale”. Ad ogni modo, si ribadisce che, come detto al punto 4.1, per i seicentonove impianti in questione, è attualmente in corso di attuazione un “cronoprogramma” (cui si fa riferimento già negli “Elementi integrativi di risposta” allegati alla nota del Governo italiano del 18 novembre 2009 di cui al punto 3.4.) per garantire, entro il prossimo mese di Giugno, il rilascio di tutte le A.I.A.. 4.2 La Commissione contesta, poi (punto 31 del ricorso) che – anche per quanto attiene a quegli impianti per i quali è stato effettuato il riesame - non vi sarebbe prova alcuna dell’effettiva conformità delle autorizzazioni ai requisiti della direttiva IPPC. In proposito, si osserva che l’Italia ha già chiarito (pag. 3 ultimo paragrafo e 4 I e II paragrafo degli “Elementi di risposta” forniti con la nota del 14.4.09, citata al precedente punto 3.2.) che gli elementi essenziali della disciplina IPPC non possono non essere stati rispettati nei procedimenti di riesame ai sensi, tra l’altro, dell’articolo 2, comma 1-bis, del D.L. 180/07: “Le autorità che hanno rilasciato le autorizzazioni di settore di cui al comma 1 provvedono, anche su segnalazione del gestore, ove ne rilevino la necessità al fine di garantire il rispetto della normativa vigente, nonché degli articoli 3, 7, come modificato dall’articolo 2-bis del presente decreto, e 8 del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, all’adeguamento di tali autorizzazioni, nelle more del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale. …”. 4.3 La Commissione, ai punti 33 e 34 del ricorso, stigmatizza “… i costanti mutamenti dei dati forniti dalle autorità italiane nel corso della procedura precontenziosa …” e sostiene che “ … tali mutamenti non hanno contribuito e non contribuiscono a garantire l’affidabilità dei dati forniti …”. In proposito, il Governo italiano fa presente che le variazioni dei dati sono I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 135 state, in sintesi, determinate dalle circostanze qui di seguito esposte. - Fino al novembre 2007 non tutte le domande di autorizzazione erano state ancora presentate alle autorità competenti, pertanto i dati relativi al numero e impianti ed alle attività da essi svolte era affetto da incertezze strutturali. - Dal 2008 a metà 2009, le due maggiori autorità competenti (Regione Veneto e Regione Lombardia) hanno fornito alcune delle informazioni con ritardi ed approssimazioni, tali da far variare di alcune centinaia di unità i totali (come esposto negli “Elementi di risposta” di cui alle note del 14 aprile 2009 e del 18 novembre 2009 in allegato 10 e 11 al ricorso della Commissione). - Esiste infine un’ulteriore, minima, variazione del numero di impianti esistenti, nell’ordine di un centinaio di unità (2-3% del totale), che è da considerarsi fisiologica al sistema, in conseguenza di dinieghi di A.I.A., chiusura di impianti, divisione di impianti in più ragioni sociali, individuazione di impianti non precedentemente censiti ecc... In ogni caso, i dati da ultimo forniti alla Commissione, aggiornati al 30 ottobre 2009, sono quelli ottenuti a seguito della raccolta di informazioni programmata ai sensi della direttiva IPPC per la predisposizione del questionario 2006-2008. Tale circostanza appare sufficiente a garantire la dovuta affidabilità dei dati da ultimo trasmessi, la cui correttezza e completezza qui si ribadisce. 5 Si fa, ora, riferimento all’argomento della Commissione esposto al punto 35 del ricorso, ove si individua nell’art. 1 del D.L. 180/07 un ulteriore sicuro indice dell’inadempienza dell’Italia agli obblighi di cui all’art. 5 paragrafo 1 della direttiva IPPC. Ciò in quanto la norma introdotta con il citato D.L. 180/07, prorogando dal 30 ottobre 2007 al 31 marzo 2008 il termine di cui all’art. 5 comma 18 del D.lgs 59/05, avrebbe violato la previsione di cui all’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, che entro il 30 ottobre 2007 gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti di cui agli articoli 3, 7, 9, 10 e 13, all’articolo 14, lettere a) e b) ed all’articolo 15, paragrafo 2, fatte salve altre disposizioni comunitarie specifiche” (enfasi aggiunta). 5.1 Anche questo argomento non persuade, in quanto parte da un evidente errore prospettico. Il termine del 30 ottobre 2007, stabilito dall’art. 5 comma 18 del D.lgs 59/05, prorogato al 31 marzo 2008 dal D.L. 180/07, non è riferito al medesimo obbligo recato dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva IPPC: il combinato disposto del D.lgs 59/05 e del D.L. 180/07, convertito con modifiche dalla legge 243/07, fa infatti riferimento all’obbligo di dotare ogni impianto esi- 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 stente di autorizzazione integrata ambientale: “Ogni autorizzazione integrata ambientale deve includere le modalità previste per la protezione dell'ambiente nel suo complesso di cui al presente decreto, secondo quanto indicato all'articolo 7, nonché l'indicazione delle autorizzazioni sostituite. L'autorizzazione integrata ambientale concessa agli impianti esistenti prevede la data, comunque non successiva al 31 marzo 2008, entro la quale tali prescrizioni debbono essere attuate. Nel caso in cui norme attuative di disposizioni comunitarie di settore dispongano date successive per l'attuazione delle prescrizioni, l'autorizzazione deve essere comunque rilasciata entro il 31 marzo 2008.” (enfasi aggiunta). La Direttiva IPPC (art. 5, paragrafo 1) fa, invece, riferimento all’obbligo di controllare, attraverso autorizzazioni integrate ambientali ovvero, nel modi opportuni, mediante il riesame e se del caso l’aggiornamento delle prescrizioni, che gli impianti funzionino secondo i requisiti IPPC: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, che entro il 30 ottobre 2007 gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti di cui …” (enfasi aggiunta).. Il sistema costruito dal D.L. 180/07, dunque, non fa che garantire – nelle more del completamento del rilascio delle A.I.A., come disciplinato dall’art. 5 comma 18 del D.lgs 59/08 – proprio il rispetto degli obblighi individuati dall’art. 5 della Direttiva, per assicurare che “ … attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l’aggiornamento delle prescrizioni, … gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti…” (enfasi aggiunta), e ciò fa attraverso la norma transitoria di cui all’art.2, riportata ai precedenti punti 2.3 e 4.2. Il D.L. 180/07 è, dunque, contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione, proprio lo strumento che assicura piena attuazione agli obblighi di cui alla Direttiva IPPC, art. 5 paragrafo 1, nelle more del rilascio delle A.I.A.. 6 In relazione a quanto sostenuto dalla Commissione (punto 36 del ricorso) circa la mancanza di dimostrazione dell’equivalenza fra le autorizzazioni ambientali esistenti e le A.I.A. ai sensi della direttiva, dal che deriverebbe che non vi è prova del rispetto dell’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva IPPC, si osserva quanto segue. 6.1 L’equivalenza tra i requisiti delle autorizzazioni integrate ambientali in corso di definizione e le prescrizioni definite dalle autorizzazioni ambientali preesistenti, come integrate dalle prescrizioni operanti ex lege in forza della normativa ambientale emanata dal 1996, è oggetto di specifica valutazione da parte delle autorità che hanno rilasciato le autorizzazioni preesistenti, ai sensi dell’articolo 2, comma 1-bis del D.L. 180/07, convertito con modifiche dalla I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 137 legge 243/07, articolo che richiama puntualmente la trasposizione nazionale degli articoli 3, 7, 9, 10, 13, 14 (a, b) e 15 (2) della direttiva IPPC. In molti casi (circa il 10% degli impianti esistenti all’ottobre 2009, come detto al punto 3.4) tale equivalenza non è apparsa evidente, pertanto sono stati condotti procedimenti di riesame delle autorizzazioni preesistenti, che in alcuni casi (circa il 4%) hanno portato ad aggiornamento delle autorizzazioni. In altri casi (circa l’11 % degli impianti esistenti all’ottobre 2009) non c’è stata alcuna evidenza di contrasto tra requisiti IPPC e prescrizioni in base alle quali gli impianti erano eserciti, pertanto le competenti autorità non hanno rilevato la necessità, nelle more del rilascio dell’autorizzazione integrata, di alcun aggiornamento delle preesistenti autorizzazioni e conseguentemente non hanno avviato specifici procedimenti di riesame. 7 La Commissione ha – da ultimo, al punto 37 del ricorso – evidenziato che l’esistenza di situazioni particolari locali, richiamata dall’Italia nella fase precontenziosa, non può costituire esimente rispetto ad un eventuale inadempimento degli obblighi e dei termini temporali derivanti da una direttiva. Sul punto, ci si limita a precisare che il Governo ha inteso il suddetto richiamo alle descritte situazioni locali con finalità meramente descrittive, per illustrare le difficoltà pratiche incontrate nel dare attuazione alla direttiva IPPC. ** ** ** Alla luce di quanto esposto, il Governo italiano conclude affinché il ricorso sia rigettato, non sussistendo – alla scadenza del termine assegnato con il parere motivato di cui al punto 4 – una situazione di inadempimento agli obblighi di cui all’art. 5 paragrafo 1 della Direttiva 2008/1/CE. In ogni caso, si riserva – nel prosieguo del giudizio – di aggiornare ulteriormente i dati e rendere noti gli sviluppi del “cronoprogramma” di cui al punto 4.1, con il quale sarà completato il rilascio delle A.I.A.. Avv. Marina Russo 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Causa C-145/10 - Materia trattata: spazio di libertà, sicurezza e giustizia - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Handelsgerichts Wien (Austria) il 22 marzo 2010 - Eva-Maria Painer/Standard VerlagsGmbH, Axel Springer AG, Süddeutsche Zeitung GmbH, SPIEGEL-Verlag Rudolf AUGSTEIN GmbH & Co KG, Verlag M. DuMont Schauberg Expedition der Kölnischen Zeitung GmbH & Co KG (avv. Stato M. Russo - AL 26019/10). LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1) Se l’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale debba essere interpretato nel senso che non osta alla sua applicazione e, quindi, ad una trattazione unica, il fatto che domande formulate nei confronti di una pluralità di convenuti per violazioni del diritto d’autore di contenuto identico siano basate su fondamenti normativi differenti a livello nazionale, ma identici negli elementi essenziali del contenuto, come si verifica per tutti gli Stati europei relativamente al diritto all’inibitoria indipendentemente dalla colpa, al diritto ad un congruo indennizzo per le infrazioni del diritto d’autore e al diritto al risarcimento del danno cagionato dall’utilizzo illecito. 2) a) Se l’art. 5, n. 3, lett. d), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione, debba essere interpretato nel senso che non osta alla sua applicazione il fatto che un resoconto giornalistico che citi un’opera o altri materiali protetti non sia un’opera del linguaggio protetta dal diritto d’autore. b) Se l’art. 5, n. 3, lett. d), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 debba essere interpretato nel senso che non osta alla sua applicazione il fatto che l’opera citata o gli altri materiali protetti non siano corredati dal nome dell’autore o dell’interprete o esecutore. 3) a) Se l’art. 5, n. 3, lett. e), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29, debba essere interpretato nel senso che la sua applicazione nell’interesse della giustizia penale, da tutelare nel contesto della sicurezza pubblica, presuppone un appello concreto, attuale ed esplicito delle autorità di pubblica sicurezza a pubblicare ritratti, ossia la pubblicazione di ritratti finalizzata alle ricerche deve essere indotta dalle autorità, pena la violazione delle norme. b) In caso di soluzione in senso negativo della questione 3a): se i mass media possano invocare per sé l’art. 5, n. 3, lett. e), della direttiva 2001/29 anche quando decidano motu proprio, senza una corrispondente richiesta di ricerche da parte dell’autorità, se le pubblicazioni di ritratti abbiano luogo I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 139 «nell’interesse della sicurezza pubblica». c) In caso di soluzione in senso affermativo della questione 3b): se sia sufficiente in questo caso che i mass media ritengano a posteriori che la pubblicazione di un ritratto abbia giovato alle ricerche o se sia comunque necessario un avviso concreto di ricerche per chiedere la collaborazione dei lettori a far luce su un reato che abbia un nesso diretto con la pubblicazione della fotografia. 4) Se l’art. 1, n. 1, in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 e l’art. 12 della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (Atto di Parigi del 24 luglio 1971), nella versione risultante dalla modifica del 28 settembre 1979, in considerazione soprattutto dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («CEDU») del 20 marzo 1952 e dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea , debbano essere interpretati nel senso che le opere fotografiche e/o le fotografie, in particolare i ritratti fotografici, non godono di alcuna tutela o di una tutela «affievolita» del diritto d’autore rispetto all’elaborazione in quanto, in considerazione della «riproduzione realistica», presentano una potenzialità creativa troppo limitata LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA Il giudizio a quo A. Il presente giudizio trae origine da un procedimento pendente innanzi all’Handelsgericht austriaco, riguardante l’avvenuta pubblicazione, da parte di società editrici che pubblicano riviste e giornali sia in Austria e Germania che sul web (d’ora in poi, “le convenute”), di alcune fotografie realizzate da una fotografa free lance (d’ora in poi “la ricorrente”). Tali foto ritraggono una giovane, rimasta vittima di un sequestro di persona protrattosi per lungo tempo. La pubblicazione delle foto è avvenuta senza il consenso dell’autrice, senza l’indicazione del nome della stessa, ovvero con l’indicazione di un autore diverso. Oltre alle foto realizzate dalla ricorrente, è stata anche pubblicata un’elaborazione grafica (cosiddetto “identikit”) di una di dette foto, volta ad attualizzare il ritratto, adeguandolo alle presunte attuali sembianze della persona ritratta. B. In particolare, nel giudizio a quo, la ricorrente ha proposto un’istanza urgente volta ad ottenere l’interdizione della riproduzione o diffusione delle foto, nonché una domanda di condanna delle convenute al pagamento di un indennizzo e di un risarcimento del danno. C. Con ordinanza dell’8 marzo 2010, il giudice rimettente ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi sui [suesposti] quesiti. ** ** ** 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Il Governo italiano svolge le seguenti osservazioni, che si concentreranno peraltro esclusivamente sui quesiti n. 2 lett. a) e b) e n. 4. I. Sul quesito n. 2 lett. a) Il giudice a quo intende conoscere se l’art. 5, n. 3, lett. d), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della Direttiva 2001/29/CE, debba essere interpretato nel senso che non osta alla sua applicazione il fatto che un resoconto giornalistico che citi un’opera o altri materiali protetti non sia un’opera del linguaggio protetta dal diritto d’autore. A tale quesito, il Governo italiano ritiene debba darsi risposta negativa, per i motivi che qui di seguito si esporranno. I.1 Il primo criterio da prendere in considerazione ai fini dell’interpretazione di una norma è quello letterale. Nel caso di specie, il tenore della norma di cui all’art. 5 n. 3 lett. d) è sufficientemente chiaro, in quanto esige – ai fini delle deroga ai diritti di cui ai precedenti artt. 2 e 3 - che “… si tratti di citazioni, per esempio a fini di critica o di rassegna, sempreché siano relative a un'opera o altri materiali protetti …” (enfasi aggiunta). L’eccezione ai diritti di cui agli artt. 2 e 3 della stessa Direttiva, quindi, può operare solo qualora la citazione di immagine acceda ad un’opera protetta dal diritto d’autore. I.2 Quanto si è sostenuto al precedente punto, sulla base del tenore letterale della norma, non è senza ragione: infatti, anche leggendo la norma alla luce della ratio legis sottesa alla Direttiva 2001/29/CE, non si potrebbe pervenire a conclusioni diverse. Tale ratio è desumibile, in particolare, dai Considerando 9, 10 e 45, i quali prevedono, rispettivamente: “Ogni armonizzazione del diritto d'autore e dei diritti connessi dovrebbe prendere le mosse da un alto livello di protezione …”, “Per continuare la loro attività creativa e artistica, gli autori e gli interpreti o esecutori debbono ricevere un adeguato compenso per l'utilizzo delle loro opere …” “Le eccezioni e limitazioni di cui all'articolo 5, paragrafi 2, 3 e 4 non dovrebbero tuttavia ostacolare la definizione delle relazioni contrattuali volte ad assicurare un equo compenso ai titolari dei diritti …” (enfasi aggiunta). Ebbene, se lo scopo della Direttiva è quello di assicurare la valorizzazione della proprietà intellettuale, tramite un alto livello di protezione ed anche attraverso la garanzia di un adeguato compenso agli autori di opere protette, è evidente che l’eccezione al diritto d’autore per “citazione” si può giustificare solo in quanto la citazione stessa abbia funzione “servente” rispetto ad un’altra opera protetta, completandola ed illustrandola. L’eccezione non si giustificherebbe, invece, nel caso opposto, cioè se un’opera non protetta (qual è, nella specie, il resoconto giornalistico – art. 2 I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 141 comma VII della Convenzione di Berna “La protezione della presente convenzione non si applica alle notizie del giorno od a fatti di cronaca che abbiano carattere di semplici informazioni di stampa”) recasse citazione di un’opera o altro materiale (come un’immagine) protetta. Infatti, in tale ultima ipotesi, il diritto d’autore verrebbe svilito in modo incompatibile con la ratio della Direttiva, perché l’immagine citata servirebbe non già a corredare e completare un’altra opera tutelata dal diritto d’autore, bensì unicamente a dare valore ad uno scritto, di per sé non meritevole della protezione riservata alla proprietà intellettuale. I.3 Le ragioni esposte ai precedenti punti I.1 e I.2 sono, a parere del Governo italiano, di per sé sufficienti a sostenere una risposta negativa al quesito 2.a). Tuttavia, per completezza, appare opportuno evidenziare che anche altri argomenti depongono in favore di una risposta negativa al quesito. In effetti, spostando l’angolo visuale del problema ad una prospettiva più ampia, si perviene comunque ad escludere che un caso come quello descritto dal giudice a quo possa ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 5 n. 3 lett. d) in combinato disposto con il n. 5 dello stesso articolo. Ciò, peraltro, anche a prescindere dalla questione se la citazione sia relativa ad un’opera non protetta dal diritto d’autore. Vi sono, infatti, motivi di ordine più ampio e generale atti a suffragare la tesi dell’inapplicabilità della norma. Come già detto più volte, nel caso di specie si tratta della citazione, nell’ambito di un resoconto giornalistico, di immagini protette da diritto d’autore, non accompagnata dalla corretta indicazione dell’autore. Al riguardo, giova ricordare quanto affermato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale rassegnate nella causa C-5/08 (Infopaq), con riferimento all’art. 5 n. 5 della Direttiva 2001/29. In particolare (al punto 134), l’Avvocato Generale rileva: “Risulta dall’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 che le eccezioni e limitazioni fissate all’art. 5 della direttiva 2001/29 si applicano, in primo luogo, esclusivamente in determinati casi speciali, i quali, in secondo luogo, non siano in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera e, in terzo luogo, non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare. Tali condizioni sono cumulative. Le condizioni di cui all’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29, spesso chiamate in dottrina “test in tre fasi”, sono state introdotte sul modello di trattati internazionali … . Come risulta dal quarantaquattresimo “Considerando” della direttiva 2001/29, la facoltà di applicare le eccezioni e le limitazioni previste nella presente direttiva deve essere esercitata nel rispetto degli obblighi internazionali. Ne consegue che l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 dev’essere interpretato nel rispetto di tali trattati internazionali” (enfasi aggiunta). I.4 Si tratta, allora, di verificare se – nel caso di una citazione come quella descritta dal giudice rimettente – la deroga ai diritti di cui agli artt. 2 e 3 della 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Direttiva resista o meno al “test in tre fasi”. In caso negativo, se ne dovrà necessariamente desumere che la deroga di cui all’art. 5 n. 3 lett. d) non si applica ad un caso come quello descritto nell’ordinanza. Ad avviso del Governo italiano, la risposta al suddetto “test” è negativa, quanto meno con riferimento agli ultimi due parametri. Infatti, se le deroghe di cui all’art. 5 n. 3 si giustificano sotto il profilo della ricorrenza di un “caso speciale”, esse non sembrano altrettanto ammissibili sotto il profilo del contrasto con lo “sfruttamento normale dell’opera” e dell’“ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi dei titolari dei diritti”. La finalità speciale che giustifica il diritto di citazione, infatti, è ravvisabile nel diritto di critica, di speculazione intellettuale o di informazione. Quanto, invece, allo sfruttamento normale dell’opera, è evidente che questo è costituito dalla vendita: prova ne sia il fatto che la ricorrente aveva – a suo tempo - corredato le foto del proprio indirizzo professionale e le aveva vendute. La pubblicazione delle stesse foto su riviste e giornali ed addirittura sul web (con conseguente agevole riproduzione da parte di chiunque vi acceda) incide negativamente sullo sfruttamento commerciale dell’opera, in quanto ne riduce sensibilmente (o ne annulla) le possibilità di vendita in futuro. Proprio da ciò, inevitabilmente, consegue il pregiudizio all’interesse legittimo della titolare del diritto d’autore. Non essendo – pertanto – compresenti le condizioni cumulative di cui all’art. 5 n. 5 della Direttiva, si deve escludere l’applicabilità dell’eccezione di cui all’art. 5 n. 3 lett. d) al caso in esame. ** ** ** Il Governo italiano propone pertanto di rispondere al quesito n. 2 lett. a) nel seguente modo: “L’art. 5, n. 3, lett. d), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione, deve essere interpretato nel senso che osta alla sua applicazione il fatto che un resoconto giornalistico che citi un’opera o altri materiali protetti non sia un’opera del linguaggio protetta dal diritto d’autore”. ** ** ** II. Sul quesito n. 2 lett. b) Con il presente quesito, il giudice a quo mira a conoscere se l’art. 5 n. 3 lett. d) in combinato disposto con l’art. 5 n.5 della Direttiva possa interpretarsi nel senso che non osta alla relativa applicazione il fatto che l’opera o il materiale citato non siano accompagnati dal nome dell’autore. La soluzione è, anche in questo caso, negativa. Infatti, la norma è molto chiara nell’esigere “… che si indichi, salvo in I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 143 caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore…” (enfasi aggiunta). Posto che la sola deroga all’obbligo di indicazione del nome dell’autore è rappresentata dall’“impossibilità”, il giudice a quo dovrà valutare se quest’ultima sussista nel caso di specie, il che non sembra. Infatti, la tesi delle convenute (punto 17 dell’ordinanza) è che – avendo ottenuto le foto da agenzie – esse non avrebbero potuto risalire all’autrice. Inoltre, le convenute avrebbero fatto affidamento sul fatto che la concessione delle foto all’agenzia implicasse anche la cessione dei relativi diritti. Poiché, tuttavia, chi acquista una fotografia da un’agenzia non può non avere contezza dell’esatta portata dei diritti che gli vengono trasferiti contrattualmente, è da escludere che ricorra nella specie un caso di vera e propria impossibilità di risalire all’autore, salva restando la responsabilità per eventuali condotte illegittime delle agenzie nei confronti delle convenute. ** ** ** La risposta al quesito 2 lett. b) che il Governo italiano propone è, pertanto, la seguente: “L’art. 5, n. 3, lett. d), in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 deve essere interpretato nel senso che osta alla sua applicazione il fatto che l’opera citata o gli altri materiali protetti non siano corredati dal nome dell’autore o dell’interprete o esecutore”. ** ** ** III. Sul quesito n. 4 Il presente quesito attiene alla possibilità di accordare una tutela ridotta o – addirittura – nessuna tutela al ritratto fotografico rispetto alla relativa elaborazione, nel presupposto che esso presenti, rispetto a quest’ultima, una minor potenzialità creativa. Il Governo italiano esclude che, alla luce della normativa indicata nel quesito, una simile possibilità sussista. Preliminarmente, deve rilevarsi che l’affermazione secondo cui il ritratto fotografico presenterebbe un minor potenziale creativo rispetto alla sua elaborazione, è assolutamente opinabile, atteso che l’elaborazione stessa è, in realtà, un’operazione piuttosto banale, realizzabile tramite programmi informatici di agevole utilizzo. Va poi osservato che, tanto l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU, quanto l’art. 17 delle Convenzione di Berna, nel riconoscere e tutelare la proprietà ivi compresa quella intellettuale, non recano indicazioni tali da legittimare una tutela diversificata o minore in ragione del (preteso) minor potenziale creativo del ritratto fotografico. Le norme in questione riconoscono – al contrario – in termini assai ampi il diritto di godimento, utilizzo e disposizione della proprietà. Non sembra plausibile, poi, che un affievolimento (o addirittura un’esclusione) della tutela della proprietà intellettuale del ritratto fotografico possa es- 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sere legittimata in base al comma II^ dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla CEDU, che fa salvo il potere degli Stati di introdurre leggi finalizzate a controllare che l’uso della proprietà sia conforme all’interesse generale. Non è infatti possibile teorizzare la sussistenza di un interesse generale a che il ritratto fotografico riceva una tutela minore o nessuna tutela rispetto alla relativa elaborazione: innanzi tutto, come già detto, la tesi della minore potenzialità creativa del primo rispetto alla seconda è del tutto indimostrata; inoltre - atteso che al proprietario dell’opera artistica è espressamente attribuito il diritto esclusivo di autorizzare adattamenti, variazioni e trasformazioni (art. 17 della Convenzione di Berna) - è evidente che tale diritto verrebbe svuotato di contenuto nel momento in cui proprio all’opera originaria (il ritratto) non si accordasse alcuna tutela o, comunque, se ne accordasse una inferiore rispetto alla trasformazione compiuta con un’elaborazione grafica. Infine, con riferimento a quanto illustrato al punto 29 dell’ordinanza di rimessione, si osserva che una limitazione del diritto di proprietà intellettuale sul ritratto fotografico, quale quella ipotizzata nel quesito, non si giustifica neanche alla stregua del “test in tre fasi” ex art. 5 n. 5 della Direttiva 2001/29, di cui si è detto al precedente punto I.3. Al punto 135 delle conclusioni dell’Avvocato Generale della causa C-5/08 (citata al punto I.3), si afferma, infatti, che le eccezioni e limitazioni al diritto di proprietà intellettuale devono essere “chiaramente definite e trovare la propria ragion d’essere in determinate finalità speciali”. Non si comprende, però, a quali “finalità speciali” corrisponderebbe la minorata tutela della proprietà di ritratti fotografici. Quanto alle ulteriori condizioni (mancanza di contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera e mancanza di ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi dell’autore), valgono le stesse considerazioni già esposte al punto I.4. ** ** ** Il Governo italiano propone pertanto di rispondere al quesito nei seguenti termini: “L’art. 1, n. 1, in combinato disposto con l’art. 5, n. 5, della direttiva 2001/29 e l’art. 12 della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (Atto di Parigi del 24 luglio 1971), nella versione risultante dalla modifica del 28 settembre 1979, in considerazione soprattutto dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“CEDU”) del 20 marzo 1952 e dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non debbono essere interpretati nel senso che le opere fotografiche e/o le fotografie, in particolare i ritratti fotografici, non godono di alcuna tutela o di una tutela “affievolita” del diritto d’autore rispetto all’elaborazione” Avv. Marina Russo I L C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E Profili di costituzionalità e questioni interpretative della legge Pinto in punto di “durata irragionevole” La prassi interna e l’orientamento della Corte di Strasburgo (Cass. civ., Sez. Un., sentenza 26 gennaio 2004 n. 1340; Cass. civ., Sez. Un., sentenza 26 gennaio 2004 n. 1339; Cass., Sez. I civ., sentenza 19 novembre 2007 n. 23844; Corte costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007 n. 348) Premessa La Corte Europea di Strasburgo, con le non più recenti, ma certamente decisive sentenze emesse a carico dell'Italia il 10 novembre 2004 (1), ha espressamente statuito che il superamento del limite della ragionevole durata di un procedimento giudiziario colora di illegittimità l’intero svolgimento dello stesso, con il conseguente obbligo per i giudici competenti di quantificare l’equa riparazione da corrispondersi alla vittima della violazione dell’art. 6, par. 1, C.E.D.U. sulla base dell’intera durata del procedimento presupposto, e non del solo periodo di ritardo (rispetto al termine da ritenersi ragionevole) per la sua definizione. I giudici europei hanno così sostituito al concetto di danno da irragionevole durata, quello di danno da durata, che ha come pre- (1) Tra queste, in particolare, si segnalano le pronunce sul ricorso n. 62361/00, proposto da Riccardi Pizzati c. Italia e sul ricorso n. 64897/01 proposto da Zullo c. Italia. Ivi, dopo avere ricordato che ogni sentenza che accerta una violazione obbliga lo Stato convenuto a porre termine alla violazione stessa e ad eliminarne le conseguenze e che, se la normativa nazionale non prevede altro che una parziale eliminazione, l'art. 41 C.E.D.U. consente alla Corte di accordare al ricorrente una soddisfazione in via equitativa, ritenuto che il risarcimento concesso in sede nazionale non costituisse una riparazione appropriata e sufficiente, la Corte Europea di Strasburgo, in applicazione del citato art. 41, ha condannato lo Stato Italiano al pagamento di ulteriori somme, prendendo quale base per la liquidazione del danno morale l’intera durata del procedimento e non il periodo di ritardo (rispetto al termine da ritenersi ragionevole) per la sua definizione. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 supposto, pur sempre, l’accertamento della perpetrata violazione dell’art. 6, par. 1, C.E.D.U. In tutte le sentenze in questione, la Corte Europea non mancava di evidenziare l'esistenza in Italia di una prassi contraria alle disposizioni della Convenzione (per la verità già in passato denunciata), comportante, secondo i giudici di Strasburgo, una stridente violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. Ed in effetti, nonostante la Convenzione, una volta superato il limite della ragionevolezza, imponga di considerare ai fini della liquidazione dell’indennizzo l’intera durata del procedimento, tanto non è consentito al giudice italiano, posto che secondo il disposto dell’art. 2, c. 3, lett. a), della legge n. 89/2001, ai fini dell’equa riparazione da corrispondersi per l’eccessiva durata dei processi « rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole». L’evidente discordanza tra il consolidato orientamento della Corte Europea e la disciplina legislativa nazionale in ordine alla base di calcolo da assumersi per il ristoro del danno morale ha creato terreno fertile all’inoltro di numerose eccezioni di incostituzionalità della citata L. n. 89 del 2001, art. 2, da parte di molti privati, nel punto in cui essa ammette l'indennizzo solo per gli anni eccedenti la durata ragionevole, non potendo, a detta di costoro, il legislatore nazionale con legge ordinaria derogare alla Costituzione, al Diritto Comunitario ed alle Convenzioni Internazionali. 2. La funzione ermeneutica della Corte Europea e la potenziale vincolatività della C.E.D.U. Sin dalla nota sentenza sul caso Scordino c. Italia (2), la Corte Europea ha affermato il principio in forza del quale il giudice del merito, chiamato a riparare le conseguenze dannose derivanti dalla violazione delle norme convenzionali, è vincolato al rispetto dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In tale pronuncia, in particolare, i giudici di Strasburgo hanno sancito l’obbligo fondamentale per «i Giudici Nazionali di applicare le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte Eu- (2) Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia (ricorso n. 36813/1997). Nella sentenza in questione, al capo II, par. 63, i giudici europei richiamano le quattro sentenze rese dalla Corte di Cassazione il 27 novembre 2003 (nn. 1338, 1339, 1340, 1341), i cui testi furono depositati in cancelleria il 27 gennaio 2004, nelle quali la Corte Suprema italiana aveva affermato che «la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto concerne l’applicazione della legge n. 89/2001». In particolare, si riporta il principio declamato nella sentenza n. 1340, secondo cui «la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte d’appello a norma dell’art. 2 della Legge n. 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 147 ropea dei Diritti dell’Uomo ». La Corte Europea, in buona sostanza, ha riconosciuto a se stessa il compito di interpretare la C.E.D.U. e di attualizzarne il contenuto in modo tale da garantire una uniforme ed efficace tutela dei diritti umani, così che ogni norma della C.E.D.U., arricchita e specificata contenutisticamente dagli interventi giurisprudenziali della Corte Europea, è vincolante per gli stati aderenti, ed in particolare per i giudici nazionali chiamati a darne concreta applicazione, non solo nel suo tenore letterale, ma anche nell’interpretazione che della stessa offre la Corte Europea. La Convenzione, infatti, vede come suo connaturale completamento la giurisprudenza dell’organo di tutela da esso costituito, che, attraverso una costante elaborazione, individua quello che potrebbe definirsi il diritto vivente europeo. Tanto è indubbio là dove si consideri che, in virtù delle modifiche introdotte dal Protocollo n. 11 (3), non esiste più ad oggi la possibilità per uno Stato di siglare la Convenzione rifiutando al contempo la giurisdizione della Corte Europea. In questa prospettiva, la Corte di Strasburgo sarebbe da assimilare – almeno su un piano funzionale – ad una Corte Costituzionale e svolgerebbe una funzione «d’orientation generale vis-a-vis del Etats en matiére des droits de l’homme », come plasticamente osservato. Orbene, con ferimento alla riparazione delle conseguenze dannose derivanti dalla violazione delle norme convenzionali, è stata proprio la Corte Europea a prevedere che alle vittime delle violazioni suddette sia dovuta un’equa soddisfazione ex art. 41 della C.E.D.U. Infatti, la citata norma prevede unicamente che «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa», senza stabilire modalità, criteri e parametri alla cui stregua l’equa soddisfazione debba essere valutata. E’ stata, dunque, la Corte di Strasburgo, nella sua incessante opera di interpretazione della Convenzione Europea, ad aver individuato e precisato, con riferimento alla violazione di ogni singola norma convenzionale sottoposta al suo scrutinio, criteri e parametri di liquidazione dell’equa soddisfazione ex art. 41. Tanto è avvenuto anche con riferimento all’equa soddisfazione da ri- (3) Il Protocollo n. 11, entrato in vigore il 1° novembre 1998 (ratificato dall’Italia con L. 28 agosto 1997, n. 296), ha trasformato radicalmente il sistema di controllo della tutela dei diritti dell’uomo delineato dalla Convenzione di Roma, procedendo alla fusione della Commissione (organo istruttorio) e della Corte (organo d’istanza) in un unico organo: la Corte unica. Tale riforma si è resa indispensabile in seguito alla constatazione che l’ormai accresciuto numero di ricorsi pendenti innanzi alla Commissione (frutto anche del moltiplicarsi degli Stati aderenti) non poteva più essere esaminato speditamente con le precedenti procedure. Dopo un lungo dibattito, durato oltre dieci anni, è stato deciso di procedere ad una completa revisione dei meccanismi varati nel 1950. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 conoscere per le violazioni dell’art. 6, par. 1, della C.E.D.U. Con le note sentenze del 10 novembre 2004, in particolare, la Corte Europea ha stabilito che alla vittima dell’accertata violazione del termine di ragionevole durata del processo debba essere riconosciuta un’equa soddisfazione ex art. 41 CEDU pari ad una somma compresa tra i 1000 e i 1500 euro per ogni anno di durata dell’intero processo. Orbene, si pone con ogni evidenza la questione se l’orientamento espresso in sede europea sia da considerarsi vincolante per il giudice nazionale chiamato, esso stesso, a conoscere dell’istanza indennitaria connessa al danno da irragionevole durata, come gli avvocati delle parti private tendono a sostenere, rilevando, in proposito, che un eventuale scostamento del giudice nazionale – chiamato a riconoscere un’equa soddisfazione ex art. 41 in combinato disposto con la norma convenzionale che si assume violata, nella specie l’art. 6, par. 1 – rispetto all’interpretazione che delle stesse norme offre la Corte Europea, realizzerebbe una ulteriore e doppiamente illegittima violazione della Convenzione, colorando l’intera procedura ex lege n. 89/2001 di inefficacia ai sensi dell’art. 13 CEDU. Tale posizione è stata recepita anche dalla Suprema Corte di Cassazione, nelle già citate sentenze a Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, ove si legge: «deve, allora, concordarsi con la detta Corte Europea la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo all’incompletezza della tutela accordata al giudice italiano in applicazione della legge n. 89/2001), ha affermato che deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione» (4). Con fermezza ancora maggiore, nella sentenza n. 1339, cit., si afferma ancora: «è certo che l’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n. 89/2001 (e cioè dell’art. 6, par. 1, nella parte relativa al “termine ragionevole”), non può discostarsi dall’interpretazione che della stessa dà il giudice europeo. L’opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la Legge 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui “le Parti contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giu- (4) Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ., sent. n. 1340/04 – In senso conforme, Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ., sent. nn. 1338/04, 1339/04, 1341/04. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 149 risdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione” (in cui è compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole). Le ragioni che hanno determinato l'approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: “la Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne”). Sul detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell'uomo. (…). La tesi secondo cui, nell'applicare la legge n. 89/2001, il giudice italiano può seguire un'interpretazione non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell'art. 6 CEDU (la cui violazione rappresenta il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte Europea, ottenga da quest'ultimo Giudice l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89/2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo. Deve, allora, concordarsi con la Corte Europea dei diritti dell'uomo la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo alla incompletezza della tutela accordata dal giudice italiano in applicazione della legge n. 89/2001), ha affermato che "deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione». Ancora più espliciti sono, poi, i lavori preparatori della legge n. 89/2001. Nella relazione al disegno di legge del sen. Piceo (atto Senato n. 3813 del 16 febbraio 1999) si afferma che il meccanismo riparatorio proposto con l'iniziativa legislativa (e poi recepito dalla legge citata) assicura al ricorrente "una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale", poiché il riferimento diretto all'art. 6 della CEDU consente di trasferire sul piano interno « i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale, limiti che dipendono essenzialmente dallo stato e dalla evoluzione della giurisprudenza degli organi di Strasburgo, specie della Corte europea dei diritti dell'uomo, le cui sentenze dovranno quindi guidare (…) il giudice interno nella definizione di tali limiti». La tesi esposta presenta, ad avviso di chi scrive, due aspetti di debolezza. Il primo è da ravvisarsi nel dato pacifico che la CEDU, anche per l’ipotesi della durata irragionevole del processo, non introduce norme di diritto interno, 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 cogenti per i giudici nazionali, ma accorda alla parte lesa, a mezzo del proprio organo giurisdizionale, una tutela di tipo suppletivo o sussidiario, invocabile al posto di quella mancante o ad integrazione di quella inadeguata offerta dai singoli ordinamenti (art. 41 della Convenzione). Ora, sebbene l’art. 2 della l. n. 89/2001, con l’obiettivo di apprestare una tutela interna tendenzialmente pari a quella concessa dalla Convenzione, faccia esplicito riferimento alle violazioni del citato art. 6, par. 1, e per il loro verificarsi stabilisca il diritto ad un’equa riparazione, ove si sia prodotto un danno patrimoniale o non patrimoniale in dipendenza del perdurare della causa oltre il tempo ragionevole, da tale esplicito richiamo non può giungersi a negare la presenza, nello stesso articolo, di una propria disciplina circa i parametri cui correlare la durata ragionevole del processo. D’altra parte, se non v’è dubbio che le norme della CEDU non costituiscono vincoli diretti in capo agli Stati aderenti, tanto più si potrà obiettare che le pronunce della Corte Europea – ancorché dotate di valore di precedente, di cui non si può non tener conto, ai fini dell’interpretazione del contenuto dell’art. 2, L. n. 89/2001, nella misura in cui questo richiama l’art. 6, par. 1, della stessa Convenzione – siano da ritenersi vincolanti per il Giudice italiano. Diversamente dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea di Lussemburgo – che, al pari dei regolamenti del Consiglio CE, hanno (per i profili dell'interpretazione della normativa comunitaria) diretta efficacia nell’ordinamento interno ai sensi dell’art. 189 del Trattato CEE (5) e, se pronunciate in sede di rinvio pregiudiziale, vincolano espressamente il giudice rimettente – per le sentenze della Corte EDU non sussistono, nel quadro delle fonti, analoghi meccanismi normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice interno (6). Sembra, quindi, a chi scrive che la presenza di una disciplina interna unitamente all’assenza di disposizioni che conferiscano carattere cogente alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, porti a ritenere che il giudice italiano, chiamato ad attribuire l’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, non sia vincolato alle pronunce della Corte europea (anche se debba tenerne conto, quali autorevoli orientamenti giurisprudenziali e linee direttive per definire la nozione di ragionevole durata del processo (7)) e sia, (5) Cfr., sul punto, Corte Cost. n. 113/85 in relazione a n. 170/84. (6) In questi termini si è espressa anche Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 11987 dell’8 agosto 2002. (7) In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. I, nella sentenza n. 16262 del 19 novembre 2002: «Al fine di ricostruire i lineamenti del diritto all'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, introdotto nel nostro ordinamento ad opera della legge 24 marzo 2001, n. 89, le sentenze della Corte di Strasburgo in tema di interpretazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, pur non avendo efficacia direttamente vincolante per il giudice italiano, nondimeno costituiscono la prima e più importante guida ermeneutica». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 151 viceversa, tenuto a riscontrare esclusivamente sulla scorta dell’ordinamento interno il verificarsi dell’evento dannoso, quale concorrente requisito della nascita del diritto esercitato in giudizio (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 5664 del 10 aprile 2003). Se ne deve dedurre, in conclusione, che il dovere per il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, di interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, operi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001, alla quale egli è pur sempre soggetto, non potendo certo violarne il disposto (8). Semmai, come appresso si vedrà, un eventuale contrasto tra la L. n. 89 del 2001 e la CEDU porrebbe una questione di conformità della stessa con la Costituzione che all’art. 111 tutela lo stesso bene della ragionevole durata del processo, oltre a garantire i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2). Occorre, allora, accertare se possa darsi alla detta legge un’interpretazione che sia conforme alla CEDU, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui va preferita l'interpretazione della legge che la renda conforme alla Costituzione. 3. La questione della tutela “effettiva” Il sistema di tutela posto in essere dalla Convenzione ed accentrato intorno alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si fonda sul principio di sussidiarietà, sancito espressamente dall’art. 35 CEDU, il quale recita: «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne». Da esso deriva il dovere degli Stati aderenti di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere "effettiva" (art. l3 della CEDU), e cioè tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo. Dalla natura sussidiaria dell’intervento della Corte di Strasburgo è disceso l’obbligo, per ciascuno Stato aderente alla Convenzione, di istituire una via di ricorso interna percorribile dai cittadini al fine di porre rimedio alle conseguenze dannose derivanti dalla violazione delle norme convenzionali, anche attraverso la corresponsione di un’equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, potendo – nell’ipotesi contraria – i cittadini adire direttamente la Corte di Strasburgo affinché conosca essa stessa dell’azione riparatoria. Orbene, la legge n. 89/2001 costituisce la via di ricorso interno che la "vittima della violazione" (così sfinita dall'art. 34 della CEDU) dell'art. 6 (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) deve adire prima di potersi rivolgere alla Corte Europea per chiedere la "equa soddisfazione" pre- (8) Così Cass., Sez. Un., sentenza 26 gennaio 2004, n. 1340. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 vista dall'art. 41 della CEDU (9) , la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto "se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione". La legge n. 89/2001 ha, pertanto, consentito alla Corte Europea di dichiarare irricevibili i ricorsi ad essa presentati (anche prima dell'approvazione della stessa legge) e diretti ad ottenere l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU per 1a lunghezza del processo (sentenza 6 settembre 2001, Brusco c. Italia). Secondo un orientamento ormai assai diffuso in ambiente giurisprudenziale (10) , tuttavia, il meccanismo di attuazione della CEDU e di rispetto del principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte Europea di Strasburgo, però, non opera nel caso in cui essa ritenga che le conseguenze della accertata violazione della CEDU non siano state riparate dal diritto interno o lo siano state "in modo incompleto", perché, in siffatte ipotesi, il citato art. 41 prevede l'intervento della Corte Europea a tutela della "vittima della violazione". In tal caso il ricorso individuale alla Corte di Strasburgo ex art 34 della CEDU sarebbe ricevibile (sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia) e la Corte provvede a tutelare direttamente il diritto della vittima che essa ha ritenuto non completamente tutelato dal diritto interno. Si è evidenziato (11), in buona sostanza, che l’intervento della Corte Europea dovrebbe attuarsi anche laddove lo strumento di tutela predisposto in ambito nazionale non presenti il crisma della effettività, ai sensi dell’art. 13 CEDU. Tale norma stabilisce che la forma di protezione istituita sul piano interno deve essere “effettiva”, tale, cioè, da porre rimedio alla lamentata violazione della norma convenzionale, eliminandone tutte le conseguenze dannose. Ove ciò non si verifichi (12), la via di ricorso interna istituita a livello nazio- (9) Le ragioni che hanno determinato l'approvazione della legge n. 89/2001 si individuano, per l’appunto, nella necessità dì prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo. Il rimedio interno introdotto dalla legge n. 89/2001, in precedenza, non esisteva nell'ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l'Italia per la violazione dell'art. 6 della CEDU avevano "intasato" (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della legge n. 89/2001, che “le dette inadempienze dell'Italia riflettono una situazione che perdura, alla quale non si à ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione" (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A.P. c. Italia). (10) Vedi, in proposito, Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 1339 del 26 gennaio 2004. (11) Così, tra molti, l’Avv. Giovanni Romano, nel ricorso incidentale avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza, Sez. Civile, del 28 aprile 2009, R.G. n. 95/2009, in materia di equa riparazione ex lege n. 89 del 24 marzo 2001. (12) Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno è, ovviamente, la Corte Europea, alla quale spetta di fare applicazione dell'art. 41 CEDU per accertare se, in preserva della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 153 nale non vale a sottrarre al ricorrente la qualità di vittima ex art. 34 CEDU, imponendo per conseguenza la necessità di un intervento, per così dire, suppletivo, integrativo o correttivo della Corte Europea. L’effettività, in questi termini, si traduce nell’affermazione in base alla quale al ricorrente, in sede nazionale, deve essere riconosciuta un’equa soddisfazione idonea a ripararlo delle conseguenze dannose patite per effetto della violazione della norma convenzionale, pari a quella che egli avrebbe conseguito ove avesse investito la Corte di Strasburgo della cognizione della medesima domanda (13). L’effettività del rimedio interno, così intesa, imporrebbe una sostanziale equivalenza dell’equa riparazione/soddisfazione concessa in sede nazionale, rispetto a quella conseguibile innanzi alla Corte di Strasburgo. Secondo i più convinti sostenitori di quest’orientamento, affinché tale risultato si realizzi concretamente, è indispensabile che il rimedio predisposto sul piano interno sia costruito, dal legislatore, ed applicato, dai giudici nazionali, in sintonia e nel pieno e rigoroso rispetto delle norme convenzionali (14), così come interpretate ed “arricchite” dalla giurisprudenza della Corte Europea, la cui vincolatività (15) sarebbe, pertanto, da considerarsi condizione necessaria a garantire l’effettività del rimedio interno. E pertanto, se ne fa discendere che l’attribuzione da parte dei giudici nazionali – chiamati, ex legge Pinto, a riparare le conseguenze dannose derivanti dalla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – di un’equa soddisfazione/riparazione quantificata in difformità dai parametri elaborati dalla Corte Europea non integri il requisito di effettività del rimedio interno alla stregua del disposto di cui all’art. 13 CEDU, lasciando permanere in capo all’individuo la qualifica di vittima della violazione ex art. 34 CEDU. In verità, chi scrive dubita che il principio di effettività di cui all’art. 13 cit. si traduca nella necessaria equivalenza dei rimedi azionabili nella sede nazionale ed in quella comunitaria a tutela del diritto ad un processo di durata ragionevole. L’ordinamento italiano, con la riformulazione dell’art. 111 della Costituzione ad opera dell’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, (13) La sussidiarietà, collegata al “principio di effettività” ex art. 13, CEDU, non significa che il livello statale, a fronte di una via di ricorso interna non effettiva, perda le sue competenze a favore della Corte di Strasburgo, ma piuttosto che questa può essere chiamata ad entrare in azione soltanto quando si alleghi che l’autorità statale non ha esercitato le sue competenze nel modo dovuto. (14) Naturalmente, spetta alla Corte Europea ogni valutazione circa il rispetto della effettività del rimedio interno alla stregua dei parametri convenzionali. (15) La vincolatività dei precedenti della Corte di Strasburgo opererebbe, secondo l’orientamento de quo, su due piani: nei confronti del legislatore, che già in astratto deve ricostruire la via di ricorso interna in maniera tale che sia conforme alle norme convenzionali così come interpretate dalla Corte Europea; nei confronti del giudice nazionale, che parimenti deve applicare il rimedio interno utilizzando quegli stessi criteri e parametri – di accertamento della violazione della norma convenzionale e di liquidazione dell’equa soddisfazione ex art. 41 CEDU – elaborati dalla Corte Europea con riferimento a casi simili. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 n. 2, ha recepito il canone della durata ragionevole del processo, demandando alla legge il compito di assicurarla. Ne deriva la presenza, nella norma in esame, di una propria disciplina interna circa i parametri cui correlare la durata ragionevole del processo, ed anche dell’espressa previsione del danno, patrimoniale o non patrimoniale, quale elemento costitutivo del diritto all'equa riparazione. Per quanto, infatti, la CEDU, una volta superato il limite della ragionevolezza, consideri ai fini della liquidazione dell’indennizzo l’intera durata del procedimento, tanto non è consentito al giudice italiano, posto che l’art. 2, c. 3, lett. a), della legge n. 89/2001, espressamente sancisce che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo riconosciuto dal nostro diritto interno per l’eccessiva durata dei processi, « rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole», onde finché il legislatore non riterrà di modificare tale dato normativo (che non contrasta con le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute – art. 10 Cost. – né con i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario – art. 11 Cost. – e, come già rilevato, non contrasta neppure con la Convenzione, ma solo con un orientamento ermeneutico con la Corte di Strasburgo, che non può prevalere su di un’espressa disposizione di legge), i giudici italiani dovranno attenervisi. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata "ordinario" e "ragionevole", valorizzato invece dalla Corte di Strasburgo, non esclude la complessiva attitudine della legge n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, proposto da Scordino c. Italia (16). E sull’argomento, la stessa Corte Europea di Strasburgo ha affermato che il principio di protezione effettiva posto dall’art. 13 della Convenzione non giunge a consentire che si denunzi innanzi ai giudici nazionali la contrarietà delle leggi dello Stato ai principi della Convenzione (sentenza del 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia). I Giudici della Corte Europea, infatti, hanno solamente riconosciuto, in alcuni casi, l’inadeguatezza dell’indennizzo, che può essere liquidato dal giudice nazionale, facendo applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, senza però escludere la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001, a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, avendola, anzi, espressamente riconosciuta nella già citata sentenza 27 marzo 2003, Scordino c. Italia, ed avendo questi affermato, addirittura nella sentenza Zullo c. Italia, resa sul ricorso n. 64897/01, che vari tipi di ricorso possono correggere la violazione in modo adeguato: uno tendente ad accelerare la procedura e l’altro di natura in- (16) Cfr., sull’argomento, Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 16936 del 29 novembre 2002; Sez. I, sent. n. 8603 del 26 aprile 2005; Sez. I, sent. n. 23844 del 19 novembre 2007. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 155 dennitaria (cfr. par. 79); che gli Stati possono anche scegliere di dare vita soltanto al ricorso per indennizzo, come ha fatto l’Italia, senza che questo ricorso possa essere considerato come mancante di efficacia (cfr. par. 80); che, quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso per indennizzo, la Corte deve lasciargli un più grande margine di valutazione, perché possa organizzare questo ricorso interno in modo coerente con il suo sistema giuridico e le sue tradizioni e in conformità con il tenore di vita del paese (cfr. par. 82). Sotto altro aspetto, poi, occorre tener conto che la L. n. 89 del 2001, citato art. 2, comma 3, lett. a), costituisce particolare applicazione dell’art. 111 Cost., il quale, dopo aver recepito pienamente i canoni del giusto processo fissati dall’art. 6, p. 1, della Convenzione, dispone che «la legge ne assicura la ragionevole durata », così sancendo che, nello stabilire quale durata debba ritenersi ragionevole, non si possa prescindere da quella minima imposta da una corretta applicazione, da parte del giudice, della disciplina che lo struttura. Sembra, quindi, logico dedurre che il diverso parametro di calcolo dell’equa riparazione, introdotto dalla Corte Europea produca il solo effetto di aprire, alla "vittima" della violazione, la via sussidiaria dell’applicabilità dell’art. 41 della CEDU sull’equa soddisfazione, il quale dispone che «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa». 4. Il rispetto degli obblighi internazionali Non sono mancate censure nel complesso tese a sostenere che l’asserito contrasto dell’art. 2, comma 3, lett. a) della legge L. 89/2001 con gli artt. 41 e 13 CEDU, come interpretati dalla Corte Europea, si tradurrebbe nell’illegittimità costituzionale della norma stessa per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., il quale vincola la potestà legislativa statale al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali sarebbero inclusi quelli derivanti dall’adesione alla CEDU, così come interpretata ed attualizzata dalla Corte Europea. Sulla questione, peraltro, si è fatto notare che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 348/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, commi 1 e 2, del D.L. 11 luglio 1992, n. 333 (conv. con modif. dalla Legge 8 agosto 1992, n. 359) e dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, proprio per contrasto con l’art. 117 Cost. con riferimento all’art. 1 Prot. 1 della CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea (17) e che, nel procedere in tal senso, i giudici della Consulta hanno posto dei (17) Si è, infatti, asserito che tale norma è stata «oggetto di una progressiva focalizzazione interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 principi fondamentali di indubbia rilevanza in relazione alla questione di legittimità della previsione contenuta nell’art. 2, comma 3, lett. a) della Legge n. 89/2001. Essi, infatti, hanno evidenziato che « l’art. 117, primo comma, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo» ed ancora che «il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale» (Corte Costituzionale, sent. n. 348/2007). Alla luce dei principi affermati nelle richiamate sentenze, sembra che l’art. 117 Cost. presenti una struttura simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme finalizzate a tale scopo finiscono, quindi, per essere di rango subordinato sì a quello delle norme costituzionali, ma maggiore delle leggi ordinarie. In definitiva, secondo i Giudici della Consulta, «l’art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengano determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni […] Nel senso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato» (Corte Costituzionale, sent. n. 348/2007). Sembrerebbe, quindi, alla luce di tali dicta, che le norme della CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte Europea, vincolino il Legislatore nazionale ex art. 117 Cost. Infatti, come evidenziato dalla Consulta, «la CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte Europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l’art. 32, par. 1, stabilisce: “La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli art. 33, 34 e 47” (…)» (Corte Costituzionale, sent. portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana dell’indennità di espropriazione » (Corte Costituzionale, sent. n. 348/2007). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 157 n. 348/2007). In conseguenza, secondo l’intendimento di detta Corte, «poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori di diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, par. 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia» (Corte Costituzionale, sent. n. 348/2007). Non è certamente dubitabile che nella citata sentenza la Corte Costituzionale abbia inteso dettare una serie di principi volti a precisare con chiarezza, per un verso, la portata applicativa dell’art. 117 Cost., per l’altro, il valore da attribuirsi alle norme della CEDU, così come interpretate dalla Corte Europea. Per espressa affermazione della Suprema Corte, infatti, tali norme costituiscono un vincolo alla potestà legislativa statale (e regionale), alla quale, pertanto, non è dato esprimersi con l’adozione di una normativa contrastante con il dettato in esse contenuto, specificato ed attualizzato attraverso i precedenti della Corte di Strasburgo. Orbene, il portato letterale dell’art. 2, comma 3, lett. a) della L. n. 89/2001, nella parte in cui prevede che: «Il giudice determina la riparazione a norma dell'articolo 2056 del codice civile, osservando le disposizioni seguenti: a) rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1», e la prassi giurisprudenziale interna, rigorosamente conforme ai parametri di computo dettati dalla normativa nazionale, sembrano tratteggiare una sfacciata profanazione dell’art. 117, comma 1°, Cost. ed il principio del rispetto degli obblighi internazionali in esso richiamato. Questo rombante contrasto è stato denunciato dai più avveduti giuristi con risonanti cori di sdegno e censure che si rivelano, ad avviso di chi scrive, frettolose e superficiali, nei sensi che tra poco si vedranno. La previsione del rimedio indennitario a riparazione del solo lasso di tempo eccedente la durata ragionevole del processo presupposto ex L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3°, lett. a), non può dirsi confliggente con il disposto del richiamato art. 117, comma 1°, Cost., non potendo darsi alla giurisprudenza della CEDU, in questione, diretta applicazione nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza di quanto accade con riguardo alla normativa comunitaria. La Corte Costituzionale ha infatti chiarito, con le già richiamate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, altresì che la Convenzione non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato interna- 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 zionale multilaterale, da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri CEDU, esclusi i casi, come quello di specie, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omesso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri. Ciò per la semplice ed intuitiva ragione che un procedimento di incorporazione automatica ad hoc si rivelerebbe inadeguato e mal funzionante in relazione alle norme non self-executing contenute nella Convenzione de qua, la cui piena attuazione nel nostro ordinamento necessita di appositi interventi normativi nazionali, tesi ad integrare le norme di adattamento prodotte per il tramite dell’ordine di esecuzione. D’altra parte, l’art. 117, primo comma, non potrebbe operare quale “incorporatore automatico permanente” di tutte le norme contenute nei trattati internazionali cui lo Stato Italiano aderisce, giacché «un’applicazione che implicasse la costituzionalizzazione generalizzata di tutti gli accordi internazionali, a prescindere dal modo d’introduzione degli stessi nell’ordinamento interno, si porrebbe in contrasto con il principio della sovranità popolare, potendo portare a riconoscere l’esistenza di vincoli alla potestà legislativa derivanti da atti non sottoposti al parlamento». Le norme della CEDU, sotto altro aspetto, in quanto norme pattizie, restano escluse anche dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (18). Dott.ssa Morena Pirollo* (18) Corte Cost., ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 159 Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 26 gennaio 2004 n. 1340 - Pres. Ianniruberto, Rel. Lupo, P.M. Esposito - C.L. (avv. G. Romano) c. Ministero della giustizia (avv. Stato G. Palatiello). (Omissis) Motivi della decisione 1.- I due motivi di ricorso sono strettamente connessi perché censurano il quantum del danno non patrimoniale liquidato dalla decisione impugnata. Con il primo motivo il ricorrente deduce "violazione e mancata applicazione dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001. Contestuale violazione e mancata applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 c.c. Contestuale violazione e mancata applicazione dell'art. 6 p. 1 e dell'art. 13 della CEDU. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia: in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5". Il ricorrente premette che la violazione del termine di durata ragionevole del processo determina la violazione di un diritto costituzionalmente ed internazionalmente tutelato, posto a presidio di un bene inviolabile, il cui valore non è immediatamente valutabile in termini pecuniari e la cui compressione, pertanto, determina ex se un danno non patrimoniale; e rileva che il bene costituito dal diritto alla ragionevole durata del processo è identico per chiunque sia parte di un processo e per ogni tipo di processo. Secondo il ricorrente, la decisione impugnata ha male utilizzato il parametro della "posta in gioco", dato che esso è adoperato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo al fine di riconoscere con maggiore facilità, in ipotesi delicate, l'esistenza della lesione, mentre la Corte di appello vi ha fatto ricorso per arginare la pretesa del danneggiato. In tal modo il danno non patrimoniale è stato determinato in misura "manifestamente iniqua in relazione ai parametri costantemente utilizzati dalla Corte di Strasburgo". Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e mancata applicazione dell'art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 89 del 2001 e dell'art. 13 della CEDU. Premesso che i diritti protetti dalla CEDU devono trovare anzitutto attuazione e tutela in sede nazionale, con il ricorso agli strumenti apprestati dai singoli ordinamenti, rileva che con l'impugnato decreto si è stravolto il rimedio della legge n. 89 del 2001, pervenendosi ad una liquidazione del danno non patrimoniale "chiaramente violativa dei parametri e standards valutativi elaborati dalla Corte europea". 2.- La questione di massima posta dal presente ricorso concerne l'ambito del sindacato della Corte di Cassazione sui decreti della Corte di appello che determinano il quantum dell'equa riparazione spettante al ricorrente a titolo di danno non patrimoniale; in particolare, se possa costituire vizio della liquidazione del danno la mancanza di relazione ragionevole della somma accordata dalla Corte di appello ai parametri di commisurazione della equa soddisfazione (art. 41 CEDU) utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in casi simili. La soluzione della questione di massima richiede che si precisi quale effetto giuridico debba attribuirsi, nella liquidazione del danno non patrimoniale da indennizzare in applicazione della legge n. 89 del 2001, ai criteri seguiti dalla Corte europea nella riparazione dello stesso tipo di danno, e quindi alle pronunzie della stessa Corte sulle conseguenze della violazione del termine ragionevole di durata del processo. Il che, a sua volta, esige la considerazione della lettera e delle finalità della legge n. 89 del 2001. 3.- Come chiaramente si desume dall'art. 2, comma 1, della detta legge, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all'equa riparazione da essa prevista è costituito dalla "violazione della 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione". La legge n. 89 del 2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89 del 2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l'essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all'applicazione della legge n. 89 del 2001, ai giudici italiani. Non è necessario, allora, porsi il problema generale dei rapporti tra la CEDU e l'ordinamento interno, su cui si è ampiamente soffermato il Procuratore Generale in udienza. Qualunque sia l'opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della CEDU nell'ambito delle fonti del diritto interno, è certo che l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n. 89/2001 (e cioè dall'art. 6, p. 1, nella parte relativa al "termine ragionevole"), non può discostarsi dall'interpretazione che della stessa norma da il giudice europeo. L'opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l'applicazione che la legge n. 89 del 2001 riceve nell'ordinamento nazionale e l'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89 del 2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell'art. 1 della CEDU, secondo cui "le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione" (in cui è compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole). Le ragioni che hanno determinato l'approvazione della legge n. 89 del 2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: "la Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne"). Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere "effettiva" (art. 13 della CEDU), e cioè tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo. Il rimedio interno introdotto dalla legge n. 89 del 2001, in precedenza, non esisteva nell'ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l'Italia per la violazione dell'art. 6 della CEDU avevano "intasato" (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della legge n. 89 del 2001, che le dette inadempienze dell'Italia "riflettono una situazione che perdura, alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione" (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferran e A.P.). La legge n. 89 del 2001 costituisce la via di ricorso interno che la "vittima della violazione" IL CONTENZIOSO NAZIONALE 161 (così definita dall'art. 34 della CEDU) dell'art. 6 (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) deve adire prima di potersi rivolgere alla Corte europea per chiedere la "equa soddisfazione" prevista dall'art. 41 della CEDU, la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto "se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione". La legge n. 89 del 2001 ha, pertanto, consentito alla Corte europea di dichiarare irricevibili i ricorsi ad essa presentati (anche prima dell'approvazione della stessa legge) e diretti ad ottenere l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU per la lunghezza del processo (sentenza 6 settembre 2001, Brusco c. Italia). Tale meccanismo di attuazione della CEDU e di rispetto del principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte europea di Strasburgo, però, non opera nel caso in cui essa ritenga che le conseguenze della accertata violazione della CEDU non siano state riparate dal diritto interno o lo siano state "in modo incompleto", perché, in siffatte ipotesi, il citato art. 41 prevede l'intervento della Corte europea a tutela della "vittima della violazione". In tal caso il ricorso individuale alla Corte di Strasburgo ex art. 34 della CEDU è ricevibile (sentenza 27 marzo 2003, Scordino ed altri c. Italia) e la Corte provvede a tutelare direttamente il diritto della vittima che essa ha ritenuto non completamente tutelato dal diritto interno. Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno è, ovviamente, la Corte europea, alla quale spetta di fare applicazione dell'art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa. La tesi secondo cui, nell'applicare la legge n. 89 del 2001, il giudice italiano può seguire un'interpretazione non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell'art. 6 CEDU (la cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest'ultimo Giudice l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU. Il che costringerebbe l'interessato ad un duplice giudizio, uno davanti al giudice nazionale per chiedere l'indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 e l'altro davanti alla Corte europea per ottenere l'integrazione della riparazione che il diritto interno ha consentito, in ipotesi, in modo soltanto incompleto (secondo il giudizio della stessa Corte europea). In tal modo il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89 del 2001 diverrebbe sostanzialmente mutile e si realizzerebbe una violazione del menzionato principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo. Deve, allora, concordarsi con la detta Corte europea la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo alla incompletezza della tutela accordata dal giudice italiano in applicazione della legge n. 89 del 2001), ha affermato che "deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione". Nella stessa decisione Scordino si è precisato, con specifico riferimento alla riparazione del danno non patrimoniale, che il giudice nazionale "può allontanarsi da un'applicazione rigorosa e formale dei criteri adottati dalla Corte" europea, ma, pure conservando un "margine di valutazione", non può liquidare somme che non siano in "relazioni ragionevoli con la somma accordata dalla Corte negli affari simili", restando quindi fermo il suo dovere di "conformarsi alla giurisprudenza della Corte così accordando somme conseguenti". La legge n. 89 del 2001 non pone alcun ostacolo a tale dovere di prendere a punto di riferimento dell'equa riparazione del danno non patrimoniale la giurisprudenza della Corte europea, 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 perché detta legge richiama, attraverso l'art. 2056 c.c., l''art. 1226 c.c., che prevede una valutazione con criteri equitativi, i quali possono essere commisurati, in linea generale, all'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU. Consegue che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili. Tale regola di applicazione della legge n. 89 del 2001, per quanto attiene alla riparazione del danno non patrimoniale, ha natura giuridica, perché inerisce ai rapporti tra la detta legge e la CEDU, onde il mancato rispetto di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di legge denunziabile a questa Corte di legittimità. Occorre, cioè, precisare che, mentre, in linea generale, il criterio adottato dal giudice del merito per la liquidazione equitativa del danno, in applicazione dell'art. 1226 c.c., non è censurabile in cassazione, quando il relativo potere di scelta è stato esercitato in maniera logica (v., ex plurimis, Cass. 5 giugno 1996 n. 5265; 10 aprile 1996 n. 3341), la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte di appello a norma dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole. L'ambito giuridico della riparazione equitativa del danno non patrimoniale è, in altri termini, segnato dal rispetto della CEDU, per come essa vive nelle decisioni, da parte di detta Corte, di casi simili a quello portato all'esame del giudice nazionale. L'accertamento dei casi simili e delle eque soddisfazioni del danno non patrimoniale in essi operate dalla Corte di Strasburgo, pur rientrando nei doveri di ufficio del giudice, può giovarsi della collaborazione delle parti, ed in particolare dell'attore, che ha interesse a fornire al giudicante ogni elemento utile alla determinazione del quantum del danno nella misura da lui chiesta, anche nelle ipotesi in cui non sia configurabile a suo carico un onere probatorio (in senso analogo v. l'art. 14 della legge 31 maggio 1995 n. 218, per quanto attiene allo "aiuto delle parti" nell'accertamento della legge straniera, che pure è compiuto di ufficio dal giudice). Va, infine, avvertito che, in ogni caso, nella determinazione del quantum dell'indennizzo, il giudice è vincolato, sul piano processuale, al rispetto della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, onde egli non può mai liquidare un ammontare superiore a quello chiesto dall'attore. 4.- Applicando i principi espressi nel precedente paragrafo, si rileva che la decisione impugnata ha liquidato come danno non patrimoniale, causato da un giudizio di primo grado in cui essa ha ravvisato un ritardo ingiustificato di otto anni, la somma di L. 1.000.000. La Corte europea, in due recenti decisioni emanate il 19 febbraio 2002 e relative a ritardi della giustizia italiana, ha determinato l'equa soddisfazione per il danno non patrimoniale nella somma di Euro 10.000 per un giudizio di primo grado che è durato poco più di otto anni (Sardo c. Italia) e nella somma di Euro 8.000 per un giudizio che è durato sette armi ed undici mesi (Donato c. Italia). La decisione impugnata ha liquidato, quindi, una somma che è meno di un decimo di quella accordata in casi simili dalla Corte europea, onde si ha, nel presente caso, un divario analogo a quello già censurato dalla Corte europea nella citata decisione Scordino. La Corte di appello, a giustificazione della riparazione da essa effettuata, ha fatto richiamo ad altre due pronunzie della Corte europea del 19 febbraio 1991: quella sul caso Manzoni, in IL CONTENZIOSO NAZIONALE 163 cui è stata liquidata la somma di L. 1.000.000 per un tempo di oltre sette anni e quella sul caso Pugliese in cui non è stata riconosciuta alcuna somma per un tempo di oltre cinque anni (essendosi la Corte limitata al riconoscimento dell'avvenuta violazione). Va, però, rilevato che, come ha esattamente osservato il ricorrente, non vi è alcuna somiglianza tra i due casi richiamati dalla decisione impugnata e la situazione posta a base del presente giudizio. In detti due casi si tratta di processi penali protrattisi per più gradi di giudizio ed in cui la Corte ha emanato decisioni non recenti, mentre vanno preferite come punti di riferimento, in linea generale, decisioni recenti della Corte europea e, con riferimento al caso di specie, pronunce su ritardi verificatisi in giudizi non penali (come le due decisioni del 19 febbraio 2002 che si sono in precedenza qui richiamate). Né la liquidazione esigua può trovare giustificazione nella entità degli "interessi in gioco" nel processo presupposto. Tale entità può determinare una riduzione significativa dell'indennizzo, ma non può ridurlo a meno di un decimo di quanto normalmente venga liquidato dalla Corte europea in casi simili. 5.- In conclusione, la decisione impugnata, avendo fissato una riparazione del danno non patrimoniale in misura notevolmente ed irragionevolmente difforme dalla normativa della CEDU, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è viziata per violazione di legge, onde essa va cassata. La causa va rinviata alla Corte di appello di Roma, che, in diversa composizione, determinerà nuovamente l'indennizzo da corrispondere al ricorrente per la riparazione del danno non patrimoniale derivante dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, adeguandosi ai criteri adottati in casi simili dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, pure se con un margine di valutazione che sia ragionevole. Il giudice di rinvio si pronunzierà anche sulle spese del giudizio di Cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, anche per le spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, il 27 novembre 2003. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 26 gennaio 2004 n. 1339 - Pres. Ianniruberto, Rel. Lupo, P.M. Esposito - (omissis) (avv. Romano) c. Ministero della giustizia (avv. Stato G. Palatiello). (Omissis) Motivi della decisione (…) 2.- Il presente ricorso pone la questione di massima di quale effetto giuridico debba attribuirsi - nell'applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, ed in particolare nella identificazione del danno non patrimoniale derivante da violazione del termine ragionevole del processo - alle pronunzie della Corte europea dei diritti dell'uomo, sia considerate in linea generale come orientamenti interpretativi che tale Corte ha elaborato in ordine alle conseguenze di detta violazione, sia con riferimento all'ipotesi specifica in cui la Corte europea abbia avuto già modo di pronunziarsi sul ritardo verificatosi nella decisione di un determinato processo. (…) 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 3.- La soluzione della questione di massima posta alle Sezioni unite esige la considerazione della lettera e delle finalità della L. n. 89 del 2001. Come chiaramente si desume dall'art. 2, comma 1, della L. n. 89 del 2001, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all'equa riparazione da essa prevista e' costituito dalla "violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della L. 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'arto, paragrafo 1, della Convenzione". La L. n. 89 del 2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla L. n. 89 del 2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l'essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all'applicazione della L. n. 89 del 2001, ai giudici italiani. Non e' necessario, allora, porsi il problema generale dei rapporti tra la CEDU e l'ordinamento interno, su cui si e' ampiamente soffermato il Procuratore Generale in udienza. Qualunque sia l'opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della CEDU nell'ambito delle fonti del diritto interno, e' certo che l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla L. n. 89 del 2001 (e cioè dall'art. 6, p. 1, nella parte relativa al "termine ragionevole"), non può discostarsi dall'interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo. L'opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l'applicazione che la L. n. 89 del 2001 riceve nell'ordinamento nazionale e l'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta L. n. 89 del 2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell'art. 1 della CEDU, secondo cui "le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione" (in cui e' compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole). Le ragioni che hanno determinato l'approvazione della L. n. 89 del 2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: "la Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne"). Sul detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell'uomo. Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere "effettiva" (art. 13 della CEDU), e cioè tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo. Il rimedio interno introdotto dalla L. n. 89 del 2001, in precedenza, non esisteva nell'ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l'Italia per la violazione dell'art. 6 della CEDU avevano "intasato" (e' il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della L. n. 89 del 2001, che le dette inadempienze dell'Italia "riflettono una situazione che perdura, alla IL CONTENZIOSO NAZIONALE 165 quale non si e' ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze e', pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione" (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A.P.). La L. n. 89 del 2001 costituisce la via di ricorso interno che la "vittima della violazione" (così definita dall'art. 34 della CEDU) dell'art. 6 (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) deve adire prima di potersi rivolgere alla Corte europea per chiedere la "equa soddisfazione" prevista dall'art. 41 della CEDU, la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto "se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione". La L. n. 89 del 2001 ha, pertanto, consentito alla Corte europea di dichiarare irricevibili i ricorsi ad essa presentati (anche prima dell'approvazione della stessa legge) e diretti ad ottenere l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU per la lunghezza del processo (sentenza 6 settembre 2001, Brusco c. Italia). Tale meccanismo di attuazione della CEDU e di rispetto del principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte europea di Strasburgo, però', non opera nel caso in cui essa ritenga che le conseguenze della accertata violazione della CEDU non siano state riparate dal diritto interno o lo siano state "in modo incompleto", perché, in siffatte ipotesi, il citato art. 41 prevede l'intervento della Corte europea a tutela della "vittima della violazione". In tal caso il ricorso individuale alla Corte di Strasburgo ex art. 34 della CEDU e' ricevibile (sentenza 27 marzo 2003, Scordino ed altri c. Italia) e la Corte provvede a tutelare direttamente il diritto della vittima che essa ha ritenuto non completamente tutelato dal diritto interno. Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno e', ovviamente, la Corte europea, alla quale spetta di fere applicazione dell'art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa. La tesi secondo cui, nell'applicare la L. n. 89 del 2001, il giudice italiano può seguire un'interpretazione non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell'art. 6 CEDU (la cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest'ultimo Giudice l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la L. n. 89 del 2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo. Deve, allora, concordarsi con la Corte europea dei diritti dell'uomo la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo alla incompletezza della tutela accordata dal giudice italiano in applicazione della L. n. 89 del 2001), ha affermato che "deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione". Questo dovere per il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, di interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, opera "per quanto possibile", e quindi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001, non potendo certo il giudice violare quest'ultima legge, alla quale egli e' pur sempre soggetto (concetto esattamente sottolineato nella memoria del Ministero della giustizia). Ma un eventuale contrasto tra la L. n. 89 del 2001 e la CEDU porrebbe una questione di con- 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 formità della stessa con la Costituzione che, come si e' visto, tutela lo stesso bene della ragionevole durata del processo, oltre a garantire i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2). Occorre, allora, accertare se possa darsi alla detta legge un’interpretazione che sia conforme alla CEDU, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui va preferita l'interpretazione della legge che la renda conforme alla Costituzione. (…) P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, anche per le spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, il 27 novembre 2003. Cassazione, Sezione I Civile, sentenza 19 novembre 2007 n. 23844 - Pres. Panebianco, Rel. Giusti, P.M. Schiavon - M.C. (avv. Mindopi) c.Ministero della giustizia. (Omissis) Svolgimento del processo Che la Corte d'appello di Milano, adita da M.C. con ricorso ritualmente depositato al fine di conseguire l'equa riparazione per la lamentata irragionevole durata di un procedimento penale per i reati di cui agli artt. 594, 595 e 612 c.p., svoltosi dinanzi al Giudice di Tortona e durato dal 21 febbraio 1997 al 15 dicembre 2003, con Decreto del 22 ottobre 2004 ha condannato il Ministero al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 1.920,00, nonché al rimborso della metà delle spese processuali; che la Corte d'appello ha stimato in tre anni la durata ragionevole del procedimento ed ha ritenuto pertanto che il periodo eccedente la durata ragionevole era complessivamente pari a tre anni e dieci mesi, giudicando questo il periodo rilevante per determinare l'equa riparazione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3; che per tale periodo la Corte territoriale ha quantificato il danno morale in via equitativa nella somma di Euro 1.920,00; che per la Cassazione di tale decreto la M. ha proposto ricorso, al quale l'intimato Ministero della giustizia non ha resistito. Motivi della decisione Che nel ricorso vengono denunciati come illegittimi la modestia della somma liquidata a titolo di danno non patrimoniale, in violazione dei parametri derivanti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e il mancato riconoscimento del diritto all'indennizzo con riferimento alla intera durata del processo presupposto (e non al solo periodo eccedente il termine ragionevole); che deve essere dichiarata manifestamente infondata la censura afferente alla necessità di liquidare l'indennizzo con riferimento alla durata dell'intero processo, posto che la legge nazionale (L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lettera a), con una chiara scelta di tecnica liquidatoria non incoerente con le finalità sottese all'art. 6 della CEDU, impone di correlare il ristoro al solo periodo di durata irragionevole (Cass., Sez. 1, 13 aprile 2006, n. 8714); che detta modalità di calcolo non tocca la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del IL CONTENZIOSO NAZIONALE 167 processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), dovendosi perciò dichiarare manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla parte (in termini: Cass., Sez. 1, 13 aprile 2006, n. 8714, cit.); che, viceversa, manifestamente fondato, per quanto di ragione, è il motivo attinente alla quantificazione del danno non patrimoniale, giacché la somma liquidata per anno di ritardo dalla Corte d'appello di Milano (Euro 500,00) si discosta in misura significativa dai parametri elaborati dalla Corte europea e recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte; che, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell'indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta - a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 - all'art. 6 Convenzione, nell'interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purché in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n, 1340); che, in particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell'Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Fizzati e sul ricorso n. 64897/01 Zullo), ha individuato nell'importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell'indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie, quali l'entità della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multiis, Cass., Sez. 1, 26 gennaio 2006, n. 1630); che sulla base di quanto sin qui affermato, cassato il decreto in accoglimento della indicata censura, non essendo necessario accertare fatti di sorta, ben può procedersi alla decisione ex art. 384 c.p.c., determinando, per gli individuati anni di eccedenza rispetto alla ragionevole durata, il dovuto indennizzo; che, tenuto conto dei parametri discendenti dalla giurisprudenza della CEDU, l'equa riparazione può essere determinata in Euro 1.000,00 per ogni anno di ritardo, ed al pagamento, pertanto, di Euro 3.830,00, oltre interessi legali dal decreto della Corte d'appello al saldo, deve essere condannato il Ministero della giustizia in favore della ricorrente; che le spese del giudizio di merito e del presente giudizio di Cassazione vengono poste a carico del soccombente Ministero della giustizia nella misura della metà, essendo la domanda accolta solo in parte, compensandosi per la restante parte. P.Q.M La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia a corrispondere a M.C. la somma di Euro 3.830,00 oltre agli interessi legali dal decreto della Corte d'appello al saldo, ed oltre alla metà delle spese processuali, compensandole per la restante parte, spese che liquida, nella misura ridotta, in Euro 425,00 per il giudizio di merito (di cui Euro 150,00 per diritti ed Euro 220,00 per onorari), ed in Euro 350,00 per il giudizio di legittimità (di cui Euro 35,00 per esborsi), oltre a spese generali ed accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 ottobre 2007. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007, n. 348 - Ud. Pubb. 3 luglio 2007 - Pres. Bile, Red. Silvestri - Giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione. Avv. Felice Cacace e Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per A.C., Nicolò Paoletti e Alessandra Mari per M.T.G. e avv. Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. (Omissis) Considerato in diritto 1. - Con tre distinte ordinanze la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai citati artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo. La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. 2. - I giudizi, per l'identità dell'oggetto e dei parametri costituzionali evocati, possono essere riuniti e decisi con la medesima sentenza. 3. - Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione, prospettata dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi derivanti dalle asserite violazioni strutturali accertate con sentenze definitive della Corte europea e giudici nazionali. 3.1. - Secondo la suddetta parte privata, il contrasto, ove accertato, tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto con la disapplicazione delle prime da parte del giudice comune. Viene richiamato, in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994). L'art. 34 di tale Protocollo prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla Corte europea da parte dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l'art. 46, gli stessi Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie delle quali sono parti. (…) 3.2. - La prospettata ricostruzione funge da premessa alla richiesta, avanzata dalla predetta parte privata, che la questione sia dichiarata inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il dovere di disapplicare le norme interne che la Corte europea abbia ritenuto essere causa di violazione strutturale della Convenzione. 3.3. - L'eccezione di inammissibilità non può essere accolta. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 169 Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell'ordinamento interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l'art. 11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto. L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un "ordinamento" più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale - pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti - da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri. Correttamente il giudice a quo ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. Le Risoluzioni e Raccomandazioni citate dalla parte interveniente si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare questa Corte, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni. 3.4. - Si condivide anche l'esclusione - argomentata nelle ordinanze di rimessione - delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente rico- 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 nosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005). 4. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata. 4.1. - La questione, così come proposta dal giudice rimettente, si incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l'indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione. Il parametro evocato negli atti introduttivi del presente giudizio è l'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice rimettente ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già stata oggetto di scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, allora proposta in relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n. 283 del 1993). La sentenza citata è stata successivamente confermata da altre pronunce di questa Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede oggi alla Corte costituzionale di modificare la propria consolidata giurisprudenza nella materia de qua, ma mette in rilievo che il testo riformato dell'art. 117, primo comma, Cost., renderebbe necessaria una nuova valutazione della norma censurata in relazione a questo parametro, non esistente nel periodo in cui la pregressa giurisprudenza costituzionale si è formata. 4.2. - Impostata in tal modo la questione da parte del rimettente, è in primo luogo necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle norme della CEDU, allo scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione costituzionale, la loro incidenza sull'ordinamento giuridico italiano. L'art. 117, primo comma, Cost. condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Prima della sua introduzione, l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999). 4.3. - Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell'ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano l'attuazione di valori e principi fondamentali pro- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171 tetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall'altra mantenevano la veste formale di semplici fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse ed una norma legislativa posteriore. Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune. Oggi questa Corte è chiamata a fare chiarezza su tale problematica normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che sono state svolte nel paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si rinvia alla sentenza n. 349 del 2007), si deve aggiungere che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi. Ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di "adattamento automatico", sul modello dell'art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana - di cui s'è detto al paragrafo 3.4 - e più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l'effetto previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis, sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del 1996). 4.4. - Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni. L'utilizzazione del criterio interpretativo sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo stesso enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l'effetto condizionante degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale, soltanto al sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale. La legge - e le norme in essa contenute - 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 è sempre la stessa e deve ricevere un'interpretazione uniforme, nei limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l'applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo. Del resto, anche se si restringesse la portata normativa dell'art. 117, primo comma, Cost. esclusivamente all'interno del sistema dei rapporti tra potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque a vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in quelle indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché, dopo la riforma del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma, rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni, l'operatività del primo comma dell'art. 117, anche se considerata solo all'interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di potestà legislativa, statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione. 4.5. - La struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell'espressione "fonti interposte", ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l'idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli "obblighi internazionali" che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato. 4.6. - La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia. 4.7. - Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173 controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le "norme interposte" e quelle costituzionali. L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano. Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione. (…) PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359; dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 In materia di elezioni comunali e provinciali (Corte costituzionale, sentenza 7 luglio 2010 n. 236; Corte costituzionale, sentenza 15 luglio 2010 n. 257; Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10 settembre 2010 n. 6526) Si segnalano due recentissime pronunce della Consulta in materia elettorale. Con la prima (n. 236/10) è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Al proposito, deve evidenziarsi che il legislatore, con la disposizione dell’art. 44 della legge n. 69 del 2009, ha delegato il Governo ad adottare norme che consentano l’autonoma impugnabilità degli atti cosiddetti endoprocedimentali immediatamente lesivi di situazioni giuridiche soggettive. Il Codice del Processo amministrativo, all’art. 129 prevede, al comma 1, che “I provvedimenti relativi al procedimento preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali concernenti l'esclusione di liste o candidati possono essere immediatamente impugnati, esclusivamente da parte dei delegati delle liste e dei gruppi di candidati esclusi, innanzi al tribunale amministrativo regionale competente, nel termine di tre giorni dalla pubblicazione, anche mediante affissione, ovvero dalla comunicazione, se prevista, degli atti impugnati”. Il che significa che l’impugnazione immediata degli atti preparatori può essere proposta esclusivamente dai delegati delle liste escluse e dai candidati esclusi, mentre la mancata esclusione potrà essere impugnata dai contro interessati solo unitamente all’atto di proclamazione degli eletti. Con la sentenza n. 257/10, la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria. Al proposito, la Corte, accogliendo la nostra eccezione, ha evidenziato come il remittente abbia inammissibilmente prospettato “la necessità di un intervento manipolativo che esorbita dai poteri di questa Corte, risolvendosi in un ampliamento dei compiti della Commissione elettorale circondariale che solo il legislatore può prevedere. Il remittente chiede, in definitiva, una pronuncia a contenuto non costituzionalmente obbligato, proponendo un petitum additivo a carattere creativo rientrante soltanto nella discrezionalità del legislatore IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175 (ex plurimis: sentenza n. 138 del 2010; ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007)”. Si segnala, altresì, la recentissima sentenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 10 settembre 2010, n. 6526) con la quale i giudici di palazzo Spada hanno ribadito che nei giudizi elettorali, aventi ad oggetto i risultati delle elezioni amministrative (ivi compresi quelli con i quali si chiede il risarcimento del danno per gli errori commessi dagli uffici elettorali), è parte necessaria solo l’ente locale cui si riferiscono le elezioni e non anche gli uffici elettorali che, quali organi straordinari del Ministero dell’Interno, cessano di funzionare e si sciolgono a seguito della proclamazione degli eletti; un orientamento giurisprudenziale, quest'ultimo, che è stato, per così dire, ratificato normativamente, dall'art. 130 del nuovo Codice del Processo amministrativo il quale prevede che il ricorso elettorale deve essere notificato esclusivamente all'ente locale della cui elezione si tratta. M.B. Corte costituzionale, sentenza 7 luglio 2010, n. 236 - Ud. pubb. 8 giugno 2010 - Pres. Amirante, Red. Cassese - Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), promosso dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria. Avv. Piergiorgio Alberti per L.B. ed altri e avv. Stato Claudio Linda per il Presidente del Consiglio dei ministri. (Omissis) Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sezione seconda, con ordinanza del 28 maggio 2009, notificata il 12 giugno 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 48, 49, 51, 97 e 113 della Costituzione, dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti endoprocedimentali del procedimento elettorale, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. 1.1. – Il Tribunale rimettente riferisce che i ricorrenti nel giudizio principale hanno impugnato – in qualità di elettori, delegati alla presentazione di lista e candidati per la carica di Consigliere provinciale di Savona per la lista n. 12 denominata «Il Popolo della Libertà – Berlusconi per Vaccarezza» – i provvedimenti con cui è stata ricusata la lista stessa dalla competizione elettorale. In particolare, i ricorrenti hanno chiesto l’annullamento degli atti impugnati con concessione di adeguate misure cautelari provvisorie, atte a salvaguardare i loro diritti elettorali nelle more della decisione nel merito. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Nel giudizio a quo, riporta il giudice rimettente, si è costituita l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova, la quale ha eccepito l’inammissibilità del ricorso. 1.2. – Il Tribunale rimettente rileva che, successivamente alla decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 24 novembre 2005, n. 10, la giurisprudenza ha costantemente escluso la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti endoprocedimentali del procedimento elettorale, anteriormente alla proclamazione degli eletti, talché questa interpretazione dell’art. 83- undecies del d.P.R. n. 570 del 1960 costituirebbe ormai una «regola di diritto vivente». 2. – La rilevanza della questione, sostiene il giudice a quo, sarebbe evidente, dato che il ricorso ha per oggetto gli atti di ricusazione di una lista da una competizione elettorale che non si è ancora svolta. Il Tribunale rimettente osserva che l’applicazione della norma della cui legittimità costituzionale si dubita costringerebbe il giudice «a dichiarare l’inammissibilità del gravame e della accessiva istanza cautelare, precludendo definitivamente ai ricorrenti la partecipazione alla attuale competizione elettorale con conseguente compressione dei diritti elettorali costituzionalmente garantiti». Il Tribunale rimettente, inoltre, rileva che il ricorso, al primo esame consentito nella sede cautelare, evidenzia la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, il che induce ad una prognosi favorevole sull’esito del gravame, corroborando ulteriormente la rilevanza della questione. L’applicazione della norma censurata, infatti, osserva il giudice a quo, condurrebbe a negare la tutela cautelare, dichiarando l’inammissibilità del ricorso in relazione ad una pretesa, prima facie, fondata. Per queste ragioni, il Tribunale rimettente, con l’ordinanza in epigrafe, da un lato, ha sospeso il giudizio e disposto l’immediata trasmissione degli atti a questa Corte, e, dall’altro, ha accolto la domanda incidentale di sospensione del provvedimento di esclusione della lista «ad tempus, fino alla restituzione degli atti del giudizio da parte della Corte costituzionale». 3. – In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ritiene che l’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570 del 1960, limitando la proponibilità del giudizio contro l’atto di esclusione o di ammissione di una lista o di un candidato alle elezioni, vìoli gli artt. 3, 24, 48, 49, 51, 97 e 113 Cost. 3.1. – Ad avviso del Tribunale rimettente, gli artt. 24 e 113 Cost. sarebbero violati, in primo luogo, in quanto la norma, unico caso nell’ordinamento di preclusione processuale all’esercizio dell’azione in presenza di fatto o evento lesivo, costituirebbe una «limitazione del diritto di difesa a particolari mezzi di impugnazione (e cioè soltanto alla tutela di merito, con esclusione della tutela cautelare) ed a particolari categorie di atti (e cioè soltanto quelli conclusivi del procedimento), con esclusione di quelli endoprocedimentali immediatamente lesivi, posti in essere prima della proclamazione degli eletti nell’ambito del procedimento elettorale». In secondo luogo, la norma non consentirebbe la tutela cautelare nel giudizio elettorale, impedendo l’esperibilità di uno strumento di tutela, componente essenziale del diritto di difesa, senza che sussistano motivate ed effettive ragioni di tutela di interessi pubblici prevalenti su quest’ultimo diritto, costituzionalmente garantito. 3.2. – Gli artt. 48, 49 e 51 Cost. sarebbero violati, ad avviso del giudice a quo, con riguardo al diritto di elettorato passivo e attivo e al «diritto, connesso, di partecipare alla formazione della volontà politica dei corpi amministrativi locali». In questo caso, la norma, innanzitutto, limiterebbe il risarcimento in forma specifica (costituito dalla partecipazione al procedimento elettorale) di colui o coloro i quali sono stati lesi dal provvedimento illegittimo dell’autorità al solo rinnovo delle operazioni elettorali, non consentendo la immediata riammissione dell’escluso o la immediata esclusione dell’ammesso dal procedimento elettorale. Inoltre, la reiterazione delle elezioni, da un lato, sarebbe «sicuramente un impegno ed un onere rilevante che già di per sé IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177 incide, limitandolo senza ragione, sul diritto di elettorato passivo» e, dall’altro, determinerebbe una violazione del diritto di elettorato attivo a causa dell’impatto negativo in termini di sfiducia da parte degli elettori nei confronti del sistema elettorale, concorrendo a scoraggiare l’affluenza alle urne e la partecipazione al voto. Infine, sotto il profilo dell’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., del principio di pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive e nell’esercizio del diritto di elettorato passivo, la norma viene censurata in quanto «nelle more del giudizio, chi ha ottenuto la vittoria nelle elezioni invalide continua a conservare l’amministrazione locale per un determinato periodo di tempo (il tempo necessario a concludere il processo), il che non è ovviamente senza effetto sul consolidamento di posizioni di vantaggio politico ottenute a danno di chi da quelle elezioni è stato illegittimamente escluso o, di chi, in esse, si è dovuto confrontare – subendoli – con candidati o formazioni che non avrebbero dovuto esservi ammessi ». 3.3. – Il giudice rimettente lamenta, inoltre, la lesione degli artt. 3 e 97 Cost. L’art. 3 Cost. viene invocato per irrazionalità della norma, disparità di trattamento processuale e disparità di trattamento sostanziale tra i candidati alle elezioni locali. Ciò in quanto, in casi che, rispetto alla materia elettorale, sarebbero di altrettanta gravità ed importanza per l’interesse pubblico ad esse connesso, verso «gli atti endoprocedimentali immediatamente lesivi è oggi possibile una intensa e celere tutela sia cautelare che di merito, ed addirittura la tutela ante causam con la possibilità del ricorso al decreto monocratico» di cui all’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali). La norma, quindi, verrebbe a sacrificare i diritti effettivi di difesa non per assicurare la corretta consultazione elettorale e la correlativa volontà del corpo elettorale, ma solo per garantire la cadenza dei tempi procedurali e quindi, in definitiva, per tutelare il lavoro e l’attività degli organi preposti al governo del procedimento elettorale medesimo. Con riguardo all’art. 97 Cost, in primo luogo, la norma determinerebbe un «deficit di tutela cautelare» che «impedisce alle parti di ottenere l’azione correttiva del giudice quando ancora è possibile intervenire per ripristinare la legittimità dell’azione amministrativa, a maggiore garanzia della stabilità del risultato elettorale e degli organi eletti in carica». In secondo luogo, «il differire l’impugnazione degli atti endoprocedimentali all’esito della competizione elettorale finisce con il fare gravare con assoluta sicurezza il rischio della invalidità dell’intero procedimento e della invalidità dell’insediamento dei nuovi organi rappresentativi, con necessità di ricorrere a gestioni commissariali che interrompono il naturale andamento del governo dell’ente locale». 4. – Con atto depositato il 6 ottobre 2009, si sono costituti in giudizio i ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata. La memoria di costituzione riporta, innanzitutto, che, a seguito della ordinanza del giudice rimettente, la lista elettorale n. 12 denominata «Il Popolo della Libertà – Berlusconi per Vaccarezza» è stata riammessa alle elezioni provinciali di Savona del 6 e 7 giugno 2009. All’esito di esse, e del successivo ballottaggio, il Presidente dell’Ufficio elettorale centrale ha proclamato eletto alla carica di Presidente della Provincia di Savona il sig. Angelo Vaccarezza ed eletti alla carica di consiglieri provinciali dieci candidati della lista n. 12, tra i quali uno dei tre ricorrenti. L’avvenuto svolgimento della competizione elettorale, ad avviso dei ricorrenti, «non riverbera sulla fondatezza della questione», in quanto il giudice a quo deve ancora pronunciarsi sul merito del ricorso. I ricorrenti, inoltre, rilevano che la norma censurata non affermerebbe in maniera inequivoca l’inammissibilità o l’improcedibilità – né vieterebbe espressamente la proposizione – del ricorso 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 nei confronti degli atti del procedimento elettorale immediatamente lesivi. I ricorrenti aggiungono che la formula «operazioni per elezioni dei consiglieri comunali» dovrebbe essere riferita alle operazioni elettorali in senso stretto, quali, ad esempio, lo scrutinio delle schede, il conteggio dei voti, il riparto dei seggi, e non dunque ai provvedimenti di ammissione o di esclusione delle liste elettorali. Infine, viene ribadito che la norma censurata, così come interpretata dalla giurisprudenza amministrativa e in particolare dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella decisione n. 10 del 2005, produrrebbe l’effetto di comprimere il diritto – anch’esso costituzionalmente garantito – ad ottenere un’adeguata e tempestiva tutela cautelare. 5. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata. La difesa dello Stato rileva, in primo luogo, che il giudice a quo, in sede cautelare, ha ammesso la lista in questione, disapplicando la norma censurata. La partecipazione alla competizione elettorale avrebbe così determinato il conseguimento dello scopo che i ricorrenti avevano perseguito, impugnando il provvedimento di esclusione, e avrebbe ormai esaurito i suoi effetti in modo irreversibile. Inoltre, essendosi svolte le elezioni e non essendo stata impugnata la pronuncia cautelare, né risultando proposte altre impugnative avverso la proclamazione degli eletti volte a contestare l’irregolarità della competizione a causa della partecipazione della lista ammessa in sede cautelare, la eventuale dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi nel merito non potrebbe determinare né l’operatività del provvedimento di esclusione, né la ripetizione della consultazione elettorale senza la partecipazione della lista. Di conseguenza, ad avviso della Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe priva del requisito della rilevanza, come del resto si sarebbe verificato in ipotesi analoga decisa da questa Corte con l’ordinanza n. 90 del 2009. Nel merito, la difesa dello Stato sostiene la non fondatezza della questione. Il principio secondo cui l’impugnazione di operazioni elettorali è ammissibile solo dopo la proclamazione degli eletti, operante anche in materia di elezioni del Parlamento nazionale, dei membri del Parlamento europeo e dei Consigli regionali, troverebbe fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento elettorale sancite dall’art. 61 Cost. L’impugnazione dell’atto finale, inoltre, tutelerebbe pienamente le posizione dei soggetti che dovessero ritenersi lesi da atti intermedi del procedimento. Ne discende, pertanto, la legittimità costituzionale della disposizione, come interpretata dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 10 del 2005, posto che «la scelta effettuata dal legislatore di concentrare tutte le impugnative in una fase successiva allo svolgimento delle elezioni risponde anche all’esigenza di evitare la proposizione di eventuali impugnative meramente strumentali e propagandistiche, senza per questo incidere negativamente sui menzionati diritti costituzionali». 6. – In data 18 maggio 2010, i ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato una memoria illustrativa, con la quale sono ribadite sia la rilevanza che la fondatezza della questione. 6.1. – Quanto alla rilevanza, si assume che debba essere respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato, dal momento che il giudice a quo deve ancora pronunciarsi sul merito del ricorso. I ricorrenti, inoltre, riportano che il verbale di proclamazione degli eletti è stato impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Liguria da alcuni cittadini i quali hanno, tra l’altro, contestato la partecipazione alla tornata elettorale della lista n. 12 «Il Popolo della Libertà – Berlusconi per Vaccarezza». Con sentenza 21 gennaio 2010, n. 165, il Tar Liguria, sezione seconda, ha dichiarato inammissibile l’impugnativa, non avendo i ricorrenti instaurato correttamente il contraddittorio. Tale pronuncia, si legge IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179 nella memoria, non risulta essere ancora passata in giudicato. Ne deriva, pertanto, che «la decisione dell’incidente di costituzionalità è – e rimane – rilevante ai fini della definizione del giudizio a quo». 6.2. – Con riguardo alla fondatezza, i ricorrenti contestano la posizione espressa dalla Avvocatura generale dello Stato, in base alla quale la regola dell’impugnazione delle «operazioni elettorali» dopo la proclamazione degli eletti opererebbe anche per le elezioni del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo e dei Consigli regionali. Queste disposizioni, infatti, si riferirebbero, ad avviso dei ricorrenti, all’impugnabilità delle «operazioni elettorali», che «costituiscono, concettualmente, qualcosa di diverso dai provvedimenti di esclusione delle liste dalla competizione elettorale, con la conseguenza che le relative discipline processuali non possono essere confuse o sovrapposte». Ad avviso dei ricorrenti, inoltre, il differimento dell’impugnativa ad un momento successivo alla proclamazione degli eletti non sarebbe un mero spostamento temporale di quella stessa azione giurisdizionale che avrebbe potuto essere esercitata nell’immediatezza dell’atto lesivo, ma implicherebbe l’instaurazione di una controversia finalizzata ad ottenere un «bene della vita» (il rifacimento delle elezioni) distinto rispetto a quello (riammissione della lista alla competizione elettorale) che si sarebbe chiesto se si fosse potuto contestare l’esclusione. 7. – In data 18 maggio 2010, il Presidente dal Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria illustrativa, con la quale si conferma la richiesta di una dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, di manifesta infondatezza della questione. La difesa dello Stato ribadisce che la norma censurata non escluderebbe né limiterebbe l’area di esercizio del potere cautelare, ma fisserebbe «un criterio di accorpamento di tutte le impugnative riferibili allo stesso procedimento elettorale, ragionevolmente giustificato dall’intendimento del legislatore di consentire lo svolgimento della consultazione elettorale nel termine stabilito». In generale, l’Avvocatura generale dello Stato contesta il complessivo impianto argomentativo dell’ordinanza di rimessione. Infatti, il legislatore, dopo aver tracciato una procedura improntata ai criteri di accentuate garanzie di imparzialità e di obiettività, «avrebbe volutamente escluso la possibilità di intervento e di coinvolgimento del potere giudiziario amministrativo, prima dell’atto finale delle elezioni, in questioni connotate da caratteri eminentemente politici», perché «un intervento anticipato degli organi giurisdizionali amministrativi potrebbe provocare artificiose iniziative finalizzate alla strumentalizzazione di eventuali provvedimenti cautelari favorevoli o, comunque, necessitati rinvii delle elezioni, per consentire un minimo di par condicio nella campagna elettorale delle liste eventualmente riammesse negli ultimi giorni prima delle votazioni». La possibilità dell’intervento del giudice amministrativo nella fase prodromica del procedimento elettorale – conclude la difesa dello Stato – rischierebbe di creare dubbi ed incertezze nel corpo elettorale, che costituisce «il primo organo costituzionale, in quanto titolare della sovranità popolare », sicché «anche per questa ragione, la scelta del legislatore, criticata dal giudice a quo, risulta invece pienamente giustificata, razionale e corretta sul piano costituzionale». Considerato in diritto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sezione seconda, con ordinanza del 28 maggio 2009, notificata il 12 giugno 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 48, 49, 51, 97 e 113 della Costituzione, dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), intro- 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 dotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti endoprocedimentali del procedimento elettorale, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. L’art. 83-undecies prevede, al comma primo, che «contro le operazioni per l’elezione dei consiglieri comunali, successive alla emanazione del decreto di convocazione dei comizi, qualsiasi cittadino elettore del Comune, o chiunque altro vi abbia diretto interesse, può proporre impugnativa davanti alla sezione per il contenzioso elettorale, con ricorso che deve essere depositato nella segreteria entro il termine di giorni trenta dalla proclamazione degli eletti». Tale disposizione, secondo l’interpretazione assunta quale regola di «diritto vivente» dal giudice rimettente, escluderebbe l’autonoma impugnabilità di atti del procedimento elettorale immediatamente lesivi, come l’esclusione di liste o di candidati, la cui legittimità potrebbe così essere contestata solo in sede di impugnazione dell’atto conclusivo dell’intero procedimento, vale a dire la proclamazione degli eletti, così impedendo la tutela cautelare. 2. – Preliminarmente vanno disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato. 2.1. – In primo luogo, non può essere accolta l’eccezione in base alla quale, «essendosi svolte le elezioni e non essendo stata impugnata la pronuncia cautelare, né risultando proposte altre impugnative avverso la proclamazione degli eletti volte a contestare l’irregolarità della competizione a causa della partecipazione della lista ammessa in sede cautelare, la eventuale dichiarazione di inammissibilità del ricorso nel merito non potrebbe determinare né l’operatività del provvedimento di esclusione, né la ripetizione della consultazione elettorale senza la partecipazione della lista». Il giudizio a quo, infatti, ha per oggetto gli atti di ricusazione di una lista da una competizione elettorale che, al momento in cui l’ordinanza di rimessione è stata emessa, non si era ancora svolta. Pertanto, l’avvenuto svolgimento della competizione elettorale, con la partecipazione della lista presentata dai ricorrenti, non ha effetti sulla rilevanza della questione, in quanto il giudice a quo – che ha sospeso il giudizio in sede cautelare – deve ancora pronunciarsi sul merito del ricorso. 2.2. – In secondo luogo, non può ritenersi che il giudice a quo, ammettendo la lista dei ricorrenti, abbia esaurito il proprio potere cautelare, rendendo così inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione sollevata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «la potestas iudicandi non può ritenersi esaurita quando la concessione della misura cautelare è fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale» (ordinanza n. 25 del 2006). Nel caso in questione, il Tribunale rimettente ha concesso la misura cautelare nel presupposto della non manifesta infondatezza della questione sollevata e «ad tempus», ossia «fino alla restituzione degli atti del giudizio da parte della Corte costituzionale». Il giudice a quo, pertanto, non ha esaurito la propria potestas iudicandi. 2.3. – La difesa dello Stato, inoltre, richiama l’ordinanza n. 90 del 2009, con cui questa Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570 del 1960, ritenendo che il giudice a quo non avesse dimostrato la rilevanza della questione, in considerazione della circostanza che i ricorrenti nel giudizio principale avevano ottenuto «la tutela cautelare contro i provvedimenti di esclusione, con conseguente partecipazione della lista esclusa alla consultazione elettorale». In quella occasione, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181 tuttavia, diversamente da quanto verificatosi nel presente giudizio, il Tribunale rimettente aveva sollevato la questione nella fase di merito e non in sede cautelare. Con l’ordinanza n. 90 del 2009, questa Corte ha rilevato anche che lo stesso giudice a quo aveva posto in dubbio l’esistenza di un diritto vivente che precludesse l’impugnabilità immediata degli atti endoprocedimentali in materia elettorale, ancorché lesivi di situazioni soggettive di privati. Ciò non si riscontra nell’ordinanza di rimessione relativa al presente giudizio, nella quale il Tribunale rimettente sostiene, in modo plausibile, che l’interpretazione fornita dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è regola di diritto vivente, e per questo solleva la questione di legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte. Anche in sede legislativa, del resto, successivamente all’ordinanza n. 90 del 2009, l’interpretazione della norma censurata fornita dalla decisione n. 10 del 2005 della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è stata intesa quale regola di «diritto vivente», tanto che ne è stata proposta una modifica parziale: lo schema di Codice del processo amministrativo trasmesso alla Camera dei deputati il 30 aprile 2010, sulla base della delega legislativa di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitiva nonché in materia di processo civile), prevede, da un lato, l’abrogazione dell’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570 del 1960 (All. 4, art. 2, comma 1, lett. b), e, dall’altro, la possibilità di impugnare immediatamente l’ammissione o la esclusione delle liste elettorali, senza attendere la proclamazione degli eletti (art. 129). Il citato art. 44 della legge n. 69 del 2009, infatti, ha delegato il Governo a «razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi [...], mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni». 3. – Nel merito, la questione è fondata. Secondo quanto affermato da questa Corte, il potere di sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo è «elemento connaturale» di un sistema di tutela giurisdizionale incentrato sull’annullamento degli atti delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 284 del 1974). Nel caso in questione, la posticipazione dell’impugnabilità degli atti di esclusione di liste o candidati ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni preclude la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost. Infatti, posto che l’interesse del candidato è quello di partecipare ad una determinata consultazione elettorale, in un definito contesto politico e ambientale, ogni forma di tutela che intervenga ad elezioni concluse appare inidonea ad evitare che l’esecuzione del provvedimento illegittimo di esclusione abbia, nel frattempo, prodotto un pregiudizio. 3.1. – Una simile compressione della tutela giurisdizionale non può trovare giustificazione nelle peculiari esigenze di interesse pubblico che caratterizzano il procedimento in materia elettorale. A tal riguardo, è necessario distinguere tra procedimento preparatorio alle elezioni, nel quale è inclusa la fase dell’ammissione di liste o di candidati, e procedimento elettorale, comprendente le operazioni elettorali e la successiva proclamazione degli eletti. Gli atti relativi al procedimento preparatorio alle elezioni, come l’esclusione di liste o di candidati, debbono poter essere impugnati immediatamente, al fine di assicurare la piena tutela giurisdizionale, ivi inclusa quella cautelare, garantita dagli artt. 24 e 113 Cost. Lo stesso legislatore, del resto, con la disposizione dell’art. 44 della legge n. 69 del 2009, ha delegato il Governo ad adottare 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 norme che consentano l’autonoma impugnabilità degli atti cosiddetti endoprocedimentali immediatamente lesivi di situazioni giuridiche soggettive. 3.2. – Né può accogliersi la tesi, sostenuta dalla difesa dello Stato, in base alla quale la regola della non impugnabilità dei provvedimenti di esclusione delle liste elettorali sarebbe necessariamente imposta dalle esigenze di speditezza del procedimento elettorale sancite dall’art. 61 Cost. Tale disposizione costituzionale si riferisce alle elezioni delle Camere e non afferma espressamente un principio di speditezza, né tanto meno una prevalenza di detto principio sul diritto, garantito dagli artt. 24 e 113 Cost., a una tutela giurisdizionale piena e tempestiva contro gli atti della pubblica amministrazione. 3.3. – Deve rilevarsi, inoltre, che gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, riconoscono, tra l’altro, un diritto ad un ricorso effettivo, che verrebbe vanificato laddove l’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570 del 1960 fosse inteso nel senso di escludere l’impugnabilità immediata degli atti relativi al procedimento preparatorio alle elezioni, come l’esclusione di liste o di candidati, che siano immediatamente lesivi di situazioni giuridiche soggettive. 3.4. – Né può sostenersi, infine, la tesi della difesa dello Stato in base alla quale la possibilità dell’intervento del giudice amministrativo nella fase iniziale del procedimento elettorale rischierebbe di creare incertezze nel corpo elettorale, che costituisce «il primo organo costituzionale, in quanto titolare della sovranità popolare». A prescindere dalla circostanza che la sovranità popolare è esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, secondo comma, Cost.), il sindacato giurisdizionale sugli atti immediatamente lesivi relativi al procedimento preparatorio alle elezioni rappresenta una garanzia fondamentale per tutti i cittadini. In un ordinamento democratico, infatti, la regola di diritto deve essere applicata anche a tali procedimenti e, a questo fine, è essenziale assicurare una tutela giurisdizionale piena e tempestiva, nel rispetto degli artt. 24 e 113 Cost. 4. – Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147, nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura dedotti dal giudice rimettente. RER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183 Corte costituzionale, sentenza 15 luglio 2007 n. 257 - Ud. Pubb. 8 giugno 2010 - Pres. Amirante, Red. Quaranta - Giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria con ordinanza del 1° ottobre 2009. Avv. Federico Sorrentino per G.B. ed altro, e avv. Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri. (Omissis) Ritenuto in fatto 1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, con ordinanza del 1° ottobre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) «nella parte in cui non prevedono che la Commissione elettorale circondariale, entro il giorno successivo a quello - rispettivamente - della presentazione delle candidature e della presentazione delle liste, elimina i nomi dei candidati alla carica di sindaco a carico dei quali viene accertata la sussistenza della condizione di ineleggibilità di cui all’art. 60, comma 1, numero 12, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e ricusa le liste collegate agli stessi», per contrasto con gli articoli 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 97 della Costituzione. L’art. 60, comma 1, numero 12, sopra richiamato, prevede che non sono eleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale: i sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali, provinciali o circoscrizionali in carica, rispettivamente in altro comune, provincia o circoscrizione. 2.— Il giudizio a quo, proposto da cittadini elettori residenti nel comune di Cengio, ha ad oggetto l’impugnazione del verbale di proclamazione degli eletti alla carica di sindaco e di consigliere comunale del suddetto comune, adottato dall’Adunanza dei presidenti delle sezioni elettorali a seguito delle elezioni amministrative del 6 e 7 giugno 2009. 3.— Il remittente ha premesso in fatto quanto di seguito, in sintesi, riportato. La sottocommissione elettorale circondariale di Cairo Montenotte ammetteva alla consultazione elettorale del 6 e 7 giugno 2009 tre liste: “Lista civica Cengio c’è”; “Noi per Cengio”; “Cengio cambia – Bagnasco Sindaco – Lista civica”. Quest’ultima lista indicava quale candidato sindaco Arnaldo Bagnasco, consigliere comunale del comune di Cairo Montenotte. L’incarico consiliare presso quest’ultimo comune rendeva ineleggibile il Bagnasco alla carica di sindaco del comune di Cengio ai sensi dell’art. 60, comma 1, numero 12, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). Ciò nonostante, la sottocommissione elettorale circondariale di Cairo Montenotte, non rilevando tale condizione di ineleggibilità, ammetteva la lista “Cengio cambia – Bagnasco Sindaco – Lista civica”, alla consultazione elettorale. A seguito di un esposto, la Prefettura di Savona, sul punto, precisava che «la commissione elettorale circondariale deve rilevare solo le cause di incandidabilità, mentre non ha il potere di impedire la presentazione della lista per ragioni di ineleggibilità». In tal senso si esprimeva anche la suddetta sottocommissione elettorale. In data 8 giugno 2009 l’Adunanza dei presidenti delle sezioni elettorali proclamava i risultati elettorali ed assegnava alla suddetta lista un solo seggio, attribuito al candidato sindaco Arnaldo Bagnasco. Quest’ultimo, in data 16 giugno 2009, rassegnava le dimissioni dalla carica 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di consigliere comunale di Cengio, con ciò determinando il subentro del proprio figlio Emil Bagnasco, primo dei non eletti della lista a lui collegata. 4.— Tanto premesso, il TAR remittente, in ordine alla rilevanza della questione, afferma di condividere l’orientamento della Corte di cassazione, secondo il quale l’art. 60, comma 1, numero 12, del d.lgs. n. 267 del 2000, con l’uso dell’avverbio «rispettivamente» intende prefigurare non già una pedissequa simmetria, quanto alle limitazioni alla eleggibilità, tra cariche identiche (sindaco con sindaco di altro comune, consigliere comunale con consigliere di altro comune), bensì limitare, a chi rivesta una carica all’interno dell’organo elettivo, l’accesso ad altro organo omologo, sia come consigliere che come sindaco, posta la indiscutibile appartenenza di quest’ultimo al consiglio comunale e la sua partecipazione alle relative funzioni. Disciplina analoga, ricorda il giudice a quo, era già contenuta nel combinato disposto di cui all’art. 2, numero 13 (recte: numero 12), della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale) e dell’art. 6 del d.P.R. n. 570 del 1960. Né, d’altronde, il d.lgs. n. 267 del 2000, per sua natura, in ragione della delega conferita dell’art. 31 della legge 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142), sarebbe stato idoneo ad innovare detta disciplina senza incorrere in un eccesso di delega. 5.— Ciò premesso, il TAR ligure dubita della legittimità costituzionale dei citati artt. 30 e 33 del d.P.R. n. 570 del 1960, nei termini sopra esposti. Tali articoli contengono una elencazione analitica dei casi di esclusione dei candidati e di ricusazione delle liste da parte dell’Ufficio elettorale in questione, che ha carattere tassativo. In base alle suddette disposizioni, la Commissione elettorale non ha il potere di escludere una lista per ragioni di ineleggibilità del candidato sindaco al quale la stessa è collegata. Ogni verifica è infatti rinviata alla prima seduta consiliare (art. 41 del d.lgs. n. 267 del 2000), con la conseguenza, ad avviso del giudice remittente, che «se il candidato ineleggibile viene eletto sindaco, la decadenza che lo riguarda rende necessaria la celebrazione di nuove elezioni; se, invece, rimane soccombente, le elezioni resteranno valide e si verifica solo la decadenza del candidato sindaco dalla carica di consigliere comunale» (è richiamata la decisione del Consiglio di Stato, sezione V, 15 giugno 2000, n. 3338). 6.— Il TAR precisa che le cause di ineleggibilità, tra le quali figura quella di cui all’art. 60, comma 1, numero 12, del d.lgs. n. 267 del 2000, riguardano coloro che, ricoprendo un incarico o una funzione pubblica di notevole rilievo sociale, politico o istituzionale, possono trarne immediato giovamento, in termini di prestigio personale e di potenziale aumento del consenso elettorale, esercitando la captatio benevolentiae. Esse divergono dalle cause di incompatibilità, che offrono invece al candidato eletto la facoltà di scegliere tra la carica elettiva e l’ufficio o l’incarico da cui discende l’impedimento. Coloro che non abbiano rimosso la causa di ineleggibilità prima del termine di legge incorrono in una causa di decadenza. L’ineleggibilità, pertanto, opera come temporanea sospensione del diritto di elettorato passivo. 7.— Orbene, ad avviso del TAR remittente, occorre considerare che tale assetto normativo è sorto nel vigore del precedente sistema elettorale, il quale prevedeva l’elezione del sindaco ad opera del consiglio comunale, nel suo ambito, alla prima adunanza, subito dopo la convalida degli eletti (art. 34 della legge 8 giugno 1990, n. 142, che reca «Ordinamento delle autonomie locali», nel testo in vigore anteriormente alla sostituzione operata dall’art. 16 della IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185 legge 25 marzo 1993, n. 81, che reca «Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale»). In tale contesto, appariva dunque del tutto ragionevole che la causa di ineleggibilità del candidato determinasse soltanto la sua decadenza, senza travolgere l’intero procedimento elettorale. Il giudice a quo deduce, quindi, che tale situazione sia radicalmente mutata a seguito dell’entrata in vigore della citata legge n. 81 del 1993, con specifico riguardo alla situazione dei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, com’è il caso del comune di Cengio. Con l’entrata in vigore dell’art. 5 della legge n. 81 del 1993 (successivamente abrogato dal d.lgs. n. 267 del 2000, ma sostanzialmente riprodotto nell’art. 71 del medesimo d.lgs.), infatti, è sorto un rapporto di stretta integrazione tra il candidato alla carica di sindaco e la lista a quest’ultimo collegata, rapporto che costituisce il tratto più significativo della riforma del sistema elettorale amministrativo attuata con tale legge. A sostegno delle proprie argomentazioni il remittente pone in evidenza: a) che con la lista di candidati al consiglio comunale deve essere anche presentato il nome e cognome del candidato alla carica di sindaco e il programma amministrativo da affiggere all’albo pretorio; b) che ciascuna candidatura alla carica di sindaco è collegata ad una lista di candidati alla carica di consigliere comunale; c) che nella scheda elettorale è indicato, a fianco del contrassegno, il candidato alla carica di sindaco; d) che a ciascuna lista di candidati alla carica di consigliere si intendono attribuiti tanti voti quanti sono i voti conseguiti dal candidato alla carica di sindaco ad essa collegato, di modo che nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, «l’indicazione di voto apposta sul nominativo del candidato alla carica di sindaco o sul rettangolo che contiene il nominativo stesso» vale anche come voto alla lista collegata. Ne consegue che la presentazione della lista integra, oggi, una fattispecie di cui sono elementi essenziali sia l’indicazione del candidato alla carica di sindaco, sia l’elenco dei candidati al consiglio comunale. Tanto ciò è vero che, nel caso del candidato sindaco che versi nella situazione di incandidabilità ai sensi della disciplina antimafia, le norme contenute negli artt. 30, comma 1, lettera c), e 33, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 570 del 1960 prevedono espressamente l’esclusione del nominativo del candidato. A ciò consegue che la lista a lui collegata, venendo a mancare dell’indefettibile requisito di ammissibilità costituito dall’indicazione del candidato sindaco (art. 71, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000), diviene a sua volta inammissibile e, come tale, immediatamente esclusa dalla competizione elettorale. 8.— Un primo profilo di illegittimità della normativa in questione, è ravvisato dal TAR per la Liguria nella violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost. Benché in entrambe le ipotesi (incandidabilità ed ineleggibilità del candidato sindaco) sussista un inscindibile collegamento tra la presentazione della candidatura alla carica di sindaco e quella della lista dei candidati al consiglio comunale ad essa collegata – tale per cui simul stabunt, simul cadent – non sarebbe dato comprendere perché in un caso (incandidabilità) l’inammissibilità della candidatura alla carica di sindaco debba essere rilevata prima della celebrazione delle elezioni ex artt. 30, comma 1, lettera c), e 33, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 570 del 1960 e determini l’inammissibilità anche della lista collegata, mentre nell’altro (ineleggibilità) debba essere dichiarata soltanto dopo, ex art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 267 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 del 2000, con il rischio concreto di invalidare (nel caso di elezione del candidato sindaco ineleggibile) l’intero procedimento elettorale. 9.— Sussisterebbe, altresì, la violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 48, secondo comma, e 51, primo comma, Cost. Da un lato, infatti, le cause di ineleggibilità, di cui agli artt. 60 e 61 del d.lgs. n. 274 del 2000, sono stabilite allo scopo di garantire la eguale e libera espressione del voto, tutelata dall’art. 48, secondo comma, primo periodo, Cost., «rispetto a qualsiasi possibilità di captatio benevolentiae o di metus potestatis». Dall’altro, esse sono intese a garantire pari opportunità tra coloro che concorrono alle cariche pubbliche (è richiamata la sentenza n. 84 del 2006). Invece, in ragione della disciplina censurata, i candidati alla carica di consigliere comunale eletti in una lista collegata ad un candidato sindaco ineleggibile, si trovano nella condizione di avvantaggiarsi degli effetti positivi della candidatura di quest’ultimo. 10.— Le disposizioni de quibus sarebbero, inoltre, in contrasto con il principio di buon andamento dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., che vale anche per il procedimento amministrativo elettorale. Diversamente dal passato, deduce il TAR, la posizione nella quale il legislatore ha individuato una causa di ineleggibilità è in grado di alterare non solo il risultato personale del candidato, ma anche il risultato della lista cui egli è collegato. In tale mutato contesto, dunque, non sarebbe più ragionevole e conforme al principio di buon andamento che la causa di ineleggibilità del candidato determini soltanto la sua decadenza a posteriori, senza travolgere l’intero procedimento elettorale. Sul punto, ricorda il remittente, la Corte costituzionale, seppure nell’ambito di una decisione di inammissibilità della questione sottopostale, per carenza di incidentalità, ha già affermato di essere «consapevole che la vigente normativa consente di rilevare l’esistenza di cause di ineleggibilità – nonostante che queste siano intese a garantire la pari opportunità fra i concorrenti – soltanto dopo lo svolgimento delle elezioni (…). Si tratta di una normativa evidentemente incongrua: non assicura la genuinità della competizione elettorale, nel caso in cui l’ineleggibilità sia successivamente accertata; induce il cittadino a candidarsi violando la norma che, in asserito contrasto con la Costituzione, ne preveda l’ineleggibilità; non consente che le cause di ineleggibilità emergano, come quelle di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali» (già citata sentenza n. 84 del 2006). 11.— Si è costituita la parte ricorrente del giudizio a quo che ha concluso per la fondatezza della questione di costituzionalità. 12.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi non fondata la questione sollevata dal TAR Liguria richiamando le motivazioni della decisione del Consiglio di Stato n. 3338 del 2000. 13.— In data 18 maggio 2010, hanno depositato memoria i ricorrenti in prime cure. La difesa privata, pone in evidenza, in particolare, come, in ragione della disciplina vigente, l’unica finalità che può perseguire un soggetto ineleggibile, che si candidi a sindaco in un comune con popolazione inferiore a quindicimila abitanti, è quella di attirare voti per favorire candidati inseriti nella lista a lui collegata. Tale finalità incide in modo distorsivo sulla par condicio elettorale ed è pregiudizievole in ordine alla genuinità del voto (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 84 del 2006). È contrastata, altresì, la difesa dell’Avvocatura dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187 14.— Anche la difesa dello Stato ha depositato memoria con la quale ha ribadito le argomentazioni svolte e le conclusioni già rassegnate. Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, la diversa ratio che sottende le ipotesi di incandidabilità rispetto a quelle di ineleggibilità giustificherebbe la rilevabilità di quest’ultima, nella fattispecie in esame, dopo lo svolgimento delle elezioni. La corretta composizione degli organi elettivi è affidata, infatti, a controlli successivi, in occasione dell’insediamento degli organi stessi. La pronuncia additiva richiesta, infine, inciderebbe sulla discrezionalità che l’ordinamento affida al legislatore. Considerato in diritto 1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, con ordinanza in data 1° ottobre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) «nella parte in cui non prevedono che la Commissione elettorale circondariale, entro il giorno successivo a quello - rispettivamente - della presentazione delle candidature e della presentazione delle liste, elimina i nomi dei candidati alla carica di sindaco a carico dei quali viene accertata la sussistenza della condizione di ineleggibilità di cui all’art. 60, comma 1, numero 12, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e ricusa le liste collegate agli stessi», per contrasto con gli articoli 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 97 della Costituzione. 2.— Il giudice a quo, con riguardo alla dedotta violazione del principio di eguaglianza, invoca, quale tertium comparationis, l’art. 15, comma 1, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), il quale, occorre ricordare, «risulta formalmente abrogato», dall’art. 274, comma 1, lettera p), del citato d.lgs. n. 267 del 2000, «ma il suo contenuto precettivo è stato integralmente riprodotto dal combinato disposto degli artt. 58, comma 1, lettera a), e 59, comma 1, lettera a), e comma 4», del medesimo decreto (sentenza n. 25 del 2002). 3.— In particolare, il remittente lamenta la mancata previsione, nelle disposizioni censurate, della competenza della predetta Commissione elettorale ad eliminare dalle liste i nomi dei candidati alla carica di sindaco e a disporre la conseguente ricusazione delle liste stesse, in presenza della causa di ineleggibilità di cui al citato art. 60, comma 1, numero 12, del d.lgs. n. 267 del 2000, in analogia a quanto espressamente previsto dall’art. 15, comma 1, della legge n. 55 del 1990, in una fattispecie – a suo dire – per alcuni aspetti analoga. Il suddetto art. 60, comma 1, numero 12, prevede che «non sono eleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale» (…) «i sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali, provinciali o circoscrizionali in carica, rispettivamente in altro comune, provincia o circoscrizione». A sua volta, l’art. 58, come nel tempo modificato, del citato d.lgs. n. 267 del 2000, prevede, al comma 1, con disciplina analoga a quella del richiamato art. 15 della legge n. 55 del 1990, che «non possono essere candidati alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’articolo 114, presidente e componente degli organi delle comunità montane» coloro che hanno riportato condanna penale definitiva per determinati reati, o coloro nei cui confronti è stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, o comunque criminale, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso. 3.1.— In riferimento alla prospettata violazione dei suindicati parametri costituzionali, il TAR remittente ha dedotto che i candidati alla carica di consigliere comunale, eletti in una lista collegata ad un candidato sindaco ineleggibile, sarebbero avvantaggiati dagli effetti positivi della candidatura di quest’ultimo, con lesione sia del diritto degli elettori comunali alla libera espressione del voto, sia di quello degli aspiranti alla carica di consigliere comunale, appartenenti ad altre liste, di concorrere in condizioni di sostanziale eguaglianza. 3.2.— Infine, con specifico riferimento alla prospettata violazione dell’art. 97 Cost., il remittente afferma come non sia ragionevole e conforme al principio costituzionale di buon andamento che la causa di ineleggibilità del candidato determini soltanto la sua decadenza a posteriori, senza travolgere l’intero procedimento elettorale. Ciò ancor più, laddove si consideri che l’art. 76 del d.lgs. n. 267 del 2000 disciplina l’anagrafe degli amministratori locali e regionali, che contiene i dati relativi agli eletti a cariche locali e regionali ed è agevolmente consultabile da chiunque, sicché la situazione di ineleggibilità del candidato, che versi in tale condizione, è accertabile in modo semplice e rapido. 4.— In via preliminare, occorre precisare che il thema decidendum del presente giudizio verte sulle limitazioni al diritto di elettorato passivo alla carica di sindaco, che rientra fra quelli «inviolabili » riconosciuti dall’art. 2 Cost., per cui la sua restrizione è ammissibile soltanto nei limiti strettamente necessari alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti e secondo le regole della necessità e della ragionevole proporzionalità (sentenze n. 240 del 2008 e n. 141 del 1996). Da ciò deriva che le norme che derogano al principio della generalità di tale diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono essere applicate nei limiti di quanto sia necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (sentenze n. 306 del 2003 e n. 364 del 1996). E deve anche essere precisato che, come questa Corte ha più volte affermato, la previsione della ineleggibilità tende a prevenire che il candidato ponga in essere, in ragione della carica ricoperta o delle funzioni svolte, indebite pressioni sugli elettori (sentenza n. 217 del 2006), esercitando una captatio benevolentiae o inducendo un metus publicae potestatis, idonei ad alterare la par condicio tra i candidati. Tale funzione distingue l’istituto in questione da quello dell’incompatibilità, che è volta, invece, ad evitare il conflitto di interessi nel quale venga a trovarsi il soggetto che sia stato eletto (citata sentenza n. 217 del 2006). Orbene, nella specie, la doglianza del remittente si appunta sulle modalità con le quali l’ineleggibilità, sancita dall’art. 60, comma 1, numero 12, del d.lgs. n. 267 del 2000, deve essere rilevata, nonché sulle ricadute di essa sul complessivo sistema elettorale per l’elezione del sindaco e dei consiglieri comunali. 5.— Così precisato l’oggetto del contendere, deve essere esaminata, innanzi tutto, l’eccezione di inammissibilità della questione sotto il profilo secondo cui essa sarebbe diretta ad ottenere una pronunzia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato. 6.— L’eccezione è fondata. Il remittente, nel prospettare la necessità della integrazione, ad opera di questa Corte, delle norme censurate nel senso suindicato, invoca una parificazione tra l’ipotesi della ineleggibilità IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189 disciplinata dall’art. 60, comma 1, numero 12, del T.U. n. 267 del 2000 e quella della incandidabilità già prevista dall’art. 15 della legge n. 55 del 1990, la quale sarebbe funzionale a salvaguardare la libertà del voto e la partecipazione alla competizione elettorale in posizione di uguaglianza tra i concorrenti. Tuttavia, l’uguaglianza delle situazioni poste a confronto, che dovrebbe giustificare la invocata identità di trattamento normativo, non appare rispondente né alla ratio degli istituti in esame, né al quadro normativo di riferimento. Occorre considerare, innanzitutto, la ratio sottesa alle disposizioni contenute nella citata normativa antimafia. Come questa Corte ha già affermato, le previsioni contenute in tale normativa speciale sono dirette «ad assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli interessi dell’intera collettività» (sentenza n. 352 del 2008, che richiama l’affermazione della sentenza n. 288 del 1993). Il legislatore, in tal modo, «ha inteso essenzialmente contrastare il fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto istituzionale locale e, in generale, perseguire l’esclusione dalle amministrazioni locali di coloro che per gravi motivi non possono ritenersi degni della fiducia popolare» (citata sentenza n. 352 del 2008 che richiama l’affermazione della sentenza n. 407 del 1992). Ciò comporta che è speculare al potere della Commissione elettorale circondariale di escludere i candidati che versino nelle condizioni di cui al citato art. 15 della legge n. 55 del 1990, la sanzione della nullità dell’elezione, sancita prima dal medesimo art. 15 e ora dall’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000. Si è, dunque, in presenza di una specifica causa ostativa alla candidatura, dalla quale l’ordinamento fa scaturire le suddette conseguenze. Diversa è, invece, l’ipotesi di ineleggibilità prevista dall’art. 60, comma 1, numero 12, del T.U. n. 267 del 2000, che rientra tra quelle per le quali le limitazioni del diritto di elettorato passivo sono fondate sul timore di distorsione della volontà degli elettori a causa dell’influenza che su di essi può essere esercitata da chi ricopre determinati uffici, o sono comunque fondate su elementi di carattere personale (sentenza n. 450 del 2000). A ciò è da aggiungere che la ratio di limitazioni analoghe a quelle in esame è stata ravvisata nella diversa circostanza che «chi di una di tali amministrazioni fa parte si consideri così strettamente legato da doveri e da responsabilità verso la comunità prescelta da non potere partecipare agli organi rappresentativi degli interessi omologhi di altra comunità dello stesso tipo, con l’assunzione di altrettanti doveri e responsabilità verso di essa» (sentenza n. 97 del 1991). Anzi, il potere attribuito alla Commissione elettorale circondariale dalle norme censurate rispetto alla incandidabilità ex art. 15 della legge n. 55 del 1990, ha fondamento proprio nella sanzione della nullità, in quanto tende ad evitare, in un’ottica di buon andamento dell’amministrazione, relativa anche al procedimento elettorale, che si dia luogo ad una consultazione elettorale destinata ad essere travolta. D’altronde, come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione V, decisione 15 giugno 2000, n. 3338), le citate disposizioni, oltre a sancire il divieto di candidatura, regolano anche un potere di controllo su questa causa di impedimento, che può risolversi nella radicale esclusione del candidato consigliere ineleggibile, come anche nell’esclusione della lista collegata al candidato sindaco ineleggibile. 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 È, dunque, evidente che, nel bilanciamento fra i principi previsti dagli artt. 51 e 97 Cost., spetta esclusivamente al Parlamento valutare, sulla base della ragionevolezza e con scelte di carattere certamente politico, le diverse ipotesi e, in relazione alla gravità di ciascuna di esse, graduare il trattamento normativo più appropriato e proporzionato (sentenza n. 240 del 2008). 7.— Quanto sopra, da un lato, fa emergere l’incompletezza della ricostruzione normativa posta dal giudice remittente a fondamento della lesione del principio di eguaglianza; dall’altro, mette in luce come il remittente stesso prospetti la necessità di un intervento manipolativo che esorbita dai poteri di questa Corte, risolvendosi in un ampliamento dei compiti della Commissione elettorale circondariale che solo il legislatore può prevedere. Il remittente chiede, in definitiva, una pronuncia a contenuto non costituzionalmente obbligato, proponendo un petitum additivo a carattere creativo rientrante soltanto nella discrezionalità del legislatore (ex plurimis: sentenza n. 138 del 2010; ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007). 8.— Il giudice a quo, nella sua ordinanza, nel prospettare le ragioni poste a base della valutazione di non manifesta infondatezza della questione, ha fatto, tra l’altro, riferimento a quanto osservato nella sentenza n. 84 del 2006 da questa Corte, la quale, pronunciandosi su una fattispecie connotata dalla mancanza del carattere di incidentalità della questione di costituzionalità allora proposta, ha affermato di essere «consapevole che la vigente normativa consente di rilevare l’esistenza di cause di ineleggibilità – nonostante che queste siano intese a garantire la pari opportunità fra i concorrenti – soltanto dopo lo svolgimento delle elezioni». E la Corte ha aggiunto che «si tratta di una normativa evidentemente incongrua: non assicura la genuinità della competizione elettorale, nel caso in cui l’ineleggibilità sia successivamente accertata; induce il cittadino a candidarsi violando la norma che, in asserito contrasto con la Costituzione, ne preveda l’ineleggibilità; non consente che le cause di ineleggibilità emergano, come quelle di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali». Pur ribadendo quanto osservato nella citata sentenza, questa Corte, tuttavia, non può che dichiarare inammissibile la questione in esame, in quanto essa, comunque, si risolve nella richiesta di un intervento manipolativo che, esulando dai suoi poteri, spetta soltanto al legislatore nella sua discrezionale valutazione con specifico riferimento agli aspetti anche di natura politica che connotano la materia elettorale. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 7 luglio 2010. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191 Consiglio di Stato, Sezione Quinta, sentenza del 10 settembre 2010 n. 6526 - Pres. Baccarini, Est. Saltelli - S.A., C.A., C.P. (avv.ti G. Russiello e M. Zuppardi) c. Comune di Napoli (avv.ti E. Barone, G. Tarallo e A. Pulcini), Ministero Interno (avv. Stato M. Borgo). (Omissis) FATTO 1. Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, con la sentenza n. 1809 del 2 aprile 2008 ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dai signori A.S., A.C. e P.C., eredi del signor V.C., per ottenere il risarcimento del danno subito dal loro dante causa per effetto dell’annullamento parziale – giusta sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, n. 4339 dell’11 luglio 2002 - del verbale di proclamazione degli eletti al Consiglio Circoscrizionale di Miano del Comune di Napoli, nella misura corrispondente ai gettoni di presenza, ex art. 82, comma 2, del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, dalla data di proclamazione degli eletti fino al 30 luglio 2002, data del decesso, nonché di quello patrimoniale ex art. 2059 C.C., sotto forma di danno esistenziale e morale, da liquidare in forma equitativa, ex artt. 1226 e 2059 C.C. Secondo il tribunale, infatti, la domanda doveva essere proposta nei confronti del Comune di Napoli (com’era avvenuto per l’impugnazione del verbale di proclamazione degli eletti), ente cui si riferivano le elezioni e quindi unico soggetto passivo legittimato, e non già del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio Elettorale Circoscrizionale di Miano, questi ultimi essendo, alla stregua di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, organi temporanei abilitati esclusivamente a dichiarare i risultati finali del procedimento elettorale, destinati a dissolversi con la stessa proclamazione degli eletti. 2. I predetti signori A.S., A.C. e P.C., hanno chiesto la riforma di tale sentenza, articolando tre motivi di gravame, rubricati rispettivamente “Error in judicando per difetto di motivazione e contrasto con i precedenti” (primo motivo); “Error in judicando. Violazione di legge: art. 7, lettera C legge 21/7/2000 n. 205 e successive modifiche e art. 82 D. Lgs. 18/8/2000 n. 267 e successive modificazioni ed integrazioni” (secondo motivo), nonché “Error in judicando. Violazione di legge: art. 7, lettera C legge 21/7/2000 n. 205 e successive modifiche. In sintesi, gli appellanti, evidenziato che i primi giudici avevano omesso di considerare che con altra sentenza (sez. II, n. 20402 del 16 dicembre 2005) sulla stessa controversia avevano affermato il principio esattamente opposto (escludendo che gli errori commessi nel computo delle schede potessero configurare una responsabilità risarcitoria dell’amministrazione comunale, da individuarsi solo nei confronti degli uffici elettorali), hanno insistito per l’accoglimento della domanda risarcitoria, rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sussistendone tutti i presupposti. Il Comune di Napoli, cui il gravame è stato notificato, ha dedotto l’infondatezza di tutti gli spiegati motivi di appello. 3. Alla pubblica udienza del 27 luglio 2010, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 4. L’appello deve essere respinto. 4.1. La Sezione non ritiene di doversi discostare dal prevalente indirizzo giurisprudenziale secondo cui nei giudizi elettorali la qualità di parte pubblica necessaria (passivamente legittimata) non spetta agli organi straordinari a carattere temporaneo preposti al compimento delle 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 operazioni, destinati a sciogliersi subito dopo la definizione del procedimento, ma compete esclusivamente all'ente locale interessato, che si appropria del risultato elettorale e sul quale si riverberano gli effetti dell'annullamento o della conferma della proclamazione degli eletti (C.d.S., sez. V, 8 agosto 2003, n. 4587; C.G.A.R.S., 22 luglio 2002, n. 443). E’ stato anche precisato che nel procedimento elettorale, anche se l'ente locale è tenuto a subire eventuali effetti negativi della condotta posta in essere da organi non incardinati nel proprio apparato organizzativo, il consolidamento di tali effetti in capo all'ente medesimo fa sì che esso divenga il portatore istituzionale dell'interesse alla conservazione dei propri organi nella composizione ad essi conferita dall'atto di proclamazione degli eletti: l'ente locale è pertanto parte necessaria del giudizio proposto per l' annullamento dell'atto di proclamazione degli eletti (C.d.S., sez. V, 25 febbraio 2003, n. 1076, fattispecie in tema di correzione del risultato elettorale). 4.2. Per completezza la Sezione osserva che, in ogni caso, anche nel merito la pretesa è destituita di fondamento. Innanzitutto l’esercizio delle funzioni elettive, tra cui rientra anche quella di consigliere circoscrizionale, dà luogo ad un rapporto di servizio onorario, il cui compenso è escluso, ai sensi dell’articolo 54 della Costituzione, da qualsiasi connotato di sinallagmaticità (Cass. SS.UU. 20 aprile 2007, n. 9363; 10 aprile 1997, n. 3129; 13 febbraio 1991, n. 1521). La corresponsione del gettone di presenza, previsto dall’invocato articolo 82, comma 2, del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, non costituisce quindi retribuzione, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, bensì soltanto una somma a titolo di indennità per l’attività onoraria effettivamente prestata per la partecipazione a consigli e commissioni, con la conseguenza che qualora tale attività sia stata prestata nulla è dovuto, indipendentemente dalla causa che ha determinato la mancata partecipazione. Ciò esclude, ad avviso della Sezione, anche la ricorrenza del danno non patrimoniale, sotto forma di danno esistenziale e/o morale, tanto più che nel caso di specie, anche a prescindere dalla evidente carenza di prova, sempre necessaria al riguardo (Cass., sez. III, 8 aprile 2010, n. 8360), non sussiste alcuna violazione a diritti inviolabili della persona, individuati dalla Suprema Corte (SS.UU, 11 novembre 2008, n. 26972; III, 25 settembre 2009, n. 20684) nel diritto alla salute (art. 32 Cost.), nel diritto alla reputazione, all’immagine, al nome e alla riservatezza (artt. 2 e 3 Cost.), nei diritti inviolabili della famiglia (art. 2, 29 e 30 Cos.), non essendo risarcibile il danno non patrimoniale consistito in meri disagi e fastidi (non scaturenti da lesioni gravi di diritti costituzionalmente garantiti, Cass. civ., III, 9 aprile 2009, n. 8703). 5. In conclusione l’appello deve essere respinto. Sussistono nondimeno giusti motivi, in ragione della peculiarità della controversia, per dichiarare compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello proposto dai signori A.S., A.C. e P. C. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, n. 1809 del 2 aprile 2008, lo respinge. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 luglio 2010. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 193 Il reclamo nel giudizio cautelare nel rito lavoro Considerazioni in merito allo ius postulandi dei funzionari delegati ai sensi dell’art. 417 bis (Tribunale di Vallo della Lucania, ordinanza del 12 novembre 2009) Si prende spunto da una recente pronuncia del Tribunale di Vallo della Lucania per esaminare il regime di ius postulandi nel rito lavoro nell’ambito della fase cautelare, anche alla luce della novella del 2006 che ha interessato il giudizio cautelare. Con la citata pronuncia, il Collegio del Tribunale campano ha ritenuto che il reclamo proposto dal Ministero della Giustizia avverso un provvedimento emanato ex art. 700 c.p.c. dal Giudice del Lavoro fosse inammissibile per difetto di ius postulandi dei funzionari delegati ex art. 417 bis c.p.c., essendo onerata la P.A., in tali occasioni, a ricorrere inderogabilmente al patrocinio legale dell’Avvocatura dello Stato. Tale assunto deriva dalla considerata inapplicabilità del disposto dell’art. 417 bis c.p.c. al giudizio di reclamo avverso i provvedimenti emessi ex art. 700 c.p.c.. L’iter argomentativo del Collegio si sviluppa partendo dal confronto fra i contrapposti orientamenti rinvenibili in giurisprudenza sul punto: un primo – restrittivo – che, optando per la natura impugnatoria del giudizio di reclamo, esclude la possibilità per l’Amministrazione di difendersi per mezzo di propri funzionari; un secondo orientamento – maggiormente elastico e più diffuso tra i giudici di merito – che, negando la configurabilità del giudizio sul reclamo come procedimento di impugnazione, ritiene pienamente applicabile il disposto dell’art. 417 bis c.p.c.. Confrontate le opposte alternative, il Tribunale di Vallo della Lucania ha creduto di aderire all’orientamento restrittivo, considerando il giudizio di reclamo comunque “un giudizio in senso lato di secondo grado”, atteso che esso si svolge dinanzi a un collegio – di cui non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento oggetto di censura – che deve pronunciarsi su eventuali errores in procedendo o in iudicando del “giudice a quo” provvedendo a confermare o riformare, in tutto o in parte, la pronuncia oggetto di reclamo. Tale conclusione viene ulteriormente argomentata in ragione della novella disciplina del giudizio cautelare ante causam disciplinata dall’art. 669 octies c.p.c. che ha reciso il nesso di strumentalità tra fase cautelare e fase di merito, conferendo ai provvedimenti emanati ex art. 700 c.p.c. autonoma efficacia e irretrattabilità in caso di mancata introduzione della fase di merito, ora, infatti, solo eventuale. L’opzione per il carattere impugnatorio del reclamo viene, inoltre, sup- 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 portata adducendo che, ai fini del rispetto del principio costituzionalmente tutelato del doppio grado di giurisdizione, l’ordinanza cautelare – potenzialmente idonea a costituire pronuncia stabile tra le parti – deve essere oggetto di un procedimento di secondo grado. L’iter logico-giuridico esposto dal Collegio del Tribunale di Vallo della Lucania non può essere condiviso. In primo luogo, si evidenzia che dottrina e giurisprudenza autorevoli e consolidate negano il carattere strettamente impugnatorio del procedimento di reclamo. Sul punto, in dottrina, si sono sviluppate due contrapposte teorie: una sostiene la natura impugnatoria del reclamo, adducendo come indizi in tal senso il carattere subprocedimentale dello stesso, l’introduzione per mezzo di una domanda di riesame da proporsi innanzi a un giudice diverso, anche se appartenente al medesimo ufficio giudiziario, l’obbligo di esclusione nella formazione del collegio del giudice a quo (1); l’altra teoria propende per una configurazione del reclamo come giudizio di prosecuzione del procedimento cautelare, da considerarsi, quindi, unitario, atteso che il collegio che decide sul reclamo ha i medesimi poteri del giudice cautelare, circostanza che va ad escludere gli oneri di riproposizione caratteristici del giudizio di appello (2). Dalle descritte teorie emerge, in ogni caso, il carattere sui generis di tale strumento processuale che porta a distanziare lo stesso – anche secondo i sostenitori della natura impugnatoria del reclamo – dai mezzi di impugnazione in senso stretto, nominativamente e tassativamente previsti ex art. 323 c.p.c.. E proprio in virtù della tassatività nell’ambito del nostro ordinamento processuale dei mezzi di impugnazione si evince l’impossibilità di classificare il reclamo come procedimento di secondo grado. Cospicua e consolidata giurisprudenza milita in tal senso; in particolare, il Tribunale di Roma (3) con chiarezza inequivocabile ha ritenuto che sia l’iniziale fase di trattazione ante causam che la successiva fase di reclamo in sede cautelare debbano farsi rientrare nel primo grado di giudizio, con la conseguenza che la P.A. può stare in giudizio attraverso propri funzionari, operando la limitazione di cui all’art. 417 bis, comma 1, c.p.c. solo nell’ordinario giudizio di cognizione (4). Né riescono a minare tale conclusione gli argomenti suggeriti dal Tribunale di Vallo della Lucania. Irrilevanti, in merito, risultano le modifiche introdotte dalla novella del (1) Cfr. CORSINI F., Il reclamo cautelare, Torino, 2002, 100 ss. (2) Cfr. ARIETA G., Problemi e prospettive in tema di reclamo cautelare, in Riv. dir. proc., 1997, 408 ss. (3) Trib. Roma, 15 aprile 2000, Giust. civ. 2001, I, 1977. (4) Per una panoramica sulle varie pronunce in tal senso v. FINOCCHIARO M.(a cura di), La giurisprudenza sul codice di procedura civile coordinata con la dottrina, libro II, tomo IV, 2006, 3144 ss. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 195 2006 che hanno escluso la necessaria complementarità tra la fase cautelare e quella di merito, rendendo quest’ultima meramente eventuale; non si vede come, infatti, quest’importante e rivoluzionaria riforma possa incidere sul carattere impugnatorio o meno del giudizio di reclamo. Infondata, poi, si rivela la considerazione sulla tutela – a copertura costituzionale – del doppio grado di giudizio che, secondo i Giudici cilentani, renderebbe necessaria la previsione di un mezzo di impugnazione rispetto alle pronunce ex art. 700 c.p.c., tanto più che esse oggi rivestono un carattere di tendenziale stabilità. Come noto, nel nostro ordinamento il principio del doppio grado di giudizio – pur fortemente radicato – non è rivestito di tutela costituzionale (5). L’art. 111 Cost., comma 7, si limita, infatti, a tutelare l’impugnabilità delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale emanati da organi giurisdizionali ordinari o speciali attraverso ricorso in Cassazione. Da tale disposizione, al contrario, si è dedotta la non indispensabilità del doppio grado di giurisdizione, ma solo la necessità della ricorribilità innanzi al Supremo Consesso dei citati provvedimenti. Dalle considerazioni svolte si ricava che la limitazione al giudizio di primo grado prescritta dall’art. 417 bis c.p.c. in ordine alla possibilità della P.A. di stare in giudizio per mezzo di propri dipendenti non si mostra applicabile in sede di reclamo. Un regime di ius postulandi differente da quello della pregressa fase cautelare, oltre a risultare incongruente rispetto alla configurazione tecnico-giuridica dello strumento del reclamo, si presenterebbe contrastante con la stessa ratio dell’art. 417 bis c.p.c. e con l’intera normativa che disciplina la rappresentanza in giudizio dello Stato. Sul punto, in primo luogo si evidenzia, che il legislatore ha introdotto nel codice di rito l’art. 417 bis c.p.c. attraverso l’art. 42 del D.Lgs. n. 80 del 1998, che rappresenta un’alternativa rispetto alla difesa ope legis dell’Avvocatura dello Stato a favore delle Amministrazioni statali. Tale Organo Legale ha, comunque, ai sensi del comma 2, la facoltà di avocare a sé il patrocinio in presenza di questioni di massima o di particolare rilievo economico, previa comunicazione ai competenti uffici dell’Amministrazione coinvolta. Tale novella persegue lo scopo di consentire all’Amministrazione una forma di rappresentanza che, in ogni caso, allevii il carico di lavoro gravante sull’Avvocatura dello Stato ed eviti, soprattutto per i giudizi che si tengono fuori dal foro erariale, aggravi di spesa a carico della P.A.(6). Per quanto, invece, riguarda la normativa in tema di rappresentanza e di- (5) cfr. VERDE G., Profili del processo civile, 2. Processo di cognizione, 2006, 246. (6) Per una panoramica sulla difesa dello Stato nel rito lavoro v. SGARBI L., La difesa delle pubbliche amministrazioni nelle controversie di lavoro, in Lavoro nella Giur., 1998, 12 1019. 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 fesa in giudizio dello Stato, si evidenzia che il criterio generale di competenza dettato all’art. 25 del nostro codice di rito, pur derogato nel rito lavoro dal criterio di collegamento speciale dell’art. 409 c.p.c., conserva la propria vis attrattiva, manifestandola proprio nei giudizi di secondo grado. Tale forza espansiva del principio generale del foro erariale, nell’attuale tenore del nostro ordinamento processuale, non può essere facilmente apprezzata nell’ambito del processo in materia di lavoro e previdenza; soppresso l’ufficio pretorile, l’odierna ripartizione di competenza per gradi in tale materia appartiene al Tribunale e alla Corte d’Appello. Pertanto, i giudizi a cognizione piena, in primo grado, ex art. 409 c.p.c., si tengono innanzi al tribunale in cui ha sede il lavoratore, mentre, in secondo grado, si tengono innanzi alla Corte d’Appello, che ha sede nel capoluogo del Distretto di riferimento in cui si trovano anche gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale. Tale riparto rende oggi superflua ogni riflessione sulla possibilità di applicazione dell’art. 25 c.p.c. in fase di gravame, a differenza di quanto prima, invece, avveniva in caso di impugnazione di sentenze emesse dai pretori e in ordine alle quali la giurisprudenza di legittimità si pronunciò sancendo, anche in materia di lavoro, la proponibilità dell’appello innanzi al tribunale del foro in cui ha sede la competente Avvocatura Distrettuale e non innanzi al tribunale del circondario cui apparteneva il giudice di prime cure (7). Tali considerazioni, utilmente applicate al caso di specie, fanno emergere in maniera lampante l’aporia in cui è incorso il Collegio del Tribunale di Vallo (7) Vedi Cass. 28 dicembre 1999 n. 14629 che ha statuito che, in materia di lavoro, avverso le pronunce del pretore, debba proporsi appello al tribunale del luogo in cui ha sede l’Avvocatura Distrettuale competente in ossequio all’art. 25 c.p.c. Conferma tale statuizione anche Cass. civ., sez. lav., n. 7699/2001. Tale pronuncia prende vita da un’analisi della ratio degli art. 409 e 25 c.p.c.; ritengono i giudici di legittimità che, per le cause trattate con il rito del lavoro, prevalga il criterio speciale di competenza territoriale di cui all’art. 409 c.p.c., atteso che la citata disposizione risponde all’esigenza non solo di facilitare l’accesso al giudice della parte più bisognosa di assistenza, ma anche a rendere meno gravoso il diritto del lavoratore a stare in giudizio personalmente ex art. 417 c.p.c. e, in ogni caso, a consentire agevolmente la presenza alle udienze e a svolgere l’attività istruttoria nel foro più vicino al luogo di lavoro. Tali esigenze, prevalenti in primo grado, risultano recessive nelle fasi successive, facendo prevalere, questa volta, nel contemperamento degli opposti interessi, l’esigenze sottese all’ordinaria regola del foro dello Stato, e, in particolare, quella del coordinamento della difesa erariale e il risparmio della spesa pubblica. Sul punto cfr. anche la chiarificatrice Cass. Civ., sez. lav., n. 7785/1998, in cui si sostiene autorevolmente che “il sistema del foro erariale vigente…contempera per il processo del lavoro la esigenza di avvicinare in primo grado il processo al lavoratore, secondo i criteri dell'art. 413 c.p.c., con le esigenze pubbliche del foro erariale in appello secondo la regola dell’art. 25 c.p.c. Infatti, se per la comparizione personale delle parti e per la raccolta delle prove, caratteristiche del primo grado, v'è l'esigenza della vicinanza del luogo ove si svolge il processo al lavoratore, questa sfuma in appello, ove presenza personale delle parti e prove non sono di regola previste, e può darsi luogo alla soddisfazione di quegli interessi pubblici che sottendono al foro erariale, conformi alla Costituzione secondo le sentenze n. 118 del 1964 e n. 12 del 1974 della Corte Cost. Consegue che lo spostamento della competenza territoriale in appello per le cause di lavoro non appare violare né i principi di eguaglianza né il diritto alla difesa contemperando razionalmente la tutela degli interessi dei lavoratori e quelli della difesa della P.A.”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 197 della Lucania. Portando alle estreme conseguenze il già contestato iter logico-giuridico delineato nella pronuncia in esame, infatti, dovrebbe ricavarsi che il reclamo sarebbe da proporre non al medesimo ufficio giudiziario cui appartiene il “giudice a quo”, bensì, riattivando il criterio del foro erariale ex art. 25 c.p.c. in ragione dell’apertura di una fase di secondo grado, innanzi allo speculare collegio presso il Tribunale in cui ha sede la competente Avvocatura Distrettuale. In definitiva – pur nell’impossibilità di affidarsi al lume della giurisprudenza di legittimità – non può ritenersi che il nuovo regime del giudizio cautelare abbia inciso sull’applicabilità anche in sede di reclamo dell’art. 417 bis c.p.c.. Dott.ssa Enza Faracchio* Tribunale di Vallo della Lucania in composizione collegiale, ordinanza del 12 novembre 2009 - Pres. Tringali, Rel. Sorrentino. (Omissis) Con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato l’11 dicembre 2008 il dott. (omissis), dipendente del Ministero della Giustizia quale Cancelliere con posizione economica C1 ha esposto che al fine di assistere i propri genitori, che soffrono di malattie gravissime meglio indicate in ricorso, veniva trasferito, su sua istanza, per tre mesi, a decorrere dal 15 settembre 2008, dalla Procura della Repubblica di Lecco al Tribunale di Vallo della Lucania, ove svolge attualmente le funzioni di Cancelliere, e ha lamentato che il Ministero non ha ancora risposto alla sua successiva istanza del 10 novembre 2008 volta ad ottenere il trasferimento definitivo presso il Tribunale di Vallo della Lucania ai sensi dell'art. 33 co. 5 L. 104/1992. Su tale base, l'istante ha chiesto al Tribunale dì Vallo della Lucania di assegnarlo, con provvedimento di urgenza, presso il Tribunale medesimo, in luogo dell'amministrazione inadempiente. Instaurato il contraddittorio, ha resistito il Ministero della Giustizia, che ha eccepito l'incompetenza per territorio del Giudice adito e, nel merito, ha chiesto di rigettarsi il ricorso per carenza dei presupposti di legge. All'esito, il GD, con ordinanza del 15 gennaio 2009, in accoglimento del ricorso, ha ordinato all'amministrazione resistente di trasferire il ricorrente, con effetto immediato e con qualifica di cancelliere C1, presso il Tribunale medesimo, e ha compensato le spese di lite. Avverso l'ordinanza in questione, il Ministero della Giustizia ha interposto reclamo dinanzi a questo Tribunale mediante atto depositato il 2 febbraio 2009, con il quale ha insistito per l'eccezione di incompetenza territoriale e, subordinatamente e nel merito, ha chiesto la revoca dell'ordinanza e il rigetto del ricorso cautelare, per difetto dei requisiti del fumus e del periculum. Instaurato il contraddlttorio, ha resistito (omissis), il quale ha eccepito l'inammissibilità del reclamo per difetto di ius postulandi delle funzionarie che rappresentano il Ministero reclamante ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c. e, nel merito, ha chiesto il rigetto del reclamo. All'esito della comparizione delle parti all'udienza del 20 ottobre 2009, il Collegio si è riservato (*) Dottore in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di decidere. II reclamo è inammissibile, per difetto di ius postulando delle funzionarie che hanno difeso e rappresentato il Ministero nel presente giudizio di reclamo ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c. La disposizione prevede che nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell'art. 413 c.pc, le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti, “limitatamente al giudizio di primo grado”. Il Tribunale, in proposito è dell'avviso, cosi come eccepito dalla difesa del reclamato, che l'art. 417 bis c.p.c non trovi applicazione in relazione al giudizio di reclamo, nel quale di conseguenza quando si tratti di cause relative al rapporti di lavoro dei dipendenti della PA, le amministrazioni hanno l’onere di stare in giudizio con il patrocinio di un avvocato, secondo la regola generale fissata dall’art. 82 co. 2 c.p.c. In difetto di pronunce espresse di legittimità sulla questione, nell'ambito della giurisprudenza di merito, a fronte dell'orientamento restrittivo che fa leva sulla natura latu sensu impugnatoria del giudizio di reclamo (v. Trib. Caltanissetta 29 marzo 2000, in Lav. pubbl. amm., 2000, 944), si registrano diverse pronunce più liberali secondo cui il reclamo non costituisce un nuovo grado di giudizio sull'istanza cautelare in merito alla quale si è già verificata la prima pronuncia, ma costituisce "un mezzo generale di riesame della domanda cautelare all'esito del quale si pronuncia un provvedimento destinato a sostituirsi integralmente al primo" (così, Trib. Catanzaro, ord. coll. 19 aprile 2004), ovvero secondo cui "Nelle controversie di lavoro, in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. avverso il provvedimento ex art. 700 c.p.c., il tribunale del lavoro in composizione collegiale deve essere ritenuto organo di primo grado, in quanto il reclamo rappresenta una fase eventuale del procedimento cautelare e non una impugnazione, per cui la p.a. può difendersi tramite un proprio funzionario autorizzato, ai sensi e per gli effetti dell'art. 417 bis c.p.c. (Trib. Caltanissetta 23 agosto 2001, in Giur. Merito 2002, 970). Si è, ancora, osservato che "Poiché sia l'iniziale fase di trattazione del giudizio cautelare ante causam, che quella concernente il reclamo proposto avverso il provvedimento emesso in via d'urgenza devono farsi rientrare nel giudizio di primo grado, la p.a. può stare in giudìzio attraverso propri dipendenti, concernendo la limitazione posta dall'art, 417 bis comma 1 c.p.c. solo l'ordinario giudizio di cognizione" (Trib. Roma 15 aprile 2000, Gius. Civ, 2001, 1, 1977 ove si trova anche la conforme Trib. Padova - giugno 2000). Sennonché, il Tribunale ritiene di aderire al primo orientamento, per i motivi che seguono. In primo luogo, il giudizio di reclamo, qualunque sia la definizione condivisa (procedimento di impugnazione o di riesame), è un giudizio in senso lato di secondo grado, in quanto si svolge dinanzi ad un organo collegiale, di cui non può far parte il giudice che ha pronunziato il provvedimento cautelare impugnato, chiamato a verificare eventuali errores di merito o di rito del giudice, come sì suole dire, di prime cure, con poteri di conferma o riforma, totale o parziale, del provvedimento. L'appartenenza al medesimo ufficio, ossia al Tribunale, che è organo di regola di primo grado, del Giudice che emana il provvedimento cautelare e del Collegio del reclamo è circostanza di natura organizzativa che non incide sul diverso profilo dell'articolazione del giudizio cautelare quale giudizio strutturalmente e funzionalmente distinto rispetto al giudizio di merito che anticipa ovvero in cui si inserisce, se proposto in corso di causa - in una fase di primo grado e in una di secondo grado, le quali vengono trattate e decise da organi giudiziali diversi, su impulso di distinti atti introduttivi. Si tratta, con evidenza, del medesimo schema procedimentale che connota i giudizi ordinari di impugnazione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 199 A nulla vale, poi, che il giudizio di reclamo sia meramente eventuale, in quanto anche i gradi successivi al giudizio di merito di primo grado sono tali, in forza del principio della domanda che permea il processo civile nella sua accezione più lata. Va osservato, in secondo luogo, che a seguito della riforma del d.l. 14 marzo 2003 n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005 n. 80, che ha riformato, per quanto maggiormente interessa in questa sede, l'art. 669 octies c.p.c., il giudizio cautelare ante causam, quale è il giudizio presente, ha perso quel rapporto di strumentalità necessaria che lo vincolava inderogabilmente al giudizio di merito, ed è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di restare efficace ed irretrattabile, salvo il sopravvenire di circostanze di fatto o di diritto idonee a modificarlo o revocarlo, anche quando il giudizio di merito non sia instaurato affatto. In tale evenienza, unico rimedio che consente di riesaminare la vertenza e di superare, se del caso, il dictum del giudice che ha emanato il provvedimento, di accoglimento o di rigetto della domanda che sia, resta il giudizio di reclamo. Si aggiunga che la tendenziale stabilità dell'ordinanza cautelare, nell'ottica che disconosce natura impugnatoria al giudizio di reclamo e che ravvisa nel giudizio cautelare un unico grado, mal si concilia, sul piano sistematico, con il principio costituzionalmente garantito del doppio grado di giurisdizione, a maggior ragione se si considera che l'ordinanza di reclamo, a sua volta, è insuscettibile di sindacato a mezzo di ricorso per Cassazione. In base alla riforma citata, inoltre, il legislatore ha espressamente previsto che il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato non possa far parte del collegio dinanzi al quale fu proposto il reclamo - art. 669 terdecies c.p.c., cosi superando una linea interpretativa che ne ammetteva di fatto la possibilità, escludendosi la sussistenza di cause di incompatibilità. Ebbene, l'espresso divieto può ritenersi un indice rivelatore dell'intentio legis di parificare o, comunque, di assimilare il giudizio di reclamo ai giudizi di impugnazione, non essendo mai stato posta in discussione la necessità che il giudice dell'impugnazione sia diverso dal giudice che ha steso l'atto impugnato. Va, infine, fatta una osservazione di fondo, che pare rafforzare le conclusioni svolte. Il problema della natura della fase del reclamo va esaminato e risolto unitariamente, a prescindere che si tratti di giudizio cautelare ante causam ovvero in corso di causa, e, in tale seconda evenienza, a prescindere dalla fase in cui si trova il giudizio di merito. La tesi, invero, che esclude la natura impugnatoria del giudizio di reclamo pare essersi formata con riferimento esclusivo all'ipotesi di domanda cautelare proposta ante causam, con la prospettazione di una sorta di binomio tra il giudizio ordinario di primo grado e il giudizio cautelare, e che tuttavia pare incontrare difficoltà ermeneutiche non indifferenti, quando il giudizio cautelare sia proposto in corso del giudizio di appello, che è per definizione un giudizio di secondo grado, in quanto trattasi di evenienza senz'altro poco diffusa, ma del tutto ammissibile (cfr., sul piano normativo, art. 669 terdecies co. 2 c.p.c). In definitiva, il reclamo va dichiarato inammissibile per difetto di ius postulandi del funzionari che rappresentano il Ministero della Giustizia e non potendosi applicare l'art. 417 bis c.p.c, che è norma eccezionale, e dunque insuscettibile di applicazione analogica, in quanto derogatoria del principio generale sancito dagli artt. 82 ss. Per giusti motivi si ritiene di compensare le spese giudiziali, in ragione della controvertibilità della questione esaminata. P.Q.M. Dichiara il reclamo inammissibile, con compensazione delle spese di lite tra le parti. Vallo della Lucania, 12 novembre 2009 L E G I S L A Z I O N E E D A T T U A L I TA’ Stazione Unica Appaltante: tenuta di un impianto e nuovi contesti Vincenzo Cardellicchio e Fabrizio Gallo* SOMMARIO: 1. Impostazione generale; 2. Diffusione ed evoluzione dell’istituto della S.U.A; 2.1 Le Stazioni Uniche Appaltanti delle province calabresi e di Caserta; 2.2 La Stazione Unica Appaltante di Napoli; 2.3 La S.U.A. di Crotone; 2.4 La Stazione Unica Appaltante della Regione Calabria; 3. Gruppi interforze e grandi opere; 4. Monitoraggio dei flussi finanziari negli appalti; 5. Conclusioni. 1. Impostazione generale La criminalità organizzata di tipo mafioso rappresenta tuttora una verminosa piaga per il nostro Paese. Ciò malgrado la forte intensificazione della risposta repressiva, mai tanto aggressiva e prolungata, essa è dotata di uno spirito di adattamento alle nuove situazioni che addirittura precorre con mirate scelte di investimento e di contro con “sprofondamenti” nelle più ataviche tradizioni che le consente di permeare sempre più profondamente e sempre con maggiore estensione territoriale la vita nazionale. Preoccupazioni crescenti si sono registrate, negli ultimi anni, in aree del Paese, come l’Abruzzo martoriato dal terremoto, e la Milano dell’Expo (1) (*) Vincenzo Cardellicchio, Vice Capo di Gabinetto Vicario del Ministero dell’Interno. Fabrizio Gallo, Vice Prefetto, Capo di Gabinetto della Prefettura di Crotone. (1) La Commissione bicamerale sul fenomeno della mafia ha svolto un ciclo di audizioni nel capoluogo lombardo a fine gennaio. Nell’occasione, si è svolto un vivace dibattito, anche sui mass-media sul grado di diffusione della criminalità organizzata nell’hinterland milanese che, al di là delle specifiche posizioni pretestuosamente equivocate, testimonia in modo evidente l’estensione del fenomeno criminale (SANDRO DE RICCARDIS, Il Prefetto: a Milano non c'è la mafia, in www.milano.repubblica.it). 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 che per lunghi anni di miopia sono state ritenute immuni o comunque non profondamente toccate dal fenomeno. Ed invece la criminalità organizzata, in modo sempre più evidente si spinge decisamente ad aggredire direttamente i circuiti economici del territorio nazionale (2), investendo ingenti risorse provenienti da guadagni illeciti e forzando con l’intimidazione e la violenza non necessariamente brutale ed ottusa, le regole della concorrenza. L’ambito storicamente preferito per operare tale illecita intromissione è quello degli appalti pubblici grazie ai quali la criminalità mafiosa non solo individua occasioni di guadagno ma si va ad interporre negli spazi lasciati vuoti da inefficienze pubbliche per affermare nel proprio territorio la sua autorità criminale (3). Per la ragione esposta, un’azione di contrasto antimafia non può svolgersi solo sul versante della repressione giudiziaria, pure di prioritaria importanza, ma deve potersi espandere in un novero di attività preventive attraverso le quali recidere i tentativi di infiltrazione (4). In quest’ambito, attraverso un’opera di revisione della legge originaria antimafia, L. 575/1965, si è pervenuti ad approntare un esteso sistema di decadenze ed interdizioni agganciate all’esistenza di procedimenti per l’irrogazione di misure di prevenzione od alla loro effettiva applicazione. In tal modo, si è tentato di porre un argine, rispetto alla possibilità di partecipare a procedure per la stipula di contratti pubblici, nei confronti di imprese per le quali si ritengano sussistenti tentativi di infiltrazione mafiosa. L’attuale corpus della normativa relativa alle informazioni antimafia è contenuto nel D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 che dà attuazione alla norma di delegificazione contenuta all’art. 20 della L. 59/1997. In sintesi (5), la certificazione antimafia può essere suddivisa in due grandi articolazioni: la comunicazione, disciplinata dall’art. 3 del D.P.R. 252/1998, e l’informazione antimafia, prevista dall’art. 10 della menzionata fonte normativa. Il criterio (2) Il Rapporto semestrale D.I.A., relativo al secondo semestre 2008, evidenzia che il 52,48% delle segnalazioni di operazioni finanziarie sospette, pervenute a quell’Ufficio dall’Unità d’infomazione bancaria presso la Banca d’Italia, sono provenienti dal settentrione (v. in www.interno.it/dip_ps/dia). Proprio le necessità di riciclaggio spingono le consorterie criminali, secondo la D.I.A., a ricercare idonee proiezioni su regioni diverse da quelle di origine. (3) Una delle analisi più approfondite dello stretto legame tra inefficienza della pubblica amministrazione e sviluppo della criminalità organizzata è il frutto della riflessione del Sen. Luigi De Sena, già prefetto di Reggio Calabria (LUIGI DE SENA, Rapporto sulla sicurezza in Calabria 2006, p. 11). (4) Si potrebbe parlare, al riguardo, di “difficile antimafia”, come suggerito dal titolo di una raccolta di interventi in materia di beni confiscati ove, tra l’altro, si pone in rilievo la difficoltà, in quell’ambito, di dare effettività alle disposizioni normative (VALLEFUOCO-GIALANELLA, La difficile antimafia, Atti del seminario di studi dell’11 dicembre 2001, pubblicati a cura dell’Ufficio del Commissario Straordinario del Governo per la gestione dei beni confiscati, p. 13). (5) RUSCICA, Le informazioni prefettizie antimafia: natura e criticità, in Altalex, Quotidiano d’informazione giuridica, 8 ottobre 2009, p. 3. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 203 distintivo tra i due istituti, posti in ordine crescente di forza preventiva, è dato dal tipo e dall’importo dell’atto pubblico cui si fa riferimento. La disciplina delle certificazioni antimafia è stata, quindi, oggetto di un dettato normativo puntuale, oggetto di un’attenta opera ricostruttiva ed interpretativa della dottrina. Nell’ultimo decennio, peraltro, è emersa l’esigenza di sostenere l’impatto delle preclusioni con una struttura adeguata alla necessità, allo scopo di evitare che il piano del diritto sostanziale sia considerato esaustivo e, in tal modo, rischi di diventare largamente inattuato (6). Sono proliferate, così, esperienze di articolazioni organizzative, spesso sorte dalla prassi, dirette a realizzare un diaframma tra criminalità organizzata ed appalti pubblici, che hanno assunto forme, funzioni ed operatività diversificate. Su tale questione, invero la riflessione ricostruttiva e dottrinale è stata più limitata (7) e soprattutto non sembra avere affrontato il tema della riconsiderazione sistematica dei modelli organizzativi, allo scopo di individuare possibili soluzioni complessive. Con il presente lavoro, pertanto, s’intendono, analizzare due filoni di attività relativi all’ambito trattato che hanno, finora, avuto un relativo approfondimento: la stazione unica appaltante ed i gruppi interforze costituiti, in vari ambiti, allo scopo di monitorare le ditte che partecipano ad appalti pubblici. Tutto ciò per fare il punto della situazione attuale, sull’evoluzione dei modelli organizzativi in questione e sulle loro possibili interazioni. 2. Diffusione ed evoluzione dell’istituto della S.U.A. L’Istituto della S.U.A., o S.U.A.P. (Stazione Unica Appaltante Provinciale), figura organizzativa consistente nell’esercizio associato dell’attività di espletamento di gare per la selezione del contraente (8), ha avuto una notevole diffusione ed evoluzione a partire dalla relativa comparsa sulla scena della concreta esperienza amministrativa, tra il 2006 ed il 2007, con l’istituzione dell’Ufficio in questione nella provincia di Crotone. (6) Ibidem, p.7. L’Autore, muovendo da un commento sulle innovazioni recate nel settore dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, individua le tre tendenze di fondo evidenziatesi nella ricerca di far conseguire al sistema maggiore effettività. Esse consistono nella più ampia utilizzazione dei gruppi interforze previsti dal D.M. 14 marzo 2003, nella generalizzazione del sistema delle stazioni uniche appaltanti provinciali e nella diffusione dei protocolli di legalità con l’inserimento di clausole contrattuali specifiche tendenti anche alla tracciabilità dei flussi finanziari. (7) SDANGANELLI, La Stazione Unica Appaltante (SUA) nella Regione Calabria, in www.lexitalia.it e CARDELLICCHIO – GALLO, La Stazione unica appaltante provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive, in Rass. Avvocatura dello Stato, 2007, I, 26 ss. (8) Ibidem. 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Per alcune nuove esperienze, specificatamente quelle delle province di Vibo Valentia, Reggio Calabria e Caserta, si tratta di revisioni del modello già adottato a Crotone, peraltro con modifiche, innovazioni e specificazioni degne di nota. Nella configurazione della S.U.A. di Napoli, invece, pare prevalere l’ottica dell’individuazione di un nuovo strumento antimafia da utilizzare in determinate fattispecie, analogamente ad altri di diversa natura, piuttosto che quella della definizione di una struttura in cui accentrare totalmente l’esperimento delle procedure di gara della provincia, così come avviene nell’esperienza di matrice calabrese. Carattere ulteriormente diverso è rinvenibile nella Stazione Unica Appaltante della Regione Calabria, peraltro istituita con legge regionale, che si prefigge lo scopo fondamentale di ricondurre ad un unico ufficio l’espletamento delle gare dell’Ente in questione. All’esame di tali esperienze e delle relative innovazioni o radicali diversità di impostazione, deve seguire una verifica di funzionalità della S.U.A. che può essere effettivamente svolta con riguardo all’Ufficio operante in provincia di Crotone, di cui si dispone di dati strutturati e complessivi triennali (2007 – 2009), liberamente consultabili (9). 2.1 Le Stazioni Uniche Appaltanti delle province calabresi e di Caserta La Stazione Unica Appaltante della provincia di Reggio Calabria è stata istituita con una convenzione del 12 marzo 2009 ed è destinataria, nella prima fase di applicazione, che terminerà il 30 settembre 2010, dei procedimenti di appalti per lavori pubblici di importo pari o superiore ad € 150.000,00. L’atto in questione si fonda sulla base giuridica dell’art. 33 del D.L.vo 163/2006, ai sensi del quale le amministrazioni aggiudicatrici, sulla base di apposito disciplinare, possono affidare le funzioni di stazione appaltante ai Servizi integrati infrastrutture e trasporti (10) ed alle Amministrazioni provinciali. L’art. 3, comma 4, esclude che la convenzione costituisca una delega di funzioni, trattandosi, invece di modalità organizzativa per l’espletamento delle attività di selezione del contraente. Le funzioni (11) attribuite alla S.U.A.P. sono, sostanzialmente, quelle previste nella convenzione – madre di Crotone ed attengono all’acquisizione dei piani annuali e triennali delle opere pubbliche degli enti aderenti, alla comunicazione di dati all’Osservatorio sui contratti pubblici e, soprattutto, allo svolgimento dell’attività materiale del procedimento di gara che parte dalla (9) www.sua.provincia.crotone.it. (10) Oggi Provveditorati interregionali alle opere pubbliche. (11) V. art. 3 della Convenzione per la gestione di una stazione unica appaltante, n. Rep. 17839 del 12 marzo 2009, in www.provincia.rc.it. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 205 definizione del bando fino alla trasmissione degli atti all’Ente aderente per l’aggiudicazione definitiva. Sotto il profilo finanziario (12), la S.U.A.P. di Reggio Calabria replica il sistema crotonese che prevede l’inserimento nel quadro economico generale di un contributo predeterminato in ragione dell’importo dell’appalto. La Provincia, il Comune di Reggio Calabria ed i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti possono assicurare, a proprie spese, la dotazione delle risorse umane alla S.U.A.P. potendo usufruire, in tal caso, di una riduzione del contributo pro - gara. Sempre sotto il profilo degli oneri finanziari, un successivo regolamento interno, approvato con delibera di giunta provinciale (13), ha costituito un fondo per il funzionamento che dovrà essere ripartito in spese per il personale, spese generali, corsi di formazione, spese varie. La Convenzione di Reggio Calabria si caratterizza anche per due aspetti: la valorizzazione del Nucleo operativo per le opere pubbliche, istituito presso la Prefettura, e l’integrazione del testo pattizio con le previsioni tipiche di un protocollo di legalità. In particolare, gli artt. 7, 8 e 9 dettano norme in materia di definizione del collegamento sostanziale tra imprese, ai sensi dell’art. 34, co. 2, del D.L.vo 163/2006, di estensione delle cautele antimafia anche sotto le soglie previste dalla normativa vigente, con estensione a forniture e servizi resi in settori sensibili predeterminati. Il Nucleo operativo per le opere pubbliche è organo con composizione plurale (14) che concorre con la S.U.A.P. a predisporre gli schemi tipo di bandi di gara. Ad esso compete ogni funzione di consulenza amministrativa e di raccordo. A latere di tale organismo, si prevede l’attivazione, sempre in Prefettura, di un Nucleo interforze cui sono affidati gli approfondimenti investigativi sulle anomalie segnalate dalla S.U.A.P.. La Stazione Unica Appaltante di Caserta è stata, invece, costituita con convenzione del 28 luglio 2009 ed è operativa per lavori da € 250.000,00 e servizi e forniture da € 50.000,00 (15). La convenzione casertana si caratterizza per la presenza degli organismi istituiti a latere della S.U.A., dettagliatamente definiti nel regolamento interno, che si individuano nel Nucleo operativo per i contratti pubblici (16), che svolge (12) V. art. 11 della Convenzione cit. (13) Delibera di Giunta provinciale n. 23, in data 9 febbraio 2009, in www.provincia.rc.it. (14) Il Nucleo è composto da un dirigente prefettizio, da un dirigente della Provincia, da un dirigente del Comune di Reggio Calabria e da un rappresentante del Provveditorato alle opere pubbliche. (15) V. Convenzione per la costituzione della stazione appaltante unica provinciale, in www.provincia. caserta.it. (16) Art. 10 delle “Modalità operative per il funzionamento della stazione appaltante unica provinciale”, in: www.prefettura.it/caserta. L’organo è composto da due dirigenti prefettizi, di cui uno con funzioni di coordinatore, dal Segretario generale della Provincia e da un esperto nel settore degli appalti. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 un’attività di consulenza amministrativa anche nella fase di determinazione dei modelli di atti (determina di indizione delle gare, bandi, capitolati) e nel Nucleo Investigativo Interforze, nominato dal prefetto, destinato ad effettuare le verifiche antimafia. L’organismo da ultimo menzionato è incaricato di effettuare il proprio monitoraggio sulle imprese partecipanti a gare d’appalto, in tal modo anticipando il momento della verifica in una fase antecedente all’aggiudicazione. Il meccanismo di finanziamento è analogo a quello delle strutture “snelle” istituite in precedenza. Infine, il 25 ottobre 2009, è stata stipulata la convenzione per l’istituzione della Stazione Unica Appaltante provinciale di Vibo Valentia. Nella provincia vibonese, si rimarca il ruolo promotore della Conferenza permanente ex art. 11, D.L.vo 300/1999 (17). La struttura disegnata dall’atto in questione ricalca complessivamente il modello originario già testato nella provincia di Crotone. 2.2 La Stazione Unica Appaltante di Napoli Diversa connotazione contraddistingue, invece, lo strumento della stazione unica appaltante nell’esperienza napoletana. In quella provincia, il nuovo ufficio sembra destinato ad essere utilizzato quale soluzione specifica per determinate esigenze e non sembra tendere all’integrazione complessiva delle stazioni appaltanti, così come le consorelle calabresi e casertana. In particolare, nella provincia partenopea, l’istituzione della S.U.A. trae le mosse dall’analisi della specifica area Torrese-Stabiese per la quale, essendo definiti importanti programmi di deindustrializzazione nell’ambito di un Contratto d’area, è stato stipulato un “Protocollo per lo sviluppo in sicurezza e legalità”. In tale atto si prevede la possibilità che i Comuni di Castellammare di Stabia, Torre Annunziata e Torre del Greco facciano richiesta di attivazione dell’Ufficio unico. Ulteriore specifica caratteristica della S.U.A. napoletana è che l’ufficio di cui ci si avvale quale supporto non è l’Amministrazione provinciale ma il Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per il quale si fa particolare richiamo alla figura della centrale di committenza di cui all’art. 33, D.L.vo 163/2006 (18). (17) L’argomento è stato trattato nella riunione del 1° ottobre 2009. In quell’ambito sono state messe in rilievo le ragioni di fondo poste a base della costituzione del nuovo ufficio, riconducibili al recupero di efficienza nella gestione delle procedure contrattuali e nella prevenzione da ogni possibile ingerenza di interessi illeciti. Si rimarca, altresì, la finalità di sostegno ai comuni di dimensioni minori. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 207 Gli importi minimi previsti ammontano ad € 250.000 per lavori e ad € 50.000 per servizi e forniture. Infine, l’esperienza napoletana si caratterizza per una particolare attenzione alla fase esecutiva che si sostanzia nella possibile consulenza sulle perizie di variante e sulla disponibilità dell’Ufficio unico ad effettuare tutte le necessarie incombenze di carattere tecnico, dalla progettazione, alla direzione dei lavori, alla validazione dei progetti. 2.3 La S.U.A. di Crotone L’analisi dell’attività della Stazione Unica Appaltante di Crotone è indispensabile, ai fini della ricognizione dei modelli operativi in esame, in quanto è l’unica per la quale si disponga dei dati di funzionamento per un triennio (2007-2009), pubblicamente consultabili (19). La S.U.A. della provincia di Crotone, a seguito della relativa costituzione, avvenuta con convenzione del 20 dicembre 2006, è stata parzialmente rivista con la successiva convenzione del 21 gennaio 2008. Con l’atto da ultimo citato, in particolare, la nuova struttura ha acquisito la competenza a trattare anche i procedimenti relativi a servizi e forniture dell’importo minimo di € 100.000,00 ed è stata determinata la durata illimitata del vincolo convenzionale, fatta salva la facoltà di recesso (20). A seguito della revisione convenzionale, si sono registrate nuove adesioni tra cui si notano, per la peculiare importanza, l’Azienda Sanitaria Provinciale, in breve diventata il più importante “cliente” della Stazione Unica Appaltante per forniture e servizi, e la Soakro, società a responsabilità limitata, ad integrale partecipazione pubblica, affidataria del servizio idrico integrato. L’andamento delle gare nel triennio, evidenzia, in un quadro di tenuta della struttura, il tendenziale incremento delle gare trattate. Dalle 113 gare del 2007, si è scesi a 103 nel 2008 per poi passare al picco della curva triennale nel 2009, con 127 procedimenti introitati. I dati in questione, testimoni della stabilità, nel triennio, dell’affidamento alla struttura convenzionata evidenziano in tal modo che, nel periodo esaminato, non si sono verificate tendenze all’elusione del sistema (21) ed anzi si è potuto registrare un incremento dell’attività, in gran parte dovuto alle richie- (18) Si tratta di istituto di provenienza comunitaria che deriva dall’esperienza compiuta da numerosi paesi europei negli anni novanta, relativa alla creazione di strutture centralizzate volte ad ottimizzare la spesa pubblica in un contesto diffuso di difficoltà di finanza pubblica. (19) www.sua.provincia.crotone.it. (20) V. art. 7 della convenzione 21 gennaio 2008, ibidem. (21) L’unica esperienza precedente alla Stazione Unica Appaltante della provincia di Crotone risale all’ultimo decennio del secolo scorso ed è relativa all’Ufficio regionale per l’espletamento di gare per l’appalto dei lavori pubblici (U.RE.GA.), istituito nell’ambito della legislazione regionale 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ste dei nuovi soggetti aderenti. Anche gli elementi informativi disponibili sul numero di enti che hanno richiesto l’attivazione della S.U.A. (20 soggetti all’anno in media) inducono a confermare la tendenziale stabilità del nuovo ufficio. La direzione incrementale dell’attività della S.U.A. crotonese è poi evidentemente rilevabile attraverso l’analisi degli importi complessivi delle gare trattate che, da oltre 40 milioni di euro del 2007, sono passati a circa 80 milioni nel 2009, con un raddoppio del valore in esame. Anche qui, i dati finanziari consentono di notare l’impatto determinante, al riguardo, dall’ingresso nel sistema dell’Azienda Sanitaria Provinciale. Per l’analisi dell’efficienza della struttura, è stato elaborato un indice di riferimento nella trattatazione delle gare che è uguale al valore percentuale dei bandi pubblicati rispetto alle richieste di attuazione. Il valore in questione è in calo costante nel triennio, con acutizzazione nel confronto 2008-2009. Si evidenzia, al riguardo, il rischio di un calo di performance sotto il profilo dell’efficienza della nuova struttura che, ad una prima analisi, sembra inversamente proporzionale al notevole incremento degli importi. Invero la forza determinante della “volontà di scelta”, l’individuazione di profili professionali di altissima qualità ed il massimo coinvolgimento di apparati statali locali e territoriali hanno prodotto un elevatissimo standard di performance di lavoro che “ha convinto” e che si è imposto in assoluto come una best practices. Non v’è dubbio che l’analisi organizzativa della struttura faccia ora rilevare la necessità di un pronto adeguamento della stessa al mutamento del quadro di impegni da fronteggiare; in particolare, sembrerebbe che, a fronte di una diversificazione degli ambiti trattati (ampliamento dell’attività a servizi e forniture) ed all’incremento di dimensione degli importi gestiti non si sia provveduto ad una congrua riarticolazione della S.U.A. Tutto ciò, è da rimarcare, non incontrandosi limiti dal punto di vista finanziario perchè, come notato in precedenza, le convenzioni istitutive delle stazioni uniche appaltanti provinciali prevedono un lungimirante meccanismo di auto-sostentamento fondato sulla previsione di un contributo a carico dei quadri economici degli interventi, in grado di adeguare automaticamente le disponibilità di risorse alle nuove esigenze. I dati consultabili, infine, evidenziano le notevoli potenzialità dello strumento della S.U.A. dal punto di vista della conoscibilità del settore degli apsiciliana. In quel contesto si è verificata la tendenza delle amministrazioni locali a cercare di sottrarsi alla gestione regionale riducendo l’importo dei lavori sotto la soglia minima, oppure continuando ad appaltare progetti validati prima dell’entrata in vigore delle nuove norme legislative (CARDELLICCHIO – GALLO, La Stazione unica appaltante provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive, in Rass. Avvocatura dello Stato, 2007, I, 26 ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 209 palti, sia dal punto di vista delle dinamiche amministrative sia sotto il profilo della prevenzione antimafia: per le strategie d’indagine e per l’approntamento di misure “difensive” ed in prospettiva “offensive”. I dati registrati dall’anno 2009 danno conto in modo esaustivo dei picchi di attività contrattuale, individuandoli, in linea di massima con la tarda primavera - inizio estate e con l’autunno. Ciò, ad una prima valutazione, sembrerebbe connesso all’efficacia dei bilanci degli enti locali che diventa piena proprio nella fase primaverile per andare ad estinguersi al termine dell’anno finanziario. I dati aggregati consentono, altresì, di individuare i principali attori del sistema nel Comune capoluogo, nella Provincia e nell’Azienda Sanitaria provinciale, che risulta la più impegnata nei settori delle forniture e dei servizi. Si tratta di valutazioni che si fondono su dati aggregati, costantemente sintetizzati nell’attività di un’unica struttura, nella quale convergono la massima parte dei contratti di lavori, servizi e forniture del territorio provinciale. Proprio la tendenziale esaustività del materiale informativo sugli appalti, in forma di dati dettagliati per ogni singola opera, gestito con un semplice foglio excel, è in grado di fornire alle Forze di Polizia, in modo costante, un colpo d’occhio complessivo su ditte aggiudicatarie, percentuali di ribasso, andamento del procedimento, importi di gara ed ulteriori notizie facilmente accorpabili, secondo le necessità, per far risaltare gli elementi di cui si abbisogna. 2.4 La Stazione Unica Appaltante della Regione Calabria Un’attenzione particolare merita, sotto il profilo della ricostruzione dell’istituto, la S.U.A. della Regione Calabria, sia per la fonte legislativa speciale posta a suo fondamento sia per i numerosi aspetti che la connotano rispetto all’archetipo promosso dalle prefetture calabresi. La S.U.A. della Regione Calabria è sorta con un articolato percorso legislativo (22) che ha preso le mosse con la L.R. 11 maggio 2007, n. 7. Il provvedimento in questione era il collegato alla finanziaria regionale e, in quella sede, l’Assemblea consiliare ha ritenuto opportuno dare un segnale “politico” di attenzione al tema, rinviando ad una successiva legge regionale l’effettiva istituzione del nuovo ufficio. L’impegno in questione è stato puntualmente adempiuto con la L.R. 7 dicembre 2007, n. 26 “Istituzione dell’autorità regionale denominata Stazione Unica Appaltante e disciplina della trasparenza in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture”. L’intervento normativo appena citato, fin dalla sua istituzione, palesa l’in- (22) In una delle infrequenti occasioni di esercizio dell’autentica funzione consiliare (SDANGANELLI, cit., p.1). 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 tento di costituire un nuovo soggetto di amministrazione attiva, la S.U.A. appunto, e quello complementare di disciplinare i parametri di trasparenza del settore dei contratti pubblici, anche in modo ulteriore rispetto a quanto previsto nel D.L.vo 163/2006 (codice degli appalti), individuando nell’organo sopra indicato il controllore (23). Subito dopo l’emanazione della legge regionale n. 26/2007, il Governo ha ritenuto necessario promuovere la questione della legittimità costituzionale di alcune sue norme (24). Tuttavia, con successiva L.R. 5 marzo 2008, n. 2, sono state approntate modifiche al testo della precedente legge n. 26/2007, tali da corrispondere alle eccezioni sollevate dal Governo. Pertanto, la Corte Costituzionale, con ordinanza 18 febbraio 2009, n. 49, tenuto conto che il Presidente del Consiglio dei Ministri aveva rinunciato al ricorso per l’avvenuto recepimento delle questioni rilevate, ha dichiarato l’estinzione del processo. Venendo all’esame del merito dell’istituto introdotto nella legislazione regionale, è significativo rilevare che l’ambivalenza della trama normativa è rilevabile a partire dalle finalità che accanto all’efficienza, tipica dell’amministrazione attiva, includono anche la vigilanza (nel testo normativo, l’assicurazione) sulla correttezza e trasparenza, precipua dell’amministrazione di controllo. Così, se il compito fondamentale della SUA è senz’altro quello di svolgere l’attività di preparazione, indizione e di aggiudicazione delle gare a favore della Regione e degli Enti ed aziende ad essi collegate, accanto ad esso si staglia quello ulteriore relativo al controllo sull’esecuzione dei contratti (25). A tale ulteriore riguardo, assume peculiare rilievo l’istituzione, all’interno della SUA, dell’Osservatorio regionale di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (art. 8), con compiti statistici, di pubblicità, di monitoraggio delle gare di importo sotto soglia e di monitoraggio dei prezzi di mercato. L’accostamento delle funzioni di vigilanza, in analogia a quanto previsto per l’Autorità nazionale di cui al D.L.vo 163/2006, a quelle che sembrano più proprie di amministrazione attiva sono state oggetto di perplessità in dottrina (26) sia sotto il profilo della natura giuridica dell’istituto sia in riferimento alla concreta possibilità, per l’Ufficio, di svolgere i diversi compiti affidatigli (27). Tornando alla competenza fondamentale, al nucleo centrale, occorre ri- (23) Ibidem, p. 4. (24) A titolo di esempio era stato censurato l’art. 2, comma 2, relativo all’istituzione di un elenco di aziende subappaltatrici, l’art. 11, comma 1 sull’obbligo di redazione del piano di sicurezza per lavori di importo superiore ad € 150.000 ed il già menzionato art. 2 nelle parti in cui si prevedono le funzioni di vigilanza della S.U.A. (v. ibidem, p. 2). (25) Art. 2, comma 3, lett. n). (26) Ibidem, p. 4. (27) Lo stesso Presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, nel corso di un’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, tenutasi il 17 novembre 2009, ha LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 211 levare che la legge in esame fa obbligo di ricorso alla S.U.A. agli uffici della Regione, agli enti, aziende, organizzazioni ed organismi da essa diretti o vigilati o ad essa collegati, agli enti del servizio sanitario regionale ed alle società miste in maggioranza regionale. Per gli altri enti pubblici della Calabria è prevista la possibilità di ricorso alla S.U.A. in regime di convenzione. Non è sancita l’estensione dell’obbligo in questione agli uffici del Consiglio regionale ma, a norma dell’art. 15, comma 3, l’Assemblea può affidare singole fattispecie alla S.U.A. (28). Gli organi della Stazione Unica Appaltante sono il Direttore Generale ed il Comitato di Sorveglianza. Il Direttore Generale deve essere in possesso di una particolare qualificazione che può essere relativa alla pregressa esperienza di dirigente della Pubblica Amministrazione, di docente universitario, di avvocato dello Stato, di magistrato, di libero professionista. Il Comitato di sorveglianza, nominato dal Presidente della Giunta, è composto da cinque membri, di cui due appartenenti alla magistratura contabile od amministrativa. Si prevede, inoltre, che il regolamento definisca forme di coinvolgimento del Ministero dell’Interno e delle relative strutture periferiche nell’attività della SUA. Si tratta di una norma di principio che sinora ha avuto difficoltà di applicazione nella concreta esperienza che si è venuta ipotizzando. Per venire, infine, alla specifica attività della S.U.A., in quello che è stato definito il “nucleo duro”, si rinvengono evidenti profili di similitudine, anche se non di uguaglianza, tra la S.U.A. regionale e le esperienze promosse dalle prefetture. Alla S.U.A. sono attribuite, dall’art. 2, una serie di specifiche competenze che sono relative alla collaborazione con l’Ufficio proponente per l’individuazione del procedimento opportuno e per la redazione dei necessari atti di gara, all’espletamento di tutti gli incombenti di gara fino all’aggiudicazione definitiva. Rimangono affidate all’Ente proponente le competenze specifiche del R.U.P. e la stipula del contratto (29). Mentre nel rodato meccanismo delle stazioni uniche appaltanti d’ispirarilevato che la nuova struttura è oberata di lavoro in quanto i suoi compiti sono delicati e richiedono prolungata attenzione (Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, Resoconto stenografico della 31^ seduta:martedì 17 novembre 2009, in www.parlamento.it). (28) SDANGANELLI, cit., p. 5. La previsione in questione non ha mancato di suscitare perplessità in dottrina non apparendo sufficiente giustificazione la piena autonomia dell’amministrazione consiliare. (29) Lo SDANGANELLI esprime perplessità sulla permanenza della competenza alla stipula del contratto in capo all’ente originario in quanto ritiene che si sia costituito un indesiderato effetto navetta che potrebbe pregiudicare le finalità di buon andamento sottese alla normativa in esame (ibidem, p. 6) 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 zione prefettizia, l’Ufficio unico si pone solo come articolazione interna convenzionata che sostiene il lavoro di R.U.P. e dirigente ma non si sostituisce nell’espletamento delle funzioni amministrative ad essi attribuite, nella S.U.A. regionale si assiste ad una vera e propria delegazione, da parte dell’Ufficio proponente, di competenze funzionali proprie degli uffici committenti. Ed infatti, l’art. 6, comma 6, qualifica l’aggiudicazione definitiva, tipicamente affidata all’Ente appaltante, come “adempimento dell’attività di delegazione”. A seguito di ciò, il procedimento torna all’Ente proponente. Anche il sistema di finanziamento, definito all’art. 10, è simile a quello previsto per le Stazioni uniche appaltanti provinciali e consiste nell’accantonamento, a tali fini, dell’1% dell’importo posto a base dei singoli provvedimenti di gara. Particolarmente significativo è il rilievo della S.U.A. nell’ambito del piano regionale di riqualificazione del Servizio Sanitario, approvato con delibera di Giunta regionale 10 settembre 2009, n. 585. In quell’importante sede, in cui l’Ente Regione definisce la strategia per la revisione del settore sanitario interessato da gravi problematiche, si attribuiscono alla Stazione Unica Appaltante funzioni di definizione e monitoraggio del budget di spesa per gli acquisti, di acquisizione delle forniture in forma aggregata, di implementazione di piattaforme di e-procurament e di realizzazione di osservatori dei prezzi e diffusione di sistemi di benchmarking. Sostanzialmente, l’Ufficio unico viene chiamato alla funzione di vera e propria centrale di committenza allo scopo di razionalizzare la spesa e produrre risparmi. Nello stesso documento pianificatorio, infine, si da atto che tali attività erano già state espletate con riguardo alla fornitura di vaccini antinfluenzali per la campagna 2009. Da ultimo, in tema di legislazione regionale, si deve far cenno anche all’istituzione della S.U.A. nella normativa della Campania. L’art. 60 della L.R. 30 giugno 2008, n. 1, legge finanziaria per la Campania, ha infatti istituito presso gli uffici del genio civile di ogni provincia, d’intesa con le prefetture competenti per territorio, una stazione unica appaltante. Ad essa, i Comuni possono trasferire le procedure d’appalto per lavori superiori ad € 250.000,00. 3. Gruppi interforze e grandi opere L’ulteriore, rilevante, tendenza, in tema di strutture organizzative dirette a prevenire le infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti si muove, per così dire, a valle della conclusione dei procedimenti negoziali. Si tratta dell’istituzione di gruppi interforze che hanno la funzione di effettuare verifiche antimafia dirette a rendere applicabili le ostatività di cui all’art. 10 del D.P.R. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 213 252/98 e, più in generale, delle cautele antimafia previste dall’ordinamento vigente. In quest’ambito, la matrice della struttura in esame è da individuare nella legislazione sulle grandi opere. Essa prende le mosse dalla L. 21 dicembre 2001, n. 443 (la c.d. legge - obiettivo) che si prefiggeva di definire una disciplina specifica per le grandi opere, in modo tale da semplificarne la realizzazione, prevedendo, in particolare la figura del contraente unico o “general contractor”. In tale contesto, peraltro, allo scopo di evitare che le misure semplificatrici potessero rendere più agevole l’azione di infiltrazione della criminalità organizzata si era posta attenzione all’individuazione di specifiche misure di contrasto. Così, con il Decreto legislativo attuativo della delega contenuta nella L. 443/2001, il n. 190/2002, si prevedeva, all’art. 15, comma 5, che con provvedimento del Ministro dell’Interno, di concerto con i Ministri della Giustizia e delle Infrastrutture e dei Trasporti, si individuassero le procedure per il monitoraggio delle infrastrutture ed insediamenti industriali, per la prevenzione e repressione dei tentativi di infiltrazione. La norma in questione è stata poi inclusa nel D.L. vo 163/2006 (codice dei contratti pubblici), all’art. 180, comma 2. Ad essa è stata data attuazione con il D.M. 14 marzo 2003 che ha disposto un complesso sistema organizzativo volto a dare corpo alla norme indicate. In realtà, l’opzione costruita con il citato decreto ministeriale non era scontata ed anzi, si è obiettato in dottrina che la scelta normativa contenuta all’art. 15, comma 5 della menzionata fonte legislativa attenesse alla mera definizione di procedure per il monitoraggio, senza lasciare intendere la necessità di costituire nuovi soggetti (30). Il sistema disegnato dal decreto che qui si rammenta prevede una struttura bipolare governata dal principio di leale collaborazione, da un lato, e dal criterio dell’accentramento dall’altro (31). Infatti, la base della struttura è costituita da una rete di monitoraggio, con ampia partecipazione, in cui, accanto alle amministrazioni centrali interessate, compaiono gli enti territoriali, le amministrazioni periferiche ed anche le imprese aggiudicatarie. Il vertice accentrato del sistema è invece costituito dal Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere cui corrisponde in periferia, il gruppo interforze. Il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere è (30) LACAVA, L’alta sorveglianza delle grandi opere: quali strutture e quali procedure?, in Giornale Dir. Amm., 2005, 1, p.105. (31) Ibidem. 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 costituito a norma dell’art. 3 del D.M. 14 marzo 2003 ed ha una composizione mista con rappresentanti del Ministero dell’Interno, delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’Economia e delle Finanze, della Direzione Nazionale Antimafia e dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici (32). L’ambito di interesse delle procedure di monitoraggio è definito all’art. 1 del decreto in commento e riguarda le aree territoriali ove devono essere realizzate le opere, la tipologia dei lavori e la qualificazione delle imprese, le procedure di affidamento e subaffidamento dei lavori, gli assetti societari e le rilevazioni effettuate nei cantieri. A livello provinciale, i gruppi interforze (33) costituiti presso le prefetture, che lavorano in collegamento con la D.I.A., svolgono attività di monitoraggio anche attraverso accessi ispettivi sui cantieri diretti a verificare il rispetto della normativa in materia di lavoro; un particolare riguardo è offerto alla sicurezza fisica dei lavoratori, argomento tragicamente sempre presente nelle cronache italiane, che nel percorso sin qui tracciato dal settennato del Presidente Napolitano ha trovato una rinnovata costante centralità ed una imbarazzante, tuttora poco efficace, risposta. A questo punto occorre chiedersi quale sia l’attività concreta che il Comitato di coordinamento debba svolgere e la risposta è rinvenibile all’art. 3 del decreto che individua tre funzioni: l’analisi integrata dei dati, il supporto dell’attività dei prefetti sul territorio, l’esame congiunto delle segnalazioni. In sostanza, dunque, la previsione del Comitato di coordinamento e dei gruppi interforze provinciali ha la finalità di professionalizzare e specializzare l’attività di verifica antimafia. In altri termini, è una soluzione di carattere organizzativo diretta a realizzare effettivamente ed approfonditamente l’applicazione della normativa in materia di prevenzione antimafia negli appalti, nella sua versione attuale, recata dal D.P.R. 252/1998. L’esigenza muove dalla peculiarità delle grandi opere e costituisce anche l’implicita ammissione dei limiti del quadro strutturale nell’azione preventiva. (32) Del Comitato fanno parte: • tre componenti in rappresentanza del Ministero dell’Interno, di cui uno della Direzione Investigativa Antimafia; • tre componenti designati dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti; • tre componenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze; • due componenti della Direzione Nazionale Antimafia; • due componenti dellAutorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici. I componenti sono stati nominati con D.M. 24 giugno 2004. (33) Ai sensi dell’art. 5, comma 3, D.M. 14 marzo 2003, i gruppi provinciali interforze sono coordinati da un funzionario della prefettura e composti da un funzionario della Polizia di Stato, da un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, da un ufficiale della Guardia di Finanza, da un rappresentante del Provveditorato alle opere pubbliche, da un rappresentante dell’Ispettorato del lavoro e da un funzionario della D.I.A. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 215 Ne è conferma l’assetto più generale che si accompagna all’istituzione degli organi sopra indicati e che prevede, tra l’altro, l’obbligo del soggetto aggiudicatario di stipulare appositi accordi con le autorità di pubblica sicurezza finalizzati alla verifica preventiva del programma di esecuzione dei lavori per poter consentire il monitoraggio di tutte le fasi di esecuzione dei lavori e dei soggetti che le realizzano (34). Dalle analisi del Comitato è sorta l’esigenza di estendere il controllo anche per i contratti che non sarebbero sottoposti, in ragione del loro importo, allo specifico regime informativo di cui all’art. 10 del D.P.R. 252/1998, per consentire una tutela avanzata dell’interesse pubblico al contrasto delle infiltrazioni criminose. Da qui è sorta la prassi dei protocolli di legalità con i quali l’impresa aggiudicataria si assoggetta a verifiche antimafia per qualunque importo, anche per eventuali sub - appalti, provvedendo ad estendere alle imprese sub-contraenti tale vincolo per via civilistica (35). L’archetipo degli organi di cui al D.M. 14 marzo 2003 conosce diverse filiazioni e, proprio per tale ragione, costituisce la matrice di una delle grandi direttrici dell’azione pubblica in materia di strutture per la prevenzione antimafia negli appalti. A seguito dell’evento sismico de L’Aquila, allo scopo di fronteggiare l’emergenza ricostruzione in Abruzzo e di garantire la trasparenza nei relativi appalti, sono stati costituiti, conformemente alla previsione di cui all’art. 16 del Decreto Legge del 28 aprile 2009, n. 39 e del successivo Decreto Interministeriale del 3 settembre 2009, la Sezione Specializzata del Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere presso la Prefettura de L’Aquila (36) ed il Gruppo Interforze Centrale per l’Emergenza e Ricostruzione - GICER, istituito presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Il primo organo garantisce il coordinamento e l’unità di indirizzo di tutte le attività finalizzate alla prevenzione di infiltrazioni della criminalità organizzata, in stretto raccordo sia con il Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere sia con il G.I.C.E.R. Quest’ultimo svolge (34) LACAVA, cit. (35) Ibidem. (36) L’organismo è coordinato dal Prefetto di quella provincia, ed è composto da: • un rappresentante della Prefettura de L’Aquila; • un rappresentante del Dipartimento della P.S.; • un rappresentate della Direzione Nazionale Antimafia; • un rappresentante del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti • un rappresentante dell’Autorità per la Vigilanza dei Contratti Pubblici; • un rappresentante della Regione Abruzzo; • un rappresentante della Provincia de L’Aquila; • un rappresentante del Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche; • un rappresentante della Direzione Regionale dei Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 compiti di monitoraggio ed analisi delle informazioni concernenti: • le verifiche antimafia e i risultati dei controlli presso i cantieri interessati alla ricostruzione di opere pubbliche, effettuati dal gruppo interforze istituito presso la Prefettura de L’Aquila; • le attività legate al cosiddetto “ciclo del cemento”, con conseguente mappatura delle cave limitrofe al territorio interessato dal sisma; • le attività di stoccaggio, trasporto e smaltimento dei materiali provenienti dalle demolizioni sul territorio interessato dal sistema; • i trasferimenti di proprietà di immobili e beni aziendali, al fine di verificare eventuali attività di riciclaggio ovvero concentrazioni o controlli da parte di organizzazioni criminali (37). Un altro importante esempio di applicazione del sistema in questione è relativo al caso dell’Esposizione Universale di Milano 2015 (38) per la quale, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, in data 22 ottobre 2008, sono stati individuati gli organi e soggetti competenti a porre in essere gli interventi necessari per la realizzazione della manifestazione (39). La gestione dell’evento è stata affidata alla “Società di gestione Expò Milano 2015 S.p.A.”. Il tema della prevenzione e contrasto di possibili infiltrazioni di sodalizi criminosi negli appalti è apparso particolarmente sensibile nel dibattito sull’argomento e ciò ha prodotto, allo stato, diverse soluzioni organizzative, non sempre supportate da un disegno complessivo. In primo luogo, la particolare sensibilizzazione delle autorità provinciali di pubblica sicurezza ha dato luogo ad un protocollo d’intesa, stipulato il 31 luglio 2009, tra il Presidente della Regione, il Prefetto di Milano e soggetti imprenditoriali, teso a rendere trasparenti gli appalti con clausole contrattuali che ripetono il contenuto di analoghi atti, dirette ad impegnare le imprese a denunciare ogni richiesta illecita e ad estendere le verifiche antimafia anche ai sub-appalti. E’ stato, inoltre, costituito un “Comitato per la legalità e la trasparenza (37) Il G.I.C.E.R. è coordinato da un dirigente delle Forze di polizia in servizio presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, designato dal Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza. E’ composto da: • un funzionario e due appartenenti ai ruoli non direttivi della Polizia di Stato; • un ufficiale e due marescialli dell’Arma dei Carabinieri; • un ufficiale e due marescialli della Guardia di Finanza; • un funzionario e due appartenenti ai ruoli non direttivi del Corpo Forestale dello Stato; • un funzionario e due appartenenti ai ruoli non direttivi della Direzione Investigativa Antimafia; • quattro appartenenti ai ruoli non direttivi per il supporto logistico ed informatico della Direzione Centrale della Polizia Criminale. (38) L’Esposizione universale, sul tema “Nutrire il Pianeta, energia per la vita”, si svolgerà a Milano dal 1° maggio al 31 ottobre 2015. (39) Sono stati previsti il Commissario Straordinario Delegato del Governo per l’Expò 2015 (CO.S.DE), la Commissione di Coordinamento per le Attività connesse all’Expò (COEM) ed il Tavolo istituzionale per il governo complessivo degli interventi regionali e sovraregionali. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 217 delle procedure regionali”, con il quale si vuole svolgere un’azione di vigilanza preventiva per gli appalti di competenza regionale. I risultati dell’analisi del Comitato andranno a beneficio di dirigenti regionali, attraverso giornate di formazione, e degli imprenditori che saranno destinatari di un vademecum. Il target del Comitato in questione è, all’evidenza, più a monte delle tendenziali verifiche antimafia e, in qualche modo, risponde ad un’esigenza simile a quella che ha dato luogo alle stazioni uniche appaltanti e cioè quella di fare in modo che le procedure di selezione del contraente siano trasparenti, efficienti e di ostacolo ad eventuali infiltrazioni. Non appare casuale che, nell’ambito del Comitato in questione, sieda il Commissario della S.U.A. della Regione Calabria. Ancora, è stato istituito un “Tavolo istituzionale per il governo complessivo degli interventi regionali e sovraregionali” presieduto dal Presidente della Regione Lombardia e con composizione mista. Da ultimo, con decreto interministeriale del 23 dicembre 2009, presso la Prefettura di Milano, è stata costituita la Sezione specializzata del Comitato per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere (40), alla quale sono conferite le funzioni proprie del Comitato, ed un Gruppo Interforze Centrale per l’Expò 2015 (G.I.C.EX.) (41), istituito presso il Ministero dell’interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, con il compito di svolgere analisi in materia di verifiche antimafia e sui cantieri, sulle attività di movimentazione ed escavazione terra, di smaltimento dei rifiuti e di passaggi proprietari tra aziende. Rimane, infine, operativo il gruppo interforze provinciale di cui al D.M. 13 ottobre 2003. Si tratta, come è evidente, di un quadro articolato e complesso, che sembra rispondere a tre esigenze diverse. La prima è relativa alle verifiche antimafia sulle aziende aggiudicatarie, la seconda riguarda la correttezza ed efficienza dei procedimenti di gara, la terza è relativa al governo della complessità ed all’armonizzazione degli interventi di natura preventiva. (40) La Sezione, coordinata dal Prefetto di Milano, è composta da: • un esperto nella materia; • un rappresentante della Prefettura; • un rappresentante del Dipartimento della Pubblica Sicurezza; • un rappresentante della Direzione Nazionale Antimafia; • un rappresentante del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti; • un rappresentante dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici; • un rappresentante del Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche. (41) E’ coordinato da un dirigente della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e composto da funzionari ed ufficiali del menzionato Ufficio, della Direzione Investigativa Antimafia, della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 4. Il monitoraggio dei flussi finanziari negli appalti Sotto il profilo sostanziale, i protocolli di legalità che, come si è detto, costituiscono una delle estrinsecazioni delle linee generali in materia di monitoraggio antimafia dell’esecuzione degli appalti pubblici, riservano ormai costantemente alcune disposizioni alla tracciabilità dei flussi finanziari. Non vi è dubbio, infatti, che una sempre più efficace azione di contrasto alla criminalità organizzata richieda anche l’approntamento di concrete azioni contro il riciclaggio dei proventi di attività illecite (42) e che, in tale ambito, rivesta particolare rilievo la limitazione dell’uso di contante e l’utilizzo degli intermediari finanziari autorizzati, presso cui fare confluire i dati sui soggetti delle transazioni e sulle relative entità (43). Proprio in tale direzione, i più recenti sviluppi della legislazione antiriciclaggio hanno definito un corpus legislativo di norme dirette a limitare l’uso del contante fissando una soglia massima oltre la quale tale modalità di pagamento è vietata (44) e sancendo l’obbligo di identificazione dei soggetti interessati (45). La rilevanza del monitoraggio dei flussi finanziari trova, inoltre, una sua base giuridica di livello europeo nel Programma dell’Aja: “Rafforzamento delle liberta’, della sicurezza e della giustizia nell’Unione Europea”(46). Il “Programma dell’Aja” adottato dal Consiglio europeo il 4 e 5 novembre 2004, è il documento fondamentale che individua le dieci priorità d’azione nel settore libertà, sicurezza e giustizia per il successivo quinquennio. In tale contesto, al capitolo 2, “Rafforzamento della sicurezza”, nell’individuare le azioni da porre in essere in funzione anti-terrorismo, si evidenzia come il Consiglio europeo ritenga opportuno migliorare l’efficienza degli strumenti definiti, con particolare riguardo al controllo dei flussi finanziari sospetti. In altri termini, e sotto un diverso profilo, si è rilevato come la lotta al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo costituisca un presidio fondamentale per la tutela dell’integrità del sistema economico-finanziario (47). Ed infatti, l’analisi dell’andamento del fenomeno, ha consentito di verificare un (42) KROGH, Le novità introdotte dal D.L. 112/1998 alle limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore, in Notariato, 2008, 5, p. 540. (43) Il Governatore della Banca d’Italia, nell’audizione tenuta presso la Commissione parlamentare antimafia, ha rilevato che l’Italia si distingue in Europa per lo scarso ricorso a mezzi di pagamento diversi dal contante: 62 per abitante nel 2006 a fronte di 150 nell’Eurosistema nel 2004, ibidem. (44) Art. 49, D.L.vo n. 231/2007. (45) PISANI, Antiriciclaggio: gli obblighi di identificazione e conservazione delle informazioni per gli intermediari finanziari, in Fisco, 2006, 25, p. 3842. (46) Gazzetta Ufficiale Unione Europea, n. c55 del 3 marzo 2005. (47) TARANTOLA, Il contributo della Banca d’Italia nella lotta al riciclaggio, in www.bancaditalia.it, 2010, p. 3. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 219 tendenziale incremento dell’impegno di capitali provenienti da attività illecite in imprese economiche del circuito legale, con conseguenti fenomeni di distorsione della concorrenza ed aumento di influenza e potere dei gruppi criminali (48). Partendo da tali premesse, l’argomento della tracciabilità dei flussi finanziari ha avuto un notevole approfondimento nell’azione di prevenzione delle infiltrazioni criminali nei contratti pubblici. Appare palese, infatti, che la trasparenza della movimentazione finanziaria, sia in uscita che in entrata del bilancio dei principali soggetti attori dei rapporti negoziali, costituisca un valido deterrente, se coerentemente attuata (49). In questo ambito, notevole è stata l’attività del Comitato di alta sorveglianza sulle grandi opere (C.A.S.G.O.) istituito presso il Ministero dell’Interno che, fin dal 2005 ha avviato una riflessione sul tema, con la collaborazione dell’Ufficio Italiano Cambi, in ragione della specifica competenza attribuita a tale organismo in materia di antiriciclaggio, che ha avuto un primo momento di applicazione nel protocollo d’intesa sottoscritto il 2 agosto 2005 tra il C.A.S.G.O. e la Società concessionaria, con riguardo alla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina (50). Successivamente, il sistema di monitoraggio della tracciabilità finanziaria ha avuto un ulteriore sviluppo con le linee guida, emanate dal C.A.S.G.O. ai sensi dell’art. 176, comma 3, lett. e) del D.L.vo. 163/2006, concernenti i lavori di realizzazione di un tratto della linea C della metropolitana di Roma. La predetta norma del Codice dei contratti pubblici, così come modificata dall’art. 3, comma 1, lett. l) del D.L.vo n. 113/2007, ha demandato al C.I.P.E. il compito di definire i contenuti degli accordi in materia di sicurezza e di prevenzione e repressione della criminalità sulla base di linee guida indicate dal C.A.S.G.O., prevedendo una specifica ed autonoma rilevanza per il monitoraggio dei flussi finanziari connessi alla realizzazione dell’opera. In conseguenza di ciò, il C.I.P.E., con delibera n. 50 del 27 marzo 2008, sulla base delle proposte avanzate dal C.A.S.G.O., ha approntato un primo nucleo di misure di monitoraggio per l’opera sopra menzionata che prevede l’obbligo di pagamento tramite bonifici, con indicazione del Codice Unico di Progetto (C.U.P.), e di utilizzo di conti dedicati. Dopo una prima sperimentazione, il C.A.S.G.O. ha rilevato la necessità di supportare l’attività di monitoraggio con un apparato sanzionatorio, al fine (48) Per una ricostruzione delle iniziative antiriciclaggio in chiave internazionale, ibidem, p. 5 e ss. (49) MICONI, Vigilanza, monitoraggio finanziario e white-list nella ricostruzione post sisma del 6 aprile 2009, in www.veneziastudisrl.it, 2009, p. 7. (50) FRATTASI, Le infiltrazioni della mafia nel sistema dei pubblici appalti: l’esperienza del Comitato interministeriale di coordinamento presso il Ministero dell’Interno per l’alta sorveglianza sulle gradi opere pubbliche, in www.csm.it, 2006, p. 16. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di incrementarne la cogenza (51) e, conseguentemente, il C.I.P.E., con delibera n. 107 del 18 dicembre 2008, ha definito un complesso di clausole civilistiche sanzionatorie da inserire nei contratti e subcontratti stipulati con l’appaltante. In particolare, si prevedeva l’inserimento di una clausola risolutiva espressa da attivare in caso di violazione dell’obbligo di ricorso ad intermediari abilitati, ai sensi del D.L.vo n. 231/2007, con l’ulteriore conseguenza dell’applicazione di una penale a carico del soggetto inadempiente. Si fissavano, inoltre, le misure di penali per i casi di inosservanza dell’obbligo di utilizzo dei conti dedicati e di pagamento attraverso bonifico. Per le fattispecie in questione, al contraente non inadempiente si attribuiva un onere di informazione nei confronti della Direzione Investigativa Antimafia (52). Il punto di approdo del “know-how” in materia di tracciabilità dei flussi finanziari relativi alla realizzazione di gare pubbliche è oggi data dall’esperienza degli interventi successivi al terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009. In quel contesto, l’art. 16 del D.L. 28 aprile 2009, n. 39, convertito con legge 24 giugno 2009, n. 77, detta le norme di prevenzione delle infiltrazioni criminali e, nello specifico, il comma 5 prevede la tracciabilità dei flussi finanziari per due categorie distinte: 1. i contratti pubblici, con i relativi subcontratti, aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture; 2. le erogazioni di provvidenze pubbliche (53). Le misure in questione sono state oggetto di specifiche linee guida elaborate dal C.A.S.G.O., oggetto del comunicato del Ministero dell’Interno in data 8 luglio 2009 (54), che meritano di essere analizzate puntualmente proprio perché costituiscono, come detto, l’attuale stato degli strumenti in subiecta materia. Preliminarmente, occorre precisare che le misure in questione attengono al progetto C.A.S.E. (complessi antisismici sostenibili eco-compatibili), prima fase degli interventi di ricostruzione post-sismica (55). Ai soggetti aggiudicatari è fatto obbligo di un primo ed importante adempimento, ai fini della razionalizzazione del sistema, che consiste nella realizzazione di un archivio informatico relativo all’anagrafe degli esecutori che deve contenere, tra l’altro, indicazione del conto dedicato. Proprio lo strumento da ultimo indicato, il conto dedicato, è l’architrave del sistema di monitoraggio finanziario. Tutti i soggetti imprenditoriali e gli operatori economici che intervengono negli ambiti stabiliti dalla norma devono accendere un conto corrente, postale o bancario, dedicato al progetto C.A.S.E. (51) C.I.P.E., Deliberazione 18 dicembre 2008, in G.U. 14 marzo 2009, n. 61. (52) Ibidem. (53) MICONI, cit., p. 7. (54) Pubblicato su G.U. 8 luglio 2009, n. 159. (55) Ibidem. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 221 Sui conti in questione devono transitare tutti gli incassi e pagamenti da e verso altri conti dedicati e quindi relativi, a mero titolo d’esempio, ai noli a freddo e a caldo, a definite tipologie di forniture, ai trasporti, al movimento terra ed allo smaltimento dei rifiuti. Inoltre, sul medesimo conto devono necessariamente essere appoggiate le transazioni finanziarie anche verso conti non dedicati e relativi, in via di esemplificazione, a stipendi, contributi previdenziali e pagamenti di pubblici servizi (56). Sono esenti dall’obbligo di utilizzo del conto dedicato le piccole spese giornaliere, legate al funzionamento del cantiere, ciascuna di importo inferiore o uguale a € 500,00. I conti devono essere aperti esclusivamente presso intermediari abilitati di cui al decreto legislativo n. 231/2007. E’ in ogni caso fatto divieto di utilizzo del contante ed è suggerito l’uso di bonifico bancario, postale ed on-line (57). Nella causale del bonifico andrà evidenziato il codice unico di progetto (C.U.P.). Il sistema, come si nota, si fonda su una serie di obblighi di natura civilistica che devono essere introdotti nei contratti e subcontratti attraverso specifiche clausole che rinvengono la propria matrice nel bando di gara. Conseguentemente, le linee guida, a supporto degli strumenti di monitoraggio, prevedono articolate sanzioni. Il comportamento più grave è individuato nella violazione dell’obbligo di avvalersi di intermediari abilitati e ciò comporta la risoluzione del contratto e l’applicazione di una penale pari al 10% della transazione. L’inadempimento dell’obbligo di utilizzo del conto dedicato comporta l’applicazione di una penale pecuniaria commisurata al 5% dell’operazione (58). La prassi amministrativa venutasi a creare, nel modo descritto, anche attraverso puntuali interventi legislativi, nelle intenzioni del legislatore dovrebbe ora divenire norma generale per tutti i contratti pubblici. Infatti, il disegno di legge delega (59) presentato dal Governo in esecuzione del Piano straordinario contro le mafie (Atto Camera C3290), prevede l’introduzione nell’ordinamento legislativo del principio generale dell’obbligatorietà dell’utilizzo dei conti dedicati (60) e del pagamento tramite bonifici bancari o postali, che devono contenere l’indicazione del codice C.U.P., per tutti i soggetti imprenditoriali interessati, a qualsiasi titolo, a lavori, servizi e (56) MICONI, cit., p. 8. (57) Ibidem. (58) Nel sistema di monitoraggio previsto dal protocollo d’intesa per la linea C della metropolitana di Roma, l’A.B.I. ed il C.B.I., organismi bancari nazionali ed internazionali, assicuravano la centralizzazione di tutti i movimenti finanziari. Per la ricostruzione post-sisma, invece, non essendovi tale partecipazione, la consultazione delle informazioni in questione deve essere effettuata presso tutti gli istituti bancari interessati (v. MICONI, cit., p. 8). (59) Attualmente all’esame della II^ Commissione permanente – Giustizia. (60) Gli estremi identificativi devono essere comunicati alla stazione appaltante entro sette giorni dall’accensione. 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 forniture pubbliche. Nel disegno di legge, sono esclusi dall’obbligo i pagamenti relativi ad oneri tributari, previdenziali, assicurativi ed istituzionali, quelli a favore di gestioni e forniture di pubblici servizi nonché le spese generali purché inferiori al tetto giornaliero di € 500,00. La disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari, nell’emananda norma, ha il carattere dell’inderogabilità e la mancata inclusione nei contratti e nei subcontratti sarà sanzionata con la nullità assoluta (61). 5. Conclusioni Nella strategia organizzativa di prevenzione nel settore degli appalti pubblici, si sono andati affermando, nell’ultimo decennio, due istituti specifici, la Stazione Unica Appaltante ed i Gruppi Interforze per la sorveglianza delle grandi opere (62). Non si è trattato, peraltro, di un disegno preordinato trasfuso in un tessuto normativo organico ma, come si è tentato di dimostrare, di un processo altalenante, non scevro di contraddizioni, eppure fortemente diretto ad un’affermazione delle strutture indicate nella prassi amministrativa. Tutto ciò appare sorretto da alcuni aspetti fortemente positivi degli organismi descritti che hanno dato luogo, a seguito delle prime sperimentazioni, a repliche diffuse. Per ciò che concerne la Stazione Unica Appaltante, essa è tuttora, a distanza di tre anni dall’attuazione del primo esperimento crotonese, ritenuta uno standard innovativo e funzionale nel contesto delle infiltrazioni criminali negli appalti pubblici (63) ed ha dimostrato una specifica efficacia nell’allontanare il luogo delle decisioni dagli ambiti ove maggiormente poteva esplicarsi il tentativo di pressione criminale per portarlo in un ambiente contraddistinto dalla massima professionalizzazione, cui è diretta l’attenzione delle Forze di polizia (64). (61) V. Relazione illustrativa al disegno di legge recante “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, in www.giustizia.it. (62) BUCCHIERI, Scacco alla mafia economy, in www.poliziamoderna.it, dicembre 2009. L’Autore evidenzia come i gruppi interforze costituiscano ormai uno strumento rodato del Dipartimento della Pubblica Sicurezza mentre invece la stazione unica appaltante costituisca un modello di cooperazione interistituzionale da affinare. (63) Significativa, al riguardo, la discussione sviluppatasi sul tema nell’ambito dell’audizione al Presidente della Regione Calabria, Loiero, in sede di Commissione parlamentare antimafia, avvenuta il 17 novembre 2009. In quel contesto, le valutazioni dei commissari e della stessa personalità audita, pur in più punti contraddistinte da diverse posizioni, convergevano nell’attestare l’efficacia della stazione unica appaltante (v. Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, cit.). (64) L’adesione alla Stazione Unica Appaltante è stata utilizzata anche come argomento per segnalare una volontà di contrasto alle infiltrazioni criminali nell’ambito di due processi amministrativi proposti avverso il provvedimento di scioglimento degli organi ordinari del Comune di Amantea, emesso LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 223 In altri termini, il risultato fondamentale della Stazione Unica Appaltante è quello di aver ricondotto ad un’unica struttura tendenzialmente tutti gli appalti di lavori, servizi e forniture e, per questa via, reso possibile un monitoraggio non dispendioso, completo ed efficace. Per ciò che riguarda il “nucleo duro incontestato” della S.U.A. (65) il giudizio favorevole, legato anche ai risultati in termini di efficienza e competenza, può ritenersi acquisito. In particolare, si fa riferimento ad un ufficio cui è affidato, in via di volontaria adesione o per previsione normativa, lo svolgimento del procedimento di gara, dalla predisposizione degli atti di indizione fino all’aggiudicazione (provvisoria o definitiva, a seconda dei due modelli fin qui affermatisi, quello di origine prefettizia e quello della Regione Calabria). Più meditato deve essere invece il giudizio relativamente a competenze ulteriori che sempre sono state affidate alla S.U.A., dal monitoraggio sull’esecuzione dei lavori, alla vigilanza su tutti i contratti pubblici in un dato territorio (66). Al riguardo, si è ritenuto, non senza ragione che l’accostamento di funzioni promiscue attive, consultive e di controllo non solo rendono difficoltoso l’inquadramento giuridico della S.U.A. ma inducono a dubitare, sotto il profilo pratico sulla possibilità reale che i compiti affidati possano essere espletati, tenuto anche conto dei mezzi finanziari messi a disposizione della struttura. Non bisogna, inoltre, sottovalutare il rischio che l’imprecisa definizione di funzioni ed il mancato adeguamento delle risorse compromettano il ruolo essenziale che la prassi ha affidato alla S.U.A. depauperando, malgrado sia stato definito un flessibile strumento di finanziamento, una notevole potenzialità di prevenzione antimafia. D’altra parte, il sistema organizzativo di controllo antimafia nei confronti delle ditte aggiudicatarie, formatosi attraverso la legge sulle grandi opere e definito nel D.M. 14 marzo 2003, ha corrisposto all’esigenza di professionalizzare le attività di verifica in questione provvedendo, altresì, a imprimere un carattere di maggiore centralizzazione allo scopo di massimizzare le sinergie informative (67). Le strutture che si sono andate formando in progressione di tempo sul troncone originario del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere, sono, a ben vedere, l’espressione di una tendenza legislativa particolarmente affermatasi negli ultimi anni e volta ad individuare nei prefetti ex art. 143 del D.L.vo 267/2000. In quelle circostanze, il Giudice amministrativo adito ha affermato che l’atto di adesione è indubbiamente rilevante ma che può provare unicamente una determinata volontà politica e non l’effettiva capacità di contrastare il fenomeno di infiltrazione (T.A.R. Calabria, Sez. I, 21 ottobre 2009, nn. 1124 e 1125). (65) SDANGANELLI, cit., p.3. (66) Ibidem, p.4 (67) LACAVA, cit. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 e nelle strutture da esse dirette, i principali attori in tutta una serie di attività di prevenzione antimafia, tra cui si segnalano in primo luogo il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ed il contrasto alle infiltrazioni negli appalti pubblici e privati, tanto da far ritenere, in dottrina, che l’attività di quella figura istituzionale si vada a collocare, obiettivamente, a ridosso dell’azione di accertamento della magistratura (68). Accanto a risultati significativi che le strutture di monitoraggio in questione hanno riportato negli ultimi anni in diversi ambiti, anche grazie all’uso intelligente di strumenti pattizi che hanno consentito di estendere le verifiche antimafia sotto le soglie di cui al DPR. 252/1998, ed anche ad imprese private, emergono peraltro elementi di criticità. Essi sono sostanziati (69) nella proliferazione di strutture che vanno a realizzare un sistema non sempre integralmente conseguente e nella difficoltà di monitoraggio dell’insieme dei soggetti aggiudicanti ed aggiudicatari. La descritta vicenda dell’Expo 2015 di Milano può essere significativa. La molteplicità di strutture di monitoraggio costituite, fa emergere la necessità di mantenere un’omogeneità a monte per restituire razionalità al sistema. Ed infatti, a fronte dell’istituzione della Sezione Specializzata del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere e del Gruppo Interforze centrale per l’Expò 2015 (G.I.C.EX.), nonché della stipula di un protocollo di legalità a livello territoriale, sono stati costituiti un Tavolo di coordinamento generale ed un Gruppo di controllo sulle procedure regionali di affidamento di appalti. Ne emerge l’esigenza che il quadro delle attività contrattuali e procedimentali da verificare sia omogeneo per consentire un monitoraggio efficace ed intelligente. Allora, a ben vedere, si potrebbe concludere rilevando che l’esperienza degli ultimi dieci anni ha evidenziato che un’efficace azione di contrasto alle infiltrazioni criminali nel settore degli appalti pubblici deve contenere almeno due aspetti imprescindibili: il corretto ed efficiente espletamento delle procedure di gara ad opera di un unico centro di imputazione e lo svolgimento delle attività di monitoraggio sulle ditte aggiudicatarie e sub-aggiudicatarie ad opera di gruppi interforze specializzati e determinati, supportati da organi centrali di coordinamento informativo. Un ulteriore aspetto, che peraltro merita un approfondimento particolare, è costituito dalla direzione unitaria delle esecuzioni dei lavori, sull’esempio di quanto emerso dall’esperienza della stazione unica appaltante napoletana (68) CISTERNA, Le misure di contrasto alla criminalità organizzata nel “Pacchetto sicurezza”, in Dir. pen. e processo, 2009, 9, p. 1069. (69) LACAVA, cit. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 225 che completerebbe un sistema semplice e virtuoso di controllo. Se le considerazioni sopraesposte rispondono alla constatazione del quadro conoscitivo illustrato nelle pagine precedenti, occorre muoversi sulla strada della costruzione razionale di un sistema che preveda l’armonico intersecarsi dell’azione della S.U.A., della fase di espletamento delle gare, e dei gruppi interforze nella fase delle verifiche sulle imprese esecutrici. Tale articolazione, opportunamente ispirata ai principi di sussidiarietà verticale, prevista come strumento per aggredire i fenomeni mafiosi nelle aree in cui questi si manifestano in modo più rilevante, potrebbe essere matura per un inserimento stabile nella legislazione attuale, eventualmente quale novella nel codice degli appalti pubblici, anche in esecuzione di quanto previsto dal Piano straordinario contro la criminalità organizzata di recente presentato in sede di riunione del Consiglio dei Ministri (70). Un percorso quasi decennale perverrebbe, in questo modo, ad una propria sistemazione complessiva da cui potrebbe derivare una nuova linfa per un’azione di contrasto ulteriormente rafforzata. (70) Nella riunione del Consiglio dei Ministri tenutasi il 28 gennaio 2010 presso la Prefettura di Reggio Calabria è stato presentato il Piano al cui interno una sezione è specificamente dedicata al potenziamento dell’azione antimafia nel settore degli appalti. Nel documento in questione si fa esplicito riferimento alla promozione al ricorso alla stazione unica appaltante per assicurare trasparenza, regolarità ed economicità nella gestione dei contratti pubblici (v. www.interno.it). 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Sull’accesso ai servizi sanitari Un nodo per le liste di attesa: attuazione delle norme e responsabilità Monica De Angelis* L’attenzione alla qualità dei servizi può assumere una importanza capitale all’interno di un quadro economico critico come quello attuale. La scarsità di risorse dovrebbe allora spingere ad una maggiore concentrazione sui servizi già esistenti, cercando di migliorarne le performances. Se è noto che le declinazioni della qualità dei servizi sanitari possono essere molteplici, è altrettanto noto come “qualità e soddisfazione dei cittadini” rappresenti un binomio inscindibile, binomio che in non pochi casi può tradursi in semplificazione dei percorsi di accesso ai servizi sanitari. Uno degli elementi chiave nell’accesso è costituito dalle lista di attesa, la cui sola menzione evoca spesso nei pazienti sentimenti negativi. Obiettivo del lavoro è valutare lo stato dell’arte sull’attuazione delle norme volte a limitare il fenomeno in Italia. La lettura del quadro giuridico sembra essere apprezzabile, soprattutto in termini quantitativi; se si passa all’aspetto qualitativo, però, i motivi di soddisfazione calano in maniera vertiginosa non solo per l’elusione delle misure previste, ma anche per l’assenza di misure sanzionatorie concrete volte ad integrare sostanzialmente le fattispecie di responsabilità previste e dunque i relativi effetti sul miglioramento del servizio. La soluzione del problema oggi, in ogni caso, non può prescindere dall’esito della discussione sulla proposta di direttiva comunitaria sulle liste di attesa e dall’applicazione ad ampio raggio dell’e- health. 1. Introduzione. Qualità del servizio e liste di attesa: scenari L’attenzione alla qualità dei servizi può assumere una importanza capitale all’interno di un quadro economico critico come quello attuale. La scarsità di risorse dovrebbe allora spingere ad una maggiore concentrazione sui servizi già esistenti, cercando di migliorarne le performances. Se è noto che le declinazioni della qualità dei servizi sanitari possono essere molteplici, è altrettanto noto come “qualità e soddisfazione dei cittadini” rappresenti un binomio in- (*) Dipartimento di Scienze sociali, Facoltà di Economia “G. Fuà”, Università Politecnica Marche. Il presente saggio è frutto della rielaborazione e dell’ampliamento della relazione dal titolo “Qualité du service sanitaire et listes d'attente: le problème de la réalisation des règles” presentata al Convegno Calass, Lussemburgo 10-12 settembre 2009. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 227 scindibile, binomio che può anche tradursi in semplificazione dei percorsi di accesso ai servizi sanitari: e uno degli elementi chiave nell’accesso è costituito dalle liste di attesa, la cui sola menzione evoca spesso nei pazienti sentimenti negativi. Merita subito precisare che il fenomeno delle liste di attesa non è un “caso italiano”, ma si presenta generalmente in tutti gli Stati dove il servizio sanitario offre un livello di assistenza avanzato, qualunque sia il modello organizzativo adottato. Per il peculiare impatto che riveste sia sull’organizzazione del servizio sanitario, che sul diritto dei cittadini all’erogazione delle prestazioni, deve quindi costituire oggetto di un impegno costante e forte da parte di tutti gli attori istituzionali e professionali inseriti nel sistema: occorre lavorare costantemente su modalità risolutive efficaci per il problema, con la consapevolezza, tuttavia, che non esistono soluzioni semplici e univoche, ma vanno poste in essere azioni complesse ed articolate. Come si vedrà di seguito, l’introduzione di norme volte a limitare il fenomeno non ne garantisce affatto il (progressivo) assorbimento, generando al massimo – almeno nel caso italiano – una realtà di efficienza/inefficienza e soddisfazione/insoddisfazione a macchia di leopardo. La lettura del quadro giuridico porta ad esprimere un giudizio apprezzabile, soprattutto in termini quantitativi; se si passa all’aspetto qualitativo, però, i motivi di soddisfazione calano in maniera vertiginosa non solo per l’elusione delle misure previste, ma anche per la limitatezza dell’attivazione delle sanzioni volte ad integrare le fattispecie di responsabilità contemplate dalle norme e dunque i relativi effetti sul miglioramento del servizio. La tematica delle liste di attesa, comunque, oggi se deve tenere sicuramente conto (a tacere delle problematiche gestionali e organizzative) delle difficoltà di attuazione delle norme e della mancata attivazione delle responsabilità, non può tuttavia prescindere dall’esito della discussione sulla proposta di direttiva comunitaria sulle cure transnazionali e dall’applicazione ad ampio raggio dell’e-health: elementi questi che se opportunamente sviluppati possono dare un contributo non indifferente alla complessa soluzione del problema. 2. La normativa nazionale sulle liste di attesa: una ricognizione Che le liste di attesa siano state percepite subito come una delle questioni centrali per la soddisfazione dei bisogni di salute del cittadino, si nota sin dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn): all’art. 25, commi 8- 10 è stabilito infatti che l’utente può accedere agli ambulatori e strutture convenzionati per le prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio per le quali, nel termine di tre giorni, le strutture pubbliche non siano in grado di soddisfare la richiesta di accesso alle prestazioni stesse. In tal caso l’Unità Sanitaria Locale (Usl) rilascia immediatamente l’autorizzazione con apposita annotazione sulla richiesta stessa. Si precisa poi che nei casi di richiesta urgente motivata da parte del medico in relazione a particolari condizioni di 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 salute del paziente, il mancato immediato soddisfacimento della richiesta presso le strutture pubbliche equivale ad autorizzazione ad accedere agli ambulatori o strutture convenzionati. In ogni caso, le Usl attuano misure idonee a garantire che le prestazioni urgenti siano erogate con priorità nell’ambito delle loro strutture (1). Dopo la riforma dei primi anni Novanta, con la c.d. aziendalizzazione e l’entrata in vigore di leggi rivoluzionarie per il rapporto amministrazione-cittadino, il legislatore statuisce (2) che al fine di garantire il diritto di accesso di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le Usl, i presidi ospedalieri e le aziende ospedaliere devono tenere, sotto la personale responsabilità del direttore sanitario, il registro delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, di diagnostica strumentale e di laboratorio e dei ricoveri ospedalieri ordinari. Tale registro sarà soggetto a verifiche ed ispezioni da parte dei soggetti abilitati ai sensi delle vigenti disposizioni. Tutti i cittadini che vi abbiano interesse possono richiedere alle direzioni sanitarie notizie sulle prenotazioni e sui relativi tempi di attesa, con la salvaguardia della riservatezza delle persone. Quanti utenti abbiano fatto valere queste ultime norme è difficile dirlo: peraltro, va anche notato che il paziente non dovrebbe rivolgersi normalmente alle direzioni sanitarie per ottenere questo genere di dati. Infatti ciò sarebbe in contraddizione con una visione moderna di pubblica amministrazione, secondo la quale è l’amministrazione che si apre al cittadino (e non il contrario) e ne è al servizio: è quasi un obbligo, nell’opera di revisione dell’intero apparato amministrativo italiano portata avanti negli anni Novanta, la trasparenza sulle modalità di prestazione del servizio. Non a caso, nella Carta dei servizi sanitari del 1995, in riferimento ai ricoveri programmati, si legge che l’ospedale, nel rispetto dei principi di uguaglianza e imparzialità, deve predisporre un “registro dei ricoveri ospedalieri ordinari” contenente l’elenco delle attività svolte, nonché i tempi massimi di attesa per ciascun reparto e per le principali patologie. Il mancato rispetto dei tempi di attesa deve essere sempre motivato. Viene precisato altresì che la Asl provvederà ad individuare appositi strumenti di rilevazione del rispetto dei tempi di attesa indicati e di quelli realmente registrati. Periodicamente, i risultati delle rilevazioni dovranno essere inviati alla Conferenza dei Sindaci e all’Osservatorio regionale, nonché portati a conoscenza degli utenti mediante apposite pubblicazioni. L’elenco delle attività svolte ed i relativi tempi di attesa contenuti nel “registro dei ricoveri ospedalieri ordinari”, fermo restando la salvaguardia della riservatezza delle persone, dovranno essere consultabili presso l’ufficio informazioni, a disposizione dei (1) Una elencazione esaustiva delle norme relative alle liste di attesa a partire dalla nascita del Ssn si rinviene anche in ASSR, Liste di Attesa: una questione di responsabilità, luglio 2006. (2) Legge 23 dicembre 1994 n. 724 – Misure di razionalizzazione della finanza pubblica - Articolo 3, comma 8 - LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 229 medici di famiglia e pubblicizzati nelle forme più opportune (3). Anche qui viene da chiedersi quanti pazienti hanno avuto la possibilità di accedere a tali elenchi e quanta pubblicità sia stata data a queste rilevazioni. Si noti che pure in tali disposizioni si prevede una responsabilità del registro e della gestione delle liste d’attesa in capo al Direttore Sanitario. La situazione sulle liste di attesa non deve essere migliorata se nel 1998, si ritiene utile l’emanazione di ulteriori norme (4) volte a specificare che entro tre mesi dalla loro entrata in vigore, le regioni disciplinano i criteri secondo i quali i direttori generali delle aziende sanitarie determinano il tempo massimo che può intercorrere tra la data della richiesta delle prestazioni e l’erogazione della stessa. Di tale termine è data comunicazione all’assistito al momento della presentazione della domanda della prestazione, nonché idonea pubblicità a cura delle aziende unità sanitarie locali ed ospedaliere. Qui vengono in rilievo, altresì, l’adeguata pubblicizzazione delle informazioni ed il ruolo chiave dei direttori generali; addirittura è previsto che in caso di mancata definizione di questi aspetti, il Ministro della sanità vi provvede, previa diffida, tenendo conto dell’interesse degli utenti, della realtà organizzativa delle aziende sanitarie della regione, della media dei tempi fissati dalle regioni adempienti. Sembra quasi attivarsi dunque un potere sostitutivo a garanzia dei diritti degli utenti: tuttavia le cronache istituzionali non registrano attività di questo tipo, sebbene in molte regioni la situazione delle liste di attesa rilevi elevati livelli di insoddisfazione. Le nuove previsioni legislative, pur emanate in un contesto ordinamentale sempre più orientato verso la totale devoluzione delle funzioni organizzative alle singole regioni, entrano nel dettaglio andando a delimitare l’azione delle stesse regioni, le quali dovranno disciplinare, anche mediante l’adozione di appositi programmi, il rispetto della tempestività dell’erogazione delle predette prestazioni, con l’osservanza di principi e criteri direttivi quali l’assicurazione all’assistito della effettiva possibilità di vedersi garantita l’erogazione delle prestazioni nell’ambito delle strutture pubbliche attraverso interventi di razionalizzazione della domanda; interventi tesi ad aumentare i tempi di utilizzo delle apparecchiature e delle strutture; interventi volti ad incrementare la capacità di offerta delle aziende anche attraverso il ricorso all’attività libero-professionale intramuraria, ovvero a forme di remunerazione legate al risultato. Sempre tali norme (nazionali) sottolineano la necessità di (3) E per non lasciare (ipotetici) margini di incertezza, la norma prescrive altresì che all’atto della prenotazione del ricovero, per garantire la piena attuazione del principio di partecipazione mediante una adeguata informazione, dovrà essere consegnato all’utente un opuscolo informativo sulle condizioni di ricovero ospedaliero. All’atto dell’ingresso dovrà essere consegnata all’utente una seconda scheda informativa del reparto di destinazione ed un modulo per la presentazione di eventuali reclami. (4) Articolo 3, commi 10-15, D.lgs. 29 aprile 1998 n. 124, “Ridefinizione del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e del regime delle esenzioni a norma dell’art. 59, comma 50, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 ”. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 garantire l’effettiva co-responsabilizzazione del personale sanitario dipendente e convenzionato e contemplano la previsione di idonee misure da adottarsi nei confronti del direttore generale delle aziende sanitarie in caso di reiterato mancato rispetto dei termini individuati per l’erogazione delle prestazioni (sulla scorta dei risultati dell’attività di vigilanza e controllo). Per dare più concretezza alle indicazioni normative - e quasi a più completo rispetto dei diritti dei pazienti secondo la lettura sostanziale dell’art. 32 Cost. nonchè sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e ordinaria più accorta - il legislatore stabilisce che fino all’entrata in vigore delle discipline regionali, qualora l’attesa della prestazione richiesta si prolunghi oltre il termine fissato dal direttore generale, l’assistito può chiedere che la prestazione venga resa nell’ambito dell’attività libero-professionale intramuraria, ponendo a carico delle aziende sanitarie presso cui è richiesta la prestazione, in misura eguale, la differenza tra la somma versata a titolo di partecipazione al costo della prestazione e l’effettivo costo di quest’ultima, sulla scorta delle tariffe vigenti. E’ evidente l’effetto dirompente di una tale previsione: si obbliga la regione a provvedere, la si spinge verso una maggiore responsabilizzazione, pena un effetto negativo sul proprio bilancio; tuttavia la portata della norma è assai limitata essendo il suo effetto circoscritto ad un periodo transitorio: se il legislatore avesse esteso la sanzione anche alla mancata implementazione delle norme, probabilmente il problema in discussione avrebbe ben altro rilievo. E poco vale sottolineare che il direttore generale dell’azienda sanitaria vigila sul rispetto delle disposizioni adottate, anche al fine dell’esercizio dell’azione disciplinare e di responsabilità contabile nei confronti dei soggetti ai quali sia imputabile la mancata erogazione della prestazione nei confronti dell’assistito, se allo stesso tempo manca, o non è chiaro nel dettato positivo, la sanzione “immediata” per omessa o insufficiente vigilanza. Proprio (forse) a conforto di quanto sin qui rilevato a proposito dell’inadeguatezza di norme così concepite, a livello istituzionale si sente il bisogno di intervenire ulteriormente (5): si chiede dapprima alle regioni e alle aziende sanitarie, nell’ambito di linee di indirizzo che individuano le priorità assistenziali e gli obiettivi gestionali, di elaborare programmi per l’abbattimento dei tempi di attesa per i ricoveri ospedalieri e l’accesso alle prestazioni specialistiche ambulatoriali utilizzando al massimo le risorse assistenziali disponibili e migliorando il più possibile l’appropriatezza delle prescrizioni, grazie anche al coinvolgimento dei medici prescrittori e a una adeguata informazione ai cittadini. Si statuisce altresì (6) che anche al fine di concorrere alla riduzione (5) Con DPR 23 luglio 1998 “Approvazione del Piano sanitario nazionale 1998 – 2000”, dove è appositamente individuabile la sezione relativa alle liste si attesa. (6) D. lgs 19 giugno 1999 n. 229 - Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419, Articolo 15 quinquies, comma 3. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 231 progressiva delle liste d’attesa, l’attività libero professionale della dirigenza sanitaria non può comportare, per ciascun dipendente, un volume di prestazione superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali (7). Tutte le più recenti previsioni sembrano avere due fuochi: la responsabilità del direttore generale e gli incentivi economici: ad esempio nel dpcm 16 aprile 2002 (8) relativo a “Linee guida sui criteri di priorità per l’accesso alle prestazioni diagnostiche e terapeutiche e sui tempi massimi d’attesa” all’art. 7 sancisce che le Regioni e le Province autonome in casi di particolare urgenza, al fine di eliminare il problema delle liste d’attesa devono garantire: a) l’eventuale attribuzione alle equipe sanitarie, sulla base di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, di forme d’incentivazione finalizzate specificamente al rispetto dei tempi di attesa di cui all’accordo sancito dalla Conferenza Stato Regioni nella seduta del 14 febbraio 2002; b) l’eventuale espletamento di prestazioni liberoprofessionali nei confronti dell’azienda stessa da parte del proprio personale dipendente (dirigenti sanitari, infermieri, ostetriche e tecnici di radiologia medica) finalizzate al rispetto delle liste d’attesa. Le prestazioni libero-professionali devono essere espletate fuori dall’orario di servizio ed in misura aggiuntiva non superiore a quelle rese in regime istituzionale; c) l’eventuale stipula di contratti a termine con liberi professionisti in possesso dei requisiti professionali associati purché accreditati, anche se provvisoriamente. Nel quadro disciplinare delineato paiono dunque esserci tutte le condizioni giuridiche per poter procedere finalmente senza ostacoli di sorta al concreto ridimensionamento del fenomeno, grazie anche alla guida offerta dal Dpcm del 29 novembre 2001, il quale definisce i Livelli essenziali di assistenza (Lea) da garantire a tutti gli assistiti del Ssn. (7) Tali norme vengono concretizzate nel Dpcm 27 marzo 2000 “Atto di indirizzo e coordinamento concernente l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale”, che all’art. 10 (rubricato esplicitamente Riduzione delle liste d’attesa) stabilisce che 1. al fine di assicurare che l’attività libero-professionale comporti la riduzione delle liste d’attesa per l’attività istituzionale delle singole specialità, anche in attuazione delle disposizioni regionali di cui all’articolo 3, comma 12, del decreto legislativo 29 aprile 1998 n. 124, il direttore generale concorda con i singoli dirigenti e con le equipe, i volumi di attività istituzionale che devono essere comunque assicurati in relazione ai volumi di attività libero professionale con particolare riferimento alle prestazioni non differibili in ragione della gravità e complessità della patologia. 2. Per la progressiva riduzione delle liste d’attesa, il direttore generale, avvalendosi del collegio di direzione: programma e verifica le liste d’attesa con l’obiettivo di pervenire a soluzioni organizzative, tecnologiche e strutturali che ne consentano la riduzione; assume le necessarie iniziative per la razionalizzazione della domanda; assume interventi diretti ad aumentare i tempi di utilizzo di apparecchiature e ad incrementare la capacità di offerta dell’azienda. 3. L’attività professionale resa per conto dell’azienda nelle strutture aziendali, se svolta in regime libero-professionale, deve essere finalizzata alla riduzione dei tempi di attesa. A tali fini nell’autorizzare lo svolgimento dell’attività, l’azienda valuta l’apporto dato dal singolo dirigente all’attività istituzionale e le concrete possibilità di incidere sui tempi d’attesa. Al fine di ridurre le liste d’attesa, oltre che la partecipazione ai proventi, i contratti aziendali prevedono specifici incentivi di carattere economico per il personale di supporto. (8) D.P.C.M. pubblicato sulla G.U. n. 122 del 27 maggio 2002. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 2.1 L’attuazione delle norme: la situazione odierna Al contrario di quanto sembrerebbe logico, con la legge finanziaria del 2003 già si ritiene nuovamente opportuno intervenire: la situazione non sembra nei fatti assai migliorata e si tenta allora di pressare le Regioni nell’adempimento dei loro obblighi (9). Queste ultime, infatti, se vogliono accedere a ulteriori finanziamenti rispetto a quelli previsti, proprio nella prospettiva dell’eliminazione o del significativo contenimento delle liste d’attesa e allo scopo di ampliare notevolmente l’offerta dei servizi, devono attuare nel proprio territorio adeguate iniziative volte a favorire lo svolgimento, presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in maniera continuativa, con l’obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni della settimana, recuperando anche risorse temporaneamente utilizzate per finalità non prioritarie (10). Nel decreto di approvazione del Piano sanitario nazionale del triennio successivo, si nota poi uno specifico Progetto (il 2.1. Attuare, monitorare ed aggiornare l’accordo sui livelli essenziali ed appropriati di assistenza e ridurre le liste d’attesa) che, nell’ambito dell’accordo sui Lea, prevede di dare particolare importanza alla questione della corretta gestione degli accessi e delle attese per le prestazioni sanitarie, dal momento che per il cittadino il tempo di attesa rappresenta la prima risposta che riceve dal sistema (11). In conseguenza di richieste appropriate, si specifica altresì che il diritto all’accesso alle prestazioni diagnostiche e terapeutiche deve essere messo in relazione, per i tempi e per i modi, con una ragionevole valutazione della prestazione richiesta e della sua urgenza. In tal modo vanno individuati obiettivi strategici mirati, disponendo di un consolidato sistema di monitoraggio dei Lea e dell’utilizzo dei dati elaborati dal Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS), si fissano indicatori volti ad operare in maniera esaustiva a tutti e i livelli di verifica (ospedaliero, territoriale e dell’ambiente di lavoro); i valori monitorati dei tempi di attesa vanno pubblicizzati, garantendo il raggiungimento del livello previsto; la costruzione degli indicatori di appropriatezza deve avvenire su scala territoriale e saranno centrati sul paziente e non più sulle prestazioni; sarà indispensabile effettuare bench-marking su costi e qualità a livello regionale ed aziendale, promuovendo i migliori protocolli di appropriatezza sperimentati e validati per le prestazioni di assistenza. Seguono a queste altre norme di aggiustamento (12), ma negli ultimi anni (9) Legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), art. 52, comma 4, lettera c). (10) E ciò in concerto con quanto previsto dall’accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano del 14 febbraio 2002, sulle modalità di accesso alle prestazioni diagnostiche e terapeutiche e indirizzi applicativi sulle liste d’attesa. (11) D.P.R. 23 maggio 2003 “Approvazione del Piano sanitario nazionale 2003-2005”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 233 il persistere del fenomeno delle liste di attesa viene affrontato in parallelo al problema della spesa eccessiva nel Ssn. Con la c.d. legge finanziaria 2006 (13), si stabilisce che l’erogazione degli importi per il ripiano dei rispettivi disavanzi è subordinata anche alla realizzazione da parte delle Regioni degli interventi previsti dal Piano Nazionale di Contenimento dei Tempi di Attesa (PNCTA) con l’indicazione di una serie di obiettivi stringenti, che riprendono in qualche modo quanto in passato le norme avevano già previsto. Inoltre, sempre in tale legge, è disposto che alle aziende sanitarie sia vietato – tranne che per certificati motivi tecnici - sospendere le attività di prenotazione delle prestazioni a garanzia della tutela della salute dei cittadini. Al fine di evitare il persistere di comportamenti elusivi da parte di taluni attori del sistema, si contempla altresì l’istituzione della Commissione nazionale sull’appropriatezza delle prescrizioni, cui sono affidati compiti di promozione di iniziative formative e di informazione per il personale medico e per gli utenti del Servizio sanitario; di monitoraggio, studio e predisposizione di linee-guida per la fissazione di criteri di priorità e di appropriatezza delle prestazioni nonché di idonee forme di controllo dell’appropriatezza delle prescrizioni delle medesime prestazioni (con promozione di analoghi organismi a livello regionale e aziendale). Sempre la legge in parola statuisce che presso il Ministero della Salute, al fine di verificare che i finanziamenti siano effettivamente tradotti in servizi per i cittadini, secondo criteri di efficienza ed appropriatezza, è realizzato un Sistema Nazionale di Verifica e Controllo sull’Assistenza Sanitaria (SiVeAS), che si avvale delle funzioni svolte dal Nucleo di supporto per l’analisi delle disfunzioni e la revisione organizzativa (SAR) (14). Negli stessi mesi la Conferenza Stato-Regioni si impegna a mettere a punto le coordinate per l’attuazione concreta del PNCTA (15) ed infine con l. n. 120/2007 (legge che (12) Sulla stessa linea nel D.M. 18 maggio 2004 (rubricato “Applicazione delle disposizioni concernenti la definizione dei modelli di ricettari medici standardizzati e di ricetta medica a lettura ottica” Allegato 1 - Disciplinare tecnico della ricetta SSN e SASN) vengono definite le priorità di ogni prescrizione. (13) Legge 23 dicembre 2005 n. 266 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”. Articolo 1, commi 279-284, 288, 289, 309. (14) Per le finalità del SiVeAS e del SAR, il Ministero della Salute può avvalersi, anche tramite specifiche convenzioni, della collaborazione di istituti di ricerca, società scientifiche e strutture pubbliche o private, anche non nazionali, operanti nel campo della valutazione degli interventi sanitari, nonché di esperti nel numero massimo di 20 unità. Per consentire all’ASSR di far fronte, tempestivamente e compiutamente, ai compiti previsti da tale legge in materia di liste d’attesa e in particolare per l’attività di supporto al Ministero della Salute nel monitoraggio dei tempi di attesa, il Ministro della salute può disporre presso l’Agenzia medesima, su richiesta della stessa, il distacco fino a 10 unità di personale di ruolo del Ministero della Salute, senza ulteriori oneri a carico del bilancio dello Stato. (15) E’ del 28 marzo 2006 la stipula dell’“Intesa sul Piano Nazionale di contenimento dei tempi di attesa del triennio 2006/08, con sua adozione”. Il Piano ha l’obiettivo di realizzare sinergie di intervento tra i vari soggetti istituzionali deputati a contrastare il fenomeno e condividere un percorso che tenga conto della applicazione di criteri rigorosi sia di appropriatezza che di urgenza delle prestazioni e che garantisca la trasparenza del sistema a tutti i livelli. 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 racchiude la regolamentazione dell’attività libero professionale dei medici in regime di intramoenia) si prevede di effettuare periodici controlli sulle liste d’attesa allo scopo di assicurare il rispetto dei tempi medi che devono essere stabiliti con provvedimenti regionali e l’erogazione di prestazioni urgenti non oltre 72 ore dalla richiesta. Ecco dunque una breve ricognizione dell’impianto normativo di riferimento per le liste di attesa: come si può notare le disposizioni sono tante, ripetitive in molti casi. Ma quante di queste vengono effettivamente impiegate? Non c'è bisogno di grandi sforzi intuitivi per immaginare che se anche una sola parte di queste fosse concretamente implementata, il governo delle liste di attesa presenterebbe ben altro aspetto. Non meraviglia certo se, dopo quindici anni di norme, nel 2006 si sia parlato di Piano nazionale sulle liste di attesa con l’intenzione di condividere fra tutte le Regioni un percorso sulla gestione delle liste di attesa finalizzato a garantire un appropriato accesso dei cittadini ai servizi sanitari e in modo da realizzare sinergie di intervento tra tutti i livelli istituzionali deputati a contrastare il fenomeno. Tale Piano affronta il problema delle liste di attesa secondo due dimensioni: la prima si riferisce all’obbligo previsto per le Regioni di dotarsi di uno strumento programmatico unico e integrato nel quale fare confluire e rendere coerenti tutti gli atti e i provvedimenti già adottati sul tema delle liste di attesa. La seconda si riferisce al livello locale e riguarda l’erogazione di 100 prestazioni prioritarie terapeutiche e riabilitative di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera per le quali le Regioni dovranno fissare entro 90 giorni i tempi massimi di attesa presso specifiche strutture pubbliche o accreditate (16). Il Piano - articolato in Piani regionali attuativi che garantiscono tempi massimi per le prestazioni e promuovono l’informazione e la comunicazione sulle liste (16) Alle regioni, cioè, si chiede specificamente: a) l’elenco di prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera, per le quali sono fissati nel termine di novanta giorni dalla stipula dell’intesa, nel rispetto della normativa regionale in materia, i tempi massimi di attesa da parte delle singole regioni; b) la previsione che, in caso di mancata fissazione da parte delle regioni dei tempi di attesa di cui alla lettera a), nelle regioni interessate si applichino direttamente i parametri temporali predeterminati; c) fermo restando il principio di libera scelta da parte del cittadino, il recepimento dei tempi massimi di attesa da parte delle unità sanitarie locali, in attuazione della normativa regionale in materia, nonchè in coerenza con i parametri temporali determinati in sede di fissazione degli standard, per le prestazioni di cui all’elenco previsto dalla lettera a), con l’indicazione delle strutture pubbliche e private accreditate presso le quali tali tempi sono assicurati; d) la determinazione della quota minima delle risorse per il perseguimento dell’obiettivo del Piano Nazionale di Contenimento dei Tempi di Attesa, ivi compresa la realizzazione da parte delle regioni del Centro Unico di Prenotazione (CUP), che opera in collegamento con gli ambulatori dei medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e le altre strutture del territorio (utilizzando in via prioritaria i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta); e) l’attivazione nel Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS) di uno specifico flusso informativo per il monitoraggio delle liste d’attesa, che costituisca obbligo informativo; f) la previsione che a certificare la realizzazione degli interventi in attuazione del PNCTA provveda il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 235 d’attesa - diventa così per le Regioni una sorta di vademecum sul tema del contenimento delle liste d’attesa: esse dovranno attivarsi utilizzando al massimo le opportunità legate all’adeguata organizzazione della libera professione, riordinando il sistema delle prenotazioni in modo ottimale in funzione dei bisogni del territorio. Al fine di evitare inappropriati ricorsi a prestazioni ambulatoriali e di ricovero, inoltre, elaborano piani di intervento per il miglioramento della qualità prescrittiva, mediante l’adozione di linee guida e percorsi diagnostico-terapeutici condivisi con i soggetti prescrittori per quelle prestazioni a maggiore criticità e con liste d’attesa più lunghe, anche in coerenza con quanto previsto dalla Commissione Nazionale sull’appropriatezza (17). In caso di mancata adozione del Piano regionale attuativo, le Aziende sanitarie applicano direttamente i tempi fissati a livello nazionale ed entro 90 giorni dall’adozione del Piano attuativo regionale, le aziende adottano un programma attuativo aziendale. Fermo restando il principio di libera scelta da parte del cittadino, il programma attuativo aziendale provvede a recepire i tempi massimi di attesa per le prestazioni previste nel Piano nazionale; in esso, sentite le organizzazioni sindacali del comparto e della dirigenza medica e i rappresentanti delle associazioni dei pazienti e dei consumatori, sono definite le misure previste in caso di superamento dei tempi stabiliti, senza oneri a carico degli assistiti, se non quelli dovuti come partecipazione alla spesa in base alla normativa vigente. 3. Le liste di attesa fra mancata responsabilizzazione e sanzioni non applicate Come visto, nel corso degli anni non sono mancati i tentativi di porre argine al fenomeno in analisi, che, soprattutto in alcune zone del territorio e per alcune tipologie di prestazioni, si presenta in termini davvero preoccupanti. Nel panorama dei servizi sanitari la persistenza di lunghe liste di attesa non è (17) Nonché con quanto previsto, per tale materia, dagli accordi collettivi nazionali dei medici convenzionati. Il Piano nazionale prevede un elenco (da rivedere annualmente) di prestazioni ambulatoriali ed ospedaliere individuate a partire dall’esperienza di monitoraggio dei tempi di attesa svolte in attuazione dell’accordi Stato-Regioni del 2002 e stilato rispetto alla criticità nei tempi di erogazione e/o al loro particolare impatto sulla salute dei cittadini e sulla qualità dei servizi. L’elenco comprende prestazioni individuate: in specifiche aree critiche di bisogno assistenziale; prime visite specialistiche in branche caratterizzate da una forte domanda assistenziale; in settori ad alta complessità tecnologica, per le quali, al contrario, si rileva un frequente ricorso inappropriato, a fronte di un costo elevato delle stesse; in ambiti che presentano forti differenze di accessibilità nelle diverse realtà regionali. Le aree prese in considerazione sono quelle oncologica, cardiovascolare, materno infantile, geriatrica nonché le visite specialistiche di maggior impatto. Per le prestazioni comprese in queste aree, il tempo massimo di attesa individuato dalla Regione dovrà essere garantito per il 90% dei pazienti, a prescindere dall’individuazione delle priorità di accesso alle medesime, che comunque andranno a garantire classi di priorità con un arco temporale minore rispetto a quello evidenziato, per alcune prestazioni ambulatoriali e di ricovero. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 l’eccezione in diverse regioni: quello che ci si sente di affermare in questa sede è che il problema maggiore risiede, probabilmente, nella mancata attuazione o nell’elusione di molte norme. Non ci si deve meravigliare dunque di fronte a notizie come quella secondo cui con una assai recente delibera, approvata dalla giunta regionale toscana, l'assessore per il diritto alla salute impegna ancora i servizi sanitari sul fronte delle liste di attesa e mette sul piatto un investimento di 2,5 milioni di euro per nuove tecnologie e risorse professionali. Il provvedimento stabilisce che a decorrere dal 30 ottobre prossimo il tempo massimo di attesa per le visite di chirurgia generale e di urologia non potrà superare i 15 giorni. Nel caso in cui l'Azienda sanitaria non riuscisse a fornire la prestazione entro questa scadenza, almeno in uno dei suoi presidi (sia pubblico, sia privato accreditato), dovrà corrispondere al cittadino un indennizzo di 25 euro. In queste pagine, l’esempio è riportato per mettere in evidenza come ormai gli amministratori più avveduti colleghino l’attuazione della suddetta normativa all’integrazione di forme di responsabilità e di risarcimento che dovrebbero indurre le strutture sanitarie ad una più solerte attività, pena la perdita di efficienza e competitività, oltre all’aumento dei costi di gestione. A due anni dalla sottoscrizione dell’accordo per lo sviluppo del PNCTA, il potenziamento dei CUP regionali ha sicuramente facilitato l’accesso dei cittadini alle prestazioni ed è dunque migliorata la gestione dei tempi di erogazione dei servizi; tuttavia le politiche di contenimento dei costi sanitari hanno, di fatto, attenuato gli effetti benefici dei CUP a causa della inadeguatezza delle risorse umane e strutturali (18). Questa carenza di risorse alimenta l’insoddisfazione degli utenti e genera una empasse organizzativa che alla lunga potrebbe trasformarsi in volano per ricorsi onerosi contro le amministrazioni sanitarie, come dimostra anche la sentenza n. 2444/01 della Cassazione che ha riconosciuto ad un cittadino il diritto al rimborso delle spese mediche sostenute, in quanto, a causa tempi di attesa troppo lunghi, era stato costretto al ricovero presso una clinica privata per salvaguardare il proprio diritto alla salute (19). E’ risaputo che le problematiche maggiori che determinano l’allungamento dei tempi nella somministrazione degli interventi sanitari si focalizzano sostanzialmente attorno a due fattori: il numero elevato delle prestazioni da erogare e le scarse potenzialità in risorse umane e strumentali delle strutture sanitarie (nei due fattori specifico peso hanno rispettivamente (18) Infatti, in alcune branche specialistiche sono ancora evidenti i ritardi nell’erogazione di prestazioni importanti. Cfr. http://fnp.cisl.it/conquiste08.nsf/b826bc64b76665cdc1256bb80033ed00/c3b15 40776e93f15c125744f0056ad7c/$FILE/Indagine%20sulle%20liste%20d'attesa%20nella%20sanit%C% A0.pdf (19) http://www.ricercagiuridica.com/sentenze/index.php?num=86&search=rimborso%20spese% 20mediche LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 237 la limitata collaboratività fra attori coinvolti nella prescrizione delle prestazioni e l’insufficiente utilizzo delle tecnologie dell’ICT) (20). Questi ingredienti sono fondamentali per il perseguimento degli obiettivi di salute e per il rispetto dei tempi delle prestazioni richieste, ma ciò che si vuole sostenere in questa sede è che esiste anche un aspetto più giuridico – se così si può dire – della questione liste di attesa e della soddisfazione per il servizio reso. Si tratta del fattore “responsabilizzazione e sanzione”: in particolare, si vuole sottolineare come il mancato rispetto degli obiettivi sulle liste di attesa non sembra aver peso specifico nella valutazione dirigenziale sebbene la riforma delle norme sulla dirigenza ben postulerebbe il contrario (21), laddove non raggiungendo il risultato organizzativo atteso e richiesto può integrarsi la fattispecie del danno erariale: e ciò soprattutto grazie all’evoluzione della giurisprudenza contabile che si è dimostrata particolarmente sensibile al mutamento del quadro dei rapporti tra PA e cittadino, adeguandosi a nuove esigenze di tutela: “a fronte della tradizionale concezione che faceva leva sul pregiudizio economico subito dalla pubblica amministrazione e, quindi, sull’esclusiva lesione del patrimonio dello Stato o dell’ente pubblico […] la giurisdizione contabile è stata così estesa fino a coprire ipotesi di danno ambientale, di danno alla finanza pubblica, di danno […] al buon andamento dell’amministrazione tanto che essa sembra ormai coprire il danno alla col- (20) Il numero di esami che possono essere evasi al giorno da ciascun ospedale o ambulatorio dipende da un preciso insieme di fattori: la disponibilità di medici, tecnici e, soprattutto, di apparecchiature e ciò in relazione al fatto che ogni esame richiede un determinato tempo per la preparazione del paziente, per l’esecuzione, per la raccolta e l’analisi del materiale da parte del medico, per la refertazione, per la firma e l’archiviazione. In questo calcolo della tempistica necessaria per ogni singolo esame, non va dimenticato che bisogna riservare quotidianamente uno spazio per gli esami urgenti. Così, ad esempio, gli ospedali principali hanno spesso moltissime richieste, ma sono anche quelli che dispongono delle risorse economiche necessarie per acquistare più macchinari e quindi erogare un maggior numero di prestazioni. Eppure le file restano un problema, perché la domanda è sempre troppo alta rispetto alle possibilità della struttura. Allo stesso modo gli ospedali più piccoli, o con una specializzazione minore, hanno tempi d’attesa lunghi perché il numero di richieste che ricevono è comunque spesso troppo elevato per le loro potenzialità. In generale diventa di primaria importanza il ruolo svolto dai Medici di medicina generale (o medici di famiglia) i quali dovrebbero proporsi, rispettando il principio dell’appropriatezza delle cure, come filtro per le strutture sanitarie di erogazione delle prestazioni. Troppo spesso, infatti, si assiste ad un uso improprio degli esami diagnostici da parte dei cittadini. E’ dunque di primaria importanza la partecipazione dei rappresentanti della categoria dei professionisti (verso i quali sussiste la responsabilità contabile, secondo un orientamento estensivo della Corte dei conti. Cfr. nota n. 12 in L. TRUCCHIA, Le funzioni di direzione e gestione della dirigenza medica. Nuove tendenze in tema di responsabilità, in Diritto pubblico, 2, 2003, pag. 659) ai tavoli di lavoro per la razionalizzazione delle prestazioni, onde evitare la perpetuazione di un eccesso dal lato della domanda. (21) E’ appena il caso di ricordare che il citato d.p.c.m. 16 aprile 2002 all’art. 5 dispone “solo” che: l'inosservanza dei tempi massimi d’attesa costituisce un elemento negativo da valutare ai fini dell'attribuzione della quota variabile del trattamento economico del direttore generale connesso ai risultati di gestione ottenuti e agli obiettivi di salute conseguiti. Il Direttore Generale valuta la responsabilità dell'inosservanza dei tempi d’ attesa e dei criteri di appropriatezza ed urgenza all'interno dell'azienda sanitaria anche al fine dell'attribuzione della retribuzione di risultato del Direttore Sanitario e dei dirigenti di struttura complessa o semplice interessati. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 lettività” (22). In sostanza, in tema di responsabilità le problematiche più complesse sono orami da “collegare alle funzioni ed ai poteri tipicamente manageriali che il medico dirigente è chiamato a svolgere […]. Volendo riservare particolare attenzione alla responsabilità conseguente alle scelte organizzative e di gestione, acquistano rilevanza i rapporti tra responsabilità dirigenziale e responsabilità c.d. amministrativa verso la struttura, derivante dall’aver cagionato alla struttura stessa un pregiudizio patrimoniale. Entrambe sono poste, infatti, a tutela dell’efficienza dell’efficacia e dell’economicità dell’azione amministrativa” (23) sebbene siano differenti i presupposti ed i meccanismi di funzionamento e diverse siano le conseguenze. Invero oggi, da un lato, sono ben più estese le ipotesi di danno erariale configurabili in capo al dirigente: non a caso “la giurisprudenza e la dottrina tendono sempre più a individuare il danno erariale anche nel danno per impiego non funzionale ed efficiente nelle risorse pubbliche, nella mancanza totale o parziale di utilità nella destinazione di risorse pubbliche, nel mancato conseguimento del risultato prefissato all’azione dei pubblici poteri”(24); dall’altro, riferendosi alla responsabilità dirigenziale tout court, va ribadito che l’azione amministrativa deve essere giudicata e valutata per i risultati che ottiene e la responsabilità per tali risultati deve potersi individuare specificamente in capo a soggetti determinati che assumono poteri, obblighi e doveri proprio in misura corrispondente a quei ri- (22) Così L. TRUCCHIA, cit, pag. 655 e ss. (23) Così L. TRUCCHIA, cit, ibidem. (24) L. TRUCCHIA, cit., pag. 661. Qui l’a. fa riferimento al caso specifico di “danno conseguente alla cattiva gestione di fondi sanitari. A fronte dell’utilizzo inefficiente o inefficace delle risorse, si dovrebbe procedere alla valutazione del pregiudizio facendo riferimento alla minore quantità o inferiore qualità delle prestazioni rese, oppure al maggior costo sostenuto per l’erogazione delle stesse e, cioè, alla lesione dell’interesse concreto alla maggior quantità e alla miglior qualità possibile delle prestazioni in relazione alla risorse disponibili. Più in generale la Corte dei Conti ha avuto modo di precisare in numerose sentenze che il danno all’erario può essere rinvenuto anche nei casi di ‘disservizio’, quando la condotta dolosa o gravemente colposa di un singolo soggetto abbia prodotto effetti negativi nella gestione di un servizio pubblico ‘desostanziandolo’. Nel caso di organizzazioni pubbliche con investimenti e costi di gestione giustificati dalle attese di utilità e di previsti benefici, il disservizio consisterebbe, in particolare, ‘nel mancato raggiungimento delle utilità che erano state previste nella misura e qualità ordinariamente ritraibile dalla quantità delle risorse investite’ e perciò, ‘in maggiori costi dovuti a spreco di risorse economiche o nella mancata utilità ritraibile dalle somme spese. In effetti anche nella ipotesi in cui l’amministrazione o l’azienda pubblica non sopporti alcuna spesa ulteriore per assicurare l’erogazione del servizio pubblico, è indubbio che, a fronte di un disservizio che abbatte il livello della qualità delle prestazioni erogate, il minore risultato conseguito a livello di efficienza fa crescere il costo unitario della prestazione, con un riflesso immediato nel rapporto tra costi sostenuti e risultati effettivamente conseguiti anche qualora il costo complessivo sia rimasto immutato”. Comunque “tanto nel caso di accertamento di risultati negativi che nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati la responsabilità del dirigente sembra avere come presupposto la violazione di obblighi, definiti in particolare da direttive ed indirizzi dell’organo di governo, ma anche da atti normativi o da atti di portata generale come le carte di servizi, che confluiscono inevitabilmente a determinare l’ampiezza della prestazione di lavoro del dirigente qualora a quest’ultimo siano stati affidati compiti organizzativi e di gestione” (pag. 694). LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 239 sultati attesi. Per esaminare la responsabilità dei dirigenti, dunque, non si può prescindere dal valutare le prestazioni dell’amministrazione sanitaria di riferimento e le scelte effettuate sotto il profilo della corrispondenza tra direttive impartite, obiettivi assegnati e risultati ottenuti. Inevitabilmente, del resto, vi sono riflessi nella valutazione dei risultati con l’introduzione di criteri di economicità ed efficienza nella gestione del servizio sanitario e con l’obbligo giuridico di modulare la propria attività non solo in funzione della qualità e dell’appropriatezza delle cure (25). A questo punto è doveroso chiedersi in che misura – in termini qualitativi e quantitativi – sia avvenuta l’implementazione di tali norme nel valutare l’attività dei dirigenti dei servizi sanitari. Considerando gli esiti, è lecito dubitare della loro sostanziale applicazione. 4. Una complicazione/soluzione del problema? La direttiva europea sulle liste di attesa Ora, in questa disamina giuridica, non si può ignorare il ruolo che altre norme non nazionali hanno e potrebbero avere nell’ambito della questione “liste di attesa”: in particolare l’attenzione va posta sulla proposta di direttiva sulle cure transfrontaliere attualmente in discussione in sede comunitaria. E’ noto come generalmente le persone preferiscano ricevere cure mediche e/o prestazioni sanitarie vicino al luogo di residenza; ciò nonostante già da tempo la Corte di Giustizia ha affrontato il tema delle cure sanitarie all’estero e dell’impatto del diritto della circolazione sulla tutela del diritto alla salute (26). Del resto non mancano certo le circostanze in cui è possibile per i pazienti trarre benefici nel ricevere cure sanitarie altrove rispetto al luogo dove abitualmente vivono: non solo nell’eventualità che il più vicino centro di cure sia (25) L’art. 15 ter, co.3, d.lgs. n. 502/1992 prevede che gli incarichi, sia di direzione di struttura che di natura professionale, “sono revocati secondo le procedure previste dalle disposizioni vigenti e dai contratti collettivi nazionali di lavoro in caso di: inosservanza delle direttive impartite dalla direzione generale o dalla direzione del dipartimento; mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati; responsabilità grave e reiterata; in tutti gli altri casi previsti dai contratti di lavoro”. Ed infatti “il conseguimento degli obiettivi assistenziali, di diagnosi e cura e di tutela della salute pubblica è considerato […] perno produttivo dell’azienda sanitaria e fine istituzionale di essa, perseguito ad ogni livello e, per questo, costituisce parametro di valutazione per tutti i dirigenti […]. Con riferimento, invece, all’accertamento dei risultati negativi della gestione, si è sottolineato come le attività organizzativo-gestionali, funzionali all’assistenza, debbano essere orientate a correggere le inefficienze dell’attuale sistema: se producono sprechi di risorse, se consentono il mancato rispetto di tempi e di standard qualitativi e quantitativi, se tollerano inerzie ed omissioni e se, nel complesso, tutto ciò ha evidenti riflessi negativi sull’intera struttura, il dirigente sarà chiamato a risponderne”. Così L. TRUCCHIA, cit., pag. 693-694. (26) Nelle cause riunite 286/83 e 26/83, Graziana Luisi e Giuseppe Carbone c. Ministero del Tesoro [1984] Racc. I-377, la Corte ha affermato un principio generale di estrema importanza secondo il quale «la libera prestazione dei servizi comprende la libertà, da parte dei destinatari dei servizi, di recarsi in un altro stato membro per fruire ivi di un servizio, senza essere impediti da restrizioni […] e che i turisti, i fruitori di cure mediche e coloro che effettuano viaggi di studio o d’affari devono essere considerati destinatari di servizi» (paragrafo 16). 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 oltre il confine, ma soprattutto quando ci si voglia curare in un centro d’eccellenza o quando i trattamenti sanitari risultino essere erogati più velocemente. E’ quasi superfluo sottolineare come l’apertura delle frontiere ai pazienti, benché concepita secondo logiche di mercato, costituisca un potenziamento della tutela alla salute, rafforzando il diritto di scelta. E’ tuttavia evidente che la circolazione dei pazienti disgiunta da adeguate risorse economiche assume una “pronunciata connotazione elitaria” (ad es. in mancanza del rimborso delle spese mediche sostenute) (27): non a caso la Corte di giustizia ha cercato di individuare le basi giuridiche di riferimento relative al sostegno economico per le cure all’estero, alla tipologia di cure che possono essere rimborsate, alle condizioni di rimborso. Nelle sue pronunce sono stati enunciati principi che hanno finito per mettere in discussione alcuni dei presupposti fondanti dei sistemi di protezione sociale statali e si trovano aperture sostanziali per l’ampliamento dei diritti dei pazienti europei. In particolare grazie alle sentenze della Corte si è passati a sostenere la possibilità di ricevere il rimborso condizionata all’ottenimento di un’autorizzazione da parte delle autorità sanitarie dello stato di origine del paziente (28), alla precisazione secondo la quale il requisito dell’autorizzazione non deve costituire un ostacolo alla libera prestazione dei servizi (29). In pratica si comincia a concretizzare la possibilità per i pazienti di fruire di (27) Cfr. MARCO DANI, Il diritto costituzionale nell’epoca della circolazione dei fattori di produzione, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0030_dani. pdf (28) Per un lungo periodo, infatti, il diritto al rimborso delle spese mediche sostenute in altri stati membri è stato disciplinato dall’art. 22 del regolamento n. 1408 del 1971 (sostituito da art. 20 del Regolamento (CE) n. 883/2004, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in GU L 166 del 30 aprile 2004, p. 1). Tale autorizzazione era dovuta se sussistevano due requisiti, ossia se le cure mediche fruite all’estero erano previste dalla legislazione dello stato d’origine e se il trattamento richiesto non era disponibile entro il lasso di tempo normalmente necessario per il suo ottenimento nello stesso stato d’origine. Soddisfatte queste condizioni, il paziente aveva diritto al rimborso integrale delle spese da parte del proprio stato. Si veda Causa 117/77, Bestuur Van Het Algemeen Ziekenfonds Drenthe-Platteland c. G. Pierik [1978] Racc. I-825. (29) Come si legge in M. DANI, cit., alla fine degli anni ’90, si verificano quasi contemporaneamente due vicende che porteranno la Corte di giustizia ad ampliare la possibilità di ottenere il rimborso delle spese mediche. In un primo caso, un genitore lussemburghese, nonostante il diniego dell’autorizzazione da parte dell’ufficio medico della previdenza sociale, decide ugualmente di far curare la figlia da un ortodontista stabilito in Germania e, vistosi rifiutare il rimborso, ricorre di fronte al giudice nazionale. Nel secondo caso, sempre un cittadino del Lussemburgo agisce in giudizio per ottenere il rimborso delle spese sostenute in Belgio per l’acquisto non autorizzato di un paio di occhiali. Si tratta di casi solo apparentemente marginali: la Corte di giustizia, infatti, pone le premesse per decisioni future assai importanti. In Kohll (Causa 158/96, Raymond Kohll c. Union des caisses de maladie [1998] Racc. I-1931) e Decker (Causa 120/95, Nicolas Decker c. Caisse de maladie des employés privés [1998] Racc. I-1831) si inizia in altre parole a valutare quale sia l’impatto del diritto della circolazione sulla materia previdenziale. La Corte sottolinea nella propria decisione che il diritto comunitario non lede la competenza degli stati membri ad organizzare i loro LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 241 cure somministrate in altri stati membri anche al di fuori dei margini previsti dalla legislazione comunitaria, fatta eccezione per le cure ospedaliere (30); per queste ultime, tuttavia, in ossequio al principio di proporzionalità, la Corte ha ridefinito la cornice entro cui l’autorizzazione può essere rilasciata sistemi previdenziali. Ma, nell’esercizio delle proprie competenze gli stati devono rispettare gli obblighi comunitari e, segnatamente, il principio della libera prestazione dei servizi (artt. 49-50 TCE). Precisa, poi, che se l’art. 22 del regolamento 1408/71 stabilisce una procedura per il rimborso delle spese mediche, gli artt. 28, 49 e 50 TCE a loro volta possono dare luogo a rimborso di spese che non siano state preventivamente autorizzate. Benché compatibili con l’art. 22, infatti, le autorizzazioni richieste dalla legislazione statale determinano ostacoli alla circolazione dei servizi e delle merci in quanto, subordinando il rimborso dei servizi o dei beni acquistati all’estero ad un procedimento amministrativo non previsto qualora lo stesso acquisto si verifichi nello stato d’origine, esse hanno l’effetto di scoraggiare gli interessati dal rivolgersi a medici o rivenditori di prodotti sanitari stabiliti in altri stati membri! Occorre dunque verificare se simili ostacoli possono essere giustificati. Gli argomenti fatti valere dai governi nazionali a sostegno del procedimento autorizzatorio riguardano da un lato la necessità di garantire un controllo sulla qualità delle prestazioni mediche fruite all’estero, dall’altro l’esigenza di mantenere il controllo sulle spese sanitarie: il primo argomento viene agevolmente superato osservando che le qualifiche di medici e operatori sanitari stabiliti nei vari stati membri sono state uniformate da apposite direttive comunitarie che, di conseguenza, garantiscono la qualità dei servizi offerti nel mercato comune. Per il secondo argomento, invece, la Corte riconosce che in astratto il rischio di una grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema previdenziale può giustificare l’esistenza di un ostacolo alla circolazione, ma afferma altresì che tale rischio non si verifica nei casi in questione. Si evidenzia infatti che i rimborsi richiesti dai ricorrenti, essendo commisurati alle tariffe dello stato d’origine, non vanno ad incidere significativamente sull’equilibrio finanziario del sistema previdenziale. (30) La questione viene affrontata in Smits e Peerbooms (Causa 157/99, B.S.M. Smits, coniugata Geraets c. Stichting Ziekenfonds VGZ e H.T.M. Peerbooms c. Stichting CZ Groep Zorgverzkeringen [2001] Racc. I-5473). In un primo caso, la signora Smits aveva fruito in Germania di un trattamento specialistico per il morbo di Parkinson. Il signor Peerbooms, invece, era stato ricoverato in Austria per essere sottoposto a terapia intensiva mediante neurostimolazione, cura non disponibile nello stato d’origine. In entrambi i casi i pazienti si erano rivolti senza successo alla propria cassa malattia per ottenere il rimborso. Per la legge olandese, le cure mediche all’estero vanno autorizzate e per poterlo essere devono risultare necessarie e rientrare tra le cure usuali (e, quindi, non sperimentali) secondo la concezione prevalente nell’ambito medico nazionale. La Corte di giustizia, dopo aver precisato che tutte le attività mediche, comprese quelle ospedaliere, rientrano nella nozione comunitaria di servizi (laddove si sia proceduto a remunerazione degli istituti di cura), e aver ribadito che il requisito dell’autorizzazione determina un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, si chiede se esistono ragioni che inducono a mantenere il procedimento di autorizzazione. La Corte ne individua in astratto tre: gli ostacoli alla libera prestazione di servizi nell’ambito delle cure ospedaliere si possono giustificare quando vi sia un rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema previdenziale, quando siano funzionali al mantenimento di un servizio medico ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti, quando sia in gioco la conservazione del sistema sanitario nazionale o di una competenza medica nel territorio nazionale. A differenza di quanto visto in Kohll, nel caso di cure ospedaliere il requisito dell’autorizzazione viene ritenuto un valido strumento per conseguire quegli obiettivi. La Corte riconosce la natura specifica delle prestazioni mediche dispensate dagli istituti ospedalieri. In particolare, viene sottolineata la necessità per gli stati di sottoporre tali prestazioni a programmazione al fine da un lato di assicurare «la possibilità di un accesso sufficiente e permanente ad una gamma equilibrata di cure ospedaliere di qualità», dall’altro «di garantire un controllo dei costi ed evitare, per quanto possibile, ogni spreco di risorse finanziarie, tecniche ed umane». Su queste basi, il requisito della previa autorizzazione all’assunzione degli oneri finanziari per cure ospedaliere prestate in altro stato membro viene ritenuto necessario e ragionevole. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (31): precisamente, l’autorizzazione alle cure ospedaliere non può dipendere dalla discrezionalità delle singole amministrazioni nazionali ma deve riferirsi a requisiti di obiettività (internazionali) affermati in relazione alla tipologia delle cure rimborsabili (32). La Corte introduce anche un tema che nel futuro darà luogo ad importanti evoluzioni: la tempestività del trattamento e dunque la rilevanza del fattore tempo nella valutazione della necessità della cura per la quale si richiede l’autorizzazione (33). In altre parole l’autorizzazione è dovuta quando il trattamento richiesto, pur previsto nelle strutture ospedaliere nazionali convenzionate, non sia disponibile nei tempi richiesti dalla condizione clinica e dagli antecedenti del paziente. Ecco, dunque, che l’interpretazione delle norme sulla circolazione dei servizi (cure mediche) e delle persone (pazienti) si avvia ad incidere sulle liste di attesa e spinge in qualche modo i servizi sanitari all’efficienza: ciò perché, se è vero che lo stato d’origine non può avvantaggiarsi economicamente della mancata cura di un (31) Va ricordato che nel caso Smits e Peerbooms (paragrafi 86-87) la legislazione olandese faceva riferimento alle cure usuali secondo la prevalente concezione medica nazionale. Qui la Corte non interviene di fronte alle scelte compiute in autonomia dagli stati membri, sostenendo che gli stati membri possono definire elenchi di trattamenti medici ed ospedalieri coperti dal sistema di protezione sociale senza interferenza da parte del diritto comunitario (paragrafo 90). La Corte, tuttavia, afferma altresì che «un regime di previa autorizzazione amministrativa non può legittimare un comportamento discrezionale da parte delle autorità nazionali, tale da privare le disposizioni comunitarie, in particolare quelle relative ad una libertà fondamentale […] di un’applicazione utile […]. Pertanto, un regime di previa autorizzazione amministrativa, perché sia giustificato anche quando deroga ad una libertà fondamentale, deve essere fondato in ogni caso su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo alle imprese interessate, in modo da circoscrivere l’esercizio del potere discrezionale delle autorità nazionali affinché esso non sia usato in modo arbitrario». (32) La Corte ha stabilito cioè che la legislazione olandese non rispetta questi requisiti di obiettività, laddove registra che la presa in considerazione dei soli trattamenti normalmente praticati nel territorio nazionale al fine della verifica della loro natura usuale rischia di privilegiare nei fatti i prestatori di cure olandesi (Smits e Peerbooms, paragrafi 96-97). (33) E’ chiaro che tale soluzione suggerita dalla Corte amplia l’offerta di cure per i pazienti, ma è altrettanto evidente che essa finisce per interferire in maniera rilevante con l’equilibrio finanziario dei sistemi sanitari nazionali e, in particolare, di quelli dotati di minori risorse. Si noti che contestualmente a Smits e Peerbooms, la Corte di giustizia decide anche il caso Vanbraekel (Causa 368/98, Abdon Vanbraekel e altri c. Alliance nationale des mutualités chrétiennes (ANMC) [2001] Racc. I-5363. ). Qui il tema principale è la quantificazione dell’importo del rimborso per cure mediche ricevute all’estero in assenza di autorizzazione. Qui la Corte non si limita ad affermare che l’interessato a cui sia stata illegittimamente negata l’autorizzazione a rivolgersi a strutture sanitarie di altri stati membri ha diritto di ottenere in base al regolamento 1408/71 la copertura totale delle spese di ricovero ospedaliero. Poiché nel caso in questione il costo delle cure sostenute all’estero era inferiore all’importo previsto dalla tariffa dello stato d’origine, la Corte afferma che, in base all’art. 49 TCE, il paziente ha diritto anche ad un rimborso complementare pari alla differenza tra i due importi. “Le implicazioni di tale principio sono di notevole importanza e riguardano ancora la diversa intensità che può assumere il principio di proporzionalità. Non solo la Corte di giustizia chiarisce che lo stato d’origine non può risparmiare a seguito della migrazione dei propri pazienti approfittando delle tariffe meno costose degli stati dove la cura viene effettivamente erogata. Implicito alla soluzione adottata vi è anche il riconoscimento che i cittadini hanno diritto ad un quantum di rimborso che essi possono spendere in strutture statali o, nel rispetto di determinate condizioni, in strutture straniere” così M. DANI, cit. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 243 proprio cittadino (se le cure da rimborsare sono più basse), è assai probabile che possa rimetterci. Infatti, in primo luogo, il principio della presa in carico integrale delle cure sostenute all’estero in base all’art. 22 vige anche quando queste siano più costose di quelle nazionali; in secondo luogo, il fatto che lo stato d’origine sia obbligato a riconoscere al proprio paziente l’importo delle cure sostenute all’estero non lo sottrae certo dal sostenere le spese per il mantenimento delle proprie strutture ospedaliere. Si concorda quindi con chi ha osservato che lo stato d’origine si può trovare in realtà a dover pagare - a causa della sua inefficienza - due volte per uno stesso paziente, con l’effetto perverso di minare alle basi l’equilibrio finanziario (34). L’importanza del tema sulle liste di attesa sembra aumentare allorquando la Corte di giustizia ribadisce che, nel valutare le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione ad un trattamento all’estero, devono trovare accoglimento considerazioni relative ai tempi di attesa troppo lunghi e tali da compromettere l’efficacia delle cure (35). L’argomento in questione diventa centrale, poi, nel momento in cui le modifiche all’art. 22 del regolamento 1408/71 prevedono l’obbligo di concedere l’autorizzazione qualora le cure non possano essere praticate nello stato d’origine «entro un lasso di tempo accettabile sotto il profilo medico»: un sistema di liste d’attesa rimane ammissibile, ma questo non può andare a discapito dell’efficacia delle cure ai pazienti (36). Si richiede perciò un nuovo bilanciamento tra esigenze organizzative e finanziarie dello stato e diritti individuali dei cittadini: ovvero necessità economiche e organizzative possono essere tenute in considerazione nella misura in cui non si rive- (34) G. DAVIES, The Process and Side-Effects of Harmonisation of European Welfare States, Jean Monnet Working Paper, 2/06, http://www.jeanmonnetprogram.org/papers/06/060201.html, p. 30. (35) Causa 385/99, Müller-Fauré e Van Riet [2003] Racc. I-4509. Qui la Corte consente alle autorità nazionali di poter rifiutare l’autorizzazione a recarsi all’estero solo se analogo trattamento può essere erogato tempestivamente dalle strutture ospedaliere nazionali convenzionate tenuto conto della condizione clinica del paziente richiedente. (36) Si noti che la disposizione del nuovo art. 22 entra nella decisione delle cause Inizan (Causa 56/01, Patricia Inizan c. Caisse primarie d’assurance malarie des Hauts-de-Seine [2003] I-12403) e Watts (Causa 372/04, The Queen (on the application of Yvonne Watts) v. Bedford Primary Care Trust, Secretary of State for Health [2006] Racc. I-4325). In quest’ultima, la Corte di giustizia affronta la vicenda di una signora inglese che, affetta da artrite acuta e preoccupata dai tempi di attesa stabiliti dal National Health Service, chiede di potersi fare operare in Francia per l’apposizione di una protesi all’anca. Rientrata in patria dopo l’operazione, inoltra domanda di rimborso spese e, a fronte di un diniego, ricorre in giudizio. Secondo la Corte se i tempi previsti in base al sistema delle liste sono inferiori o uguali a quello accettabile alla luce di una valutazione medica obiettiva dei bisogni clinici del paziente, le autorità amministrative sono legittimate a rifiutare l’autorizzazione. Consentire il rimborso dei trattamenti in questi casi, infatti, significherebbe compromettere gli sforzi di pianificazione e razionalizzazione compiuti dai sistemi sanitari nazionali. Se però i tempi delle liste eccedono quelli richiesti dalle condizioni del paziente, l’autorizzazione è dovuta, anche se il costo per il sistema nazionale d’origine può risultare superiore (Watts, paragrafi 70-79). La Corte precisa, tuttavia, che in caso di mancata assunzione integrale delle spese da parte dello stato ospitante, non vi è un diritto al rimborso totale da parte dello stato di origine, tenuto a garantire la copertura delle spese nei limiti della quota virtuale prevista per la cura in questione dalla tariffa nazionale. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 lino pregiudizievoli per il singolo paziente. Qualora tale eventualità si verifichi, quest’ultimo può decidere di recarsi all’estero per ottenere le cure e spedire il conto al proprio stato. Ciò che si vuole assicurare, in sostanza, è l’alta qualità dei servizi sanitari messi a disposizione dei pazienti: la questione è di primaria importanza, non a caso il diritto alle cure sanitarie è riconosciuto dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Oramai è un dato di fatto che i sistemi sanitari e le relative politiche dei Paesi membri stanno diventando sempre più interconnesse e ciò non solo grazie alla circolazione di pazienti e professionisti, ma anche per la diffusione di nuove tecnologie mediche e l’utilizzo di quelle informatiche. Le maggiori interconnessioni, tuttavia, amplificano talune problematiche di politica sanitaria: la richiesta d’informazioni per pazienti; la qualità e l’accesso a trattamenti sanitari; la preparazione dei professionisti; la cooperazione sanitaria; l’armonizzazione delle norme, etc. (37). A tal fine, da tempo la Commissione Europea ha invitato i ministri degli Stati Membri e i rappresentanti della società civile a prendere parte ad un processo di riflessione sulla mobilità dei pazienti e lo sviluppo del sistema sanitario in Europa (38). A seguito di questa consultazione, nel luglio 2004 la Commissione affida ad un High Level Group la verifica della messa in pratica di una direttiva sulla fattiva collaborazione tra i sistemi sanitari nazionali nell’UE. E nel luglio 2008 viene predisposta una proposta di direttiva sull’assistenza sanitaria transfrontaliera (39), che ha come obiettivo l'istituzione di un quadro normativo comunitario sulla mobilità dei pazienti. Tale quadro comprende principi comuni a tutti i sistemi sanitari dell'UE; norme specifiche per l'assistenza sanitaria transfrontaliera; e modalità per la cooperazione nei sistemi di assistenza. Tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la proposta in oggetto mira a costruire precisi riferimenti giuridici per l’assistenza sanitaria transfrontaliera all'interno del territorio comunitario. Da un punto di vista pratico, la sua approvazione consentirebbe ai cittadini europei di fruire dell'assistenza sanitaria negli altri Stati membri con conseguente rimborso dei costi, senza autorizzazione preventiva se si tratta di cure non ospedaliere e su base di autorizzazione preventiva in caso di cure ospedaliere e specializzate (40). (37) E’ appena il caso di ricordare che gli Stati membri dell’Unione Europea sono i principali responsabili dei propri Sistemi Sanitari; ogni Stato membro gestisce l’organizzazione ed eroga prestazioni sanitarie e cure mediche nel proprio territorio secondo l’Art. 152 TEC, in alcuni stati le cure sono gratuite, in altri parzialmente gratuite, mentre in altri ancora occorre pagare le spese sanitarie per intero e poi chiederne il rimborso: ad esempio chi si dovrà recare al pronto soccorso di Madrid o Londra non sarà tenuto a pagare la prestazione medica ricevuta, mentre in altri casi, come a Bruxelles, sarà vincolato dal pagamento della cura ricevuta e a richiederne il rimborso al rientro. (38) Comunicazione sulla mobilità dei pazienti e lo sviluppo della sanità nell’UE, COM (2004) 301 del 20 Aprile 2004, in http://ec.europa.eu/health/ph_overview/co_operation/mobility/docs/comm_ health_services_comm2006_it.pdf (39) Proposta di direttiva 2008/0142. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 245 La direttiva prevede anche il riconoscimento delle prescrizioni mediche rilasciate in un altro Stato membro, lo sviluppo di reti europee dei fornitori di assistenza sanitaria, la realizzazione di sistemi di sanità elettronica (e-Health) e una più forte cooperazione in materia di gestione delle nuove tecnologie sanitarie (41). Con il nuovo impianto normativo, dunque, la possibilità di scegliere il luogo in cui andare a curarsi verrebbe giuridicamente definita e porrebbe i cittadini europei su un piano di maggiore parità sia nel settore della sanità pubblica che in quella privata. Il risultato che si vorrebbe ottenere è quello di consentire ad un paziente di non subire le conseguenze di un sistema sanitario che funziona male, dandogli la possibilità di andare nel Paese in cui ritiene ci siano condizioni migliori. Le ricadute di questa direttiva potrebbero comunque avere un forte impatto sulla spesa sanitaria dei singoli Stati membri. Non è un caso allora se il provvedimento continua ad essere rimandato da mesi per paura di un incremento su larga scala del turismo della salute e risulta ostacolato soprattutto dai Paesi con sistemi sanitari meno efficienti o in cui ci sono lunghe liste d’attesa. L’unico limite al rischio di ricadute negative sui bilanci delle strutture di assistenza sanitaria risiede in una “norma paracadute”: ciascun Paese potrà prevedere un tetto massimo di spesa da finanziare per evitare il dissesto. In Italia le cose sono complicate ulteriormente perché a decidere rimborsi (40) Ci sono, ovviamente, pareri diversi. Si veda per esempio http://www.fpcgil.it/flex/cm/pages/ ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/7140; oppure http://www.prcbergamo.it/index2.php?option=com_content& do_pdf=1&id=804 (41) Nel campo dell’e-Health, in particolare, la direttiva propone l'interoperabilità transfrontaliera dei sistemi delle cartelle cliniche elettroniche. I pazienti, ma soprattutto i medici, potrebbero accedere così, in qualsiasi momento e ovunque si trovino, a informazioni importanti archiviate in sistemi di registrazione elettronica dei dati clinici. Per dimostrare i benefici di tale interoperabilità la Commissione ha cofinanziato un progetto, sostenuto da 12 Stati membri tra cui l'Italia, che si chiama Smart Open Services (SOS). La registrazione elettronica dei dati avverrà su base puramente volontaria e su richiesta del cittadino, rispettando il suo diritto alla riservatezza. Sarà elaborato un quadro sintetico delle informazioni da inserire nelle banche dati sanitarie, come il gruppo sanguigno, le allergie note, i problemi medici e informazioni specifiche su eventuali terapie seguite dal paziente. Sempre su base volontaria, i centri specializzati dei diversi Stati membri potranno partecipare a reti europee di riferimento, che hanno l'obiettivo di fornire ai pazienti un accesso più agevole a cure altamente specializzate. Il progetto costituisce il primo passo verso la soluzione dei problemi che i medici incontrano con i pazienti che necessitano di trattamenti sanitari all'estero. Si pensi alla prescrizione di farmaci essenziali che il paziente può aver perso, alla comunicazione delle condizioni di salute a medici che parlano un'altra lingua, alla diagnosi di malattie e alla prescrizione dei farmaci più adatti senza avere una conoscenza approfondita della storia clinica del paziente. Anche se vari Stati membri hanno già istituito cartelle cliniche elettroniche, molti di questi sistemi (nazionali) non sono in grado d'interagire. Il progetto tenterà di garantire la compatibilità delle informazioni mediche in formato elettronico indipendentemente dalla lingua o dalla tecnologia utilizzata, senza richiedere l'istituzione di un sistema comune per l'intera Europa. Ciò consentirà ai professionisti del settore sanitario di accedere elettronicamente, nella loro lingua, ai dati di un paziente proveniente da un altro paese, utilizzando tecnologie e sistemi diversi. Il progetto permetterà inoltre alle farmacie il trattamento elettronico delle prescrizioni di farmaci effettuate in altri Stati membri, in modo che i pazienti che si spostano nell'UE possano ottenere i medicinali necessari. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ed autorizzazioni sono le Regioni. Oggi un paziente intenzionato a curarsi all’estero deve presentare una richiesta alla sua Asl, allegando i pareri dello specialista che lo ha visitato; dopo aver avviato la pratica deve attendere il responso dell' Azienda sanitaria; se il parere è negativo, al paziente è garantito il diritto di scegliere un ospedale o un medico oltreconfine, ma il Sistema sanitario nazionale non rimborserà le spese sostenute. La risposta positiva è condizionata dalla mancanza in Italia di strutture specializzate (è il caso di molte malattie rare), o alla lunghezza delle liste d'attesa. Con la nuova direttiva, se il caso del paziente rientrerà nelle condizioni ivi previste, non si potrà più negare il rimborso delle spese sostenute. In altre parole in una condizione come quella italiana, l’approvazione di questa direttiva potrebbe incrementare il fenomeno dell’emigrazione sanitaria, attualmente non molto significativo e condizionare quello delle liste di attesa (42): l’esasperazione dei pazienti per i tempi di attesa troppo lunghi, la facilità di spostamento e costi più bassi rispetto al passato per recarsi nel luogo scelto per la cura potrebbero stimolare una maggiore mobilità. Sfruttando le possibilità offerte dal diritto di scelta, i pazienti emigrerebbero e in taluni casi si potrebbe verificare un “decongestionamento delle file”, con effetti non del tutto positivi però: da un lato infatti non può non ravvisarsi un effetto di selezione dei pazienti (emigrano i più informati, i più abbienti, etc.) (43); dall’altro vi è il rischio che le strutture sanitarie paghino “di più” la prestazione richiesta (non solo perché il costo all’estero è maggiore ma anche per la diminuzione di eventuali effetti positivi da economie di scala). Per evitare questa eventualità, sicuramente possibile in condizioni di aumentata concorrenza, occorre accrescere la propria efficienza, provando a migliorare il rapporto costi/benefici: per non perdere pazienti e quindi la rimuneratività dei fattori di produzione si dovrà puntare ad una maggiore competitività e lavorare instancabilmente sulla qualità del servizio offerto, anche e soprattutto in termini di tempi di attesa (44). (42) L'Eurobarometro ha contribuito allo studio con un'indagine volta alla comprensione dell'effettiva mobilità transfrontaliera dei pazienti, dei benefici e dei problemi legati alle cure mediche all'estero. Lo si veda in http://ec.europa.eu/health/ph_overview/co_operation/healthcare/docs/ebs_210_en.pdf. Sulla sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari si veda invece http://www.epicentro.iss.it/temi/politiche_ sanitarie/financingHealthCare09.asp. Che il fenomeno dell’emigrazione possa aumentare in breve tempo è dimostrato dagli effetti della legge n. 140/2004 sulla procreazione assistita. Cfr. a titolo esemplificativo http://www.clicmedicina.it/pagine%20n%2028/fecondazione-assistita.htm; o … http://salute24. ilsole24ore.com/bioetica/nascere_e_morire/1925_Legge_40:fecondazione_all_esteroper_10_mila _coppie.php (43) Per ottenere informazioni in merito alle liste di attesa di ogni Paese dell’Unione Europea occorre rivolgersi ad ogni singolo Stato; se un cittadino europeo vuole curarsi in uno stato diverso da quello di appartenenza dovrà rivolgersi allo Stato prescelto e attenersi alle regole sulle liste d’attesa ivi vigenti. Non esistono liste d’attesa che privilegiano i cittadini europei (nel rispetto del principio di uguaglianza), nella proposta di direttiva sono però previsti punti informativi dislocati in ogni stato (in numero da definirsi), in grado di dare la più ampia e completa informazione al cittadino europeo che voglia curarsi oltreconfine. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 247 5. Prospettive future fra esigenze di responsabilizzazione, innovazione tecnologica e interazione fra norme Le difficoltà nel governare il fenomeno delle liste di attesa non emergono ovviamente solo da queste pagine: sono avvalorate, infatti, da numerosi studi, i quali sottolineano tutti che la via maestra per contenere e risolvere il suddetto fenomeno va trovata all’interno di un sistema armonico di strumenti di varia natura (giuridici, organizzativi, etc.) ed utilizzando modi di collaborazione appropriati fra tutti gli attori del sistema, sia quelli operanti sul versante prescrittivo sia quelli di tutela del cittadino. Ogni sforzo deve essere volto a promuovere al massimo la capacità del servizio sanitario - a livello centrale e periferico - di intercettare il reale bisogno di prestazioni dei cittadini per garantire l’incontro più adeguato fra domanda e offerta di cure; le strutture sanitarie, in particolare, dovranno avere la consapevolezza di dover affrontare la continua sfida del soddisfacimento dei bisogni di salute attraverso con un servizio efficiente rapido ed economico in un contesto di risorse disponibili che sembra ridursi nel tempo. E’ noto che in un’epoca come quella attuale la continua crescita delle richieste di prestazioni specialistiche genera una notevole pressione sulle strutture sanitarie ambulatoriali sia territoriali che ospedaliere le quali, pur organizzandosi per affrontare al meglio il problema, non riescono a soddisfare in tempi rapidi tutte le richieste, con conseguente incremento - in non tutti i casi - delle liste di attesa e del malcontento. E’ altrettanto noto poi come l’aumento del numero delle prestazioni erogate provochi una dilatazione della spesa globale dando origine ad una paradossale situazione che vede un (44) Sui possibili effetti negativi la stessa relazione alla proposta di direttiva rileva: «Per evitare un impatto insostenibile, è inoltre importante assicurare un trattamento non discriminatorio dei pazienti indipendentemente dal fatto che essi siano o no iscritti a un dato sistema nazionale. Da un punto di vista economico, si evitano così incentivi perversi consistenti nel dare la precedenza ai pazienti stranieri rispetto ai pazienti nazionali e si evita di compromettere nel lungo periodo gli investimenti in conto capitale nella sanità. Da un punto di vista sanitario, trattare i pazienti in modo equo è essenziale se si vuole garantire che l'impatto dell'assistenza sanitaria transfrontaliera sulla salute, ad esempio in termini di tempi di attesa, resti ragionevole e gestibile. […] La prestazione di assistenza a pazienti di altri paesi non deve comunque compromettere la finalità primaria dei sistemi sanitari degli Stati membri, che consiste nel fornire cure sanitarie ai propri residenti. La direttiva proposta chiarisce che le norme da essa dettate in materia di assistenza sanitaria transfrontaliera non conferiscono alle persone provenienti dall'estero il diritto di essere curate più tempestivamente dei pazienti nazionali. Laddove esistano liste di attesa per un determinato trattamento, i pazienti di altri Stati membri dovrebbero esservi inseriti secondo gli stessi criteri e attendere lo stesso tempo dei pazienti nazionali che presentino un analogo bisogno di cure. I fornitori di assistenza sanitaria non sono neppure obbligati ad accettare per trattamenti programmati pazienti provenienti dall'estero qualora ciò comprometta il mantenimento delle strutture sanitarie o delle competenze mediche nello Stato membro di destinazione. Se, invece, quest'ultimo paese dispone della capacità di assistere i pazienti con maggiore tempestività del paese di origine senza che ciò determini un allungamento dei tempi di attesa di altri utenti e se i pazienti interessati sono disposti ad accettare il disagio di doversi spostare in un altro paese per ricevere le cure, il risultato è un'assistenza più efficiente per tutti». 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 contemporaneo aumento dei carichi di lavoro degli operatori, dei tempi di attesa del cittadino e delle difficoltà di gestione. Sembra chiaro dunque come a fronte delle diverse cause che incidono sulle liste di attesa occorrano rimedi di diversa natura: in queste pagine si è voluto dimostrare che le liste di attesa possono non decrescere o addirittura aumentare pur in presenza di una copiosa normativa di sostegno al contenimento, e ciò perché si pecca nella concreta applicazione delle disposizioni soprattutto quelle relative alla responsabilizzazione dei dirigenti. Il tema dell’attivazione delle responsabilità, tuttavia, può diventare assai importante nel combattere il fenomeno in oggetto soprattutto in considerazione dell’ampliamento delle fattispecie che la giurisprudenza più avveduta ha messo in rilievo: non solo responsabilità per mancato raggiungimento del risultato, ma anche responsabilità amministrativa per danno all’erario, integrabile per ipotesi assai variegate. Il tentativo di arginare le lunghe liste d’attesa con lo strumento dell’intramoenia o di forme di remunerazione legate al risultato possono essere utili, ma se le norme non vengono adeguatamente applicate o risultano eluse (45), si rischia di perpetuare lo spreco di risorse e di non contrastare le “disfunzioni” organizzative assai radicate in taluni contesti. Peraltro è appena il caso di ricordare che è facendo leva sulla insoddisfazione dei pazienti e sull’urgenza delle cure che si dà adito alle compagnie di assicurazione ed alle strutture sanitarie private di minare la bontà del servizio sanitario pubblico, offrendo sì prestazioni in tempi rapidi ma compromettendo ulteriormente la remunerazione e dunque l’efficienza delle cure prestate dalle strutture pubbliche. Buone prospettive di miglioramento (soprattutto dal versante della razionalizzazione delle risorse e della intercettazione dei bisogni dei cittadini) viene dall’uso sempre più massiccio dell’Ict. Il rapporto “Servizi Digitali al Cittadino: una Sanità sempre più accessibile", recentemente pubblicato dall’Osservatorio Ict in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano offre, a riguardo, un quadro complessivo dell’attuale utilizzo dei servizi elettronici in campo sanitario e delle prospettive future (46): dall’impiego di un supporto fondamentale come la cartella clinica (45) Cfr. i casi di maladministration relativi all’introemenia citati in M. DEANGELIS, Spesa sanitaria e prestazioni nel servizio sanitario nazionale, in La spesa sanitaria: i controlli, le violazioni, la tutela penale e amministrativo-contabile. Atti del Convegno 22 maggio 2007, Ancona, Guardia di Finanza Ed. (46) Il rapporto dell’Osservatorio Ict in Sanità si trova in: http://www.osservatori.net/ict_in_sanita/ rapporti/rapporto/journal_content/56_INSTANCE_0HsI/10402/520454. Il rapporto fornisce un quadro della diffusione dei servizi elettronici nella sanità italiana e del ruolo degli enti. La ricerca si basa su undici casi studio e su una survey che ha coinvolto 67 CIO (Chief Information Officer) e oltre 120 tra direttori generali e sanitari, rappresentativi delle principali strutture sanitarie italiane. Lo studio vuole affrontare con sguardo critico l’utilizzo delle tecnologie informatiche in ambito sanitario e vuole, allo stesso tempo, stimolare l’uso ottimale dell’Ict in questo campo da parte dei decision makers. La ricerca si è focalizzata su quattro ambiti: la cartella clinica elettronica; i servizi digitali al cittadino; i sistemi di supporto alla clinical governance; la dematerializzazione dei documenti. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 249 elettronica all’uso sempre più massiccio di servizi digitali al cittadino per aumentare l’accessibilità ai percorsi di cura e diagnosi. Secondo i dati raccolti, i servizi riconducibili all’area e-government in campo sanitario (download documenti, pagamenti on line, prenotazione di prestazioni e farmaci) sono abbastanza diffusi e hanno interessanti prospettive di una maggiore estensione nell’immediato futuro. In particolare ampio margine di crescita è previsto per il servizio di prenotazione, che ad oggi rimane il servizio più diffuso (è presente nel 45% delle aziende contattate per la ricerca) (47). Secondo le stime del rapporto, la sua diffusione arriverà, entro breve tempo, al 70%. Per l’applicazione di altri tipi di supporti innovativi utili al contenimento delle liste di attesa e alla soddisfazione degli utenti (per esempio forum, blog, chat...) si rileva una forte marginalità (meno del 10%) e ciò è anche dovuto alla poca volontà mostrata dalle aziende sanitarie di investire in tale direzione. L’evoluzione in positivo del fenomeno delle liste di attesa, in ogni caso, non può dipendere solamente da soluzioni sul versante dell’organizzazione dell’offerta e dei volumi della produzione, ma occorre coniugare il diritto alle cure del cittadino con adeguate strategie di governo della domanda che tenga conto dell’applicazione di rigorosi criteri sia di appropriatezza che di urgenza delle prestazioni (e a tal fine si conviene con quanto previsto nel PNCTA sulla necessità di individuare adeguate sedi e strumenti di governo clinico ai diversi livelli del sistema che coinvolgano direttamente tutti i professionisti, prescrittori e non). Senza ignorare l’importanza cruciale dell’applicazione delle norme sanzionatorie relative alla responsabilità di risultato e amministrativa. Norme sanzionatorie che vanno in primis riferite ai direttori generali e ai responsabili delle strutture e che si adottano non solo per i casi che evidenziano danno o colpa grave ma anche - e finalmente - per fattispecie come il danno all’immagine del servizio sanitario nazionale, rivalsa per risarcimento da danno per liste di attesa troppo lunghe, etc. Si noti, a questo punto, che l’eventuale approvazione della direttiva sulle cure transfrontaliere potrebbe sostenere la via della maggiore “responsabilizzazione” in virtù del principio secondo cui occorre risarcire il danneggiato per omessa o tardiva attuazione di direttive comunitarie (48). E in ogni caso ben venga questa direttiva perché, anche se con tutti i dubbi sulla concreta efficacia in termini di miglioramento delle chances di cura per tutti i cittadini, mira a costruire precisi riferimenti giuridici (con (47) Si osservi che la crescita dell’utilizzo delle tecnologie informatiche in un campo delicato come quello della salute dei cittadini solleva le preoccupazioni del Garante per la protezione dei dati personali. A tal proposito, il Garante ha approvato specifiche Linee guida in tema di referti on line (http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1630271) che individuano misure e accorgimenti a garanzia dei cittadini, sia per quanto riguarda la ricezione del referto via mail, sia per il download degli esami clinici direttamente dal sito web della struttura sanitaria. (48) Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili 17 aprile 2009, n. 9147 sulla omessa o tardiva attuazione di direttive comunitarie. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 garanzia di cure sicure e di qualità nonché procedure di rimborso dei costi chiari e trasparenti) per l’assistenza sanitaria transfrontaliera senza che vengano frapposti ostacoli ingiustificati dal paese di origine di un paziente o l’assistenza sia contrastata dall'incompatibilità delle disposizioni dei paesi interessati: è vero che la Carta Europea di assistenza sanitaria prevede già la possibilità di andare ad effettuare cure all'estero, ma il problema è che al momento i sistemi nazionali non rimborsano facilmente le spese o lo fanno soltanto in seguito al ricorso del paziente. Con la nuova direttiva dovrebbe bastare l’indicazione della "preferenza soggettiva" per un ospedale straniero o dimostrare "il costo minore" del trattamento per vedersi garantito il diritto al rimborso. In altre parole la possibilità di scegliere il luogo in cui andare a curarsi dovrebbe essere giuridicamente ben definita con il risultato finale di consentire ad un paziente (rectius ad un numero sempre più crescente di pazienti) di non subire le conseguenze di un sistema sanitario che funziona male, limitando i vincoli nella decisione di andare in un Paese in cui ci sono condizioni migliori. In altre parole, l’azione congiunta di norme comunitarie e norme nazionali – con l’operato costante e sempre più incisivo degli organi di controllo - potrebbe costituire nel medio periodo una delle strategie vincenti volte a contrastare il fenomeno delle liste di attesa, uno stimolo ad attivare quelle sinergie (di cui si parla anche nel PNCTA) fra i vari soggetti istituzionali e non deputati a contrastare l’inefficienza, un percorso per migliorare la soddisfazione dei pazienti e i risultati dei servizi offerti. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 251 Sull’Avvocatura dello Stato Organizzazione e prospettive di riforma nel quadro istituzionale in trasformazione Michele Gerardo* SOMMARIO: 1. Osservazioni generali - 2. Carico di lavoro dell’Avvocatura dello Stato - 3. Costo dell’Avvocatura dello Stato - 4. Problemi inerenti l’Avvocatura dello Stato implicanti la necessità di interventi riformatori - 5. Modifica dell’Istituto sul modello dell’Attorney General anglosassone - 6. Modifica dell’Istituto sul modello delle Autority - 7. Interventi riformatori nell’alveo dell’attuale struttura dell’Istituto. I. Osservazioni generali L’Avvocatura dello Stato, che si articola nell’Avvocatura Generale dello Stato con sede a Roma e nelle Avvocature Distrettuali dello Stato (in numero di 25 presso le sedi di Corte di Appello), è l’organo legale dello Stato e degli enti pubblici autorizzati ad avvalersi del suo patrocinio. È organo incardinato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e difensore in giudizio – in via organica ed esclusiva – dei soggetti abilitati ad avvalersi del suo patrocinio, rende i pareri obbligatori per legge (negli atti di transazione) e quelli facoltativamente richiesti. L’ordinamento, la struttura e le funzioni dell’Avvocatura dello Stato sono disciplinati in specie dai seguenti testi: 1) R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611 (approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche nella rappresentanza e difesa in giudizio dell’Avvocatura dello Stato); 2) L. 3 aprile 1979 n.103 (Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato). Il ruolo organico degli avvocati e procuratori dello Stato è composto da 370 unità, delle quali 332 in servizio e 6 in posizione di fuori ruolo (alla data del 1 gennaio 2008). Il ruolo organico del personale amministrativo dell’Istituto è composto da 878 unità, delle quali 810 in servizio (alla data dell’1 gennaio 2008). In ordine al patrocinio in giudizio si osserva che lo stesso viene reso: (*) Avvocato dello Stato. Il presente contributo non è inserito nella sezione della Rassegna dedicata ai temi istituzionali in quanto non esprime in toto una linea deliberata dall’Istituto. Nondimeno l’utilità e l’interesse dello studio sono indiscusse ed alcune soluzioni proposte anche condivise (GF). 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 1) nei giudizi davanti la Corte Costituzionale (conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, tra Stato e Regioni; impugnative in via principale di leggi statali o di leggi regionali; questioni di legittimità costituzionale sorte in via incidentale; giudizi sull’ammissibilità di referendum abrogativi): L. 11 marzo 1953 n. 87; 2) nei giudizi innanzi a Collegi Internazionali (quale la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja): art. 9 L. n. 103 cit.; 3) nei giudizi innanzi a Giudici Comunitari (Tribunale di prima istanza e Corte di Giustizia dell’Unione europea con sede in Lussemburgo): art. 9 L. n. 103 cit.; 4) nei giudizi davanti al Tribunale Militare di Pace (lo Stato potrà costituirsi parte civile col patrocinio dell’Avvocatura dello Stato territorialmente competente): art. 9 L. n. 103 cit.; 5) nei giudizi davanti al T.A.R. e al Consiglio di Stato: art. 9 L. n. 103 cit.; 6) nei giudizi davanti alla Corte dei Conti (in materia di pensioni tanto in primo grado dinanzi alla Sezione Giurisdizionale Regionale quanto in secondo grado dinanzi alla Sezione Contabile). Sul punto vi è l’art. 13 comma 3, L. n. 103 cit. (confermato dall’art. 6 comma 4 decreto legge 15 novembre 1993 n. 453 conv. L. 14 gennaio 1994 n. 19) per il quale: “l’Amministrazione, ove non ritenga di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, può farsi rappresentare in giudizio da un proprio dirigente o da un funzionario appositamente delegato”; 7) nei giudizi davanti alle Commissioni Tributarie (art. 12 comma 4 D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 : “l’ufficio del Ministero delle Finanze, nel giudizio di secondo grado può essere assistito dall’Avvocatura dello Stato”; 8) nei giudizi dinanzi al Giudice Ordinario (Giudice di Pace, Tribunale, Corte di Assise di Appello e Corte di Cassazione) Civile e Penale: art. 9 l. n. 103 cit.; 9) nei giudizi dinanzi a qualsiasi altro giudice speciale in cui sia parte un soggetto patrocinato. In ordine ai soggetti patrocinati si osserva che questi sono costituiti da: 1) Ministeri (art. 1 R.D. n. 1611 cit.). 2) Amministrazioni dello Stato organizzate ad ordinamento autonomo (art. 1 R.D. n. 1611 cit.), tra queste rilevanti sono gli Istituti e Scuole Statali costituenti organi dello Stato. Sul punto confermativo è l’art. 14 comma 7 bis del D.P.R. 8 marzo 1999 n. 275 (introdotto dal D.P.R. 4 agosto 2001 n. 352) secondo cui: “l’Avvocatura dello Stato continua ad assumere la rappresentanza e la difesa… di tutte le Istituzioni scolastiche…”. 3) Regioni a Statuto Speciale A) Sicilia (art. 1 D.lgs. 2 marzo 1948 n. 142); LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 253 B)Sardegna (art. 55 D.P.R. 19 maggio 1949 n. 250 e art. 73 D.P.R. 19 giugno 1979 n. 348); C)Trentino Alto Adige (art. 42 D.P.R. 30 giugno 1951 n. 574 e art. 39 D.P.R 1 febbraio 1973 n. 49); D)Friuli Venezia Giulia (art. 1 D.P.R. 23 gennaio 1965 n.78 e D.P.R. 15 gennaio 1987 n. 469); E)Valle D’Aosta (art. 59 L. 16 maggio 1978 n.196). Per le Regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato non è organico ed esclusivo bensì facoltativo. 4) Regioni a Statuto Ordinario A) patrocinio organico ed esclusivo (istituzionale o sistematico) ex art. 10 commi 1, 2, 4 e 5 L. n. 103 cit.: Molise (deliberazione 17 novembre 1999 n. 368 in G.U. S.G. del 30 gennaio 2000); B) patrocinio facoltativo ex art. 107 comma 3 D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616. 5) Università Statali (art. 56 T.U. 31 agosto 1933 n.1592 e art. 43 R.D. n. 1611 cit.). 6) Agenzie Fiscali (Agenzia delle Entrate, Agenzia del Territorio, Agenzia delle Dogane, Agenzia del Demanio: art. 72 D.l.vo 30 luglio 1999 n. 300). 7) Amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata da disposizioni di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 43 R.D. n. 1611 cit.). Tra i soggetti patrocinati vi sono: l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei segretari Comunali e Provinciali, l’Agenzia nazionale per la sicurezza di volo, l’Agenzia nazionale per le erogazioni in Agricoltura (AGEA), l’Agenzia per la rappresentanza nazionale nelle Pubbliche Amministrazioni (ARAN), la Croce Rossa Italiana, le Autorità Portuali, l’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, la CONSOB, i Conservatori di Musica, il Consiglio Nazionale della Ricerca, i Convitti Nazionali, l’Ente Nazionale Nuove Tecnologie (ENEA), l’Ente Nazionale per l’Aviazione civile, gli Enti autonomi Lirici e le Istituzioni concertistiche, l’Ente parco nazionale, gli Enti per il diritto dello studio universitario, gli Enti regionali di sviluppo agricolo, il Garante della concorrenza e del Mercato ed altre Autorità indipendenti, l’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT), l’Istituto per i servizi assicurativi del Commercio estero (SACE), l’Istituto Postelegrafonici, la ANAS s.p.a., la CONI servizi s.p.a. e le Organizzazioni estere ed internazionali (quali le Comunità Europee): art. 48 R.D. n.1611 cit. . Elenchi sugli enti patrocinati dall’Avvocatura dello Stato si possono rinvenire, tra l’altro, in Appendice al libro di P. PAVONE “Lo Stato in giudizio” Giuffré ed. Milano 2002, nel “Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa” a cura di A. ROMANO Cedam ed. Padova 2001 pp. 1260-1266, 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 sulla Rassegna Avvocatura dello Stato anno 2002 n. 2, pp. 26-49 e anno 2003 n. 4 pp. 1-21 (a cura di VINCENZO RAGO ) oltre che sulla sezione “Chi difende” del sito Internet istituzionale dell’Avvocatura dello Stato. 8) Dipendenti dello Stato autorizzati ad avvalersi della difesa erariale ex art. 44 R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611. ** *** ** Dalla costituzione dell’Avvocatura dello Stato (1876) ad oggi, lo Stato Italiano – nelle sue articolazioni – ha subito varie modificazioni: Stato liberale, Stato autoritario (a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, con ampio interventismo nell’economia), Stato sociale e si è giunti oggi a parlare di Stato federale. Il settore pubblico ha visto, com’è noto, ridurre la presenza di poteri e competenze dello Stato con riallocazione degli stessi verso il basso (Comuni, Province, Regioni) o verso l’alto (Unione Europea). L’Istituto, attraversando tre secoli, ha mantenuto una accentuata posizione di indipendenza funzionale. ** *** ** Sugli aspetti ora descritti ampie sintesi sono rinvenibili nelle voci enciclopediche dedicate alla “Avvocatura dello Stato”. Si citano le voci sul Novissimo digesto, UTET, vol. I 1958, pp. 1685-1690 di S. SCOCA; sulla Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. IV, Roma 1988, pp. 1-5 di P.G. FERRI; su Il Diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24 Ore, Vol. II, pp. 308-313 di V. CESARONi; sulla Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Vol. IV, Milano 1959, pp. 670-680 di G. BELLI. Informazioni si trovano altresì sul sito Internet istituzionale dell’Avvocatura dello Stato - nelle sezioni dedicate a “L’organizzazione”, “La normativa”, ”Le funzioni”, “Storia”, “L’amministrazione in giudizio” - e nel testo di P. PAVONE “Lo Stato in giudizio” II edizione, Giuffrè, Milano, 2002. 2. Carico di lavoro dell’Avvocatura dello Stato Al fine di individuare l’evoluzione del carico di lavoro dell’Istituto si riportano i numeri complessivi degli affari trattati in determinati anni a partire dal 1942. Anno Numero affari contenziosi e consultivi nuovi pervenuti 1942 16.809 1950 31.665 1956 33.616 1960 35.020 LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 255 Appare evidente che dal 1942 al 1980 il contenzioso è progressivamente aumentato passando da 17.000 a 48.000 affari nuovi annui. Poi, nel ventennio 1980-1998 è esploso per giungere, con progressivi elevati aumenti, a 213.000 affari. Ciò deve ascriversi, in buona parte, alla trattazione del contenzioso previdenziale. Infine, nell’ultimo periodo (1999-2009) il contenzioso - con andamento altalenante (oscillando da 170.000 a 230.000 affari nuovi annui) - si è stabilizzato sulle cifre raggiunte sul finire degli anni ’90 del secolo scorso. ** *** ** Aspetto rilevante è l’analisi del contenzioso dall’anno 1998 per ciascuna Avvocatura Distrettuale e per l’Avvocatura Generale. Ciò è importante perché a partire dall’anno 1999 sono divenuti operativi i trasferimenti delle competenze, in vaste materie, dallo Stato alle Regioni o ad altri enti locali (in attuazione delle varie leggi cosiddette Bassanini e con la modifica del titolo V della parte II della Costituzione operata con la legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3 ) e inoltre - a far data dal 3 settembre 1971 49.045 1975 36.130 1976 41.275 1980 47.721 1985 71.136 1990 157.379 1994 197.067 1996 212.623 1998 213.472 1999 186.158 2000 215.771 2001 222.617 2002 231.381 2003 218.000 2004 209.000 2005 219.626 2006 169.930 2007 200.000 2008 169.371 2009 178.000 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 1998 - si è avuto il trasferimento della competenza nella materia della erogazione dei trattamenti assistenziali agli invalidi dallo Stato (Ministero dell’Interno) all’INPS o alla Regione; è noto, infatti, che il contenzioso previdenziale ha avuto un notevole peso sul lavoro dell’Avvocatura dello Stato. Tale fenomeno, facendo venire meno delle competenze in capo allo Stato, ha fatto venire meno altresì una certa quantità di contenzioso. Va evidenziato che tale fisiologica riduzione è stata compensata dal sopravvenire di nuove tipologie di contenzioso, come ad es. le cause ex legge Pinto, sicché nella sostanza, come rilevato sopra, non si è avuto un calo sensibile del contenzioso. Per ciascuno degli anni in esame sono stati di seguito trascritti gli affari nuovi pervenuti, tanto contenziosi (civili, penali ed esecutivi) che consultivi, nella loro globalità. Sono stati esclusi dal computo gli affari d’ordine, che impegnano la struttura essenzialmente con l’ufficio impianti e con pochi altri incombenti. Difatti, considerare detti affari nel carico di lavoro avrebbe sensibilmente alterato i dati, tenuto conto che in alcune Avvocature distrettuali in certi anni il numero degli affari d’ordine supera la metà dell’intero contenzioso. 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 A.G.S. 60.609 59.102 65.454 71.121 67.636 65.378 57.784 63.433 48.135 47.140 47.369 44.745 AN 3.035 1.188 1.301 2.942 3.026 2.823 2.666 3.736 3.960 2008 1.826 1967 BA 7.498 4.822 6.551 7.511 6.245 7.650 8.820 10.565 7.132 7.340 7.100 7.467 BO* 5.124 4.552 4.789 4.431 3.980 4.704 5.851 4.395 4.207 3.292 3.686 4.751 BS 2.065 2.485 1.759 1.561 2.392 2.559 3.038 2.132 1.854 1.640 1.774 1.885 CA 5.366 4.416 5.028 4.173 4.001 4.110 3.705 4.510 4.537 3.545 2.751 3.146 CL 1.362 1.267 971 1.534 1.304 1.636 2.571 2.475 862 863 1.173 1.519 CB 1.138 876 1.161 1.120 1.148 1.375 1.435 1.708 3.599 1.841 1.945 1.947 CT** 7.541 6.517 --- --- --- --- --- --- 6.567 --- 6.772 8.025 CZ 7.841 5.329 5.135 6.042 6.400 6.740 9.817 10.773 6.902 8.683 8.419 9.256 FI 6.962 5.820 6.320 5.980 5.962 7.308 7.125 8.334 5.650 3.717 4.062 4.333 (*) Per gli anni 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2007, 2008 e 2009 i dati riportati sono la somma dei contenziosi civili e penali e dei consultivi. (**) Per alcuni anni non sono stati reperiti dati. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 257 Dall’analisi sopra riportata emerge un quadro variegato. Poche Avvocature - tra cui Campobasso, Catanzaro, Trento e Venezia - hanno aumentato il carico di lavoro. Bari, Bologna, Brescia, Caltanissetta, Catania, Messina, Perugia, Potenza, Reggio Calabria, Salerno e Trieste hanno mantenuto - nella sostanza - stabile il carico di lavoro. Le restanti Avvocature hanno visto diminuire il carico di lavoro in modo accentuato (ed è il caso di Cagliari, Firenze, l’Aquila e Lecce ) o in modo lieve (come per l’Avvocatura Generale, Ancona, Genova, Messina, Napoli e Palermo). 3. Costo dell’Avvocatura dello Stato Le spese di finanziamento delle strutture dell’Avvocatura dello Stato nell’anno 2006 ammontano ad euro 157.133.000, dei quali euro 143.356.000 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 GE 4.747 3.793 3.913 3.618 3.328 4.296 5.213 3.982 2.277 2.415 2.493 3.165 AQ 5.907 4.699 4.489 4.307 4.541 4.630 5.459 6.931 2.860 2.908 3.396 3.309 LE 8.754 7.725 8.615 8.839 10.177 10.508 7.127 3.983 3.365 3.310 3.841 4.716 ME** 4.896 4.633 --- --- --- --- --- --- 3.689 --- 4.303 4.208 MI 6.625 5.801 6.519 6.695 4.951 5.712 7.867 6.681 5.478 4.829 5.357 5.218 NA 35.555 27.258 25.756 25.377 30.560 32.166 19.208 17.563 17.614 18.596 23.897 24.444 PA 13.003 12.383 14.181 13.392 12.824 13.431 13.152 15.483 10.732 10.497 10.866 10.826 PG 2.596 1.917 1.503 2.548 2.638 2.182 2.299 2.226 2.058 1.939 2.138 2.405 PZ 1.971 2.107 1.901 3.006 1.857 2.576 2.316 3.313 3.014 2.272 1.697 1.726 RC 4.428 4.671 5.868 5.936 5.408 5.721 6.696 6.402 5.519 4.720 4.796 5.704 SA 3.825 3.287 5.047 5.998 11.311 4.835 6.945 8.907 4.552 3.233 3.599 3.785 TO** 4.521 4.572 --- ---- ---- ---- ---- ---- 6.898 --- ---- ---- TR 760 734 886 784 1.079 739 907 900 1.500 1.715 1.644 2.270 TS 1.972 2.033 1.840 1.642 1.648 2.116 2.217 1.798 1.672 1.632 1.800 2.068 VE 5.371 4.151 4.852 4.702 4.211 5.119 5.522 6.011 5.878 5.534 5.552 6.169 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 per il personale. Ciò significa che la P.A. – rapportando la spesa annuale per far funzionare l’Avvocatura dello Stato al numero degli affari legali aperti nel 2006 – in tale anno ha speso in media per difendersi 785 euro a causa, ossia il 10% dell’onorario di un avvocato del libero foro. Quindi per lo Stato affidare la gestione delle cause a un organo interno è di gran lungo più economico che rivolgersi a professionisti esterni. I dati indicati sono ricavati dalla “Relazione della S.S.P.A: sull’Avvocatura dello Stato”, ampiamente riportata su “il Sole 24 ore” del 10 dicembre 2007 a pagina 11. 4. Problemi inerenti l’Avvocatura dello Stato implicanti la necessità di interventi riformatori Da più parti vengono evidenziati taluni fattori che dovrebbero determinare una riforma radicale - anche nella identità, secondo alcune prospettazioni - dell’Avvocatura dello Stato. Tali fattori sono : 1) contenzioso seriale, massivo, polvere che ha appesantito la macchina organizzativa dell’Avvocatura dello Stato; 2) riduzione, assottigliamento dello Stato, che ha quale conseguenza una riduzione e perdita d’importanza del relativo contenzioso. Le cause di tale assottigliamento provengono tanto dall’alto (Unione Europea che sta lentamente acquisendo importanti competenze, da ultimo quelle nella politica monetaria, sottraendola agli Stati tradizionali) quanto dal basso (federalismo con trapasso di ampie competenze alle Regioni ed agli enti territoriali). Tale riduzione è altresì cagionata dalla trasformazione di apparati dello Stato in società private; ciò per esigenze di efficienza, meglio conseguibile con forme soggettive privatistiche rispetto alla più lenta macchina burocratica pubblica. Il fattore n. 2 dovrebbe determinare, in prospettiva, una riduzione radicale del contenzioso trattato dall’Avvocatura dello Stato, specie nelle sedi distrettuali, sicchè si porrebbe in dubbio la ragione stessa dell’esistenza dell’Avvocatura dello Stato così come essa attualmente è, visti i costi per il suo mantenimento in funzione rispetto al contenzioso trattato. 5. Modifica dell’Istituto sul modello dell’Attorney General anglosassone Da varie parti si suggerisce la trasformazione dell’Avvocatura dello Stato in una struttura che abbracci anche il Pubblico Ministero. All’uopo richiamiamo le parole del Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi all’insediamento dell’Avvocato Generale dello Stato Luigi LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 259 Mazzella in Roma il 20 febbraio 2002: “... potrebbe trovare posto una modifica istituzionale volta ad avvicinare la nostra Avvocatura al modello dell’Attorney General, di matrice anglosassone. Anche senza giungere ad attribuirle funzioni di pubblico ministero, come è nel modello statunitense, si può appunto ipotizzare un potenziamento del suo ruolo nella gestione del <>. La riforma in senso federale e la determinazione del governo di rendere operativa, ovunque sia possibile, il principio di sussidiarietà, alleggeriscono, in molti settori, il peso dello Stato centrale che del resto, nella nuova formulazione dell’art. 114 della Costituzione, risulta essere solo uno degli elementi costitutivi della Repubblica, insieme con i Comuni, le Province, le Città Metropolitane e le Regioni” (pg. 1 del Discorso pubblicato sulla Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, gennaio-dicembre 2001 p. VII). Illuminante sul punto è anche il colloquio nel 2002 dell’allora Ministro della Funzione Pubblica Luigi Mazzella con la giornalista Anna Maria Greco. All’uopo si trascrive il testo dell’articolo apparso su “Il Giornale” del novembre del 2002. << Trasformiano i P.M. in Avvocati dello Stato >> . Anna Maria Greco da Roma: L’idea non è nuova, ma il neoministro della Funzione Pubblica Luigi Mazzella , in questo clima trova un nuovo ascolto. <> e alla fine degli anni Novanta in << L’irresistibile vento dell’ovest>>. In qualche modo il ministro ipotizza un ritorno al passato e per realizzare 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 questo passo sono necessari due passaggi: una modifica costituzionale e il passaggio dell’Avvocatura dello Stato dalla pubblica amministrazione in senso stretto all’ambito delle Autorità indipendenti di carattere generale. Il pubblico ministero avvocato dello Stato è quello del modello americano. E anche da noi la tradizione sarebbe rispettata perché la stessa Avvocatura, ricorda Mazzella, nasce da una costola del pubblico ministero. In passato, infatti, era il PM a svolgere tutte le funzioni che oggi sono state trasferite all’Avvocatura dello Stato . << Ma anche negli Stati Uniti - spiega il giurista -, considerato il Paese con la democrazia più avanzata e progredita, nell’Attorney General, l’equivalente della nostra Avvocatura dello Stato, confluiscono le due anime della difesa e dell’accusa esercitate entrambi a tutela dell’interesse pubblico>>. Per attuare questa riforma del Pm – avvocato dello Stato bisogna però modificare la Carta Costituzionale. << Ma è anche necessaria - afferma il ministro - una legge ordinaria che, oltre a prevedere il pubblico ministero come Avvocato dello Stato, collochi l’Avvocatura nell’ambito delle Autorità indipendenti>>. Questi due passaggi risolverebbero, secondo Mazzella, i problemi legati all’unitarietà dei giudici e pubblici ministeri, garantendo però a questi ultimi << la necessaria indipendenza>>. Infine, nel giugno 2009 la stampa (tra cui “la Repubblica” e “L’espresso”) ha riportato la notizia che il Governo avrebbe predisposto una bozza normativa istituente l’Avvocato Pubblico e/o dell’Accusa nel quale far confluire i magistrati titolari di funzioni requirenti. Ciò al fine di pervenire ad una legge che determini la separazione delle carriere tra magistrati del P.M. e magistrati giudicanti. Rumors in ordine a tale notizia si rincorrono ancora nell’aprile di quest’anno. I dati ora citati fanno germinare varie riflessioni. In primo luogo si richiama quale modello quello dell’Attorney General. È interessante analizzare come questo modello è configurato in uno dei Paesi di origine, ossia gli Stati Uniti. Una sintesi è riportata nella Relazione di EDWARD G.RE “ l’Avvocato, la sua professione ed il suo ruolo negli U.S.A.” al Convegno internazionale “l’Avvocatura nei principali ordinamenti giuridici” (pubblicato in Atti del Convegno internazionale “l’Avvocatura nei principali ordinamenti giuridici” Roma 1990, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato). “L’avvocato come difensore dello Stato In una descrizione del ruolo dell’avvocato degli Stati Uniti, può essere interessante per l’avvocato non americano qualche informazione circa il ruolo dell’avvocato come rappresentante dello Stato innanzi alle Corti. Negli U.S.A. tutti gli Stati e il Governo federale hanno un ufficio di Attorney General. L’Ufficio dell’ Attorney General di uno Stato è un importante ufficio legale all’interno del Governo di quello Stato. Oltre ad una molteplicità di attività per l’applicazione della legge, è anche funzione dell’ufficio dell’ LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 261 Attorney General quella di difendere il Governo dello Stato in ogni lite portata dinanzi a qualsiasi Corte contro lo Stato. In tutte le controversie nelle quali lo Stato può essere convenuto, esso è difeso da avvocati che sono dipendenti dello Stato e sono componenti dell’ufficio dell’Attorney General. Ancorché l’organizzazione amministrativa può in qualche misura differire, l’ufficio dell’ Attorney General ha di norma una pluralità di settori secondo la natura della lite che può essere iniziata dalla Stato o nella quale lo Stato deve difendersi. Ad esempio settori composti da avvocati di solito denominati <>, possono esistere per iniziare o difendere le controversie innanzi le varie Corti dello stato. Altresì può esservi un settore per gli appelli che sono portati contro le decisioni delle varie Corti. In aggiunta all’ufficio dell’Attorney General in tutti gli Stati ogni Comune o Ente locale può avere un ufficio legale o – come nel caso di New York – un ufficio del <>. Questo può essere un ufficio paragonabile ad un dipartimento di giustizia o ad un grande ufficio legale. In aggiunta ad una funzione investigativa e di applicazione della legge questi uffici comunali o locali curano anche la difesa in tutte le liti che, secondo la legge di ciascuno Stato, possono essere proposte dal o contro il Comune o l’Ente. Negli U.S.A., per il Governo federale, c’è il Dipartimento di Giustizia diretto dall’Attorney General degli U.S.A. L’ Attorney General , componente del Gabinetto del Presidente, è il più elevato funzionario legale degli U.S.A. ed è considerato il consulente legale del Presidente. L’Attorney General., come del Dipartimento di giustizia, rappresenta gli U.S.A. nelle materie legali in generale, e dà consigli non soltanto al Presidente ma anche, quando ne viene richiesto, ai capi dei dipartimenti dell’esecutivo. Il Dipartimento di Giustizia – con le sue migliaia di avvocati, investigatori e agenti, può essere considerato come il più grande studio legale del Paese. Le unità all’interno del Dipartimento di Giustizia danno una buona idea delle sue varie responsabilità. Le varie unità riflettono le esigenze legali del Governo. Il seguente elenco di queste unità, con una breve descrizione delle loro funzioni o responsabilità, può essere utile o di aiuto. La Divisione Anti-trust è responsabile del mantenimento della competizione dei mercati attraverso l’applicazione delle leggi federali anti-trust. Questa responsabilità, che è la principale funzione della Divisione, comporta attività investigativa sulle possibili violazioni, trattazione di procedimento dinanzi al << Grand Jury>>, preparazione delle controversie e trattazione degli appelli, nonché attivazione delle decisioni. Le leggi anti-trust proibiscono una varietà di pratiche restrittive del commercio, come i cartelli per la fissazione dei prezzi, le fusioni societarie volte a ridurre la competizione in particolari mercati, e gli atti volti ad acquisire o mantenere un potere monopolistico. La divisione reprime le gravi e volontarie violazioni della legge anti- 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 trust redigendo decreti di citazione in giudizio penale che possono condurre a pene detentive o pecuniarie. La Divisione Civile cura il contenzioso per conto degli U.S.A., dei suoi dicasteri ed agenzie, dei parlamentari, dei funzionari del Gabinetto del Presidente, e di altri dipendenti federali allorché agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali. Il lavoro della Divisione è tanto vario e ampio quanto lo sono le attività del Governo. Perché i dicasteri e le agenzie del Governo sono impegnati in innumerevoli rapporti commerciali come di compravendita, appalti, trasporti marittimi, produzione di energia, assicurazioni e rapporti bancari, le liti originate da queste attività offrono un completo spettro dei problemi legali affrontati anche dalle imprese private. Le controversie possono essere trattate innanzi a tutte le Corti e l’attività contenziosa è curata da avvocati della Divisione o da avvocati degli USA e attraverso consulenti esteri operanti sotto la supervisione della divisione. La Divisione ha sei rami: responsabilità civile, liti commerciali, programmi federali, tutela del consumatore, affari dell’immigrazione e relativo <>. L’Ufficio per le Liti all’Estero, che fa parte del ramo che si occupa delle liti commerciali, è responsabile per tutti i procedimenti legali che si svolgono dinanzi a tribunali esteri nei confronti di agenti diplomati e consolari in giudizio per atti che essi possono aver commesso nel corso del loro servizio governativo. La Divisione per i Diritti Civili fu istituita nel 1957 in risposta alla necessità di assicurare effettiva applicazione a livello federale delle leggi sui diritti civili. Questa Divisione è responsabile per l’applicazione delle leggi federali sui diritti civili le quali proibiscono discriminazioni sulla base della razza, origine nazionale, religione e, sotto certi profili, sesso oppure handicaps, nelle aree del diritto di voto, dell’educazione, dell’impiego, dell’edilizia popolare, del credito, dell’accesso alle provvidenze pubbliche e nell’amministrazione di programmi con contributi federali. La Divisione Penale cura l’applicazione ed esercita una generale supervisione su tutte le leggi penali federali eccettuate quelle specificamente assegnate alla divisione anti – trust, diritti civili, ecologia e tributi. La divisione penale, inoltre, sovrintende a certe controversie civili concernenti la legge federale su alcolici, narcotici, gioco, armi da fuoco, dogane, agricoltura ed immigrazione nonché alle liti risultanti da istanze di <> proposte da componenti delle Forze armate, azioni concernenti i prigionieri federali, asseriti abusi investigativi e azioni legali connesse con l’attività dei servizi segreti. La Divisione per le Risorse Naturali e del Territorio è responsabile per la trattazione delle iniziative legali sia dinanzi alle Corti federali che a quelle Statali concernenti non soltanto l’evidenziazione e la protezione degli interessi in specifiche proprietà e risorse naturali possedute o da acquistarsi ad opera LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 263 del Governo federale oppure tenute in affidamento dal Governo federale per conto di tribù indiane o individui ma concernenti anche la protezione in generale dell’ambiente. La Divisione Tributi è responsabile della difesa degli USA e dei suoi funzionari in tutte le controversie civili e penali concernenti le leggi fiscali diverse da quelle che si svolgono dinanzi alla Tax Court degli USA. La Divisione rappresenta l’Amministrazione delle Imposte Dirette e gli USA in molti differenti tipi di controversie civili e penali concernenti l’interpretazione delle leggi fiscali federali. Una speciale menzione deve essere fatta per l’Ufficio del Solicitor General. Il Solicitor General rappresenta lo Stato federale nelle controversie di fronte alla Corte Suprema. Il Solicitor General decide quali controversie il Governo debba proporre dinanzi alla Suprema Corte e quale posizione il Governo debba prendere nelle controversie dinanzi alla Corte. Il Solicitor General è responsabile per la preparazione e supervisione delle memorie del Governo dinanzi alla Suprema Corte e degli altri documenti legali e per la discussione orale dinanzi alla Corte. In aggiunta alla discussione delle più importanti controversie i doveri del Solicitor General includono anche il decidere se gli USA debbano appellare in tutte le controversie nelle quali sono risultati soccombenti nei gradi inferiori. In aggiunta alle sue Divisioni, il Dipartimento della Giustizia ha una varietà di uffici che lo aiutano ad espletare le sue funzioni. Esso ha anche potestà su parecchi importanti uffici; tra questi uffici l’F.B.I. , l’ufficio delle prigioni, il servizio degli ufficiali giudiziari federali, l’Interpol, il servizio immigrazione e naturalizzazione e la D.E.A. Poiché negli USA vi sono molte << agenzie amministrative>> autonome o quasi autonome, è interessante sapere come il lavoro legale di queste agenzie è svolto. Le agenzie amministrative americane sono per solito organizzate secondo linee funzionali. La funzione contenziosa sia di iniziativa che di difesa è solitamente concentrata in un ufficio di consulenza generica chiamato <>. Gli avvocati di quest’ufficio legale proprio dell’agenzia sono responsabili per la preparazione e trattazione di tutte le controversie all’interno dell’agenzia stessa. L’agenzia Amministrativa può anche avere un ufficio o una unità di giudici amministrativi o di funzionari addetti all’esame dei ricorsi. Questi giudici o funzionari svolgono un’attività giudiziale e, secondo la legislazione in vigore, le loro decisioni possono essere accettate, modificate o respinte dalle agenzie stesse, o da funzionari governativi di solito chiamati <>. I Commissioners, che sono per solito nominati dal Presidente con il parere conforme del Senato, hanno la responsabilità di amministrare la legge istitutiva dell’Agenzia, legge nella quale sono stabiliti le funzioni e i poteri della stessa. Un’agenzia amministrativa può avere la necessità di adire le Corti per 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ottenere l’applicazione di taluno dei suoi ordini o decreti. Quando un’agenzia compare innanzi alle Corti federali sia come attrice che come convenuta, è rappresentata dinanzi alle Corti da un’apposita divisione del Dipartimento di Giustizia degli USA. Le controversie in atto dinanzi alla Corte sia in 1° che in 2° grado, sono trattate da avvocati dell’apposita Divisione del Dipartimento di Giustizia degli U.S.A. Questi avvocati del Dipartimento sono solitamente assistiti da avvocati dell’agenzia amministrativa che hanno una maggiore familiarità con la natura specialistica della particolare controversia” (Atti citati pg. 94 –97). Sostanzialmente simile è il modello nella Gran Bretagna. In un’opera giuridica sul diritto anglo-americano, nel passare in rassegna i principali operatori del diritto inglesi, i <>, vale a dire l’Attorney General ed il Solicitor General, si osserva che: “Essi sono consiglieri giuridici della Corona, soltanto vagamente apparentabili con le figure a noi familiari del Pubblico Ministero e dell’Avvocato dello Stato, in quanto ricoprono molti ulteriori compiti di natura politica ed amministrativa. Entrambi sono membri della House of Commons; l’Attorney General è quivi rappresentante del Lord Chancellor, ed è inoltre Head of the Bar, vale adire <>; egli rappresenta la Corona in certe importanti cause civili, ed in tutti casi penali di treason, o comunque contenenti gravi aspetti politici o costituzionali. Ai sensi della section 1 del Law Officiers Act del 1944, la posizione del Solicitor General è sostanzialmente quella di un vice Attorney General: egli può infatti esercitare qualsiasi potere conferito per legge all’Attorney General se quest’ultimo ufficio è vacante, se il titolare è ammalato, o, più semplicemente, se è delegato dall’Attorney General. Se si vuole trovare un responsabile generale della pubblica accusa in Inghilterra, occorre guardare all’ufficio del << Director of Public Prosecution>>, figura operante sotto la supervisione dell’Attorney General. La sua presenza come esercente dell’azione penale è peraltro riscontrabile soltanto nei casi più gravi e complessi, stante il diverso ruolo della pubblica accusa in un processo penale a modello accusatorio quale quello inglese, in cui l’azione penale è solitamente esercitata dalla polizia”( UGO MATTEI: Common Law, UTET ed. 1992,Torino, pg. 310). Così delineati i connotati originari dell’Attorney General, risulta evidente che il rispetto di tale modello implica la creazione di un corpo - una “nuova” Avvocatura dello Stato - nel quale inglobare i 370 Avvocati e Procuratori dello Stato e gli oltre 2000 pubblici ministeri (2291 alla data del gennaio 2002), nonché una intima compenetrazione di tale “nuova”Avvocatura dello Stato con il potere Esecutivo. Difatti, nel modello di origine l’Attorney General altro non è che il Ministro della Giustizia a capo del relativo Ministero. Sempre nel modello di origine, poi, l’azione penale non è obbligatoria, bensì discrezionale. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 265 “Tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti, essa (l’azione penale) è oggi condotta sotto la responsabilità di un prosecutor, i cui rapporti con la polizia sono organizzati in vario modo. Principio fondamentale tuttavia è quello della discrezionalità dell’azione penale, indubbiamente una caratteristica profonda del sistema di common law. In America, la discrezionalità si sostanzia in maniera assai eclatante nell’istituto del plea bargain (patteggiamento): esso consiste nel negoziato che si svolge tra il prosecutor e l’imputato intorno al capo di imputazione e alla pena. Di fronte all’accusa di aver commesso un determinato reato (contenuta, nei casi più gravi, nell’indictment), l’imputato non ha solamente l’alternativa tra plea of guilty e plea of innocent: egli potrà dichiararsi pure colpevole di un reato diverso e men grave di quello contestatogli; il patteggiamento interviene in virtù di questa possibilità. Il prosecutor, con a mente le necessità di una giustizia rapida ed efficiente, e considerate soprattutto le difficoltà di ottenere una condanna dalla jury, potrà accontentarsi di condannare uno stupratore per il solo reato di molestie sessuali. Dal canto suo, il reo che non intende correre il rischio di una condanna grave, potrà ritener conveniente dichiararsi colpevole del reato men grave. Naturalmente il patteggiamento non interverrà sempre, perché in certi casi un punto di incontro tra domanda ed offerta può non trovarsi a causa (ad esempio) dell’intransigenza del procurator in reati gravi intorno ai quali egli disponga di prove a suo avviso schiaccianti” (U.MATTEI, cit. pg. 359-360). Da quanto detto è evidente che il recepimento del modello anglosassone, implica necessariamente - in chiave di armonicità di sistema - una riforma del testo costituzionale, almeno per quanto riguarda l’art. 102 comma 2 (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; all’interno del concetto di giudice occorre espungere il P.M.), l’art.104 (occorre espungere al III° comma le parole: “… e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione”), l’art.105 e l’art.107 (dai quali occorre escludere il P.M. dal concetto di magistrato), l’art.108 ( dal quale occorre espungere le parole “…del Pubblico Ministero presso di esse”) e l’art.112 (“il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” che va abrogato in toto). Se il problema della compatibilità della “nuova”Avvocatura di matrice anglosassone con il nostro ordinamento può essere superato mediante una accorta modifica del testo costituzionale, occorre però tener presente l’estrema diversità del sistema giudiziario a “Common Law” rispetto a quello di “Civil Law”. All’uopo elementi di diversità sono tanto la norma applicata dal giudice (nel sistema giudiziario a “Common Law” è preponderante il ruolo del precedente, il che mette in pericolo un granitico principio dei sistemi di Civil Law, ossia la certezza del diritto conseguente alla preesistenza di una norma giuridica al fatto da applicare) quanto la struttura dell’organo giudicante (nel si- 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 stema a “Common Law” opera la giuria popolare, organo sostanzialmente estraneo nel sistema di Civil Law). Quest’ultimo dato empirico potrà essere risolto solo con una adeguata “nuova cultura“ degli operatori del diritto. A giudizio di chi scrive il modello proposto è difficilmente attuabile perché richiede una profonda revisione del testo costituzionale e perché visceralmente estraneo alla nostra cultura “latina”. 6. Modifica dell’Istituto sul modello delle Autority Tra le proposte di modifica - molto in auge agli inizi del 2000, ora un po’ recessiva - vi è anche quella della trasformazione dell’Avvocatura dello Stato in una Autority, che si strutturi sul modello della “attuale” Avvocatura dello Stato oppure che inglobi tanto la “attuale” Avvocatura dello Stato quanto l’organo del Pubblico Ministero (scorporato dall’A.G.O.). Soffermiamoci sul primo modello ossia sulla trasformazione della “attuale” Avvocatura dello Stato in Autority che non inglobi l’organo del Pubblico Ministero. E’ necessario premettere, in sintesi, i caratteri delle c.d. Autority o Amministrazioni Indipendenti. Si afferma che il modello delle Amministrazioni Indipendenti è caratterizzato dalla sottrazione delle strutture compiute all’indirizzo politico e/o amministrativo dello Stato o, con più precisione, del Governo. In ordine al concetto di indipendenza occorre fare riferimento al modo di operare: tali amministrazioni operano in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione, ossia non sono tenute ad adeguarsi ad alcun indirizzo o direttiva da qualsiasi parti provenienti. In particolare non sono soggette all’indirizzo politico ed amministrativo di cui all’art. 95 Cost. e sono istituite per controllare l’azione degli operatori, sia economici che politici, dotati dei forti poteri d’influenza. Non è sufficiente che la piena autonomia e l’indipendenza di giudizio e valutazione siano semplicemente affermate, ma occorre anche che siano garantite dal trattamento riservato ai titolari degli organi delle Amministrazioni Indipendenti. Le misure di sostegno e di garanzia dell’indipendenza degli organi (siano essi monocratici o collegiali) riguardano in genere le modalità e i criteri di nomina, il livello morale e professionale delle persone nominate, la durata della carica (senza possibilità di riconferma), un rigoroso regime di incompatibilità con qualsiasi attività lavorativa. È stato osservato che l’indipendenza ha due aspetti: da un lato è separatezza dall’indirizzo politico, dall’altro si traduce nel momento dell’esercizio delle funzioni in una capacità di decisione autonoma atta a manifestare una incidenza consistente nel settore regolato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 267 Un filone dottrinario attento alle esperienze straniere (in particolare a quella statunitense) di Amministrazioni dotate di forte autonomia rispetto al Governo, ritiene che il modello sia caratteristico anche sotto il profilo funzionale. Secondo tale indirizzo il modello dovrebbe riferirsi (esclusivamente) alle autorità alle quali è affidata la regolazione di settori e di materie in cui interessi collettivi e diffusi, anche costituzionalmente garantiti, richiedono una particolare protezione in quanto sono minacciati dalla presenza e dall’azione di operatori, prevalentemente economici dotati di forti poteri di influenza. Il modello sarebbe riscontrabile se le finalità da perseguire fossero di regolazione e di controllo di un settore determinato; in vista di ciò, le funzioni attribuite dovrebbero essere, insieme, di natura normativa (per fissare le regole tipiche del settore) e di natura decisoria (per stabilire se le regole siano state rispettare o violate) e dovrebbe trattarsi di settori particolarmente delicati per il rilievo costituzionale degli interessi (privati) coinvolti e per la presenza di poteri forti e “minacciosi” (c.d. settori sensibili). Le amministrazioni indipendenti, così concepite, sarebbero diverse da quelle propriamente amministrative anche sotto altro profilo: non avrebbero interessi pubblici specifici e concreti mediante attività discrezionale ma sovrintenderebbero al corretto andamento di settori determinati, regolando e controllando l’attività di privati operatori. Per questo indirizzo, in definitiva, il tratto essenziale della figura dovrebbe essere individuato nella funzione di regolazione di settore, rispetto alla quale il profilo organizzativo della indipendenza sarebbe strumentale (necessario per lo svolgimento di funzioni arbitrali, o neutrali con serenità ed imparzialità). Sempre sulla base delle esperienze estere (in particolare statunitense e francese) si tende ad individuare uno spazio peculiare delle Amministrazioni indipendenti, costituito dai cosiddetti “settori sensibili” della vita della comunità, individuabili nei settori in cui le esigenze di protezione della libertà e regolazione sociale appaiano indissociabili e la loro armonizzazione presenta un elevato grado di complessità. Quanto all’interesse curato da tali amministrazioni, nell’escludere che esso sia assimilabile agli interessi pubblici concreti in posizione dialettica con altri interessi concreti (soprattutto privati), si è affermato che tale interesse, certamente anch’esso pubblico, non ha contenuto sostanziale, identificandosi con il mantenimento dell’equilibrio fra i diversi interessi privati (su tali concetti AA.VV., Diritto Amministrativo, Monduzzi editore, III ed., Bologna, 2001, vol. I pg. 598 – 613). Tutto ciò detto, ove si voglia trasformare la “attuale” Avvocatura dello Stato in Autority sono necessari almeno due requisiti: a) la “nuova “ Avvocatura dello Stato dovrà necessariamente perdere la funzione di difesa in giudizio dell’Amministrazione patrocinata, la c.d. funzione contenziosa. Difatti la difesa di un interesse in giudizio, ancorché sui 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 generis (“prima giudici e poi Avvocati” consigliava Mantellini nell’approcciare la difesa in giudizio dello Stato) è incompatibile con la funzione regolativa propria delle autority in posizione determinata. Anche sganciando l’Avvocatura dello Stato dal rapporto organico con la Presidenza del Consiglio dei Ministri per farne un ente giuridico autonomo con i connotati sopra riportati delle Autority, comunque la funzione contenziosa è incompatibile logicamente con i connotati delle Autority, qualunque sia l’Amministrazione patrocinata. Occorre quindi avere consapevolezza che la trasformazione in Autority determina quale logica conseguenza il venire meno della funzione contenziosa con tutti i corollari (perdita necessaria delle c.d. propine ex art 21 R.D. n.1611 cit. costituenti una componente del trattamento economico del personale togato; la presumibile perdita dello status giuridico di aggancio alle Magistrature, etc.); b) persa la funzione contenziosa la novella Avvocatura quale Autority dovrebbe svolgere funzioni amministrative consultive e di controllo (rectius: regolative); non anche la funzione di amministrazione attiva, attesa la incompatibilità logica della funzione di amministrazione attiva con i connotati caratterizzanti le cd. Autority. In ordine alle funzioni di controllo attribuibili in sede di riforma alla “nuova “Avvocatura dello Stato viene prospettata l’assegnazione della funzione di controllo sugli atti normativi regionali al fine di sollevare eventuali conflitti di attribuzione e l’assegnazione della funzione di dirimere controversie tra le Amministrazioni tradizionali e le Autority di settore. Tale materia appare veramente poco rilevante. Difatti il controllo sugli atti normativi della Regione può ben farsi a quadro normativo invariato - nell’ambito dell’attività informativa ex art.10 comma 2 lett. b) L. 5 giugno 2003 n.131 - con piccole modifiche organizzative. La funzione di dirimere le controversie tra Amministrazioni tradizionali e Autority è del tutto vaga e di carattere para–giurisdizionale, il che è incompatibile con i caratteri connotanti le Autority. Inoltre le funzioni che si intenderebbe attribuire all?Avvocatura dello Stato in sede di riforma dell’Istituto sono tali che potrebbero attribuirsi anche a legislazione vigente con modifiche organizzative (questo è il caso della funzione di monitorare la normativa comunitaria per valutarne la ricaduta nella Repubblica con le sue molteplici articolazioni, dallo Stato ai Comuni). All’evidenza è concreto il rischio che, ove si riformi l’Avvocatura dello Stato sul modello delle Autority, venga creato un nuovo ente chiamato “Avvocatura dello Stato” privo delle funzioni contenziose, con compiti generici e poco rilevanti, con aumento dei costi per lo Stato (che dovrebbe pagare gli attuali 370 Avvocati dello Stato e dovrebbe altresì pagare, a prezzo di mercato, gli Avvocati del libero foro ai quali verrebbero assegnate le cause non più in attribuzione della “nuova “ Avvocatura dello Stato). Tale nuova figura sarebbe LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 269 senz’altro destinata, nelle annuali previsioni contenute nella legge finanziaria che delegano il Governo a semplificare la P.A., ad essere liquidata. In conclusione si rileva che, anche se si trasformasse l’Avvocatura dello Stato in Autority con perdita della funzione contenziosa, con una accentuata funzione consultiva e con acquisizione della funzione di controllo, tale nuovo soggetto sarebbe comunque difficilmente riconducibile alla nozione di “vera Autority” così come configurata nel modello di origine francese e statunitense, perché si troverebbe ad operare in settori diversi da quelli “sensibili” (che connotano il carattere dell’Autority). Soffermiamoci ora sul modello di Autority come nuova struttura che inglobi tanto l’attuale Avvocatura dello Stato quanto l’organo del Pubblico Ministero (scorporato dall’A.G.O.). Se venisse creata una nuova struttura sul modello dell’Attorney General sopradescritto (quindi non una “vera” Autority), l’Avvocatura dello Stato dovrebbe, nella sostanza, rimanere come attualmente è, mentre il P.M. dovrebbe cambiare pelle con le necessarie modifiche costituzionali sopra descritte. Ove la nuova struttura fosse una “vera” autority, l’Avvocatura dello Stato dovrebbe cambiare pelle sul modello sopradescritto e il Pubblico Ministero subirebbe modifiche conservando intatta l’indipendenza e l’obbligatorietà dell’azione penale; tali modifiche implicano una riforma degli artt. 104, 105 e 108 Cost.. Va però rilevato che l’appartenenza del P.M. ad una Autority costituisce aspetto “atipico”, per cui comunque la nuova struttura non costituirebbe una “vera” Autority secondo i connotati caratterizzanti sopra descritti. In nessuno degli Stati dove sono sorte le Autority il P.M. è stato considerato una di esse. Né negli USA e in Gran Bretagna, dove anzi costituisce una componente del governo, né in Francia, dove è sotto il ferreo controllo del potere esecutivo. Inoltre il P.M. si atteggia comunque, nell’attuale processo penale italiano, come una parte, ancorché “imparziale” (art. 358 c.p.p. del 1988). Infine deve rilevarsi che il nuovo P.M. non si troverebbe comunque ad operare nei cd. “settori sensibili”, gli unici - come rilevato sopra - per i quali è predicabile la sussistenza di una “vera” Autority. 7. Interventi riformatori nell’alveo dell’attuale struttura dell’Istituto È opinione di chi scrive che i problemi riguardanti l’Avvocatura dello Stato vadano risolti nell’ambito di un intervento riformatore – già, in alcuni casi, a livello di organizzazione amministrativa – che conservi nella sostanza la struttura dell’Avvocatura dello Stato quale essa è. Trattazione del contenzioso seriale In ordine al contenzioso seriale deve rilevarsi che lo stesso si affronta con 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 un adeguato supporto organizzativo. Il contenzioso seriale da sempre ha interessato, nelle diverse epoche storiche, l’Avvocatura dello Stato. Nel secondo dopoguerra si sono avute le cause delle derequisizioni belliche, negli anni ’80 è esploso il contenzioso previdenziale. Vuol dirsi che un difensore, qualsiasi difensore – e a maggior ragione un difensore che abbia importanti clienti – ha cause seriali. Le cause seriali costituiscono anche ragione giustificatrice dell’esistenza di una struttura quale l’Avvocatura dello Stato. L’Avvocatura, con la sua struttura, può in modo completo ed esaustivo curare tali tipi di cause assicurando uniformità nella strategia difensiva. Se le cause seriali venissero trattate male, si determinerebbero pregiudizi notevoli per le casse dello Stato. Inoltre, se venissero affidate ad Avvocati del libero foro vi sarebbero certamente costi comparativamente maggiori rispetto a quelli richiesti per la difesa erariale. Peraltro va notato che già nel sistema vi sono gli strumenti tesi a massimizzare le risorse nelle cause seriali, essendo possibile garantire il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato solo nelle cause pilota, nelle cause importanti, nelle cause involgenti questioni di massima. All’uopo si richiama l’art. 417 bis c.p.c., secondo cui nel primo grado di giudizio del c.d. pubblico impiego privatizzato, le Amministrazioni dello Stato e gli enti patrocinati dall’Avvocatura dello Stato possono stare in giudizio tramite propri dipendenti, salvo che l’Avvocatura dello Stato determini di assicurare direttamente la trattazione della causa; si richiama altresì il già citato art. 13 comma 3 L. n. 103 inerente ai giudizi pensionistici innanzi alla Corte dei Conti. Riduzione delle competenze dello Stato e dinamiche del contenzioso In ordine al fenomeno della riduzione dello Stato si osserva che il fenomeno della perdita di potere dello Stato a fronte dell’ampliamento delle competenze dell’Unione Europea è irrilevante sul problema dell’aumento o riduzione di controversie dello Stato. Tale fenomeno determina unicamente una diversa allocazione della fonte di produzione di una data attività normativa in materia, che dallo Stato passa all’Unione Europea. L’attuazione della normativa di fonte comunitaria spetta esclusivamente agli Stati con le loro articolazioni territoriali, che intervengono secondo le regole interne di competenza. La non attuazione della normativa comunitaria genera un giudizio di responsabilità dello Stato davanti alla Corte di Giustizia Europea (in tale sede lo Stato Italiano è patrocinato, come detto sopra, dall’Avvocatura dello Stato). Il fenomeno della perdita di potere dello Stato, a fronte dell’ampliamento delle competenze delle Regioni e degli altri enti territoriali, determina senz’altro una contrazione del contenzioso ma non con connotati tali da determinare la fine – specie in sede periferica – del contenzioso interessante lo Stato. All’uopo si rileva: LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 271 1. Il venir meno del contenzioso riguardante lo Stato si avrebbe solo se venisse meno lo Stato Centrale. Il solo fatto che persista lo Stato centrale con competenze comunque importanti implica il persistere del contenzioso che lo riguarda. Il catalogo delle competenze dello Stato in materia legislativa è, in base all’art. 117 commi 2 e 3 della Costituzione, il seguente: “Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione Europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini non appartenenti all’Unione Europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezioni del Parlamento europeo; g) ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile ed anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statico ed informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Sono materie di legislazione concorrente quelle relative: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare ed integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali ed ambientali e promozione ed organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario ed agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la podestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.” Tale catalogo delle competenze legislative dovrebbe, quale conseguenza, comportare una correlativa competenza amministrativa dello Stato (art. 118 comma 1 Cost.: “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurare l’esercizio unitario, sono conferite a province, Città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”). 2. A riprova di quanto detto deve evidenziarsi che in vari Stati federali sussiste comunque una struttura federale che cura il contenzioso dello Stato Federale. Basti richiamare la struttura dell’Attorney General negli USA che tratta il contenzioso dello Stato Federale e quella della Finanzprokurator in Austria. Con ciò vuol dirsi che non vi è una incompatibilità tra Stato Federale ed Avvocatura dello Stato, la quale patrocinerebbe il solo Stato Federale. 3. Le modificazioni e le trasformazioni dello Stato implicano, invece, il mutamento della tipologia del contenzioso che lo riguarda. Fino agli anni ’60 l’Avvocatura dello Stato trattava in prevalenza cause tributarie; negli anni ’70 è esploso il contenzioso del lavoro; l’adesione sempre più convinta dell’Unione Europea ha determinato un contenzioso interno conseguenza di inadempimenti ad obblighi comunitari; le nuove frontiere della responsabilità civile hanno determinato la nascita di nuovi tipi di responsabilità dello Stato (quale la responsabilità per omesso controllo del sangue trasfuso e per omessa vigilanza nell’attività bancaria, etc.); la stipula della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo ha germinato - a partire dal 2002 - le cause in tema di cd. legge Pinto. Dunque il contenzioso muta, ma non sparisce. La contrazione dello stesso, che verosimilmente si avrà all’esito della completa attuazione del federalismo, deve essere vista con favore e non con diffidenza. Il minor numero delle cause, infatti, implicherà qualitativamente un recupero di efficienza nell’attività difensiva. Siamo abituati, analizzando le statistiche, a trattare un numero notevolissimo di cause, e ciò a partire dagli anni ’80. Fino agli anni ’80 il contenzioso non era numeroso come oggi. Nel 1950 il numero degli affari nuovi pervenuti era, come detto, sulle 30.000 unità, laddove nel 1997 era sulle 215.000 unità. Fino al 1980 il numero degli Avvocati di ruolo era di 200 e LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 273 quello dei Procuratori di 42, nel 1980 il numero degli Avvocati nel ruolo era di 300 e quello dei Procuratori di 70. Dalle statistiche che sono riportate deve quindi acclararsi un continuo aumento del contenzioso a fronte di un pressocchè stabile organico dell’Avvocatura dello Stato. La paventata contrazione del contenzioso permetterà – conducendo il sistema dalla patologia alla fisiologa – una trattazione completa del contenzioso e del consultivo affidato all’Avvocatura dello Stato, tornando a quel rapporto numero degli affari/numero degli Avvocati e Procuratori esistente fino agli anni ’70. Ciò consentirebbe di trattare al meglio il contenzioso esistente, ossia di curare direttamente le cause seriali, quelle in materia di pubblico impiego anche in primo grado, quelle in materia pensionistica davanti alla Corte dei Conti aventi implicazioni di diritto (ad es. quelle di ripetizione di indebito, etc.) e quelle penali. Peraltro, come rilevato sopra nella descrizione del carico di lavoro dell’Avvocatura dello Stato nel periodo 1998/2009, il contenzioso si è mantenuto elevato nonostante il venire meno delle cause previdenziali ed il decentramento operato con le cosiddette Leggi Bassanini. In ordine alla trasformazione di settori statali in strutture privatistiche si osserva: fino a che la trasformazione in società privatistiche non determinerà il venir meno del controllo dello Stato è logicamente sostenibile e naturale che il patrocinio delle strutture privatistiche spetti all’Avvocatura dello Stato. Ciò, infatti, è compatibile con il sistema e in specie con l’art. 43 R.D. n. 1611 cit. Autorevole dottrina sul punto enuncia: “… può ritenersi che la mera trasformazione della veste formale dell’Ente, che non incida sulla sua identità, lascia operante l’autorizzazione già disposta del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato fino a che, fuoriuscito l’Ente privato dalla sfera pubblica, non venga espressamente revocato il patrocinio dell’Avvocatura” (così P. PAVONE, Lo Stato in giudizio pg. 370-371 Giuffrè ed. 2002). In generale vuol dirsi che venendo in rilievo un organismo di diritto pubblico – con i connotati previsti nella disciplina comunitaria – logicamente compatibile è il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in favore di esso organismo. Questa è la linea di tendenza anche del legislatore, che in casi recenti di trasformazione di strutture pubbliche in società di diritto privato (come nel caso dell’ANAS) ha previsto il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Redistribuzione delle risorse umane Per conseguire lo svolgimento in modo efficiente del carico di lavoro potrebbe operarsi una oculata redistribuzione delle risorse umane. Si è notato sopra che, tanto nel ruolo del personale togato quanto nel ruolo amministrativo, vi sono delle carenze. A ranghi ridotti è tuttavia opportuno che le risorse umane siano razionalmente distribuite negli uffici, onde evitare – in una situazione già sofferente – sperequazioni di carico lavorativo. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 All’uopo si è proceduto a rilevare il carico di lavoro annuo alla luce degli affari consultivi e contenziosi per singola Avvocatura. Onde ottenere un dato che eviti fluttuazioni accidentali in un singolo anno, si è operata – per gli ultimi due anni – una media annua degli affari, ossia per ciascuna Avvocatura si sono sommati i consultivi ed i contenziosi del 2008 e 2009 e la somma è stata divisa per due. Quindi, sulla base di tale dato, si è operata la media del numero degli affari affidati a ciascun avvocato, tenendo conto del numero di avvocati presso ciascun Distretto alla data dell’1 gennaio 2008. Infine si è individuato il rapporto tra il numero del personale togato e il numero del personale amministrativo, sempre alla data del 1 gennaio 2008, al fine di misurare l’entità del supporto ausiliario alla funzione difensiva. Distretti Numero di Avvocati assegnati Numero di impiegati assegnati Numero cause per Avvocato Rapporto Avvocato/ Impiegato Ancona 3 12 632 4 Bari 11 24 662 2,18 Bologna 12 23 351,5 1,91 Brescia 5 14 365 2,8 Cagliari 8 21 368 2,62 Caltanissetta 3 11 448 3,66 Campobasso 4 10 486 2,5 Catania 9 32 822 3,55 Catanzaro 8 25 1.104 3,12 Firenze 11 23 381 2,09 Genova 8 16 353 2 L’Aquila 7 16 478 2,28 Lecce 10 39 427 3,9 Messina 5 21 851 4,2 Milano 14 39 377 2,78 Napoli 25 80 966 3,2 Palermo 19 40 570 2,1 Perugia 6 11 378 1,83 LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 275 Nel valutare il rapporto avvocati/impiegati va precisato che il rapporto nazionale (ricavato dalla divisione della somma del personale amministrativo in servizio alla data del 2008 ed il personale togato in servizio alla data del 2008) è di 2,44. Dal quadro sopra riportato emerge che il carico di lavoro del personale togato delle Avvocature del Centro (escluso Roma e Perugia) e del Sud è comparativamente maggiore rispetto a quello delle Avvocature del Nord e dell’Avvocatura Generale. Dallo stesso si rileva altresì che il supporto del personale amministrativo al lavoro dei togati delle Avvocature del Centro (escluso Roma e Perugia) e del Sud è comparativamente maggiore rispetto a quello delle Avvocature del Nord e dell’Avvocatura Generale. Tale situazione determina delle aporie nella gestione del lavoro. Da colloqui con colleghi delle Avvocature del Nord – ad es. di Torino e di Bologna – risulta che il personale togato batte a macchina ordinariamente i propri atti, fa le copie dei documenti, predispone il fascicolo di costituzione; ciò per far fronte a carenze di supporto amministrativo. Con intuitivo disagio e dispendio di energie . Appare peraltro significativo osservare come l’informatizzazione ha patologicamente determinato di fatto un travaso tra l’attività di competenza del personale amministrativo verso il personale togato. Risulta in tal modo evidente una disarmonia organizzativa che, sia pur variamente articolata, incide sull’attività degli avvocati e procuratori di tutte le sedi. A tali aporie occorre rimediare completando l’organico del ruolo del personale togato, da assegnare poi presso le Avvocature con il maggiore carico Distretti Numero di Avvocati assegnati Numero di impiegati assegnati Numero cause per Avvocato Rapporto Avvocato/ Impiegato Potenza 4 15 427 3,75 Reggio Calabria 7 22 750 3,14 Roma 122* 230 377 1,88 Salerno 7 20 527 2,85 Torino 7 19 ---** 2,71 Trento 3 7 652 2,33 Trieste 3 13 644 4,33 Venezia 11 22 532 2 (*) Esclusi i 6 Avvocati fuori ruolo. (**) Non si dispone dei dati necessari. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di lavoro per i togati, e completando l’organico del ruolo del personale amministrativo da assegnare poi presso le Avvocature del Nord e l’Avvocatura Generale e di Perugia, dove il supporto del personale amministrativo al lavoro dei togati è comparativamente minore rispetto a quello delle Avvocature del Centro (escluso Roma e Perugia) e del Sud. Diversamente, lasciando inalterato l’organico effettivo, una possibile tecnica di intervento potrebbe essere quella di spostare – magari in sede di immissione di nuove risorse umane a fronte della cessazione dal servizio di quelle esistenti – unità di personale togato presso le Avvocature con maggiore carico di lavoro ed unità di personale amministrativo presso quelle sedi con carenze. L’assegnazione di unità di personale amministrativo presso le sedi con carenze va tuttavia ponderata tenendo presente che presso le sedi in questione vi può essere un minore carico di lavoro rispetto alle altre. Del tutto peculiare è la situazione dell’Avvocatura Generale, che al 2008- 2009, se comparata con le altre sedi (comparazione da fare cum grano salis attesa l’importanza delle funzioni svolte), appare con un basso carico di lavoro, tenendo conto della media degli affari nuovi assegnati a ciascun avvocato, e con alta carenza di personale amministrativo. Deve ritenersi che tale situazione è la conseguenza del concorso di tre fattori. Nel decennio 1998-2008 presso l’Avvocatura Generale si sono verificati: a) una lenta, altalenante, riduzione del contenzioso che è passato da 60.609 a 47.369 affari; b) un aumento progressivo del numero del personale togato: nel 1998 i togati in servizio erano 99, nel 2002 erano 102, nel 2008 sono 122 (dal calcolo vengono esclusi i fuori ruolo); c) una diminuzione progressiva del numero del personale amministrativo: nel 1998 i dipendenti amministrativi in servizio erano 275, nel 2002 erano 272, nel 2008 sono 230. Sicchè nel 1998 un avvocato presso la Generale ha avuto assegnati in media 612 affari, in luogo dei 377 affari nel periodo 2008-2009. Inoltre nel 1998 per ogni togato vi erano 2,77 impiegati, laddove nel 2008 ve ne sono 1,88. In termini di carico di lavoro, quindi, alla diminuzione del contenzioso non è corrisposta una più agevole gestione degli studi professionali degli avvocati in quanto anche all’Avvocatura Generale si è verificata una anomala ricaduta sugli avvocati e procuratori del già esaminato processo di informatizzazione. Processo di informatizzazione e valorizzazione del personale non togato Sul piano rigorosamente amministrativo si dovranno garantire misure efficaci ed idonee per assicurare la migliore funzionalizzazione del processo di informatizzazione in modo da valorizzare al massimo la professionalità del personale non togato al fine di costituire un valido e ineludibile supporto del LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 277 personale togato in ciò che attiene alla gestione telematica ed informatica del contenzioso. Interventi legislativi di riforma dell’Istituto Nel prospettato quadro appare utile tracciare delle possibili linee evolutive da tener conto nell’auspicata ed attesa riforma legislativa dell’Istituto e del suo ruolo e di cui di seguito si delineano sinteticamente taluni profili : 1. L’autonomia finanziaria dell’Avvocatura dello Stato, con l’istituzione di un capitolo unico di bilancio, nell’ambito dello stanziamento previsto ed approvato con la legge finanziaria e di bilancio dell’anno. 2. La dirigenza amministrativa. Momento necessario per il recupero della efficienza della macchina organizzativa dell’Avvocatura dello Stato è la creazione, in sede di riforma legislativa, della figura del Dirigente amministrativo accanto all’Avvocato Generale e agli Avvocati Distrettuali. Tale figura dovrebbe gestire le risorse umane e materiali strumentali per l’idoneo svolgimento dell’attività defensionale dell’Avvocatura dello Stato. 3. La durata determinata degli incarichi dirigenziali. In armonia con l’attuale disciplina del management pubblico gli incarichi dirigenziali (Avvocato Generale, Avvocato Distrettuale, Dirigente Amministrativo) devono avere durata determinata con controllo della gestione. 4. La trattazione di parte del contenzioso tributario. E’ auspicabile un parziale recupero del contenzioso tributario in capo all’Avvocatura dello Stato. Sul punto si condividono in pieno le parole dell’allora Avvocato Generale Luigi Mazzella, pronunciate nella Relazione al Service sulla Giustizia del Lions Club “Salerno 2000”, secondo cui: “ …..L’Avvocatura dello Stato, forte della sua articolazione territoriale, potrebbe assicurare, sia in sede consultiva che contenziosa, la centrale funzione svolta nelle controversie tributarie, ormai concentrate tutte dinanzi alle Commissioni Tributarie con l’ultima riforma in materia, laddove vengono in rilievo questioni di massima o particolare valore economico o pendono ricorsi pilota in grado di influenzare significativamente il futuro contenzioso. A tal fine sarebbe sufficiente un intervento legislativo, sul tipo di quello previsto dal D.lgs. 29/93 in tema di patrocinio dello Stato nelle cause di pubblico impiego “privatizzato”, che rimetta alla valutazione dell’Avvocatura dello Stato la scelta, in base alla importanza della questione, se difendere l’Amministrazione o se rimettere, come avviene tuttora, direttamente ai funzionari della stessa la rappresentanza e difesa in giudizio” (pg. 32, Relazione pubblicata altresì nella Rassegna dell’Avvocatura dello Stato gennaio-dicembre 2001 p. XXVIII). 5. La possibilità di delega (sul modello dell’art. 2 R.D. n. 1611 cit.) nei giudizi penali. Tale minuscola modifica consentirebbe una razionale ed efficiente organizzazione della strategia difensiva nel penale, sterilizzando i tempi “morti” in udienza. 6. La modifica della composizione del Consiglio degli Avvocati e Procu- 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 ratori dello Stato (con prevalenza della componente elettiva), con valore vincolante dei suoi pareri nelle materie su cui analogamente deliberano in modo vincolante gli organi di autogoverno operanti nella magistratura ordinaria, contabile e amministrativa. In tal modo si agevolerebbe, intuitivamente, la gestione amministrativa dell’Istituto. Nel presente lavoro si è tenuto conto : a) del “ruolo di anzianità situazione al 1° gennaio 1998” , del “ruolo di anzianità situazione al 1° gennaio 2002” e del “ruolo di anzianità situazione al 1° gennaio 2008” dell’Avvocatura dello Stato al fine di individuare ruolo, effettivi e sede del personale togato e non togato; b) dei dati statistici riportati nelle relazioni quinquennali dell’Avvocatura dello Stato e nella Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, per la rilevazione del contenzioso fino al 1999; c) dei dati ricavabili: da articoli e da discorsi dell’Avvocato Generale in occasione della cerimonia di inaugurazione degli anni giudiziari apparsi sulla Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, dalla citata “Relazione della S.S.P.A: sull’Avvocatura dello Stato” e dal Sistema Informatico dell’Avvocatura dello Stato (grazie all’aiuto del dott. Vittorio Vigoriti e alla collaborazione di colleghi di diverse sedi), per la rilevazione del contenzioso dal 2000 al 2009. Nell’assemblare i dati potrei aver commesso degli errori di calcolo e me ne scuso sin d’ora. L’Autore. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 279 La cessione dei crediti d’impresa Con particolare riferimento alla disciplina dettata dalla normativa di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52 Flavio Ferdani* Il presente articolo si propone quale scopo precipuo quello di effettuare una compiuta ed esauriente analisi delle problematiche che riguardano la cessione dei crediti di impresa, con particolare riferimento a quello che è il regime dettato dalla normativa di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52 che disciplina appunto tale tipologia di cessione. La suddetta normativa benché rivesta particolare importanza soprattutto per i factors, non disciplina tuttavia il contratto di factoring, del quale non fornisce infatti nemmeno la definizione, né tantomeno né regola il funzionamento. In realtà essa prevede la disciplina di ogni tipologia di cessione dei crediti di impresa che rivesta i requisiti previsti dal dettato normativo della legge medesima ed indipendentemente dal titolo in virtù del quale viene disposto il trasferimento (1) . Ne deriva quindi che la legge n. 52/1991 non può essere considerata essenzialmente una normativa sul factoring, bensì una legge che detta la disciplina su un particolare tipo di cessione dei crediti. La normativa oggetto d’esame non costituisce un sistema autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore dal 1942. Infatti, secondo l’orientamento della dottrina (2), entrambe le discipline prevedono tutta una serie di regole e di principi che devono essere necessariamente adeguate alle fattispecie concrete, che però non sono sempre assolutamente separabili e incomunicabili. Ciò nel senso che tra quella che è la normativa che disciplina i crediti di impresa e quella che norma i crediti “ordinari”, di cui al dettato previsto dagli artt. 1260 e seguenti non sussistono sovrapposizioni, né margini attraverso i quali operare eventuali integrazioni, anche se va precisato che non tutte le regole dettate dalla legge speciale hanno contenuti diversi da quelli che sono stati previsti dal legislatore del 1942 (3). (*) Vice Prefetto, Capo di Gabinetto della Prefettura di Pisa. (1) GALGANO, Commentario breve al codice civile, CELT, 2006, p. 1006. (2) PERLINGIERI, Le cessioni dei crediti ordinari e “d’impresa”. Nozioni, orientamenti giurisprudenziali e documenti, Esi, 1993, p. 101 ss. (3) PERLINGIERI, Della cessione dei crediti, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1982. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Da ciò ne deriva conseguentemente che la normativa relativa alla cessione dei crediti di impresa sottrae tale fattispecie di cessione a quelle che sono le limitazioni previste dal legislatore del 1942, con riferimento alle cessioni ordinarie del credito. Resta inteso che viene fatta salva, comunque, l’applicazione delle norme del codice civile per tutte quelle cessioni di credito che siano prive dei requisiti richiesti dalla legge stessa. La nuova disciplina offre, pertanto, un fondamento normativo a quella che è la cessione in massa dei crediti relativi alle imprese, e tutto questo al fine di sottrarre tali cessioni a quelle che sono le regole comuni dettate dagli artt. 1260 e seguenti del codice civile. La legge n. 52/1991, quindi, pone in essere “una disciplina di tipo qualificato di cessione del credito” ed è caratterizzata dal fatto che essa costituisce una disciplina speciale che va applicata a determinate ipotesi di cessione; ne deriva pertanto, che essa può essere considerata una sorte di “appendice” alla normativa prevista dal legislatore del 1942. Tutto questo ci permette di tracciare una distinzione tra le due normative: infatti, mentre le disposizioni del codice dettano una disciplina generale alla quale vanno soggetti tutti i negozi di cessione del credito, al contrario la legge n. 52/1991 contiene, invece, una disciplina di natura cosiddetta speciale che va applicata nelle ipotesi di cessione che presentano i requisiti richiesti dalla legge medesima. 1. La cessione dei crediti nel factoring Prima di procedere all’esame della suddetta problematica, è opportuno delineare i tratti essenziali del contratto di factoring, dove, come è noto, un imprenditore si impegna a cedere ad un altro imprenditore (factor) tutti i crediti derivati o, quelli futuri, derivanti dall’esercizio della sua impresa (4). Più in particolare il factoring costituisce un contratto atipico che si concretizza attraverso la cessione della titolarità dei crediti di un imprenditore, che derivano dall’esercizio della sua impresa, ad un altro imprenditore factor, in virtù di un effetto traslativo che può concretizzarsi in due momenti diversi: già al momento dello scambio dei consensi tra i medesimi nell’ipotesi in cui la cessione è globale e i crediti sono esistenti, ovvero differito al momento in cui i crediti vengono ad esistenza se sono futuri. In ogni caso, comunque, l’effetto traslativo, si concretizza attraverso il perfezionamento della cessione tra cedente (fornitore) e cessionario (factor), indipendentemente dalla volontà e dalla conoscenza del debitore ceduto (Cass. (4) CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 3, Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, UTET, Torino, 2001, p. 151 ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 281 2 febbraio 2001, n. 1510) (5). Il contratto di factoring (6) costituisce un contratto di natura atipico in cui sussiste un elemento tuttavia costante che è la gestione della totalità dei crediti di un’impresa, che viene attuata attraverso lo strumento delle cessione dei crediti. Quindi siamo di fronte essenzialmente ad una operazione fondata sulla cessione dei crediti in quanto un imprenditore trova un accordo con un altro imprenditore, cosiddetto factor, il cui elemento fondante è finalizzato a cedere a quest’ultimo tutti i crediti via via derivanti dall’attività di impresa, ovviamente dietro il pagamento di una determinata percentuale delle somme da riscuotere. Nonostante l’avvento della legge n. 52/1991 che disciplina, come già detto, la fattispecie della cessione dei crediti di impresa, il contratto di factoring ha mantenuto i caratteri tipici di un contratto atipico in quanto non ne viene data né una definizione né una precisa regolamentazione. Apertis verbis la nuova disciplina, in altri termini, non ha provveduto a tipizzare quello che è il contratto di factoring, eliminando così il problema della sua qualificazione giuridica. Anzi, al contrario tale normativa non provvede nemmeno a definirlo, occupandosi unicamente della cessione dei crediti di impresa. Conclusivamente va sottolineato come, nell’ambito del contratto di factoring, per quanto concerne la disciplina della cessione dei crediti, vale quanto previsto dalla disciplina dettata dalla legge n. 52/1991 nel caso in cui il cedente ricopra determinate figure e più dettagliatamente: un imprenditore, il cessionario una banca o un intermediario finanziario, il cui oggetto sociale preveda l’esercizio dell’attività di acquisto dei crediti di impresa. Al di fuori di queste ipotesi vale quella che è l’ordinaria disciplina dettata dal codice civile (7). 2. Disciplina speciale della cessione dei crediti di impresa Si tratta di una debita e doverosa premessa e soprattutto andava chiarito che il dettato di cui alla legge n. 52/1991, progettata dal Legislatore per regolare il contratto di factoring, ha in realtà disciplinato un tipo speciale di cessione dei crediti, che è utilizzabile anche per altri tipi di convenzione, oltre che per quella del factoring stesso (8). (5) Cass. 2 febbraio 2001, n. 1510 in Giust. civ. 2001, I, p. 1856 ss. (6) ZATTI, Manuale di diritto civile, CEDAM, 2006, p. 725 ss.; GALGANO, Commentario breve al codice civile, CELT, 2006, p. 1003 ss.; FINELLI, nota di commento, La cessione dei crediti d’impresa come schema di contratto atipico a prestazioni corrispettive, in Nuova giur. civ., 2004, I, p. 162 ss. (7) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 1314, 1315. (8) PERLINGIERI, Le cessioni dei crediti ordinari e “d’impresa”. Nozioni, orientamenti giurispru- 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Premesso ciò è ora opportuno passare all’analisi degli aspetti peculiari e caratterizzanti la disciplina della cessione dei crediti di impresa al fine di mettere in evidenza le differenze rispetto alla disciplina generale dettata dal codice civile. Si tratta, pertanto, di procedere, seppur in maniera sintetica, all’esame delle disposizioni contenute nella legge 21 febbraio 1991, n. 52 che prevede, appunto, una normativa di tipo speciale per la cessione dei crediti di impresa e contiene delle deroghe a quella che è la disciplina generale della cessione dei crediti prevista dal codice civile. 3. Ambito di applicazione della legge n. 52/1991 L’applicazione della legge speciale, contenente la disciplina dei crediti di impresa, si applica soltanto nelle ipotesi in cui ricorrono determinate condizioni sia di carattere soggettivo (che devono essere presenti sia nel cedente i crediti sia nel cessionario) sia di carattere oggettivo (9). Per quanto concerne le condizioni soggettive, il cedente deve rivestire la figura di un imprenditore (art. 1, lett. a, l. cit.). Ne deriva pertanto che il possesso della qualità di imprenditore costituisce condizione necessaria per l’esistenza del tipo contrattuale. Molto più puntuale è la caratterizzazione che la legge richiede per la figura del cessionario (art. 1, lett. c), il quale deve essere una banca o un intermediario finanziario ed il cui oggetto sociale preveda l’esercizio dell’attività d’acquisto di crediti di impresa. Per quanto concerne invece le condizioni oggettive la legge indica in modo preciso che la cessione deve essere effettuata dietro corrispettivo e che possono essere oggetto di cessione soltanto i crediti che sorgono da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’impresa (art.1, lett. b). Inoltre, l’articolo 3 ammette la possibilità di una cessione anche dei crediti futuri, cioè di quei crediti che sorgeranno da contratti ancora da stipulare e consente, altresì, anche la cessione di crediti in massa, purché, se futuri, derivanti da contratti da stipulare in un periodo non superiore a ventiquattro mesi. La cessione dei crediti in massa si considera con oggetto determinato anche con riferimento a crediti futuri, se è indicato il debitore ceduto. Ne deriva quindi che se tali condizioni non ricorrono, allora la cessione va soggetta alla regolamentazione prevista dalla disciplina generale dettata dal codice civile. denziali e documenti, Esi, 1993, p. 102 ss.; GALGANO, Commentario breve al codice civile, CELT, 2006, p. 1003 ss. (9) ZATTI, Manuale di diritto civile, CEDAM, 2006, p. 726. LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ 283 4. Garanzia e solvenza Per le sue caratterizzazioni del tutto innovative, rispetto alla disciplina codicistica, si connota la disciplina delle garanzie dovute dal cedente. L’art. 4, della legge speciale infatti, rovescia quello che è il principio stabilito dall’art. 1267 del codice civile, in quanto pone a carico del cedente, fatto salvo la rinuncia del cessionario, la garanzia della solvenza del debitore. Si tratta, quindi, di regola, di una cessione del credito che possiamo definire pro solvendo (10) secondo il dettato di cui all’art. 1267 del codice civile che disciplina appunto tale ipotesi di cessione. In questo caso il cedente risponde anche della solvenza del ceduto, solo quando ne abbia assunto la garanzia. Il secondo comma dell’art. 1267 codice civile prevede, poi, che qualora il cedente ha fornito la garanzia circa la solvenza del debitore, la garanzia viene meno se la mancata realizzazione del credito dovuta all’insolvenza del debitore viene a dipendere da negligenza del cessionario nell’iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore stesso. Ciò comporta quindi, che il cessionario è, comunque, tenuto a un obbligo di diligenza. “La cessione di credito pro solvendo, che, come è noto, si perfeziona attraverso il solo consenso dei contraenti, produce immediatamente l’effetto reale tipico di trasferire in capo al cessionario la titolarità del credito, mentre l’effetto liberatorio nei confronti del cedente si realizza solamente nel momento del pagamento da parte del ceduto al cessionario...” (Cass. civ., sez. I, 19 gennaio 1995, n. 575). 5. Effetti della cessione rispetto ai terzi Una disciplina che presenta delle differenziazioni regola quelli che sono gli effetti della cessione rispetto ai terzi. L’articolo 5 fa salva, con il secondo comma, per il cessionario, la facoltà di rendere la cessione opponibile ai terzi nei modi previsti dal codice, ma introduce anche, con il primo comma, un criterio nuovo, fondato sulla data certa del pagamento, totale o parziale del corrispettivo della cessione. Gli articoli 6 e 7 disciplinano, poi, rispettivamente le ipotesi di fallimento del ceduto e di fallimento del cedente (11). Nell’ipotesi in cui si verifichi il fallimento del ceduto, il pagamento effettuato da quest’ultimo in favore del cessionario non è soggetto a revocatoria (10) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 1315.; TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, CEDAM, 2004, p. 671. (11) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 1315. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 fallimentare. Tale azione può essere, peraltro, iniziata nei confronti del cedente, nell’ipotesi in cui il curatore provi che egli, al momento del pagamento, conosceva lo stato di insolvenza del debitore. In questa ipotesi viene fatta salva la rivalsa del cedente verso il cessionario, che abbia rinunciato alla garanzia di solvenza del debitore (art. 6). Qualora si verifichi l’ipotesi di un fallimento del cedente, l’ opponibilità della cessione è subordinata alla sussistenza di determinati requisiti. In particolare alla priorità della data certa del pagamento del corrispettivo rispetto a quella della sentenza dichiarativa, a meno che il pagamento da parte del cessionario che conosceva lo stato di insolvenza del cedente sia avvenuto entro l’anno precedente alla sentenza stessa e prima della scadenza del credito ceduto (art. 7). Per quanto concerne invece l’ efficacia della cessione rispetto al debitore ceduto, va detto che sulla base di quanto si ricava dall’articolo 5, l’efficacia della cessione rispetto al debitore ceduto è regolata, anche in questo caso, dal dettato di cui all’articolo 1264 del codice civile e, pertanto, non sono richiesti particolari requisiti formali. D O T T R I N A Procedure per l’affidamento di concessioni di lavori pubblici con prelazione per il promotore Casi e problematicità nella disciplina della finanza di progetto successiva al terzo correttivo Gianfrancesco Fidone* SOMMARIO: 1. La finanza di progetto e la prelazione del promotore: storia di un rapporto conflittuale; 2. La procedura in due fasi con prelazione del promotore; 3. Il diritto di prelazione nel caso dell’iniziativa privata conseguente alla mancata pubblicazione del bando di gara; 4. Valutazioni conclusive. 1. La finanza di progetto e la prelazione del promotore: storia di un rapporto conflittuale Il d.lgs. 11 settembre 2008 n. 152, terzo decreto correttivo al d.lgs. 163/2006, Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha sostanzialmente modificato le procedure di aggiudicazione delle concessioni su iniziativa privata, cosiddetta finanza di progetto o project financing (1). Infatti, l’art. 1, co. 1 lett. ee) ff) gg) del correttivo sostituisce integramente il precedente testo degli artt. 153 e ss. del Codice. Tale riforma costituisce il momento (per ora) conclusivo di una lunga elaborazione legislativa che più volte ha modificato la disciplina della finanza di progetto, introdotta dalla l. 415 del 1998 (c.d. Merloni ter) nell’impianto della l. 109 del 1994 (c.d. Merloni), all’art. (*) Avvocato amministrativista e professore a contratto di diritto amministrativo - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. (1) Per un commento al terzo correttivo si veda: R. DE NICTOLIS, Le novità del terzo (e ultimo) decreto correttivo del codice dei contratti pubblici, Urbanistica e Appalti, n.11, 2008, pp. 1225 e ss. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 37 ter (2). La controversa vita della finanza di progetto ha ruotato intorno alla dibattuta presenza (o soppressione) del diritto di prelazione concesso al promotore (3). Tale previsione è stata una delle novità rilevanti introdotte dalla l. 166/2002, c.d. Merloni quater, che aveva novellato l’art. 37-ter della l. 109/1994. Esso consisteva nel riconoscimento al promotore della facoltà di adeguarsi, a parità di condizioni, all’offerta di un concorrente che l’ammini- (2) Tra i più recenti contributi in tema di finanza di progetto, precedenti al terzo correttivo: E. PICOZZA, Le nuove prospettive della finanza di progetto nel Codice dei contratti pubblici (Relazione al convegno organizzato dal Centro di studi amministrativi "Ignazio Scotto" sul tema: "La finanza di progetto con particolare riferimento al ruolo del sistema bancario", Velletri, 15 ottobre 2007), in Giurisdizione amministrativa, 2007, fasc. 9 pp. 301 ss.; R. DI PACE, La finanza di progetto, in I contratti con la pubblica amministrazione, a cura di C. FRANCHINI, pp. 1029 ss.; D. SPINELLI e P.L. LA VECCCHIA, La struttura di un’operazione di project financincg, in Opere Pubbliche: nuove modalità di realizzazione, Il Sole 24 ore s.p.a., 2007; S.M. SAMBRI, Project financing. La finanza di progetto per la realizzazione di opere pubbliche, in Trattato di Diritto dell’Economia, Cedam, Padova, 2006; B. RAGANELLI, Finanza di progetto e opere pubbliche. Quali incentivi?, Giappichelli, Torino, 2006; G. FIDONE, Aspetti giuridici della finanza di progetto, Luiss University Press, Roma, 2006; D. IELO, Due puntualizzazioni del Consiglio di Stato in tema di project financing, in Urb. app., 2006, n. 12, p. 1459 ss; G. PASQUINI, Il project financing e la discrezionalità, in Gior. dir. amm., 2006, n. 10, p. 1112 ss.; G. GUZZO, La finanza di progetto: fu vera gloria? Alcune riflessione sul project financing alla luce delle recenti pronunce del Cons. St., V, 10 novembre 2005, n. 6287, del Cons. giust. amm. Reg. siciliana, 22 dicembre, in Rivista trimestrale degli appalti, 2006, n. 1, p. 105 ss; V. REALE, Il project financing quale strumento per la realizzazione di opere pubbliche attraverso l’apporto di capitali privati, in Nuova rass. legisl., dottr. giur., 2006, n. 2, p. 198 ss.; A. CAMARDA, ivi, 2006, n. 2, p. 235 ss; SARACINO, La finanza di progetto tra dialogo competitivo e tutela della concorrenza, in Foro amm., TAR, 2006, pp. 3118 ss.; M. RICCHI, Finanza di progetto, contributo pubblico, controllo ed equità, in Dir. ec., 2006, p. 570; E. PICOZZA, La finanza di progetto con particolare riferimento ai profili pubblicistici, Giappichelli, Torino, 2005; A. VIGNUDELLI, La disciplina della finanza di progetto dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Dir. Amm., 2005, n. 3, p. 487 ss.; FRACCHIA, Finanza di progetto: i profili di diritto amministrativo, in Project financing e opere pubbliche. Problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, a cura di G. F. FERRARI e F. FRACCHIA, Egea, Milano, 2004, p. 57 ss.; F. CARINGELLA & G. DE MARZO, La nuova disciplina dei lavori pubblici. Dalla legge quadro alla Merloni-quater, Ipsoa, 2003; E. PICOZZA, La finanza di progetto nel sistema dell’attività contrattuale privata e pubblica, in Il Consiglio di Stato, n. 12, 2002, p. 2047 ss.. (3) Nella versione degli artt. 153 e ss. precedenti alla riforma, il procedimento previsto per l’affidamento della concessione ha inizio con la presentazione di una proposta da parte di un privato, l’aspirante promotore, adeguatamente qualificato, avente ad oggetto l’esecuzione e la gestione di un intervento già inserito dall’amministrazione nella propria programmazione triennale o negli strumenti di programmazione approvati ed ivi previsto da realizzarsi con finanziamento privato. La proposta presentata è sottoposta alla valutazione dell’amministrazione, sotto profili diversi espressamente specificati dalla stessa norma. Nel caso in cui siano presentate più proposte relative al medesimo progetto, è previsto che le stesse siano esaminate anche comparativamente. Ove la proposta sia ritenuta di pubblico interesse, essa è posta a base di una licitazione privata, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, finalizzata alla selezione delle due migliori offerte da contrapporre a quella del promotore (che non partecipa a tale gara). La concessione di costruzione e gestione viene, infine, affidata attraverso una procedura negoziata che coinvolge le due migliori offerte, o l’offerta migliore nel caso alla gara abbia partecipato un unico soggetto, e quella del promotore, mediante valutazione comparativa effettuata dall’amministrazione. A seguito di tale ultima fase, il promotore poteva esercitare il diritto di prelazione e adeguare la propria offerta a quella eventualmente migliore di un concorrente, e così aggiudicarsi la concessione. DOTTRINA 287 strazione avesse ritenuto migliore, con conseguente aggiudicazione della concessione. La norma, riprodotta nell’art. 154 del codice dei contratti pubblici, prevedeva che nella procedura negoziata il promotore potesse “adeguare la proposta a quella giudicata dall’amministrazione più conveniente. In questo caso, il promotore risulterà aggiudicatario della concessione”. La disposizione trovava il suo fondamento, da un lato nel riconoscimento al promotore dei maggiori oneri, di natura economica e imprenditoriale, sopportati nella presentazione della proposta, dall’altro nella volontà di incentivare l’iniziativa dei soggetti privati, vista la scarsità di proposte presentate nel periodo precedente alla 166/2002 (4). La stessa Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici aveva affermato che l’introduzione del diritto di prelazione per il promotore era “inteso a rimuovere quegli elementi di criticità che nel primo periodo di applicazione dell’istituto hanno costituito una remora al suo sviluppo”(5). Fin dalla sua introduzione, tuttavia, la disposizione aveva posto questioni giuridiche rilevanti, tra cui innanzitutto la compatibilità con il diritto comunitario della concorrenza e, in particolare, con il principio di parità di trattamento tra i partecipanti ad una procedura ad evidenza pubblica (6). In tale prospettiva, infatti, l’attribuzione di un diritto di prelazione al promotore, insieme agli altri meccanismi di incentivo contenuti nella normativa, aumentava evidentemente le possibilità che questi divenisse aggiudicatario della concessione. La conseguenza del diritto di prelazione era quella di scoraggiare le imprese dal partecipare alle gare nelle fasi successive a quella della scelta del promotore. Come evidenziato dall’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici la disposizione in questione “a parte la configurabilità di disarmonie rispetto ai principi comunitari, se da un lato può incentivare la presentazione di proposte, dall’altro rischia di limitare l’interesse del mondo produttivo a partecipare alla gara per l’individuazione dei due partecipanti alla prevista procedura negoziata, gara il cui risultato può essere vanificato con l’anzidetta prelazione”(7). Più nello specifico, l’esistenza del diritto di prelazione aveva l’effetto, nell’ambito dell’intera procedura di gara, di disincentivare comportamenti virtuosi degli attori coinvolti. Il promotore, confidando nella possibilità di adeguare in seguito la sua (4) Si veda, ad esempio, F. CARINGELLA, I procedimenti amministrativi nella realizzazione delle opere pubbliche con il project financing, in F. FONTANA e M. CAROLI (a cura di), Infrastrutture, finanza di progetto e competitività del sistema Italia, Luiss Guido Carli Scuola di Managment, Atti del Convegno, Rirea, Roma, 2002: “la circostanza che la valutazione positiva della proposta non determini una immediata aggiudicazione, ma comporti un rimescolamento successivo all’esito della gara, è sicuramente un fattore deflattivo”. (5) Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici Determinazione n. 27 del 2002. (6) G. FIDONE e B. RAGANELLI, Finanza di progetto e diritto comunitario: Compatibilità con il principio di parità di trattamento della c.d. “prelazione del promotore in Rivista italiana del diritto pubblico comunitario, anno XV, Fasc. 3-4, 2005. (7) Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici Determinazione n. 27 del 2002. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 proposta a quella eventualmente risultante migliore, poteva essere indotto a presentare inizialmente una proposta mediocre a costi elevati. D’altro canto, in considerazione del vantaggio attribuito al promotore, i soggetti potenziali concorrenti potevano risultare disincentivati a presentare offerte nella successiva gara, viste le scarse possibilità di aggiudicazione della concessione, peraltro dipendenti dalla scelta di adeguarsi o meno dello stesso promotore. La procedura ristretta di cui alla seconda fase della procedura poteva così andare deserta, con aggiudicazione diretta ex art. 155 comma 2 al soggetto promotore che aveva inizialmente presentato la proposta mediocre, con evidente danno per la pubblica amministrazione. Veniva, pertanto, a mancare il passaggio concorrenziale che, anche attraverso il controllo incrociato delle offerte dei concorrenti, può avere l’effetto benefico di attenuare gli effetti del fisiologico svantaggio informativo della pubblica amministrazione nei confronti dei soggetti privati (8). La Commissione Europea aveva intrapreso una procedura d’infrazione contro la Repubblica italiana per la presenza nell’ordinamento interno, in materia di opere pubbliche, di alcune norme, tra cui proprio il diritto di prelazione, in contrasto con i principi comunitari ed in primo luogo quelli della concorrenza e della par condicio (9). In realtà, la Commissione non aveva ritenuto che l’istituto della prelazione di per sé costituisse una violazione dei principi comunitari ma aveva ritenuto contrario al principio di parità di trattamento la mancata previsione dell’obbligo di rendere noto in sede di avviso pubblico il diritto di prelazione riconosciuto al promotore: la concorrenza doveva essere garantita ex ante, mettendo tutti gli interessati nella condizione di valutare, sulla base delle informazioni fornite, se proporsi o meno come promotore. Inoltre, la Commissione aveva censurato il fatto che nello stesso avviso pubblico non fosse obbligatorio predeterminare i criteri di scelta del promotore, che, invece avrebbero dovuto essere enunciati con chiarezza prima dell’inizio del procedimento. In risposta a tali censure, la legge Comunitaria 2004 n. 62 del 2005 aveva introdotto nell’art. 37 bis della 109/1994 l’obbligo, in sede di avviso pubblico, di pubblicizzare in modo trasparente ed espresso l’esistenza del c.d. diritto di prelazione e l’obbligo di indicare i criteri attraverso i quali selezionare il promotore. Soprattutto tale ultima modifica aveva, peraltro, avuto l’effetto di creare numerosi problemi intepretativi in relazione alla natura concorsuale o (8) Si veda: G. FIDONE, Un’applicazione di analisi economica del diritto: la procedura per la scelta del concessionario nel c.d. project financing su Rivista Giuridica dell’Edilizia, Anno XLIX, Fasc. 2006. (9) Commissione Europea, procedura d’infrazione n. 2001/2182 ex art. 226 del Trattato CE. Si veda ancora: G. FIDONE e B. RAGANELLI, Finanza di progetto e diritto comunitario: Compatibilità con il principio di parità di trattamento della c.d. “prelazione del promotore in Rivista italiana del diritto pubblico comunitario, anno XV, Fasc. 3-4, 2005. DOTTRINA 289 meno della fase della selezione del promotore, come si è ampiamente descritto in precedenza. Tali osservazioni, come detto, hanno indotto il legislatore con il d.lgs. 113/2007 ad eliminare il diritto di prelazione. A dire il vero tale abolizione è stata effettuata in modo troppo frettoloso, senza l’adeguamento delle altre norme che ne subiscono i riflessi, e senza la previsione di una disciplina transitoria per le procedure in corso. Peraltro, la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 21 febbraio 2008 (Causa C-412/04) ha ritenuto che le censure sollevate dalla Commissione Europea, tra le quali quelle riguardanti il diritto di prelazione, fossero generiche e irricevibili, in mancanza dell’indicazione da parte della commissione delle norme comunitarie violate dalle disposizioni italiane. Dunque, pur trattandosi di una sentenza di rigetto per motivi di rito, la pronuncia in questione ha, di fatto, sospeso il giudizio sulla legittimità dell’istituto della prelazione. Seppur abolito dal secondo correttivo d.lgs. 113/2007, il diritto di prelazione del promotore ha però continuato ad essere applicato alle procedure per le quali gli avvisi pubblici erano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 113/2007. Infatti, in mancanza di una norma transitoria, si pose il problema dell’applicabilità del diritto di prelazione alle procedure i cui avvisi sono stati pubblicati prima del d.lgs. 113/2007. Si tratta, peraltro, di un problema specularmene opposto a quello che si ebbe nel 2002, quando il diritto di prelazione fu introdotto. Se si fosse utilizzato il criterio che l’Autorità aveva suggerito in tale occasione, ossia quello dell’individuazione della lex applicabile al momento della pubblicazione del bando di gara per la procedura ristretta di cui alla fase due, la conseguenza sarebbe stata quella che il diritto di prelazione non poteva essere concesso neanche alle procedure già avviate e neppure nel caso di promotori già individuati prima dell’entrata in vigore della l. 113/2007 (10). Tale pericolo (10) All’epoca dell’introduzione, operata dalla l. 166/2002, del diritto di prelazione si discusse della possibilità di applicare l’istituto della prelazione del promotore ai procedimenti già in corso all’entrata in vigore della stessa l. 166/2002. L’Autorità di vigilanza, con determinazione n. 27 del 2002 si era pronunciata sulla questione. In mancanza di specifiche disposizioni transitorie, veniva richiamata l’applicazione del principio, consolidato nella Giurisprudenza del Consiglio di Stato della “vincolatività della lex specialis fissata con gli atti di gara, ancorché non coerente con lo ius superveniens eventualmente intervenuto dopo la loro emanazione”. Dunque, in linea generale, il procedimento doveva essere assoggettato alla disciplina vigente all’epoca di pubblicazione del bando, momento iniziale del procedimento stesso, e le modifiche normative intervenute successivamente a tale data, per quel procedimento, dovevano considerarsi irrilevanti. Tuttavia, l’Autorità concludeva il suo ragionamento affermando che nella procedura di project financing “è, invece, più corretto ritenere “bando” quello pubblicato per la scelta di colui o coloro che competeranno con il promotore. Tale atto, infatti, introduce una vera e propria procedura di gara”. Pertanto, all’avviso pubblico precedentemente emesso non veniva riconosciuta valenza di introdurre un fase procedurale, coerentemente con quanto affermava la Giurisprudenza dei TAR e poi del Consiglio di Stato, in merito alla natura non concorrenziale di tale fase della procedura. Su tale base, l’Autorità concludeva che il diritto di prelazione avrebbe trovato applicazione anche per i pro- 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 aveva, ovviamente, causato una forte preoccupazione tra le imprese già nominate promotori e seriamente comprometteva la realizzazione di molte opere. Si doveva, inoltre, tenere conto della disposizione di cui all’art. 253 del codice che afferma che “le disposizioni di cui al presente codice si applicano alle procedure e ai contratti i cui bandi o avvisi con cui si indice una gara siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”. Dunque, al fine dell’applicazione del diritto di prelazione alle procedure già avviate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 113/2007, occorreva che gli avvisi in questione fossero considerati “avvisi con cui si indice una gara”. Ciò, però, contraddiceva la Giurisprudenza prevalente che affermava il carattere non concorsuale della scelta del promotore (11). Come era accaduto nel 2002, l’Autorità di vigilanza è stata chiamata, in attesa di eventuali pronunce della Giurisprudenza, a dare al problema una prima soluzione a caldo, che evitasse di bloccare le procedure in corso ed è stata costretta a capovolgere l’orientamento che aveva affermato nella determinazione n. 27 del 2002, superando la posizione della Giurisprudenza in ordine alla natura della fase della scelta del promotore. Secondo l’Autorità, l’individuazione della legge speciale della gara deve essere fatta al momento dell’avviso pubblico che, dunque, deve essere considerato avviso che introduce una fase assimilabile ad una gara (cioè la scelta del promotore). Pertanto, il diritto di prelazione doveva essere attribuito a tutti quei promotori che fossero stati selezionati in relazione a procedure i cui avvisi siano stati pubblicati in epoca precedente all’entrata in vigore del d.lgs. 113/2007 (12). cedimenti le cui proposte erano già state presentate al momento della entrata in vigore della l. 166/2002, ma il cui bando di gara per la seconda fase non fosse stato ancora pubblicato. Tale conclusione non era tuttavia condivisa dalla Commissione europea che rilevava che il riconoscimento del diritto di prelazione al promotore, nell’ipotesi di procedimenti avviati o conclusi prima dell’entrata in vigore della legge n. 166 del 2002, sarebbe stato in contrasto con il principio di parità di trattamento. In questi casi, infatti, la pubblicizzazione dei programmi delle amministrazioni, non aveva avuto ad oggetto la previsione successivamente introdotta dalla Merloni quater all’art. 37 ter. Il diritto di prelazione riconosciuto a favore di promotori già individuati si sarebbe tradotto in una manifesta violazione dei principi di concorrenza e parità di trattamento tra i concorrenti. Tale conclusione era coerente con il principio secondo cui i criteri che conducono all’individuazione dell’aggiudicatario non possono essere modificati nel corso della procedura e devono essere applicati in maniera oggettiva e uniforme a tutti i partecipanti. (11) Per tutte si veda, C.d.S. n. 6287/2005. Sul punto, si veda pure: G. FIDONE, Finanza di progetto: la centralità della valutazione della proposta e della scelta del promotore in Rivista Giuridica dell’Edilizia, Anno XLIX Fasc. 2 – 2006. (12) Determinazione n. 8 del 2007 “Project Financing a seguito del d.lgs. 31 luglio 2007 n. 113”. Al fine di salvare il diritto di prelazione per le procedure già avviate, l’Autorità ha affermato che “Con la modifica apportata dalla legge 62/2005, il carattere unitario della procedura di project trova, quindi, il suo momento unitario nella pubblicazione dell’avviso indicativo e ciò comporta l’applicazione delle regole proprie della procedura ad evidenza pubblica già dalla sua pubblicazione ex art. 153”. E continua: “pur con le sue peculiarità, dunque, anche la fase di scelta del promotore deve rispondere ai canoni procedimentali che connotano le vere e proprie gare”. E aggiunge che l’avviso è “l’atto con cui l’amministrazione avvia una procedura concorsuale ad evidenza pubblica per la scelta del concessionario”. DOTTRINA 291 Il cortocircuito che si creò a seguito della delibera citata dell‘Autorità e il rischio che la pre-vigente procedura per l’aggiudicazione della concessione in finanza di progetto potesse condurre alla necessità di espletare tre diverse fasi di gara ha condotto alla riforma introdotta dal terzo decreto correttivo, con la quale il Legislatore ha soppresso le precedenti norme e previsto tre diverse nuove procedure (13): a) la gara unica senza diritto di prelazione per il promotore (art. 153 commi 1-14); b) la gara in due fasi con diritto di prelazione (art. 153 comma 15); c) la procedura ad iniziativa del privato nel caso di inerzia dell’amministrazione (mancata pubblicazione del bando di gara entro sei mesi dall‘inserimento dell’opera nella programmazione triennale), con diritto di prelazione in alcuni casi (art. 153 comma 16)(14). In relazione alle vicende della prelazione del promotore, si deve anche considerare che l’introduzione o l’abolizione di tale diritto ha l’effetto di mutare gli equilibri dell’intera procedura e del “peso specifico” delle singole fasi della stessa. Il riconoscimento al promotore di un simile vantaggio carica di importanza la fase della selezione dello stesso e impoverisce le successive fasi di gara. Al contrario, l’eliminazione del diritto di prelazione, svuota di importanza la fase della selezione del promotore (che, peraltro, nel corso degli anni era stata procedimentalizzata proprio per renderla compatibile con i principi comunitari, al fine di attribuire legittimamente il diritto di prelazione) e, nuovamente, aumenta il peso delle altre fasi, che tornano ad essere decisive al fine dell’aggiudicazione finale. Nei paragrafi successivi del presente scritto saranno esaminate criticamente le procedure per l’affidamento della concessione di lavori successive al terzo correttivo nelle quali è previsto il diritto di prelazione del promotore. Si tratta delle procedure previste dall’art. 153 comma 15, cioè quella a due fasi, e dall’art. 153 comma 16, ossia quella ad iniziativa del privato nel caso di mancata pubblicazione del bando di gara entro sei mesi dall’inserimento dell’opera nella programmazione triennale. (13) La riforma tiene, peraltro, conto delle osservazioni della Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana sulla trasposizione delle direttive in materia di appalti, di cui alla procedura di infrazione n. 2007/2329 e nota di costituzione in mora inviata il 1° febbraio 2008, della sentenza della Corte di Giustizia CE 15 maggio 2008 C-147/06 e C-148/06, delle osservazioni formulate dal Consiglio di Stato nel parere n. 3262 del 2007 reso sullo schema di regolamento di esecuzione ed attuazione del codice ex art. 5, delle osservazioni formulate dalla Corte dei Conti nel parere n. 51/I del 26 maggio 2008 e della preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri adottata nella riunione del 27 giugno 2008. (14) Il comma 2 dell’art. 1 prevede un regime transitorio per l’applicazione della nuova disciplina sulla finanza di progetto di cui all’art. 153. E’ disposto che questa non produce effetti sulle procedure in corso all’entrata in vigore del decreto, ma si applica la disciplina in vigore alla data di pubblicazione del bando. Il dies a quo per la decorrenza del termine di sei mesi di cui all’art. 153, co. 16 è fissato nella data di approvazione del programma triennale 2009-2011. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 2. La procedura in due fasi con prelazione del promotore In alternativa alla procedura in un’unica fase prevista dall’art. 153 commi 2 – 14, così come riformulato dal terzo correttivo, le amministrazioni aggiudicatici possono decidere di intraprendere una procedura di aggiudicazione distinta in due diverse fasi (15). I presupposti di tale seconda procedura sono gli stessi che consentono l’adozione della prima: si deve, cioè, trattare di lavori pubblici o di pubblica utilità già inseriti nella programmazione triennale e nell’elenco annuale di cui all'articolo 128, ovvero negli strumenti di programmazione formalmente approvati dall'amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente, finanziabili in tutto o in parte con capitali privati. Inoltre, analogamente a quanto accade per la procedura in un’unica fase, l’amministrazione deve aver già predisposto uno studio di fattibilità da porre a base di gara. Dunque, la scelta di adottare la procedura in una fase o quella in due fasi deve considerasi rimessa alla completa discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice. Non si riscontrano, infatti, ragioni giuridiche o economiche per le quali l’amministrazione dovrebbe scegliere un procedimento piuttosto che l’altro. A tale procedura si applicano, in quanto compatibili le disposizioni dei commi precedenti al 15 dello stesso art. 153, così come riformulato dal terzo decreto correttivo, con l’eccezione delle norme espressamente richiamate dallo stesso comma 15 ultimo periodo, e cioè il comma 10, lettere d) - e), il comma 11 e il comma 12. Le norme richiamate sono quelle che prevedono l’aggiudicazione diretta al termine della prima fase della procedura e, dunque, appare logico che non si applichino. Le due fasi della procedura consistono in una prima fase finalizzata alla scelta del promotore, al quale viene attribuito il diritto di prelazione e in una seconda fase che costituisce un ulteriore passaggio concorrenziale per individuare l’offerta economicamente più vantaggiosa, alla quale, eventualmente, il promotore potrà adeguarsi. Tale complessa procedura, come si vede, è più simile a quella precedente al terzo correttivo, disciplinata dai pre-vigenti artt. 153 e ss. e ne eredita alcune problematicità e incoerenze. (15) Per un commento completo alla nuova disciplina della finanza di progetto, si rinvia a: Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture, det. 14 gennaio 2009, n. 1, Linee guida sulla Finanza di progetto dopo l’entrata in vigore del c.d. “Terzo Correttivo” (d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152), p. 20, www.avlp.it; M. RICCHI, La nuova Finanza di Progetto nel Codice dei Contratti, Documento UTFP-PCM, gennaio 2009, www.utfp.it; G. FIDONE e B .RAGANELLI, Il promotore e la società di progetto, Commentario al Codice dei Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, coordinato dal Prof. MARCELLO CLARICH, Giappichelli (in corso di pubblicazione). Da tale ultimo lavoro sono ispirati i paragrafi 2 e 3 di questo scritto. DOTTRINA 293 La prima fase della procedura non comporta l’aggiudicazione al promotore prescelto, ma l’attribuzione allo stesso del diritto di essere preferito al migliore offerente individuato. Essa, se pure in un diverso contesto, dunque, ripristina l’istituto della prelazione del promotore, che era stato abolito dal secondo decreto correttivo, d.lgs. 113/2007, di cui si è già ampiamente trattato nei paragrafi precedenti. Tale reinserimento, probabilmente, è dovuto anche al fatto che la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 21 febbraio 2008 (Causa C-412/04) ha ritenuto che le censure sollevate dalla Commissione Europea riguardanti il diritto di prelazione (come le altre oggetto della pronuncia) fossero generiche e irricevibili, in mancanza dell’indicazione da parte della commissione delle norme comunitarie eventualmente violate, salvando, così, la legittimità dell’istituto. In ogni caso, secondo la nuova previsione, il diritto di prelazione viene assegnato espressamente sulla base di una procedura a tutti gli effetti concorrenziale. Infatti, essa è introdotta dalla pubblicazione di un bando di gara che ha contenuto analogo a quello previsto dall’art. 153 comma 3, primo periodo, per la procedura in un’unica fase: esso, cioè deve avere il contenuto prescritto dall’art. 144 del codice. Lo stesso bando deve precisare che la procedura non comporta l’aggiudicazione al promotore prescelto, ma l’attribuzione allo stesso del diritto di essere preferito al migliore offerente individuato, ove intenda adeguare la propria offerta a quella ritenuta più vantaggiosa (comma 15 lett. a). Si tratta di una prescrizione analoga a quella, precedente al d.lgs. 113/2007, che prevedeva che nell’avviso pubblico che avviava la procedura di finanza di progetto all’epoca vigente dovesse essere espressamente menzionata l’esistenza del diritto di prelazione del promotore. Tale norma era stata inserita su pressione della Commissione Europea che aveva ritenuto legittima l’attribuzione della prelazione al promotore solo se adeguatamente pubblicizzata (si veda, procedura di infrazione 2001/2182). Una volta selezionato il promotore attraverso il primo passaggio concorrenziale, l’amministrazione deve provvedere alla approvazione del progetto preliminare in conformità al comma 10, lettera c), analogamente a quanto avviene nella procedura in un’unica fase (comma 15 lett. b). Essa, cioè, pone in approvazione il progetto preliminare presentato dal promotore, con le modalità indicate all'articolo 97. In tale fase è onere del promotore procedere alle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’approvazione del progetto, nonché a tutti gli adempimenti di legge anche ai fini della valutazione di impatto ambientale, senza che ciò comporti alcun compenso aggiuntivo, né incremento delle spese sostenute per la predisposizione delle offerte indicate nel piano finanziario. Con riguardo a tale sub-procedimento di approvazione della progettazione preliminare contenuta nell’offerta del promotore, deve essere fatta 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 una riflessione che deve valere anche per la procedura in un’unica fase, prevista dai commi 3 e ss. dello stesso nuovo art. 153. Essa, infatti, consente di superare un limite della precedente versione della finanza di progetto, consistente nell’indeterminatezza del potere della pubblica amministrazione di richiedere modifiche al progetto preliminare presentato dal promotore. Peraltro, come è stato notato, tale soluzione “non lascia dubbi riguardo alla possibilità di apportare le modifiche prescritte in sede di conferenza di servizi disciplinate dagli artt. 14 bis e ss. della l. 241/1990 per il richiamo del successivo comma 10 lett. c all’art. 97 del Codice”( 16). Tuttavia, la nuova formulazione non supera il problema che tali poteri sono conferiti in relazione ad uno stadio ancora embrionale della progettazione, quale quello preliminare. Il fatto che l’aggiudicazione avvenga su tale livello di progettazione espone, infatti, l’amministrazione alla possibilità di successive variazioni che si potranno rendere necessarie al fine della redazione del definitivo e che, dunque, potrebbero, almeno parzialmente, vanificare le prescrizioni date in sede di preliminare e imporre necessari riequilibri del piano economico-finanziario. In ogni caso, dopo l’approvazione del progetto preliminare presentato dal promotore, l’amministrazione aggiudicatrice procede a bandire una nuova procedura selettiva, ponendo a base di gara lo stesso progetto preliminare approvato e le condizioni economiche e contrattuali offerte dal promotore, con il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa (comma 15 lett. c). Questa seconda fase può concludersi in due diversi modi. Il contratto è aggiudicato direttamente al promotore, se in sede di gara non siano state presentate offerte economicamente più vantaggiose rispetto a quella del promotore stesso. Ove, invece, siano state presentate una o più offerte valutate economicamente più vantaggiose di quella del promotore posta a base di gara, quest'ultimo può esercitare il diritto di prelazione: egli, cioè, entro il termine di quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’amministrazione aggiudicatrice, ha la facoltà di adeguare la propria proposta a quella del migliore offerente, aggiudicandosi il contratto, ai sensi dell’art. 153 comma 15 lett. e). Diversamente, nel caso in cui il promotore non adegui nello stesso termine di quarantacinque giorni la propria proposta a quella del miglior offerente individuato in gara, l’aggiudicazione del contratto avverrà a quest’ultimo. Pertanto, il termine di quarantacinque giorni entro il quale il promotore ha il diritto di esercitare la prelazione deve considerarsi perentorio e il decorso dello stesso fa venire meno tale diritto in capo al promo- (16) M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti a seguito del terzo correttivo d.lgs. 152/2008, in Urbanistica e Appalti, 12/2008. DOTTRINA 295 tore, con aggiudicazione al migliore offerente in sede di gara. Anche la procedura bifasica in commento prevede un meccanismo di rimborsi per i soggetti non aggiudicatari. In primo luogo, è previsto un rimborso per il soggetto (migliore offerente nella gara di cui alla fase due) a danno del quale è esercitata la prelazione: in questo caso l’amministrazione aggiudicatrice rimborsa a tale soggetto, a spese del promotore, le spese sostenute per la partecipazione alla gara, nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo e cioè nella misura massima del 2,5 per cento del valore dell'investimento, come desumibile dallo studio di fattibilità posto a base di gara. In secondo luogo, è previsto un rimborso per il promotore non aggiudicatario, nel caso di mancato esercizio della prelazione: in tale caso, l’amministrazione aggiudicatrice rimborsa al promotore, a spese dell’aggiudicatario, le spese sostenute nella misura massima di cui allo stesso art. 153 comma 9, terzo periodo, di cui si è appena detto. In conclusione, deve essere fatta un’osservazione legata all’esperienza passata. Nella procedura pre-vigente al secondo correttivo (nella vigenza del diritto di prelazione per il promotore) la partecipazione di concorrenti alle fasi successive alla scelta del promotore (le fasi due e tre) era pressoché nulla, dal momento che tale diritto di prelazione per il promotore disincentivava i potenziali concorrenti a prendere parte ad una procedura che li avrebbe, ragionevolmente visti perdenti, nel caso di adeguamento del promotore. Se ciò si verificasse (ed è logico prevedere che sarà proprio così) anche per la nuova procedura con prelazione prevista dal terzo correttivo, le due procedure previste dall’art. 153 comma 3 e dall’art. 153 comma 15 finirebbero, di fatto, per coincidere. Dunque, la previsione di tale duplicazione potrebbe rilevarsi, nella pratica, inutile. 3. L’iniziativa privata nel caso di mancata pubblicazione del bando di gara Il comma 16 dell’art. 153 così come riformulato dal terzo decreto correttivo, prevede un’ulteriore e distinta procedura che, però, ha presupposti diversi rispetto alle prime due. Tale procedura, infatti, presuppone che da un lato vi sia stato l’inserimento dei lavori in questione nell’elenco annuale di cui all’art. 128, richiamato dall’art. 153 comma 1. Tuttavia, deve anche ricorrere il caso in cui le amministrazioni aggiudicatici, dopo tale inserimento nella programmazione, non provvedano alla pubblicazione dei bandi di gara entro sei mesi dalla approvazione dello stesso elenco annuale. Il comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. 152/2008, peraltro, prevede che, in sede di prima applicazione della nuova disciplina, il termine di sei mesi in questione decorra dalla data di approvazione del programma triennale 2009-2011. Si tratta, dunque, di una procedura che ha la finalità di sostituire al- 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 l’inerzia dell’amministrazione protrattasi per sei mesi, l’iniziativa di un promotore privato (17). Si ricordi, che a norma del comma 2 dello stesso articolo al fine dell’attivazione di una delle due procedure alternative di cui ai commi 3 e ss. e 15, è sufficiente che l’amministrazione abbia almeno predisposto uno studio di fattibilità da mettere a base di gara. Qualora, invece, l’amministrazione abbia già a disposizione un progetto di livello almeno preliminare, potrà direttamente bandire una concessione ai sensi degli artt. 143 e ss. Dunque, al fine dell’esperibilità della procedura in esame, l’amministrazione aggiudicatrice non deve aver bandito una gara entro sei mesi dall’inserimento dell’opera nell’elenco annuale. In tale caso, i soggetti privati che abbiano il possesso dei requisiti di cui al comma 8, e cioè quelli previsti dal regolamento per il concessionario (anche associando o consorziando altri soggetti e fermi restando i requisiti di cui all’articolo 38), possono presentare una proposta entro e non oltre quattro mesi dal decorso del termine di sei mesi di cui si è già detto (decorrente dall’inserimento dell’opera nell’elenco annuale). Tale termine, in analogia con quanto anche la Giurisprudenza aveva affermato in relazione al termine per la presentazione delle proposte nelle procedure di project financing disciplinate dalle norme pre-vigenti al terzo decreto correttivo, deve considerarsi perentorio, poiché consente di realizzare l’effettiva par condicio tra i concorrenti. In relazione a tale momento della procedura si apre un primo problema interpretativo. La norma, infatti, non specifica se, decorso il termine di sei mesi di inerzia dell’amministrazione (ossia dal momento in cui i privati sono legittimati a prendere l’iniziativa), ad essa sia comunque consentito di pubblicare il bando introduttivo delle procedure alternative previste dai commi 3 e 15 dello stesso art. 153. Se ciò fosse consentito, potrebbe essere, infatti, vanificata l’attività che i privati avessero medio tempore intrapreso, ingenerando un problema di affidamento del privato. Ciò a maggior ragione dovrebbe valere dopo l’eventuale presentazione della proposta da parte del privato. D’altra parte, parrebbe irragionevole e antieconomico, decorso il termine dei sei mesi, non consentire all’amministrazione di procedere alla pubblicazione di un bando e obbligarla ad attendere che il privato presenti una proposta, con inizio di una procedura che è (come si vedrà) molto più lunga e complessa di quelle previste dai commi 3 e 15 (18). La proposta ha il contenuto dell’offerta di cui al comma 9 dello stesso art. 153: essa deve, dunque, contenere un progetto preliminare, una bozza di (17) Il promotore in questione è stato con efficacia definito “additivo” da M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti a seguito del terzo correttivo d.lgs. 152/2008, in Urbanistica e Appalti, 12/2008. (18) Nel senso di non ammettere la pubblicazione del bando decorsi i sei mesi in questione si veda: M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti a seguito del terzo correttivo d.lgs. 152/2008, in Urbanistica e Appalti, 12/2008. DOTTRINA 297 convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da una banca e la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione. Il piano economico- finanziario deve comprendere l'importo delle spese sostenute per la predisposizione delle offerte, comprensivo anche dei diritti sulle opere dell'ingegno di cui all'articolo 2578 del codice civile e non può superare il 2,5 per cento del valore dell'investimento, desumibile dallo studio di fattibilità posto a base di gara. Inoltre, la proposta deve essere garantita dalla cauzione di cui all’articolo 75 (ossia, pari al due per cento del prezzo base indicato), corredata dalla documentazione dimostrativa del possesso dei requisiti soggettivi, contenere l’impegno a prestare una cauzione nella misura dell’importo del 2,5 per cento del valore dell'investimento, come desumibile dallo studio di fattibilità posto a base di gara, ai sensi del comma 9, terzo periodo, nel caso di indizione di una delle gare ai sensi delle lettere a), b), c) dello steso comma 16, che si descriveranno di seguito. Entro i successivi sessanta giorni (decorrenti dalla scadenza del termine di quattro mesi di cui si è detto sopra), le amministrazioni aggiudicatrici provvedono a pubblicare un avviso con le modalità di cui all’articolo 66 ovvero di cui all’articolo 122, secondo l’importo dei lavori, contenente i criteri in base ai quali si procederà alla valutazione delle proposte pervenute. Tale pubblicazione di avviso è obbligatoria anche nel caso in cui sia prevenuta una sola proposta. Con riguardo a tale previsione, deve essere rilevato che il fatto che i criteri di valutazione siano elaborati successivamente (e sulla base) della proposta presentata desta non poche perplessità. Essa, infatti, sembra costituire una violazione della par condicio tra il promotore originario e gli altri eventuali concorrenti successivi la cui proposta verrà valutata sulla base di tali criteri. Tale violazione della par condicio non sembra del tutto eliminata dalle successive disposizioni che si stanno per descrivere. Entro novanta giorni dalla pubblicazione di tale avviso contenente i criteri di valutazione, le proposte già presentate possono essere rielaborate e ripresentate alla luce dei medesimi, così come ulteriori soggetti legittimati possono presentare nuove proposte. L’esame di tutte le proposte presentate (cioè quelle già presentate e non rielaborate, quelle presentate e rielaborate e quelle nuove), da parte delle amministrazioni aggiudicatici, deve avvenire entro sei mesi dalla scadenza del termine di novanta giorni di cui si è appena detto (19). (19) Secondo M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti a seguito del terzo correttivo d.lgs. 152/2008, in Urbanistica e Appalti, 12/2008, in relazione a tale scelta “potrebbe ventilarsi la violazione della par condicio nei confronti di tutti quei concorrenti la cui proposta viene valutata una sola volta al fine di dichiararla di pubblico interesse”. Tuttavia, poi, l’Autore conclude in senso contrario. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Successivamente a tale valutazione “le amministrazioni aggiudicatici, verificato preliminarmente il possesso dei requisiti, individuano la proposta ritenuta di pubblico interesse”. L’esame, dunque, si conclude con la valutazione di pubblico interesse di una proposta e con la scelta del promotore. Anche in questo passaggio la nuova disposizione non sembra felice ed eredita alcune delle problematiche della procedura di finanza di progetto disciplinata dagli artt. 153 e ss. previgenti al terzo correttivo. Infatti, la nuova disposizione non specifica la natura della valutazione di pubblico interesse appena descritta, se sia cioè una valutazione meramente discrezionale (se pure conseguente all’applicazione dei criteri indicati nell’avviso), o una valutazione comparativa con caratteri concorsuali. Dalla lettera della norma, sembrerebbe trattarsi di una valutazione meramente discrezionale dell’amministrazione aggiudicatrice: tuttavia, se così fosse, nel caso in cui la nomina a promotore attribuisse il diritto di prelazione (cioè, nel caso di scelta della procedura ex comma 16 lett. c)), si riproporrebbero tutte le problematiche inerenti alla nomina a promotore nella disciplina pre-vigente al terzo correttivo. Individuata la proposta di pubblico interesse, la norma individua tre possibili ipotesi di svolgimento della gara successiva e detta alcune disposizioni comuni alle tre ipotesi stesse. In primo luogo, se il soggetto che ha presentato la proposta prescelta e nominato promotore non partecipa alle gare bandite, l’amministrazione aggiudicatrice incamera la garanzia di cui all’articolo 75. Tale penale, evidentemente, ha la finalità di rendere non conveniente per il promotore disertare la gara che è stata avviata grazie alla sua stessa iniziativa e dovrebbe garantire la serietà delle stesse iniziative intraprese. In secondo luogo, secondo il comma 17, ultimo periodo, del nuovo art. 153, in tutte e tre le gare di cui al comma 16 (lett. a), b), c)) si applicano le disposizioni contenute nel comma 13 dello stesso articolo. Pertanto, le offerte devono essere corredate dalla garanzia di cui all'articolo 75 e da un’ulteriore cauzione fissata dal bando in misura pari al 2,5 per cento del valore dell'investimento, come desumibile dallo studio fattibilità posto a base di gara; successivamente, il soggetto aggiudicatario è tenuto a prestare la cauzione definitiva di cui all’articolo 113; dalla data di inizio dell’esercizio del servizio, il concessionario deve prestare una cauzione a garanzia delle penali relative al mancato o inesatto adempimento di tutti gli obblighi contrattuali relativi alla gestione dell’opera, nella misura del 10 per cento del costo annuo operativo di esercizio e con le modalità di cui all’articolo 113; in ultimo, viene specificato che la mancata presentazione di tale ultima cauzione costituisce grave inadempimento contrattuale. Tornando alle tre differenti ipotesi di gara disciplinate dal comma 16, la prima trova il suo presupposto nel caso in cui il progetto preliminare presentato dal promotore necessiti di modifiche. In tale caso, secondo la lett. a), “qualora DOTTRINA 299 ricorrano le condizioni di cui all’articolo 58 ” viene indetto un dialogo competitivo e vengono posti a base di gara il progetto preliminare e la proposta presentata. Se il promotore non risulti aggiudicatario, ha diritto al rimborso, con onere a carico dell’affidatario, delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo e cioè nella misura massima del 2,5 per cento del valore dell'investimento, come desumibile dallo studio di fattibilità posto a base di gara. Anche in questo passaggio la norma appare affrettata e si pongono problemi di coordinamento con la disciplina del dialogo competitivo dettata dall’art. 58 che, tra l’altro, presuppone, ai fini dell’adozione del dialogo competitivo, la particolare complessità dell’appalto. Nel caso di specie, infatti, l’avvio del dialogo competitivo trova fondamento solo nella necessità di modifica del progetto preliminare presentato dal promotore e, dunque, potrebbe riguardare anche opere assolutamente semplici, contravvenendo i presupposti generali dell’art. 58. Tuttavia, secondo il testo della lettera a) il dialogo competitivo potrebbe essere avviato solo “qualora ricorrano le condizioni di cui all’articolo 58 ” e dunque non per opere semplici o non particolarmente complesse. Dunque, vi è un vero e proprio buco della norma, laddove nulla è previsto in relazione a proposte che abbiano da un lato la necessità di adeguamento del progetto preliminare e, dall’altro, siano semplici o non particolarmente complesse o, comunque, nel caso in cui non ricorrano le condizioni per l’applicazione dell’art. 58 (20). Peraltro, non si comprende perché nel caso di necessità di modifica del progetto preliminare del promotore non possa essere consentita l’attivazione di una sub-fase, assimilabile a quella disciplinata dallo stesso art. 153 comma 10 lett. c), che renda obbligatorio al promotore apportare le varianti richieste alla progettazione presentata, al fine dell’esperimento della successiva gara. Peraltro, sembra contraddetta anche la prescrizione dell’art. 58 che attribuisce alla scelta del dialogo competitivo carattere di residualità rispetto all’adozione di altri tipi di procedure di selezione, che nel caso di specie, una volta modificato il progetto preliminare sarebbero assolutamente percorribili. In ultimo, dal momento che il secondo correttivo, d.lgs. 113/2007, ha sospeso l’efficacia delle disposizioni sul dialogo competitivo sino all’entrata in (20) Secondo l’Autorità: “La disposizione non prevede quale sia l’esito della procedura nel caso in cui, sebbene il progetto necessiti di modifiche, non sussistano le condizioni per il ricorso al dialogo competitivo. Si potrebbe, in tal caso, ritenere che l’amministrazione stessa modifichi il progetto preliminare, adeguandolo alle modifiche richieste in sede di approvazione, predisponga il piano economicofinanziario ed indica una gara ai sensi dell’art. 143 del Codice; altrimenti l’amministrazione potrebbe procedere con le modalità dell’art. 15, lett. b), c), d), ed f) previa indicazione di entrambe le possibilità nell’avviso di gara, poiché la disposizione non ne richiama l’applicazione, invitando in ogni caso il promotore”, det. 1 del 14 gennaio 2009, cit., pag. 28. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 vigore del Regolamento attuativo, la procedura in questione, sino a tale momento, dovrebbe ritenersi non percorribile. Se, invece il progetto preliminare non necessita di modifiche, l’amministrazione aggiudicatrice ha due diverse opzioni alternative. E’ con riferimento a tali ipotesi che viene nuovamente previsto il diritto di prelazione del promotore. Può, dopo avere approvato il progetto preliminare presentato dal promotore, bandire una concessione ai sensi dell’articolo 143, ponendo a base di gara lo stesso progetto preliminare presentato dal promotore e invitando il promotore alla gara (comma 16, lett. b). In tale caso, dunque, la procedura di scelta del concessionario avverrà ai sensi dell’art. 144 del codice e il promotore dovrebbe partecipare in una posizione assolutamente paritaria rispetto a quella dei suoi eventuali concorrenti, senza godere di alcuna posizione privilegiata. Alternativamente, sempre dopo avere approvato il progetto preliminare presentato dal promotore, può bandire una gara ex art. 153 comma 15 lettere c), d), e), f), ponendo a base di gara lo stesso progetto del promotore e invitando quest’ultimo alla gara (comma 16 lett. c). Si tratta della seconda fase della procedura bifasica disciplinata dall’art. 15, di cui si è trattato nel paragrafo precedente. Dunque, la procedura disciplinata dal comma 16 può considerarsi come alternativa, nel caso del diverso presupposto dell’inerzia dell’amministrazione di cui si è già detto, alla prima fase della procedura disciplinata dal comma 15 lettere a) e b). In tale caso, differentemente, dalla precedente opzione, il promotore all’interno della procedura da svolgersi godrebbe di una posizione di vantaggio rispetto agli altri concorrenti poiché allo stesso viene conferito il diritto di prelazione che dovrà essere esercitato entro i quarantacinque giorni decorrenti dalla comunicazione dell’amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 15 lett. e). Peraltro, rispetto a tali due differenti ipotesi, deve essere osservato che la scelta dell’amministrazione dovrebbe essere manifestata sin dall’inizio della procedura, al momento dell’avviso pubblico a presentare proposte, ai sensi del comma 16 comma 1 secondo capoverso. La fattispecie, infatti, appare assolutamente analoga a quella prevista dalla versione dell’art. 143 pre-vigente al terzo correttivo, a proposito della quale la Commissione Europea aveva segnalato l’illegittimità del conferimento del diritto di prelazione in assenza di adeguata pubblicità, tanto da provocarne la modifica operata dalla l. 166/2002 che aveva espressamente previsto che, appunto, l’avviso introduttivo della procedura indicasse l’esistenza del diritto di prelazione. Inoltre, appare necessario che gli aspiranti promotori, al momento di presentare le proposte ai sensi del comma 16 sappiano se a loro, nell’eventualità in cui fossero scelti promotori, spetti o meno il diritto di prelazione, al fine di consentire loro di effettuare corretti calcoli di convenienza in ordine all’intrapresa dell’iniziativa o alla partecipazione alla procedura in una fase successiva. DOTTRINA 301 Un ulteriore problema sembra derivare dall’ambigua formulazione del comma 18 dello stesso art. 153 che afferma che nelle due procedure alternative da ultimo descritte “al promotore che non risulti aggiudicatario nelle procedure, si applica quanto previsto dal comma 15, lettere e) ed f)”. Tale disposizione sembra doversi interpretare solo limitatamente ai rimborsi previsti da tali norme, dal momento che sono usate le parole “al promotore che non risulti aggiudicatario”. Dunque, la disposizione avrebbe riferimento alla sola fase successiva al momento dell’aggiudicazione e, pertanto, non potrebbero trovare applicazione i riferimenti alla prelazione del promotore, contenuti nelle stesse lettere e) e f) del comma 15, che attengono evidentemente ad un momento antecedente all’aggiudicazione. D’altra parte, se così non fosse e se in entrambi i casi si applicasse il diritto di prelazione, le due procedure alternative finirebbero per coincidere nella sostanza. Allo stesso modo, non si capisce il riferimento alla lettera e) che si riferisce ai rimborsi spettanti al migliore offerente (concorrente del promotore) che ha subito l’esercizio della prelazione, dal momento che il richiamo è limitato al solo “promotore che non risulti aggiudicatario” (21). Limitando l’operatività del richiamo in questione al solo rimborso del promotore non aggiudicatario (e, dunque, solo alla lettera f del comma 15) a questi, dunque, l’amministrazione, a spese dell’aggiudicatario, dovrà rimborsare le spese sostenute nella misura massima di cui allo stesso art. 153 comma 9, terzo periodo, di cui si già detto. Il riferimento, sarà dunque al promotore non aggiudicatario nel caso di gara ex art. 16 lett. b) e al promotore (sempre non aggiudicatario) che non ha esercitato il diritto di prelazione nel caso di gara ex art. 16 lett. c). Come si vede da alcuni dei problemi interpretativi evidenziati, la norma posta dall’art. 16 appare, per alcuni versi, ambigua e incompleta e, sicuramente, creerà numerosi problemi applicativi. Essa, ha fortissime similitudini con la procedura pre-vigente al terzo correttivo che ha generato e continua a generare (per le procedure in corso) un fortissimo contenzioso, con pronunce discordanti da parte dei giudici amministrativi. Tra l’atro, il procedimento in questione potrebbe essere largamente utilizzato, dal momento che appare verosimile che si verificheranno con una certa regolarità le situazioni di inerzia protratta per sei mesi da parte dell’amministrazione concedente, presupposto della procedura in oggetto. L’interpretazione delle procedure sub lettere b) e c) che si è appena esposta deve considerarsi preferibile a quella data delle stesse procedure dalla de- (21) Di diverso avviso è l’Autorità di Vigilanza, secondo la quale: “Si noti che, in entrambe le procedure di cui al precedente n. 3 [cioè, quelle di cui alle lettere b) e c)], il promotore gode del diritto di prelazione. Non sussiste il diritto di prelazione qualora il progetto preliminare necessiti invece di modifiche”, det. 1 del 14 gennaio 2009, cit., pag. 28. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 termina dell’Autorità di Vigilanza, det. 1 del 14 gennaio 2009, e dalla UTFP del gennaio 2009, che invece pretenderebbero di applicare la prelazione ad entrambe le fattispecie previste dall’art. 153 comma 16 lett. b) e c). In ogni caso, allo scopo di evitare il ripetersi degli inconvenienti legati alla pre-vigente procedura della finanza di progetto, è auspicabile che, almeno per la procedura prevista dal comma 16, di cui si discute, il Legislatore, con una certa urgenza, torni ad intervenire. 4. Valutazioni conclusive L’effettiva concorrenzialità di una procedura di gara, garantita dalla par condicio tra i partecipanti, ha la funzione principale di garantire l’imparzialità delle scelte dell’amministrazione. La messa in concorrenza è, inoltre, anche uno strumento di controllo (nell’interesse dell’amministrazione) dei comportamenti dei soggetti competitori, in quanto l’interazione con altri soggetti e il controllo incrociato tra gli stessi riducono il potere e la libertà di azione degli stessi soggetti coinvolti nel confronto concorrenziale. Inoltre, gli effetti della concorrenza, come noto, sono quelli di ridurre il margine di profitto dell’aggiudicatario finale, sia in termini di prezzo corrisposto dall’Amministrazione, sia in termini di proventi della gestione della concessione, anche con riferimento alla durata della stessa. Dunque, in linea di principio, l’effettiva concorrenza consente all’amministrazione di ottenere soluzioni progettuali e condizioni contrattuali più convenienti (22). La prelazione del promotore è, certamente, uno strumento che crea all’interno di un medesimo procedimento uno status differenziato per il soggetto che ne dispone, rispetto a quelli che ne sono privi. Si potrebbe trattare, dunque, di una limitazione dell’effettiva concorrenzialità della procedura che potrebbe condurre a effetti indesiderati. Tuttavia, la previsione della prelazione del promotore ha anche la ratio di incentivare i soggetti privati (aspiranti promotori) al coinvolgimento nelle operazioni di finanza di progetto, nel caso in cui l’iniziativa privata comporti grandi costi di avvio della procedura a carico dell’aspirante promotore, a fronte del rischio che il promotore possa perdere la concessione e dunque non essere compensato con l‘aggiudicazione del contratto. In tale ottica, dovranno essere esaminate, sotto l’esame dell’applicazione pratica, le procedure descritte, previste dall’art. 153, commi 15 e 16, del Codice, verificando, da un lato, se siano in grado di assicurare un’effettiva messa in concorrenza, nonostante la previsione del diritto di prelazione, o se al contrario tale previsione produca effetti distorsivi e disincentivanti. Allo stesso (22) Si veda: M. CAFAGNO, Lo Stato Banditore, Giuffrè Editore, 2001. DOTTRINA 303 tempo, dall’altro lato, deve essere valutato se l’attuale formulazione delle procedure esaminate preveda effettivi eccezionali sforzi iniziali del promotore, maggiori rispetto alle procedure ordinarie, tali da giustificare la previsione del diritto di prelazione per tale soggetto. Di tale circostanza, almeno con riferimento alla procedura prevista dall’art. 153 comma 15, si ha fondato motivo di dubitare, apparendo nella realtà tale procedura sostanzialmente ad “iniziativa pubblica”, vista la previsione di un bando di gara sulla base di uno studio di fattibilità già predisposto dall’amministrazione. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 La Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob Quadro normativo d'insieme e sintesi applicativa Giorgio Gasparri* SOMMARIO: 1. La tutela degli interessi collettivi degli investitori-consumatori. - 2. Le procedure di conciliazione e arbitrato per la risoluzione stragiudiziale delle controversie sorte fra investitori e intermediari: l’istituzione della Camera di conciliazione e arbitrato presso la CONSOB (CCA). - 2.1. L’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo dei procedimenti amministrati dalla CCA. - 2.2. La composizione, i compiti e il funzionamento della CCA. - 2.3. Gli elenchi dei conciliatori e degli arbitri tenuti dalla CCA. - 2.4. Le modalità di attivazione e gestione della conciliazione stragiudiziale. - 2.5. Le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo ordinario. - 2.6. Le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo semplificato. 1. La tutela degli interessi collettivi degli investitori-consumatori L’art. 7, d.lgs. 17 settembre 2007, n. 164, ha inserito il capo IV-bis del titolo II della parte II del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. TUF), relativo alla tutela degli investitori: i nuovi artt. 32-bis e 32-ter, TUF, hanno provveduto a estendere alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento le previsioni del Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) in materia di legittimazione ad agire delle associazioni di consumatori, nonché le previsioni della legge sulla tutela del risparmio (art. 27, l. 28 dicembre 2005, n. 262) in materia di procedure di conciliazione e arbitrato. In particolare, l’art. 32-bis, TUF, ha attribuito la legittimazione ad agire «per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio» alle «associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’art. 137 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206» nelle forme previste dagli artt. 139 e 140. Tale disposizione non ha, peraltro, sollevato lo stesso clamore dell’introduzione dell’art. 140-bis, Cod. Cons., istitutivo dell’«azione di classe» a tutela degli interessi individuali omogenei di categorie di consumatori. In effetti, l’art. 32-bis consente una legittimazione attiva alle sole associazioni regolamentate ai sensi dell’art. 137, Cod. Cons., mentre la class action è aperta anche a gruppi non necessariamente coincidenti con le «associazioni dei consumatori (*) Avvocato e funzionario CONSOB, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Il lavoro riflette le opinioni dell’autore e non impegna in alcun modo l’Istituto di appartenenza. DOTTRINA 305 e degli utenti rappresentative a livello nazionale», eventualmente sorti in funzione dello stesso esperimento dell’azione collettiva. La disposizione dell’art. 32-bis è, insomma, limitativa rispetto all’art. 140-bis, Cod. Cons. Il rimando contenuto nell’art. 32-bis all’art. 140, Cod. Cons., comporta che la legittimazione delle associazioni dei consumatori si esplichi nell’inibitoria delineata secondo le disposizioni generali di rito. Attraverso la class action, invece, il legislatore ha, da un lato, creato un iter processuale ad hoc e, dall’altro, ha eletto l’azione collettiva a mezzo di protezione a cospetto della lesione di posizioni di diritto volte a far conseguire il ristoro del danno e quindi un’integrazione patrimoniale. Le disposizioni dell’art. 32-bis, comma 1, e dell’art. 140-bis sono, peraltro, fra loro compatibili e cumulabili, anche se la loro coesistenza, secondo alcuni, porrebbe qualche dubbio di coerenza costituzionale: la più ampia legittimazione attiva concessa dall’art. 140-bis farebbe dubitare della legittimità delle restrizioni stabilite dall’art. 32-bis mediante il rinvio alla sola disposizione di cui all’art. 140. Quanto al contenuto della disposizione, a prima lettura potrebbe apparire che essa introduca nel diritto dei mercati finanziari un’equazione “investitoriconsumatori”, con la conseguenza che, una volta posta l’endiadi entro il sistema delle tutele, princìpi e regole del diritto dei consumatori potrebbero, per ciò stesso, divenire princìpi e regole della tutela degli investitori. Il discorso, in verità, va esattamente ribaltato. Invero, l’area della legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori riconosciute dall’art. 139, Cod. Cons., è dalla stessa disposizione generale rigorosamente circoscritta alle «ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei consumatori contemplati nelle materie disciplinate» dal Codice del Consumo e da altre disposizioni legislative. Ne viene che la disposizione del TUF non può estendere tale area, attribuendo alle associazioni una competenza rappresentativa di interessi che ben possono riguardare investitori (cioè controparti dell’intermediario) anche diversi dalle persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla loro attività imprenditoriale, commerciale o professionale (cc.dd. consumatori). Le associazioni dei consumatori possono, dunque, intervenire e chiedere ex art. 140, Cod. Cons., l’inibizione di atti e comportamenti, l’adozione di misure idonee a correggerne o eliminarne gli effetti e la pubblicazione dei provvedimenti, se e in quanto l’azione dell’intermediario sia volta in pregiudizio di investitori che siano anche consumatori (1). Poiché, l’attività dell’intermediario è svolta sistematicamente e continuativamente presso clienti del più diverso tipo e poiché essa è in grado di riverberare i propri effetti sui rischi “acquistabili” sul mercato (o già acquistati e “rivendibili”), in uno svolgimento senza soluzione di continuità (1) Si ricordi, in proposito, che l’art. 67-noviesdecies, Cod. Cons., già le legittimava al reclamo e all’azione di inibitoria nel caso di violazione delle disposizioni sulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari a consumatori. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 di operazioni di segno reciproco, la competenza delle associazioni di consumatori è tendenzialmente generale, in quanto su quel mercato, in ogni momento e per qualunque tipologia di operazione ammessa, possono divenire attori anche soggetti aventi qualifica di consumatori, nei cui confronti la violazione degli obblighi dell’intermediario può, quindi, per definizione, produrre effetto, magari manifestandosi ex post, quando il consumatore ha già effettuato l’investimento. La tutela degli interessi collettivi degli investitori garantisce, quindi, la tutela degli interessi dei consumatori attualmente (o potenzialmente) ricompresi nella più ampia categoria di investitori, assieme a soggetti aventi diversa qualificazione giuridica. Ciò spiega perché l’art. 32-bis, TUF, non richiami l’art. 140-bis, Cod. Cons.: tale disposizione, infatti, opera, in ogni caso, nei limiti posti dalla disciplina di legge, a prescindere dalla specificità della materia. La relativa applicazione ai rapporti finanziari non postula l’identità tipologica tra consumatore e investitore e, anzi, conferma che, tra gli investitori, i consumatori sono semplicemente soggetti a disposizioni speciali in materia di tutela, che si aggiungono a quelle comuni. Tra queste ultime si segnala proprio l’art. 32-ter, TUF, in materia di risoluzione stragiudiziale delle controversie, nel contesto del quale il legislatore italiano ha, peraltro, approfittato dello spazio impostogli dall’art. 53, Dir. 21 aprile 2004, n. 2004/39/CE (c.d. MiFID)(2), per istituire sistemi aperti non soltanto ai consumatori, ma anche agli investitori in generale. E, con perfetta simmetria, il d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179 (ma già l’art. 27, l. n. 262/05, sulla tutela del risparmio) applica la speciale disciplina della conciliazione e arbitrato presso la CONSOB (in cui torna la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori ex art. 140, Cod. Cons.) e la tutela del Fondo di garanzia a tutti gli «investitori» e «risparmiatori», escludendone solo quelli «professionali », e quindi includendovi anche investitori “non consumatori”. 2. Le procedure di conciliazione e arbitrato per la risoluzione stragiudiziale delle controversie sorte fra investitori e intermediari: l’istituzione della Camera di conciliazione e arbitrato presso la CONSOB (CCA) Si è appena ricordato l’art. 32-ter, TUF, in tema di «risoluzione stragiudiziale di controversie»: secondo tale disposizione, ai fini della risoluzione stragiudiziale di controversie sorte fra investitori e soggetti abilitati e relative alla prestazione di servizi e di attività di investimento e accessori e della gestione collettiva del risparmio, trovano applicazione le procedure di conciliazione e arbitrato definite ai sensi dell’art. 27, l. 28 dicembre 2005, n. 262; fino all’istituzione di tali procedure è prevista l’applicazione dell’art. 141, Cod. (2) In tema di «controversie in materia di consumo relative alla prestazione di servizi di investimento e di servizi accessori da parte delle imprese di investimento». DOTTRINA 307 Cons. Seguendo modelli già diffusi in altri sistemi, l’art. 27, commi 2 e 3, l. n. 262/05 aveva, invero, previsto l’introduzione di procedure di conciliazione e di arbitrato in materia di servizi di investimento. Secondo il disegno tracciato dalla l. n. 262, tali procedure – da svolgersi «dinanzi alla CONSOB», nel contraddittorio delle parti, tenuto conto di quanto disposto dal d.lgs. n. 5/03, secondo criteri di efficienza, rapidità ed economicità – erano destinate alla decisione di controversie insorte fra i risparmiatori o gli investitori (esclusi gli investitori professionali), da un lato, e le banche o gli altri intermediari finanziari, dall’altra lato, in merito alla lamentata violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con la clientela. In attuazione di tale delega, è stato successivamente adottato il d.lgs. n. 179/07, relativo all’istituzione di procedure di conciliazione e di arbitrato, di un sistema di indennizzo e di un fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori. In particolare, ai fini che qui interessano, l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 179, ha provveduto ad istituire «una Camera di conciliazione e arbitrato presso la CONSOB per l’amministrazione […] dei procedimenti di conciliazione e di arbitrato promossi per la risoluzione di controversie insorte tra gli investitori e gli intermediari per la violazione da parte di questi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori», rinviando ad un successivo regolamento della CONSOB: - la definizione dell’organizzazione della Camera di conciliazione e arbitrato (CCA); - le modalità di nomina dei conciliatori e degli arbitri; - le norme per lo svolgimento dei procedimenti di conciliazione e di arbitrato. L’art. 3 ha, inoltre, previsto – per il caso in cui, a seguito dell’esperimento delle procedure di arbitrato amministrato dalla CCA, risulti l’inadempimento da parte dell’intermediario degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza – la possibilità per l’investitore, di ottenere un indennizzo per il ristoro delle conseguenze pregiudizievoli derivanti da siffatto inadempimento. Successivamente, nell’agosto 2008, la CONSOB ha pubblicato un documento di consultazione contenente la bozza del regolamento disciplinante la CCA, invitando tutte le parti interessate a far pervenire le proprie osservazioni, sulla scorta delle quali è stata, quindi, redatta la versione definitiva del regolamento di attuazione del d.lgs. n. 179, adottato con la delibera CONSOB del 29 dicembre 2008, n. 16763 (Gazz. Uff. 8 gennaio 2009, n. 5). La CONSOB ha, in tal modo, definito: - la composizione, i compiti e il funzionamento della CCA (artt. 2-4); - i requisiti di accesso agli elenchi dei conciliatori e degli arbitri (artt. 5-6); - le modalità di attivazione e gestione della conciliazione stragiudiziale 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (artt. 7-16); - le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo ordinario (artt. 17-27); - le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo semplificato (artt. 28-34); - le tariffe applicabili alla conciliazione stragiudiziale e all’arbitrato (allegato). 2.1. L’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo dei procedimenti amministrati dalla CCA Prima di procedere all’esame delle singole disposizioni che disciplinano le procedure di conciliazione e di arbitrato, appare necessario procedere a una delimitazione, in termini soggettivi e oggettivi, dell’ambito di applicazione dei procedimenti amministrati dalla CCA. Si è appena visto che, a norma dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 179, tali procedimenti sono quelli promossi per la risoluzione di controversie insorte tra gli investitori e gli intermediari per la violazione da parte di questi ultimi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori. Allo stesso modo si esprime anche l’art. 4, comma 1, del. n 16763. Nonostante l’ampia portata della definizione, a seguito di una più approfondita analisi sembra possibile affermare che l’effettivo ambito di applicazione della del. n 16763 non sia così vasto. In ordine al profilo soggettivo, l’art. 1, comma 1, lett b), del. n 16763, chiarisce che per «investitori» si intendono gli investitori diversi dalle «controparti qualificate» (di cui all’art. 6, comma 2-quater, lett. d), TUF) e dai «clienti professionali» (di cui all’art. 6, commi 2-quinquies e 2-sexies, TUF). Nel campo di applicazione soggettiva della del. n. 16763 rientrano, pertanto, solo le controversie tra gli intermediari e i «clienti al dettaglio» (categoria, per l’appunto, residualmente individuata dall’art. 26, comma 1, lett. e, del. CONSOB 29 ottobre 2007, n. 16190, c.d. Regolamento Intermediari, con riferimento a tutti i soggetti che non sono né clienti professionali né controparti qualificate). Occorre, peraltro, ricordare che la normativa regolamentare prevede la possibilità per il cliente di richiedere un differente status di classificazione (c.d. sistema degli “ascensori”), con conseguente incremento o diminuzione del livello di protezione rispetto a quello assicurato dalla propria categoria di appartenenza. In sintesi: - i clienti professionali di diritto (All. n. 3, parte I, Reg. Intermediari) e le controparti qualificate (art. 58, comma 4, Reg. Intermediari) possono chiedere di essere trattati come clienti al dettaglio (cc.dd. clienti al dettaglio su richiesta), beneficiando, in tal modo, di una protezione maggiore (3); - i clienti al dettaglio (All. n. 3, parte II.1, Reg. Intermediari) e le contro- DOTTRINA 309 parti qualificate (art. 58, comma 4, Reg. Intermediari) possono chiedere di essere trattati, rispettivamente, come clienti professionali (cc.dd. clienti professionali su richiesta), beneficiando, per l’effetto, di una protezione, rispettivamente, minore o maggiore (4). Alla luce della descritta flessibilità, ci si è chiesti se rientrano nel campo di applicazione della del. n. 16763 solo le controversie tra gli intermediari e i clienti al dettaglio di diritto oppure anche quelle controversie che coinvolgono clienti professionali (e/o controparti qualificate) che abbiano chiesto di essere considerati come clienti al dettaglio (cc.dd. clienti al dettaglio su richiesta). A tale riguardo, si è osservato che, una volta concluso l’accordo scritto tra il cliente professionale (o la controparte qualificata) e l’intermediario, necessario affinché i primi siano considerati clienti al dettaglio (su richiesta), con conseguente applicazione del regime informativo e comportamentale previsto per i clienti al dettaglio, non vi sarebbe ragione per negare loro la possibilità di beneficiare delle procedure di conciliazione e di arbitrato de quibus. Analogamente, dovrebbe ritenersi che il cliente al dettaglio che abbia ottenuto di essere considerato cliente professionale su richiesta perda il diritto ad avvalersi delle procedure conciliative ed arbitrali in oggetto. In buona sostanza, la nozione di «investitore» rilevante ai fini della del. n. 16763 sarebbe comprensiva di tutti i clienti al dettaglio, anche di quelli “su richiesta”. Con riferimento, invece, alla nozione di «intermediari», l’art. 1, comma 1, lett. c), del. n 16763, considera tali i «soggetti abilitati» di cui all’art. 1, comma 1, lett. r), TUF (5), e la società Poste Italiane - Divisione Servizi di Banco Posta (autorizzata ai sensi dell’art. 2, d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144). Decisamente più articolata si presenta la definizione del campo di applicazione oggettivo della del. n. 16763. Come visto, l’art. 4, comma 1, del. n. 16763, si riferisce genericamente alle «controversie insorte tra gli investitori e gli intermediari per la violazione da parte di questi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori». Alla luce di ciò, s’impone all’interprete un’accurata definizione sia della tipologia dell’attività svolta dagli intermediari, sia degli obblighi (3) Al fine di rientrare nella categoria dei clienti al dettaglio su richiesta, il cliente professionale di diritto (All. n. 3, parte I, Reg. Intermediari) o la controparte qualificata (art. 58, comma 5, Reg. Intermediari) devono stipulare con l’impresa di investimento un accordo scritto, nel quale vengono precisati i prodotti, i servizi e le operazioni cui si applica il regime informativo e comportamentale previsto per i clienti al dettaglio. (4) E’ comunque prescritto il rispetto dei criteri e delle procedure menzionate all’All. n. 3, parti II.1 e II.2, Reg. Intermediari. (5) Si tratta delle SIM, delle imprese di investimento comunitarie con succursale in Italia, delle imprese di investimento extracomunitarie, delle SGR, delle SGA, delle SICAV, nonché degli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107, TUB, delle banche italiane, delle banche comunitarie con succursale in Italia e delle banche extracomunitarie, autorizzate all’esercizio dei servizi o delle attività di investimento. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 che si assumono violati. Quanto al primo aspetto, la disposizione di riferimento è quella dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 179, secondo cui per «intermediari» s’intendono i soggetti abilitati alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento di cui all’art. 1, comma 1, lett. r), TUF. In base a all’art. 1, comma 5, TUF, per «servizi e attività di investimento» si intendono, quando hanno per oggetto strumenti finanziari: la negoziazione per conto proprio; l’esecuzione di ordini per conto dei clienti; la sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; il collocamento senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; la gestione di portafogli; la ricezione e trasmissione di ordini; la consulenza in materia di investimenti; la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. Sennonché, tali previsioni vanno coordinate con quanto previsto dal d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, c.d. TUB) in materia di sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie insorte tra la clientela e le banche e gli intermediari finanziari. L’art. 128-bis, TUB, inserito dall’art. 29, l. n. 262/05, stabilisce che le banche e gli intermediari finanziari sono tenuti ad aderire a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie con la clientela, rimettendo ad una delibera del CICR, su proposta della Banca d’Italia, i criteri di svolgimento delle procedure e di composizione dell’organo decidente, in modo che risulti assicurata l’imparzialità dello stesso e la rappresentatività dei soggetti interessati. Con del. CICR 29 luglio 2008, n. 275, è stato stabilito che tali sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie riguardino solo le contestazioni relative alle operazioni e ai servizi bancari e finanziari, con l’esclusione di quelli non assoggettati al tit. VI del TUB, ai sensi dell’art. 23, comma 4, TUF (esclusi, quindi, i servizi e le attività di investimento, il collocamento di prodotti finanziari, nonché le operazioni e i servizi che siano componenti di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione). Le disposizioni applicative della delibera CICR sono state emanate in data 18 giugno 2009 e 15 febbraio 2010 dalla Banca d’Italia con l’istituzione del c.d. Arbitro Bancario Finanziario (ABF). In prima battuta, pertanto, deve osservarsi che le controversie relative a operazioni e servizi bancari e finanziari rientrano nel campo di applicazione dell’ABF, mentre le controversie relative ai servizi e alle attività di investimento rientrano nel campo di applicazione della del. n. 16763. Tale summa divisio, peraltro, non è in grado di eliminare completamente possibili dubbi interpretativi. Si pensi, infatti, all’attività di collocamento di prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari: da un lato, essa rientra tra le attività e i servizi cui non si applica il Titolo VI, capo I, TUB, con conseguente esclusione dall’ambito di applicazione dell’ABF; dall’altro lato, tut- DOTTRINA 311 tavia, a stretto rigore essa non rientrerebbe neppure nel novero dei servizi di investimento, che hanno riguardo ai soli “strumenti” finanziari (e non già anche a tutti i “prodotti” finanziari) e, pertanto, sembrerebbe esclusa anche dall’ambito di applicazione della del. n. 16763. Considerazioni analoghe si impongono in relazione ai servizi aventi a oggetto prodotti finanziari (diversi dagli strumenti finanziari) emessi da banche ed assicurazioni. Allo scopo di risolvere possibili dubbi relativi all’ambito delle reciproche competenze, l’art. 4, comma 2, del. n. 16763, prevede che la CCA stipuli un protocollo d’intesa con l’ABF. Analogamente, nel “Resoconto della consultazione” sulle “Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari”, la Banca d’Italia, preso atto che la definizione della linea di confine tra le materie di competenza dell’ABF e quelle oggetto dei procedimenti amministrati dalla CCA investe il tema più generale dell’interpretazione dell’art. 23, comma 4, TUF, con particolare riguardo alla nozione di “prodotto finanziario” e di “componenti di prodotti finanziari” (cc.dd. prodotti “misti”), ha individuato, nello stipulando protocollo d’intesa, lo strumento attraverso cui «potranno essere regolati gli aspetti operativi della collaborazione tra i due sistemi stragiudiziali, in modo da assicurare che i clienti, in caso di inesatta individuazione del sistema di risoluzione stragiudiziale applicabile alla propria controversia, vengano indirizzati al sistema competente. Informazioni sulle controversie che possono essere sottoposte all’ABF (e sull’esistenza di altri meccanismi di risoluzione stragiudiziale nelle materie affini) saranno pubblicate sul sito internet dell’ABF, che prevederà anche un percorso guidato per l’utenza volto ad agevolare l’individuazione dei casi in cui può essere adito l’ABF». Per contro, non sembrano sussistere dubbi in ordine al fatto che il del. n. 16763 si applichi anche nel caso di controversie aventi ad oggetto l’attività di gestione collettiva del risparmio e i servizi accessori. In primo luogo, infatti, si osserva che le SGR costituiscono, a tutti gli effetti, dei soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di investimento; in secondo luogo, l’art. 6, d.lgs. n. 179, nel fissare la regola della vincolatività della clausola compromissoria per il solo intermediario, si riferisce espressamente sia ai servizi di investimento, sia ai servizi accessori e ai contratti di gestione collettiva del risparmio; in terzo luogo, il citato art. 32-ter, TUF, stabilisce che, ai fini della risoluzione stragiudiziale di controversie sorte fra investitori e soggetti abilitati e relative alla prestazione dei servizi di investimento e accessori e alla gestione collettiva del risparmio, trovano applicazione le procedure di conciliazione e arbitrato definite ai sensi dell’articolo 27, l. n. 262; infine, l’art. 1, comma 1, lett. c), del. n. 16763, a differenza dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 179, si riferisce unicamente ai soggetti abilitati di cui all’art. 1, comma 1, lett. r), TUF, senza alcun riferimento alla nozione di servizi e attività di investimento. Si consideri altresì il documento di consultazione della CONSOB in data 4 agosto 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 2008, secondo cui l’opzione ermeneutica volta a comprendere anche le controversie in tema di gestione collettiva del risparmio risulta preferibile, in quanto il richiamato art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 179, costituisce norma definitoria, afferente al “soggetto” generalmente legittimato a prendere parte alle procedure di conciliazione e di arbitrato. La norma, quindi, assume esclusiva valenza di individuazione dei soggetti che solo potranno essere parti del procedimento conciliativo ovvero di quello arbitrale (investitori e intermediari); e, sotto questo profilo, non v’è dubbio che anche la SGR debba essere presa in considerazione, rientrando nell’alveo dei “soggetti abilitati” enumerati all’art. 1, comma 1, lett. r), TUF, ed essendo essa senz’altro abilitata alla prestazione di servizi di investimento (6). L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 179, nel disciplinare l’ambito oggettivo di operatività delle procedure, fornisce una perimetrazione del thema decidendum con esclusivo riferimento alla natura degli obblighi asseritamente violati dagli intermediari (tra cui rientrano – come detto – anche le SGR) e non anche alla natura dei rapporti contrattuali con gli investitori (gli obblighi d informazione, correttezza e trasparenza, dunque, ben possono afferire al servizio di gestione collettiva, oltreché ai servizi di investimento). L’art. 6, d.lgs. n. 179, nel disciplinare - conformemente ai princìpi desumibili dal Cod. cons. - l’efficacia della clausola compromissoria («vincolante solo per l’intermediario») testualmente fa menzione dei «contratti di gestione collettiva del risparmio», ove detta clausola può essere inserita; ebbene, tale disposizione sarebbe priva di senso (ed anzi incoerente con il complessivo sistema), ove si intendesse escludere il servizio di gestione collettiva dalle procedure di conciliazione ed arbitrato amministrate dalla CCA. Per quanto riguarda, invece, la tipologia degli obblighi degli intermediari che l’investitore assume essere stati violati, le perplessità maggiori derivano da una non completa corrispondenza tra gli obblighi cui fa riferimento l’art. 4, comma 1, del. n. 16763, e quelli previsti dall’art. 21, comma 1, TUF. La prima norma, infatti, si riferisce alla violazione degli obblighi di «informazione, correttezza e trasparenza» previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori; per contro, in base alla seconda norma citata, gli intermediari, allorché prestano servizi di investimento, sono tenuti a comportarsi con «diligenza, correttezza e trasparenza» per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati. In dottrina si è osservato che l’obbligo di informazione andrebbe considerato come una specificazione dell’obbligo di diligenza, per modo che, in caso di violazione di un obbligo di diligenza a contenuto informativo, la relativa controversia rientrerebbe sicuramente nell’ambito di applicazione della del. n. 16763. Per contro, potrebbero senz’altro (6) Dall’autorizzazione al servizio di gestione collettiva del risparmio discende naturaliter la possibilità per la SGR di prestare professionalmente nei confronti del pubblico il servizio di gestione individuale di portafogli ed il servizio di consulenza in materia di investimenti: cfr., art. 18, comma 2, TUF. DOTTRINA 313 ipotizzarsi obblighi di diligenza a contenuto non informativo (si pensi, ad es., all’art. 45, Reg. Intermediari, secondo cui gli intermediari adottano tutte le misure ragionevoli e, a tal fine, mettono in atto meccanismi efficaci, per ottenere, allorché eseguono ordini, il miglior risultato possibile per i loro clienti, avendo riguardo al prezzo, ai costi, alla rapidità e alla probabilità di esecuzione e di regolamento, alle dimensioni, alla natura dell’ordine o a qualsiasi altra considerazione pertinente ai fini della sua esecuzione: c.d. best execution). In questo caso, un’interpretazione strettamente letterale dell’art. 4, comma 1, del. n. 16763, imporrebbe di ritenere la controversia relativa alla violazione dell’obbligo di best execution esclusa dall’ambito di applicazione della del. n. 16763. Secondo alcuni, non rientrerebbe nel novero delle controversie arbitrabili neppure quella relativa alla violazione dell’obbligo della forma scritta per la conclusione del contratto di intermediazione finanziaria ex art. 23 TUF. Così delineato l’ambito di competenza delle procedure amministrate dalla CCA, ci si è chiesti se siano configurabili eventuali “conflitti di competenza” tra quest’ultima e altri organismi di conciliazione, chiamati a svolgere funzioni similari nell’ambito delle controversie nascenti nel mercato finanziario. A tale riguardo, viene in considerazione la previsione contenuta nell’art. 7, del. n. 16763, la quale – ribadendo quanto già previsto dall’art. 4, comma 2, d.lgs. n. 179 – individua tra le condizioni di ammissibilità dell’istanza volta all’attivazione della procedura di conciliazione amministrata dalla CCA la non precedente sottoposizione della controversia ad altro organismo di conciliazione. Tale previsione confermerebbe la possibilità di un concorso di competenze tra diversi organismi di conciliazione e, al contempo, escluderebbe la configurabilità in capo alla CCA di una competenza esclusiva (anche ove la controversia riguardi esclusivamente una delle violazioni indicate all’art. 4 comma 1, del. n. 16763). Invero, prospettando la possibilità di scelta (irrevocabile? (7)) del ricorrente tra più organismi egualmente competenti, la norma parrebbe collocare la CCA in una posizione paritaria e concorrenziale con gli altri organismi di conciliazione (anche se la del. n. 16763 tende chiaramente a rafforzare tale posizione, in termini di qualità e professionalità del servizio offerto). (7) La del. n 16763 non è del tutto chiara al riguardo: l’art. 7 prevede – come detto – che l’istanza volta all’attivazione della procedura di conciliazione «può essere presentata esclusivamente dall’investitore quando per la medesima controversia non siano state avviate, anche su iniziativa dell’intermediario a cui l’investitore abbia aderito, altre procedure di conciliazione». Ora, sulla base di un’interpretazione rigorosa della disposizione, la presentazione da parte dell’investitore dell’istanza o l’adesione da parte di costui all’istanza dell’intermediario precluderebbero in via definitiva all’investitore di promuovere il procedimento di conciliazione amministrato dalla CCA, a prescindere dalle sorti del procedimento in precedenza instaurato. Una lettura più flessibile (per certi versi preferibile) della norma vedrebbe, invece, la condizione in parola quale limite alla contemporanea pendenza di più procedure conciliative relative alla medesima controversia, facendo salva la possibilità per le parti, una volta fallito un primo tentativo davanti ad altro organismo di conciliazione, di concordare l’avvio di un nuovo procedimento conciliativo gestito dalla CCA. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 L’espressa previsione nel d.lgs. n. 179 (art. 4, comma 8) e nella del. n. 16763 (art. 9, comma 4) della possibilità che la CCA deleghi lo svolgimento delle procedure conciliative di sua competenza ad altri organismi di conciliazione, attraverso una sorta di outsourcing dell’attività (8), parrebbe, d’altra parte, qualificare tale posizione concorrenziale in termini cooperativi (piuttosto che competitivi) in vista della costruzione di una rete conciliativa diffusa su tutto il territorio nazionale. 2.2. La composizione, i compiti e il funzionamento della CCA La CCA ha carattere collegiale ed è composta da un presidente (9) e da quattro membri (che formano il «collegio camerale»(10)), nominati dalla (8) L’art. 9 comma 4, del. n 16763, configura tale possibilità in termini residuali, stabilendo le condizioni in presenza delle quali la CCA può ricorrere alla delega in questione. La possibilità di stipulare apposite convenzioni con altri organismi di conciliazione potrebbe, peraltro, rivelarsi particolarmente utile, al fine di promuovere la cooperazione tra enti e organismi interessati, in un settore – quello della conciliazione – che può certamente beneficiare della collaborazione tra i suoi operatori. (9) A norma dell’art. 7, St. CCA, il presidente: a) rappresenta la CCA nei settori di competenza e mantiene i rapporti con la CONSOB, con le istituzioni, nonché con gli organismi preposti alla risoluzione stragiudiziale delle controversie istituiti da enti pubblici e privati; b) convoca il collegio camerale, stabilisce l’ordine del giorno e ne dirige i lavori; c) vigila sull’attuazione delle deliberazioni del collegio camerale, dettando le necessarie direttive e tenendone informato il collegio stesso; d) presenta al collegio camerale, per l’approvazione, lo schema di relazione sull’attività svolta da sottoporre alla CONSOB ai sensi dell’articolo 3, comma 5, del. n. 16763; e) sovrintende all’attività istruttoria della segreteria e riferisce al collegio camerale per l’adozione delle conseguenti delibere; f) sulla base delle risultanze istruttorie presentate dalla segreteria, dispone, se del caso, per l’adozione delle necessarie correzioni e integrazioni che le parti delle procedure di conciliazione e di arbitrato amministrato sono tenute a trasmettere in ordine alle domande già inoltrate; g) adotta, in caso di urgenza, provvedimenti di competenza del collegio camerale che sottopone a ratifica dello stesso nella prima riunione successiva; h) dà istruzioni sul funzionamento della segreteria e verifica i risultati dell’attività svolta; i) sovrintende al sito internet della CCA, verificando che la segreteria ne curi il funzionamento e l’aggiornamento sulla base delle direttive ad essa impartite; l) esercita ogni altra funzione prevista dalle disposizioni di legge o di regolamento; m) può delegare a singoli componenti specifici incarichi temporanei, informandone il collegio camerale. (10) Ai sensi dell’art. 9, St. CCA, il collegio camerale esercita collegialmente tutte le attribuzioni conferite alla CCA dalle disposizioni di legge o di regolamento. Esso delibera, inoltre, in via generale: a) le modalità per lo svolgimento dei compiti di natura istruttoria e gli adempimenti tecnico-procedurali necessari all’amministrazione delle procedure conciliative e arbitrali e alla tenuta degli elenchi; b) le norme in materia di protocollazione, archiviazione di atti e documenti e organizzazione e gestione del sistema informativo; c) le norme che disciplinano l’attribuzione della firma per gli atti della CCA non aventi contenuto deliberativo; d) le modalità per la tempestiva circolazione fra i componenti e con la segreteria delle informazioni necessarie all’esercizio dei suoi compiti, anche per via telematica. DOTTRINA 315 CONSOB (11) e scelti tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza e competenza e di riconosciuta indipendenza (12), all’evidente scopo di salvaguardare lo svolgimento delle relative funzioni in piena autonomia, assicurando, al contempo, un certo grado di autorevolezza alla CCA (13). Dei 5 membri della CCA uno è designato dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti, istituito presso il Ministero dello sviluppo economico (CNCU), e l’altro, congiuntamente, dalle associazioni di categoria degli intermediari maggiormente rappresentative. I restanti 3 componenti, fra i quali il presidente, sono designati dalla CONSOB, la quale, di norma, li individua all’interno di ciascuno dei gruppi di categorie di cui al citato art. 2, comma 3, del. n. 16763. I membri della CCA durano in carica 7 anni, senza possibilità di essere confermati, e sono revocabili solo per giusta causa con provvedimento motivato della CONSOB (art. 2, del. n. 16763). Le indennità loro spettanti sono determinate con delibera della CONSOB. I requisiti professionali richiesti ai fini della designazione e la composizione parzialmente rappresentativa della CCA mirano evidentemente a garantire la qualità dell’attività svolta e l’imparzialità del suo operato, in relazione alla natura delle controversie e I relativi componenti: a) partecipano alla discussione e alle deliberazioni; b) verificano l’attività della CCA; c) presentano proposte sull’attività della CCA e sul suo funzionamento. (11) Il termine iniziale dell’ufficio di ciascun componente della CCA decorre dalla data della delibera di nomina da parte della CONSOB o dalla diversa data in essa indicata, mentre il termine di assunzione delle funzioni decorre dalla riunione della CCA a cui ciascun componente partecipa per la prima volta (art. 4, St. CCA). (12) I componenti della CCA devono appartenere a una delle seguenti categorie (art. 2, comma 3, del. n. 16763): 1) avvocati iscritti agli albi ordinari e speciali abilitati al patrocinio avanti alle magistrature superiori; dottori commercialisti iscritti nella Sez. A) dell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili da almeno 12 anni; 2) notai con almeno 6 anni di anzianità di servizio; magistrati ordinari, in servizio da almeno 12 anni o in quiescenza; magistrati amministrativi e contabili con almeno 6 anni di anzianità di servizio o in quiescenza; 3) professori universitari di ruolo in materie giuridiche ed economiche in servizio o in quiescenza; dirigenti dello Stato o di Autorità indipendenti con almeno 20 anni di anzianità di servizio laureati in discipline giuridico/economiche, in servizio o in quiescenza. (13) Al fine di evitare situazioni di incompatibilità – pervero non previste dal legislatore – l’art. 2, comma 1, del. n. 16763, ha stabilito che i membri della CCA non possono ricoprire incarichi presso altri organismi di conciliazione e di arbitrato, istituiti da enti pubblici e privati e operanti in qualsiasi settore, né esercitare attività di conciliazione o di arbitrato ovvero ogni altra attività che ne possa compromettere l’indipendenza e l’autonomia di giudizio. Allo stesso modo, è previsto che l’originaria inesistenza o la sopravvenuta perdita dei requisiti necessari a ricoprire l’incarico ovvero il grave inadempimento degli obblighi gravanti in capo ai componenti della CCA comportino la decadenza dalla carica. La decadenza viene pronunciata dalla CCA entro 30 giorni dalla nomina o dalla conoscenza della perdita dei requisiti ovvero dalla conoscenza dei fatti che integrano grave inadempimento dei richiamati obblighi. In caso di inerzia, la decadenza è pronunziata direttamente dalla CONSOB. Per le norme di dettaglio in punto di decadenza dall’ufficio e dimissioni si rinvia alla lettura dell’art. 5, St. CCA. 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 alla qualità delle parti coinvolte. In merito al funzionamento della CCA la del. n. 16763 fissa una disciplina abbastanza soft, intesa a consentire un corretto svolgimento delle riunioni e a chiarire le modalità di adozione delle delibere. In particolare, le deliberazioni della CCA sono adottate collegialmente con la presenza di almeno 3 componenti, i quali, salvo che non sia prevista una maggioranza diversa, deliberano a maggioranza dei votanti (e, comunque, con non meno di 2 voti favorevoli); in caso di parità, prevale il voto del presidente. Per il resto, la del. n. 16763 demanda la definizione delle norme di organizzazione e di funzionamento alle disposizioni dello Statuto della CCA, il quale va approvato con la maggioranza di almeno 4 componenti e va comunicato alla CONSOB (che, entro 30 giorni dal suo ricevimento, può chiedere chiarimenti e modifiche) (14); decorsi 30 giorni dal ricevimento da parte della CONSOB delle disposizioni statutarie (o dei chiarimenti e delle modifiche richiesti), le stesse si intendono approvate (art. 3, del. n. 16763). La CCA ha sede presso gli uffici delle sedi della CONSOB (15) e svolge la propria attività avvalendosi di strutture e risorse individuate e fornite dalla stessa CONSOB (16), che può impartire direttive relative ai controlli sui requisiti richiesti per l’iscrizione negli elenchi dei conciliatori e degli arbitri. La CONSOB può, inoltre, richiedere alla CCA informazioni sulle attività e sui compiti istituzionali da essa svolti. In ogni caso, entro il mese di febbraio di ogni anno, la CCA è tenuta a presentare alla CONSOB una relazione sull’attività svolta nell’anno precedente (art. 3, del. n. 16763). Mette conto rilevare che, in sede di prima lettura della l. n. 262/05, alcuni studiosi avevano espresso alcuni dubbi in merito a tale nuova attività demandata alla CONSOB, in quanto, nel suo ruolo istituzionale di regolazione del mercato mobiliare, essa avrebbe potuto trovarsi in una posizione difficile rispetto alle diverse funzioni ora illustrate. In effetti, la nuova previsione legislativa, nello stabilire che le procedure erano destinate a svolgersi «dinanzi alla CONSOB», sembrava prefigurare un nuovo ruolo “giurisdizionale” per l’Autorità di vigilanza, finalizzato alla gestione di strumenti di risoluzione di controversie tra privati. Ad una più approfondita analisi è, tuttavia, apparso chiaro come alla CONSOB non sia stato attribuito alcun potere giurisdizionale, essendole stato affidato, per contro, un mero compito di gestione delle proce- (14) Lo Statuto della CCA è stato adottato dalla CCA con del. n. 3/2010 e approvato dalla CONSOB con del. n. 17204/2010 (Gazz. Uff. n. 67/2010). (15) La sede principale della CONSOB si trova a Roma, mentre la sede secondaria operativa si trova a Milano. La previsione è ribadita anche dall’art. 3, comma 2, St. CCA. (16) La CONSOB provvede alla copertura delle spese di amministrazione delle procedure di conciliazione e di arbitrato con le contribuzioni versate dagli intermediari ai sensi dell’art. 40, comma 3, l. n. 724/94 (in tema di meccanismi di autofinanziamento), oltreché con gli importi posti a carico degli utenti delle procedure stesse. DOTTRINA 317 dure di conciliazione e di arbitrato, alla stessa stregua di quanto accade per la Camera Arbitrale per i contratti pubblici presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (17) ovvero per le procedure arbitrali gestite dall’Autorità per l’Energia Elettrica e per il Gas. La stessa CONSOB, nell’emanare i regolamenti di sua pertinenza, ha fatto in modo di preservare e garantire la sua posizione di neutralità, posizione che le è stata sempre riconosciuta sin dalla sua costituzione. Il punto più delicato nella regolamentazione secondaria, da adottarsi sentita la Banca d’Italia, era dato proprio dal meccanismo di nomina di conciliatori ed arbitri, che doveva garantire nel modo più assoluto la loro indipendenza, neutralità, imparzialità e professionalità. D’altro canto, la particolare collocazione della CCA dovrebbe garantirne l’indipendenza dalla CONSOB, quanto meno in termini di gestione delle procedure e di organizzazione del servizio: il rapporto tra l’una e l’altra è stato, infatti, configurato in termini di alterità, anziché di immedesimazione, riconoscendo alla CCA una propria autonomia statutaria e funzionale (18). Peraltro, come appena visto, l’autonomia non riguarda il versante patrimoniale, giacché la CCA non dispone di proprie risorse, ma si avvale delle strutture e delle risorse messe a disposizione dalla CONSOB. In effetti, al di là dell’autonomia funzionale e statutaria, la CCA – secondo alcuni osservatori – non godrebbe nemmeno di una propria personalità giuridica, in particolare per quanto riguarda i rapporti con i terzi (aspetto, questo, particolarmente interessante, anche per le sue implicazioni di ordine pratico). Tale condizione finirebbe per riflettersi “pericolosamente” sul rapporto con i potenziali utenti delle procedure, i quali, nel momento in cui si rivolgeranno alla CCA per usufruire dei relativi servizi, instaureranno (inconsapevolmente?) un rapporto (di natura contrattuale?) con la CONSOB, la quale, per l’effetto, dovrebbe considerarsi responsabile della qualità del servizio offerto dalla CCA. A tale riguardo, per la verità, deve osservarsi che le previsioni regolamentari sembrano rafforzare l’autonomia del rapporto tra conciliatore e parti, rispetto al rapporto tra queste e la CCA o la CONSOB: infatti, come si avrà modo di illustrare in seguito, il conciliatore viene investito direttamente della procedura di conciliazione, più di quanto normalmente avviene nell’ambito delle altre procedure di conciliazione amministrate. Peraltro, il fatto che i conciliatori siano nominati dalla CCA e necessariamente accreditati e inserititi in un apposito elenco dovrebbe comunque radicare in capo alla CCA e, per essa, alla CONSOB quanto meno una responsabilità solidale per eventuali irregolarità commesse dal conciliatore (17) La Camera arbitrale per i contratti pubblici presenta caratteristiche per molti versi simili a quella della CCA, in quanto anch’essa costituita presso un’Autorità indipendente che provvede con proprio personale al suo funzionamento. (18) L’art. 3, comma 1, St. CCA, ribadisce che la CCA esercita i compiti ad essa assegnati dalle disposizioni di legge e di regolamento con indipendenza e autonomia funzionale e organizzativa. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 nominato, così come per eventuali violazioni agli obblighi di riservatezza e di imparzialità. Diversamente da quanto in genere stabiliscono i regolamenti di conciliazione amministrata, l’art 16, del. n. 16763, prevede, infatti, che la liquidazione del compenso e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dell’incarico di conciliatore vengono compiuti dalla CCA, dietro proposta del conciliatore, in maniera vincolante per le parti. Si conferma, pertanto, l’autonomia del rapporto tra parti e conciliatore, nonché la funzione di garanzia della CCA in ordine alla correttezza e alla qualità di tale rapporto. Quanto ai compiti precipuamente affidati alla CCA, occorre chiarire che la del. n. 16763 esclude categoricamente un diretto coinvolgimento della CCA nel merito delle procedure alternative di risoluzione delle liti: a tenore dell’art. 4, comma 1, del. n. 16763, essa non interviene in alcun modo – nel corso della procedura di conciliazione e del giudizio arbitrale – nel merito delle controversie, limitandosi a organizzare i servizi di arbitrato e di conciliazione. La CCA è principalmente chiamata a occuparsi dell’istituzione di un elenco di conciliatori e arbitri, scelti tra persone di comprovata imparzialità e indipendenza (19), professionalità e onorabilità. In particolare, secondo l’art. 4, comma 1, la CCA cura la tenuta degli elenchi dei conciliatori e degli arbitri e provvede ad aggiornarli con cadenza semestrale. Inoltre, la CCA redige e aggiorna il codice deontologico dei conciliatori e degli arbitri e lo sottopone all’approvazione della CONSOB (20). Giova, da ultimo, considerare che, a norma dell’art. 2, comma 5, lett. e), d.lgs. n. 179, la CONSOB può attribuire in via regolamentare alla CCA «altre funzioni». Tra quelle sinora assegnate meritano di essere menzionate: - la promozione dei servizi di arbitrato e conciliazione e la diffusione della conoscenza mediante attività di documentazione, elaborazione dati e studio, anche attraverso la predisposizione di azioni comuni con altre istituzioni ov- (19) L’art. 2, Cod. deont. CCA, chiarisce che il conciliatore e l’arbitro, nello svolgimento della loro attività: a) rifiutano la nomina o interrompono lo svolgimento delle funzioni, informandone tempestivamente la CCA, ogni qualvolta ritengano di subire (o anche solo di poter subire) condizionamenti in ordine a un neutrale svolgimento dell’incarico; b) non accettano altri incarichi né svolgono attività che, per la natura, la fonte o le modalità di conferimento, possano in concreto condizionarne l’indipendenza; c) garantiscono e difendono con la propria coscienza l’indipendente esercizio delle loro funzioni da ogni tipo di pressione (diretta o indiretta); d) valutano senza pregiudizio i fatti della controversia, esaminando con scrupolo gli argomenti prospettati dalle parti e gli atti del procedimento e interpretando le norme da applicare con obiettività; e) ispirano il proprio comportamento a imparzialità e curano di rispecchiarne l’immagine anche all’esterno; f) evitano ogni possibile situazione di conflitto di interessi. (20) Il Codice deontologico dei conciliatori e degli arbitri iscritti negli elenchi tenuti dalla CCA è stato adottato dalla CCA con del. n. 2/2010 e approvato dalla CONSOB con del. n. 17205/2010 (Gazz. Uff. n. 67/2010). DOTTRINA 319 vero con associazioni economiche e altri organismi (pubblici o privati) attivi nel settore dei servizi finanziari e delle procedure di conciliazione e arbitrato; - l’organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per i conciliatori e per gli arbitri. 2.3. Gli elenchi dei conciliatori e degli arbitri tenuti dalla CCA Secondo la delega attribuita con l’art. 2, comma 5, d.lgs. n. 179, la CONSOB, sentita la Banca d’Italia, era chiamata a definire in via regolamentare: - le modalità di nomina dei componenti dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri, prevedendo anche forme di consultazione delle associazioni dei consumatori e degli utenti di cui all’articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e delle categorie interessate, e perseguendo la presenza paritaria di donne e uomini; - i requisiti di imparzialità, indipendenza, professionalità e onorabilità dei componenti dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri; - la periodicità dell’aggiornamento dell’elenco dei conciliatori e degli arbitri. La delega è stata esercitata tramite la citata del. n. 16763, alla stregua della quale, possono essere iscritti, a domanda, nell’elenco dei conciliatori i soggetti che sono in possesso dei seguenti requisiti (21): 1) di professionalità: - professori universitari in discipline economiche o giuridiche; - professionisti iscritti ad albi professionali in materie economiche o giuridiche (con anzianità di iscrizione di almeno 15 anni (22)); - magistrati in quiescenza; - laureati in materie giuridiche o economiche ovvero professionisti iscritti in albi professionali in materie giuridiche o economiche (con anzianità di iscrizione anche inferiore a 15 anni) che abbiano seguito con successo un corso specifico di formazione per conciliatori tenuto da enti pubblici, università o enti privati all’uopo accreditati (23); (21) Tali requisiti sono individuati dall’art. 5, del. n. 16763, mediante una mera relatio ai requisiti richiesti ai conciliatori, nel contesto della conciliazione stragiudiziale delle controversie civili in materia societaria, dall’art. 4, comma 4, lett. a) e b), D.M. n. 222/04. Si veda altresì quanto disposto dal D. Dirett. Min. Giust. 24 luglio 2006, in Gazz. Uff. n. 35/07. (22) In linea generale, la CCA ha chiarito che il periodo di iscrizione in albi professionali per gli aspiranti conciliatori (e/o arbitri) è da intendersi come effettivo, cioè «al netto di eventuali lassi temporali in cui il candidato non risulti, per una qualsiasi ragione, iscritto ovvero risulti sospeso». Tali periodi, quindi, non concorrono ai fini del computo del periodo necessario a integrare il requisito di professionalità. (23) Parte della dottrina ritiene che non si sia sufficientemente valorizzata la valutazione delle competenze specifiche in materia di conciliazione, in particolare per quanto ha tratto alle capacità di gestione della procedura e di applicazione delle tecniche conciliative. In effetti, per lo meno con riferi- 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 2) di onorabilità: - non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione; - non avere riportato condanne a pena detentiva, applicata su richiesta delle parti, non inferiore a 6 mesi; - non essere incorso nell’interdizione (perpetua o temporanea) dai pubblici uffici; - non essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; - non avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento. La CCA, a seguito della ricezione della domanda di iscrizione nell’elenco, corredata dei documenti attestanti il possesso dei requisiti richiesti, ne verifica la regolarità e delibera l’iscrizione del conciliatore. E’, peraltro, previsto, a pena di cancellazione, che i conciliatori non possano svolgere attività di conciliazione per più di due organismi di conciliazione (24) e comunichino senza indugio alla CCA la perdita dei requisiti richiesti per l’iscrizione. Più specifici sono, invece, i requisiti richiesti per l’iscrizione nell’elenco degli arbitri, stante il loro potere di decidere la controversia (25). Si tratta dei seguenti requisiti: 1) di professionalità (26): - avvocati iscritti agli albi ordinari e speciali abilitati al patrocinio avanti alle magistrature superiori; - dottori commercialisti iscritti nella sez. A) dell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (con anzianità di iscrizione di almeno 12 anni); - notai (con anzianità di servizio di almeno 6 anni); - magistrati ordinari in servizio (da almeno 12 anni) o in quiescenza; - magistrati amministrativi e contabili in servizio (da almeno 6 anni) o in quiescenza; mento ai professionisti in possesso dei prescritti anni di iscrizione ai rispettivi albi, non è richiesta una comprovata esperienza in materia di conciliazione. E’ stato altresì sottolineato come l’adozione di questo modello, astrattamente adeguato in considerazione dell’elevato livello di specialità giuridico-economica delle controversie coinvolte, potrebbe comportare un rischio non sottovalutabile: una volta che si affidi la conciliazione a conciliatori-avvocati/commercialisti/notai/ex magistrati, la procedura assumerà probabilmente le sembianze di un giudizio semplificato incentrato sui profili giuridici della lite, anziché i tratti di un’alternativa al giudizio stesso, in ciò frustrando le potenzialità dello strumento in termini di flessibilità, atipicità e creatività. (24) Dalla consultazione della sezione del sito internet della CONSOB dedicata alla CCA si apprende che la CCA ha interpretato tale previsione nel senso che il numero di due organismi è comprensivo della stessa CCA. Nell’avviso per l’iscrizione è, quindi, previsto che il conciliatore dichiari «di non svolgere attività di conciliazione per più di un altro organismo di conciliazione autorizzato, [indicando] l’eventuale organismo di conciliazione per cui svolge la relativa attività». (25) La CONSOB ha chiarito sul suo sito internet che è «certamente possibile, avendone i requisiti, presentare domanda di iscrizione all’elenco dei conciliatori come a quello degli arbitri». (26) Si tratta degli stessi requisiti professionali richiesti per i componenti della CCA. DOTTRINA 321 - professori universitari di ruolo in materie giuridiche ed economiche in servizio o in quiescenza; - dirigenti dello Stato o di Autorità indipendenti, laureati in discipline giuridico/ economiche, in servizio (da almeno 20 anni) o in quiescenza. 2) di onorabilità: - non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione; - non avere riportato condanne a pena detentiva, applicate su richiesta delle parti, pari o superiore a 6 mesi; - non essere incorsi nella interdizione (perpetua o temporanea) dai pubblici uffici; - non essere stati sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza; - non aver riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento. Anche in tal caso, la CCA, a seguito della ricezione della domanda di iscrizione nell’elenco degli arbitri, corredata dei documenti attestanti il possesso dei requisiti richiesti, ne verifica la regolarità e delibera l’iscrizione. Allo stesso modo, gli arbitri sono tenuti a comunicare senza indugio alla CCA la perdita dei requisiti richiesti per l’iscrizione. Ogni 6 mesi la CCA deve disporre l’aggiornamento degli elenchi dei conciliatori e degli arbitri (27), procedendo alle nuove iscrizioni e alla cancellazione: - di quanti, medio tempore, abbiano perso i citati requisiti di professionalità e onorabilità; - dei conciliatori che abbiano svolto attività di conciliazione per più di un altro organismo di conciliazione autorizzato; - degli iscritti che abbiano fatto domanda di cancellazione. La cancellazione può altresì essere disposta nei casi di grave inadempimento degli obblighi stabiliti dal codice deontologico o, comunque, connessi alla funzione svolta. La cancellazione, ove non richiesta dallo stesso interessato, viene pronunciata dalla CCA previa audizione dell’interessato. Sul piano della lealtà e della correttezza, l’art. 3, Cod. deont. CCA, stabilisce che il conciliatore e l’arbitro: a) tengono con la CCA e con le parti un rapporto corretto e leale, nonché rispettoso della diversità dei ruoli svolti; b) non accettano compensi diversi da quelli previsti per l’incarico conferito e non si avvalgono del loro ruolo per ottenere benefìci o privilegi; (27) La CONSOB ha optato per l’esclusione di limitazioni temporali alla permanenza dell’arbitro o del conciliatore nei rispettivi elenchi, considerando che soggetti con un’esperienza pluriennale nel campo della conciliazione e dell’arbitrato possono contribuire positivamente all’innalzamento qualitativo dell’operato della CCA. Peraltro, ciò finirà col rendere assai ampia la composizione degli elenchi stessi, con conseguente ampliamento del ventaglio delle scelte rimesse alla CCA in sede di designazione dei soggetti da investire delle specifiche controversie. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 c) valutano con obiettività e rigore l’esistenza di situazioni di possibile astensione per motivi di opportunità; d) informano le parti dei contenuti del Cod. deont. CCA nel loro primo incontro; e) invitano i terzi incaricati di collaborare nel procedimento ad attenersi ai princìpi contenuti nel Cod. deont. CCA. Il conciliatore e l’arbitro sono, inoltre, tenuti ad assolvere i compiti loro affidati con diligenza, sollecitudine e professionalità, riservando agli affari trattati l’attenzione e il tempo necessari, quali che siano la tipologia e il valore delle controversie. Essi sono altresì chiamati a curare la loro formazione continua e l’aggiornamento nelle materie attinenti alle controversie trattate, anche attraverso la partecipazione ai corsi all’uopo organizzati o accreditati dalla CCA. Il Cod. deont. CCA fissa, infine, delle regole particolari per il conciliatore (28) e per l’arbitro (29) (artt. 7-8). (28) Il conciliatore: a) accetta la nomina conferitagli solo quando sia qualificato per la definizione della controversia per la quale è stato designato; b) si assicura, al primo incontro di conciliazione, che le parti abbiano compreso: - la natura, le finalità, gli oneri e i vantaggi della procedura di conciliazione; - il loro ruolo e quello del conciliatore; - gli obblighi di riservatezza a loro carico e quelli a carico del conciliatore; c) prepara gli incontri di conciliazione studiando la controversia e la documentazione prodotta dalle parti, accertando che le parti o i loro rappresentanti abbiano i poteri necessari per concludere un eventuale accordo e stabilendo tempi e modi degli incontri che consentano l’osservanza dei princìpi generali stabiliti per la procedura; d) accerta che il proprio domicilio (o quello diverso scelto di comune accordo con le parti) sia idoneo a consentire un ordinato, riservato e sereno svolgimento degli incontri di conciliazione; e) conduce la procedura di conciliazione con autorevolezza, applicando le tecniche di composizione dei conflitti e creando un clima di dialogo e di fiducia con le parti, e si adopera per far loro raggiungere un accordo soltanto fino a quando sia manifesto che tale obiettivo non sia conseguibile; f) si comporta con lealtà nei confronti delle parti, evitando di compiere atti che possano essere o apparire ad esse discriminatori e di esercitare la sua influenza a favore di una di loro; g) ascolta attentamente, nel corso degli incontri, le dichiarazione delle parti e acquisisce, anche rivolgendo loro domande, ogni documento e informazione utili sulla controversia, sui punti di vista, sulle pretese e aspettative di ciascuna parte nonché sui loro reciproci rapporti, al fine di individuare soluzioni idonee a comporre la controversia; h) impiega, nei colloqui con le parti, un linguaggio comprensibile a entrambe; i) si assicura che le parti si determinino con sufficiente grado di consapevolezza e che siano avvertite della possibilità di adire comunque l’AGO in caso di mancata conciliazione della controversia; j) redige, con tempestività e sentite le parti, i documenti conclusivi della procedura di conciliazione. (29) L’arbitro: a) si comporta con riserbo, assicurando l’ordinato svolgimento del giudizio, e cura la segretezza della camera di consiglio; b) evita, in ogni fase del procedimento, contatti unilaterali e scambi di opinioni personali con singole parti o con i loro difensori; c) non influenza le parti, rappresentando loro la possibilità o l’opportunità di una conciliazione della controversia o mostrando di aver maturato un convincimento sull’esito del procedimento; DOTTRINA 323 2.4. Le modalità di attivazione e gestione della conciliazione stragiudiziale La conciliazione – come noto – è un mezzo non contenzioso di composizione delle controversie, la cui funzione è di condurre le parti a una definizione della lite prescindendo dall’azione in giudizio. E’ un servizio reso generalmente da uno o più soggetti, diversi dal giudice o dall’arbitro, in condizioni di imparzialità rispetto agli interessi in conflitto e avente lo scopo di dirimere una lite già insorta o che può insorgere tra le parti, attraverso modalità che comunque ne favoriscono la composizione autonoma. L’elemento caratterizzante è, dunque, rappresentato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale di una controversia. Recentemente il d.lgs. n. 28/2010, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, ha qualificato «conciliazione» «la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione»: la conciliazione rappresenta, pertanto, l’esito positivo dell’attività «svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa». La conciliazione può essere facilitativa o valutativa (detta anche aggiudicativa), a seconda del ruolo svolto dal conciliatore nella procedura: nel primo caso – che maggiormente corrisponde alla finalità di autodeterminazione dello strumento – il conciliatore si limita ad agevolare il raggiungimento ad opera delle parti di un accordo, compiendo con loro un percorso cooperativo e creativo; a differenza del giudice, egli non è strettamente vincolato al principio della domanda e può trovare soluzioni della controversia che abbiano riguardo al complessivo rapporto tra le parti; inoltre, non si limita a regolare questioni passate, ma guarda anche a una ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura (30). Nel modello della conciliazione valutativa, fondato sulla logica “adversarial” del torto e della ragione, il conciliatore formula, invece, una proposta di soluzione della vertenza, tenendo conto delle ragioni delle parti. Si distingue, inoltre, tra conciliazione endoprocessuale e stragiudiziale: la prima è attivata dal giudice, anche in virtù di una previsione normativa, ed d) evita qualsiasi atteggiamento non collaborativo o ostruzionistico nell’ambito del collegio arbitrale, garantendo una fattiva partecipazione alla fase di deliberazione del lodo; e) assicura, in fase di redazione delle motivazioni dei provvedimenti, anche collegiali, che siano valutati adeguatamente i fatti e le ragioni prospettati dalle parti e che siano rappresentate fedelmente le argomentazioni della decisione; f) evita che nei verbali e nei lodi siano inserite espressioni offensive o irriguardose. (30) Inutile sottolineare che una mediazione in cui la definizione complessiva del rapporto tra le parti è incentivata si presenta assai più appetibile per le parti, consentendo loro non soltanto un’abbreviazione dei tempi, ma anche il conseguimento di risultati che il processo è inidoneo ad assicurare. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 è parte integrante dell’azione civile; la seconda, invece, è frutto di un accordo tra le parti e non è inserita nell’ambito di un procedimento giurisdizionale. Infine, la procedura di conciliazione può essere amministrata (in presenza di un organismo preposto alla gestione e al controllo del procedimento conciliativo, secondo specifiche regole prestabilite) o paritetica (se la mediazione e il tentativo di composizione della lite si realizzano per il tramite di due conciliatori che rappresentano le parti, in genere sulla scorta di un protocollo d’intesa fra associazioni di consumatori e imprese, senza l’intervento di un soggetto super partes). I vantaggi del ricorso alla conciliazione per definire le controversie in ambito finanziario sono evidenti, sia per l’interesse degli investitori, in considerazione del risparmio di costi e di tempi che la conciliazione consente in vista della pronta soddisfazione delle loro pretese, sia per l’interesse generale, dato che alla diffusione degli strumenti alternativi di risoluzione delle liti consegue una semplificazione dell’amministrazione della giustizia. Sul fronte strettamente procedimentale occorre dar conto di una recente novità legislativa, in grado di influenzare l’importanza stessa del meccanismo conciliativo. Sino al 20/3/2011, il tentativo di conciliazione di carattere stragiudiziale previsto dall’art. 4, d.lgs. n. 179, sarà denotato dal carattere della facoltatività («Gli investitori possono attivare la procedura di conciliazione»): esso non assurgerà, quindi, a condizione di procedibilità della domanda in giudizio da parte dell’investitore (31). Per i processi in materia di contratti finanziari che inizieranno dopo il 20/3/2011, invece, secondo il combinato disposto degli artt. 5, comma 1, e 24, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, l’operatività dello strumento conciliativo costituirà condizione di procedibilità della domanda proposta in via ordinaria dagli investitori: il legislatore, infatti, nell’intento di favorire il potenziamento dell’istituto della conciliazione, ha stabilito che, a far data dal 20/3/2011, chi intenderà esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di contratti finanziari dovrà preliminarmente esperire il procedimento di conciliazione previsto dal d.lgs. n. 179, per le materie ivi regolate; l’esperimento del procedimento di mediazione sarà condizione di procedibilità della domanda giudiziale; l’improcedibilità andrà eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata ex officio dal giudice, non oltre la prima udienza. (31) Peraltro, in virtù dell’espresso richiamo previsto dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, alla disciplina societaria (peraltro abrogata proprio dal d.lgs. n. 28/2010), è ben possibile l’inserimento di una clausola di conciliazione nel contratto stipulato tra risparmiatore e intermediario, con l’effetto processuale di consentire all’intermediario, convenuto in sede giudiziale, di eccepire il mancato esperimento del tentativo di conciliazione contrattualmente previsto. In caso di accertata inottemperanza all’impegno di far precedere al perseguimento della via giurisdizionale il tentativo di conciliazione davanti a un organismo, il giudice dovrà disporre la sospensione del procedimento, fissando un termine per il deposito dell’istanza di conciliazione. DOTTRINA 325 Quanto alle condizioni di ammissibilità, l’art. 7, del. n. 16763, stabilisce che l’istanza volta all’attivazione della procedura di conciliazione possa essere presentata (esclusivamente dall’investitore (32)) quando per la medesima controversia: - non siano state avviate (eventualmente su iniziativa dell’intermediario a cui l’investitore abbia aderito) altre procedure di conciliazione (33); - sia stato presentato reclamo all’intermediario cui sia stata fornita espressa risposta; - sia decorso il termine di 90 giorni (o il termine più breve eventualmente stabilito dall’intermediario per la trattazione del reclamo) senza che l’investitore abbia ottenuto risposta al suo reclamo. La disposizione regolamentare riproduce quasi alla lettera la norma dell’art. 4, comma 2, d.lgs. n. 179, ribadendo il concetto che la possibilità di avviare la procedura conciliativa è rimessa unicamente alla volontà dell’investitore e non anche all’intermediario (34). Ciò non significa, peraltro, che la domanda di conciliazione debba essere materialmente presentata dall’investitore, ben potendo quest’ultimo farsi assistere da un legale nella redazione e nell’inoltro, come espressamente previsto dal successivo art. 8, comma 1, lett. a)(35) . Dalla norma si evince, inoltre, che il tentativo di conciliazione promosso dall’investitore ha carattere tanto preventivo quanto successivo, potendo essere attivato sia prima sia dopo l’instaurazione di un ordinario giudizio civile. L’istanza, sottoscritta dall’investitore e corredata della documentazione attestante le condizioni di ammissibilità e il pagamento delle spese di avvio del procedimento, può essere redatta utilizzando l’apposito formulario predisposto dalla CCA. Essa, in ogni caso, deve contenere: - le generalità e i recapiti dell’istante; - l’impegno a osservare gli obblighi di riservatezza e le altre norme di procedura; - la descrizione della controversia e delle pretese (36), con indicazione (32) E’ stato affermato che la scelta di riservare al solo investitore l’iniziativa conciliativa potrebbe risultare penalizzante in termini di diffusione della conciliazione, fornendo, al contempo, una visione eccessivamente “consumeristica” dello strumento. (33) Tra le più affermate in materia di servizi di investimento si ricordi quella gestita dal “Conciliatore Bancario Finanziario”, associazione promossa dall’ABI, impegnata altresì nella gestione del noto (e diverso) servizio denominato “Ombudsman - Giurì bancario”. (34) Alcuni hanno criticato la mancata possibilità di presentare una domanda congiunta, quale forma semplificata di avvio del procedimento, particolarmente apprezzabile in presenza di una clausola conciliativa. (35) Il difensore dev’essere naturalmente munito di regolare procura alle liti, con la quale gli sia attribuito il potere di conciliare e transigere. (36) Durante la fase di consultazione è stato proposto di prevedere che l’istanza contenesse una descrizione puntuale e precisa degli obblighi (di informazione, di correttezza e di trasparenza) asserita- 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 del relativo valore (da determinarsi ai sensi degli artt. 10 ss. c.p.c.: cfr. art. 15, del. n. 16763). Per effetto del richiamo all’art. 39, comma 1, d.lgs. n. 5/03, operato dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di conciliazione sono esenti da ogni imposizione fiscale (imposta di bollo, ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura), con la conseguenza – ispirata chiaramente al favor conciliationis – che gli stessi possono essere prodotti in carta semplice. La normativa affida direttamente alle parti l’instaurazione del contraddittorio: una volta redatta, l’istanza dev’essere, a cura dell’investitore, comunicata all’intermediario (37) (con mezzo idoneo a dimostrarne l’avvenuta ricezione (38)) e depositata presso la CCA nei successivi 30 giorni Ricevuta l’istanza, la CCA, entro 5 giorni dal suo deposito, è tenuta a valutarne l’ammissibilità e può invitare l’istante a procedere, entro un congruo termine, a eventuali integrazioni e correzioni (39). La CCA, ove ritenga che l’istanza (eventualmente dopo le integrazioni fornite dall’investitore) soddisfi le prescritte condizioni di ammissibilità, entro 5 giorni dal suo deposito (ovvero dal ricevimento delle integrazioni e correzioni) invita l’intermediario ad aderire al tentativo di conciliazione (trasmettendogli le eventuali integrazioni e correzioni). A questo punto, l’intermediario, non oltre i 5 giorni successivi alla comunicazione dell’invito della CCA, deve comunicare alla stessa CCA e all’investitore (con mezzo idoneo a dimostrarne l’avvenuta ricezione) la propria adesione al tentativo di conciliazione, con apposito atto contenente l’impegno a osservare gli obblighi di riservatezza e le altre norme della del. n. 16763, corredato: - dei documenti attestanti il pagamento delle spese di avvio della procemente violati. Tale suggerimento non è stato, però, accolto, in quanto, potendo l’istanza essere redatta direttamente dall’investitore senza l’ausilio di un legale, tale previsione avrebbe finito col gravare l’investitore di un onere eccessivo. D’altra parte, la CONSOB ha ricordato che eventuali carenze nel contenuto dell’istanza ben possono essere integrate in un momento successivo, a seguito di richiesta della stessa CCA. (37) In virtù del rinvio all’art. 40, comma 4, d.lgs. n. 5/03, la comunicazione all’intermediario dell’istanza di conciliazione produce sulla prescrizione i medesimi effetti della domanda giudiziale, ovverosia interrompe la prescrizione e impedisce il verificarsi di una decadenza. La ratio della previsione è chiaramente quella di evitare che il periodo di svolgimento della procedura conciliativa possa compromettere il diritto sostanziale che l’investitore intende far valere. (38) L’ampia dizione utilizzata lascia all’investitore la facoltà di scegliere il mezzo ritenuto più idoneo, nonché la possibilità di avvalersi, oltreché della tradizionale raccomandata con avviso di ricevimento, anche di strumenti informatici in grado di assicurare la ricezione dell’istanza da parte dell’intermediario. In caso di contestazioni, si ritiene che sarà la CCA a valutare l’adeguatezza del mezzo di trasmissione utilizzato. (39) Dopo il vano decorso del termine eventualmente assegnato a tal fine, la CCA dichiara l’inammissibilità dell’istanza, dandone tempestiva comunicazione all’investitore e all’intermediario. DOTTRINA 327 dura; - della documentazione afferente al rapporto contrattuale controverso (40) (ivi compreso il reclamo proposto dall’investitore e le eventuali determinazioni assunte al riguardo). Se, invece, l’intermediario non comunica la propria adesione al tentativo di conciliazione nel termine indicato, la CCA deve attestare la mancata tempestiva adesione dell’intermediario al tentativo di conciliazione (41). I tempi previsti per l’instaurazione del contraddittorio e la costituzione delle parti, secondo alcuni, sarebbero eccessivamente rigorosi rispetto a quelli normalmente previsti nei regolamenti di conciliazione (42), e ancor più stringenti considerati gli oneri imposti alle parti in sede di redazione degli atti introduttivi. Si è, in proposito, auspicato che la CCA e gli stessi conciliatori applichino le norme nel modo più flessibile e antiformalistico, evitando di configurare decadenze o impedimenti di carattere formale, che, lungi dal semplificare la soluzione del conflitto, rischierebbero di complicarla ulteriormente. Successivamente al deposito dell’istanza conciliativa, la CCA procede senza indugio alla nomina di un conciliatore iscritto nell’apposito elenco da essa tenuto, avendo riguardo ai seguenti criteri, indicati senza ordine di priorità dall’art. 9, del. n. 16763 (43): a) vicinanza territoriale all’investitore; b) numero di controversie pendenti innanzi al conciliatore; c) esperienza maturata dal conciliatore sulle questioni specifiche oggetto della controversia; d) equa distribuzione degli incarichi; e) tendenziale parità di trattamento tra uomini e donne. Mette conto evidenziare che, se nella provincia dove l’investitore ha il domicilio o la sede non è presente un conciliatore iscritto nell’elenco ovvero i conciliatori presenti sono gravati da eccessivi carichi di lavoro e, comunque, non è possibile assicurare un adeguato e sollecito svolgimento della procedura, la CCA può investire della controversia, con decisione motivata, gli organismi di conciliazione iscritti nel Registro degli organismi di conciliazione (40) Tale previsione è chiaramente posta a maggior tutela dell’investitore, il quale spesso, non trovandosi in possesso della documentazione, non ha la materiale possibilità di produrre tale documentazione. (41) Sebbene l’art. 8, comma 6, del. n. 16763, nulla dica al riguardo, è da più parti ritenuto ragionevole che la CCA comunichi all’investitore la mancata adesione dell’intermediario, sì da consentirgli di adottare le valutazioni del caso. (42) In sede di consultazione non è mancato chi ha suggerito un allungamento dei termini (ABI) ovvero un allentamento complessivo del rigore formale, maggiormente in linea con il carattere flessibile e informale della conciliazione (Camera Arbitrale di Milano). (43) La CCA gode di un ampio margine di discrezionalità nell’individuazione del conciliatore ritenuto più idoneo a definire amichevolmente la controversia. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 (istituito con D.M. n. 222/04 (44)) che abbiano manifestato, anche attraverso la stipulazione di apposite convenzioni, la propria disponibilità, optando per quello ritenuto più idoneo tenendo conto dei criteri individuati sub lett. a) e c). La CCA, ricevuto l’atto di l’adesione dell’intermediario, comunica senza indugio la nomina allo stesso conciliatore e alle parti. Il conciliatore, una volta ricevuta la comunicazione della nomina e la documentazione prodotta dalle parti, trasmette la dichiarazione di accettazione (45) alla CCA entro i successivi 5 giorni (46). Non prima di 5 giorni e non oltre 10 giorni dalla data di accettazione, il conciliatore fissa la data e la sede (47) per la prima (e, in linea di massima, unica) riunione, dandone tempestiva comunicazione alle parti e alla CCA. Quanto allo svolgimento della procedura, occorre evidenziare che la del. n. 16763 ha attribuito al conciliatore un ruolo più incisivo rispetto a quello normalmente riconosciuto a tale figura nel contesto delle altre procedure di conciliazione amministrate: in effetti, la CCA, una volta ricevuti gli atti introduttivi e individuato il conciliatore incaricato della singola controversia, gli affida sostanzialmente l’intera gestione del procedimento, dovendo esso determinare, in piena autonomia, le modalità di svolgimento del tentativo di conciliazione e potendo esso all’uopo condurre gli incontri senza formalità di procedura e senza obbligo di verbalizzazione e nel modo che ritiene più opportuno, tenendo conto delle circostanze del caso, della volontà delle parti e della necessità di trovare una rapida soluzione alla lite. L’unico temperamento a tale amplissima elasticità e semplificazione di forme è ricavabile dal disposto dell’art. 11, del. n. 16763, in forza del quale la procedura di conciliazione si ispira a princìpi di imparzialità e garanzia del contraddittorio (48) (già, peraltro, imposti dall’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 179), (44) Tale Registro è destinato ad essere sostituito dal Registro degli organismi di mediazione, da istituirsi, sempre con decreto del Ministro della giustizia, ai sensi dell’art. 16, d.lgs. n. 28/2010. (45) Con la dichiarazione di accettazione il conciliatore attesta la permanenza dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco e l’inesistenza: - di rapporti con le parti e con i loro rappresentanti tali da incidere sulla sua imparzialità e indipendenza; - di personali interessi (diretti o indiretti) relativi all’oggetto della controversia. Nel corso della procedura il conciliatore è, peraltro, tenuto a comunicare tempestivamente alla CCA e alle parti eventuali circostanze sopravvenute idonee a incidere sulla sua indipendenza e imparzialità. (46) In caso di mancata tempestiva accettazione, la CCA provvede senza indugio a nominare un altro conciliatore. (47) La sede coinciderà con il domicilio del conciliatore o altro luogo attrezzato per lo svolgimento dell’attività di conciliazione. (48) E’ opportunamente fatta salva la possibilità per il conciliatore di sentire separatamente le parti, onde individuare più facilmente possibili punti di accordo (artt. 4, comma 3, d.lgs. n. 179, e 11, comma 3, del. n. 16763). Invero, nelle procedure di conciliazione le parti non subiscono la soluzione, ma concorrono a determinarla, con la conseguenza che il principio del contraddittorio assume un significato necessariamente diverso da quello usuale nel terreno del contenzioso processuale. Il rispetto del DOTTRINA 329 unitamente ai princìpi di celerità, immediatezza, concentrazione e oralità, nonché al dovere di riservatezza (49). Quest’ultimo, in particolare, grava non solo sulle parti, ma sulla stessa CCA (50) e sul conciliatore (51). Quanto ai princìpi di immediatezza e concentrazione, l’art. 12, commi 1 e 2, del. n. 16763, stabilisce che la conciliazione si svolge, di regola, nel luogo in cui si trova il domicilio del conciliatore (52), il quale – come si è accennato – è tenuto a fissare la data e la sede per la prima riunione non prima di 5 giorni e non oltre 10 giorni dalla data di accettazione, dandone tempestiva comunicazione alle parti e alla CCA. Sotto il profilo della celerità, può osservarsi che l’art. 13, del. n. 16763, fissa in 60 giorni a decorrere dal deposito dell’istanza (ovvero dal successivo deposito delle integrazioni) il termine massimo per la conclusione della procedura (53), facendo salva la possibilità per il conciliatore, con il consenso delle parti, di prorogare tale termine per un periodo non superiore a ulteriori 60 giorni, comunicandolo alla CCA, nel caso in cui: - ricorrano oggettivi impedimenti del conciliatore o delle parti; - occorra acquisire informazioni e documenti indispensabili ai fini delcontraddittorio, dunque, non impedisce al conciliatore di sentire le parti separatamente, né di fare ricorso ad altre tecniche di mediazione e di comunicazione comunemente impiegate per favorire il raggiungimento dell’accordo; in tale ambito il contraddittorio si traduce, piuttosto, nel potere-dovere per il conciliatore di assicurare alle parti pari possibilità di interloquire e di partecipare in modo spontaneo e cosciente alla definizione della soluzione conciliativa. (49) Allo scopo di accentuare la garanzia di riservatezza, l’art. 4, comma 7, d.lgs. n. 179, stabilisce che le dichiarazioni rese dalle parti nel procedimento di conciliazione non possono essere utilizzate nell’eventuale procedimento sanzionatorio nei confronti dell’intermediario innanzi all’autorità di vigilanza competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative previste per le medesime violazioni. Si aggiunga che, in forza del rinvio all’art. 40, comma 3, d.lgs. n. 5/03, compiuto dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio promosso a seguito dell’insuccesso del tentativo di conciliazione, né possono essere oggetto di prova testimoniale. (50) L’art. 11, del. n. 16763, impone, invero, alla CCA di assicurare adeguate modalità di conservazione e di riservatezza degli atti introduttivi della procedura di conciliazione, nonché di ogni altro documento proveniente dai soggetti che hanno partecipato a qualsiasi titolo alla procedura di conciliazione o formatosi nel corso della procedura stessa. Si consideri, inoltre, che, a tenore degli artt. 16 e 20, St. CCA, i componenti del collegio camerale sono tenuti al rispetto del segreto d’ufficio e lo stesso personale di segreteria è tenuto al rispetto del segreto d’ufficio relativamente allo svolgimento delle attività della CCA, nonché a mantenere riservata qualsiasi notizia o informazione inerente lo svolgimento delle procedure di conciliazione e di arbitrato amministrato. (51) Il conciliatore, a mente dell’art. 5, Cod. deont. CCA, sono tenuti al segreto sulle notizie acquisite per ragioni del loro ufficio o per le funzioni esercitate e non devono utilizzarle in maniera indebita, astenendosi da comportamenti che possano influire sullo svolgimento o sull’esito di altre controversie. (52) Nel documento sugli esiti della consultazione del gennaio 2009 la CONSOB ha, in proposito, affermato che «per la maggiore diffusione delle procedure di conciliazione è importante assicurare che le stesse si svolgano, per quanto possibile, vicino alle parti e, in particolare, all’investitore in quanto parte debole del rapporto con l’intermediario». (53) Peraltro, su accordo delle parti, è possibile derogare alla sospensione feriale (1° agosto – 15 settembre) del termine per la conclusione della procedura (art. 13, comma 3, del. n. 16763). 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 l’esperimento del tentativo di conciliazione; - sussista la ragionevole possibilità di un esito positivo della procedura (54). Con riferimento al principio dell’oralità, l’art. 12, comma 3, oltre alla già vista libertà di forme, prevede che il conciliatore possa sentire le parti separatamente e in contraddittorio tra loro, al fine di meglio chiarire i termini della controversia e far emergere i punti di accordo, potendo altresì disporre l’intervento di terzi, dietro congiunta proposta delle parti e a loro spese. La del. n. 16763 non contiene specifiche previsioni in merito al funzionamento della conciliazione e al modo in cui il conciliatore debba intervenire per promuovere la soluzione conciliativa. Appare ragionevole immaginare che il conciliatore, in veste di dominus della procedura, interroghi liberamente le parti, invitandole a esporre i fatti sottesi alla controversia e a precisare le loro pretese (55). Una volta che siano stati puntualizzati gli aspetti significativi della res litigiosa, il conciliatore provvederà a orientare le parti nella ricerca di un accordo in grado di soddisfare gli interessi di entrambe, vagliando le soluzioni idonee a realizzare un punto di equilibrio fra le contrapposte pretese. In ordine alla fase finale della procedura, l’art. 14, del. n. 16763, ha dato attuazione al rinvio alla disciplina della conciliazione societaria operato dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179 (56): ne è seguita l’adozione di un modello misto, analogo a quello adottato nell’ambito della disciplina della conciliazione societaria. In una prima fase della procedura, il conciliatore svolge una funzione esclusivamente “facilitativa”, volta ad aiutare e ad assistere le parti nel raggiungimento di un accordo pienamente satisfattivo; in una seconda fase – che assume, invece, carattere eventuale, essendo condizionata alla comune volontà delle parti – il conciliatore assume una funzione “propositiva”, elaborando una proposta non vincolante (57), rispetto alla quale saranno le parti (54) Va da sé che la mancata osservanza dei termini conclusivi non determina l’invalidità dell’accordo eventualmente raggiunto, non potendosi certamente limitare la possibilità per le parti di raggiungere un’intesa anche oltre il termine normativamente prestabilito. (55) Va da sé che il tentativo di conciliazione deve ritenersi fallito in ipotesi di mancata comparizione di una delle parti (generalmente, il convenuto). (56) Si veda ora l’art. 11, d.lgs. n. 28/2010, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali. (57) In relazione ai concreti contenuti della proposta, la del. n. 16763 non ha riprodotto espressamente la previsione contenuta nell’art. 4, comma 6, d.lgs. n. 179, in forza della quale il conciliatore dovrebbe tener conto dei criteri stabiliti dalla CONSOB, sentita la Banca d’Italia, per la determinazione dell’indennizzo (cfr. art. 3, comma 2, d.lgs. n. 179). Peraltro, nel documento di consultazione relativo alla del. n. 16763, la CONSOB stessa precisa che, nel formulare la sua proposta, «il conciliatore dovrà tener conto di tutti gli elementi fattuali emersi nel corso della procedura (e della loro idoneità a supportare le reciproche rivendicazioni delle parti), nonché del contegno complessivamente tenuto dalle parti, id est dei criteri rilevanti per la determinazione dell’indennizzo contemplato nel procedimento di arbitrato semplificato» (cfr. art. 33, comma 2, del. n. 16763). E’ stato, al riguardo, osservato che tale omissione potrebbe spiegarsi considerando che, almeno in sede conciliativa, la soluzione della lite po- DOTTRINA 331 stesse a doversi pronunziare (secondo il modello – più sopra illustrato – della conciliazione valutativa). In quest’ultimo caso, se le parti riterranno equa la proposta di soluzione della lite, potranno recepirla; diversamente, potranno semplicemente ignorarla ovvero utilizzarla come mera indicazione per proseguire le trattative, compiendo, sulla base della stessa, autonome determinazioni. In ultima analisi, gli scenari possibili sono i seguenti: - in caso di successo della procedura, i contenuti dell’accordo compositivo (58) sono riportati in apposito processo verbale (59) (sottoscritto dalle parti e dal conciliatore (60)), fermo restando che, se le parti non danno spontanea esecuzione alle previsioni dell’accordo, il verbale – previo deposito ad opera della parte interessata presso la cancelleria del tribunale del circondario in cui ha avuto luogo la conciliazione (61) e una volta accertata la sua regolarità formale (62) – è omologato con decreto del Presidente del tribunale e costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (63); - qualora, invece, non sia stato possibile raggiungere un accordo, su istanza congiunta delle parti il conciliatore formula una proposta, rispetto alla quale ciascuna delle parti, se la conciliazione non ha luogo, indica la propria definitiva posizione ovvero le condizioni alle quali è disposta a conciliare; di tali posizioni il conciliatore dà atto in apposito verbale di fallita conciliatrebbe anche prescindere da una soluzione in termini di indennizzo, ben potendo il conciliatore fornire alle parti una proposta di contenuto atipico, suggerendo altresì forme non usuali di riparazione in favore dell’investitore. Appare, peraltro, ragionevole immaginare che, ove il conciliatore intenda proporre all’intermediario il riconoscimento di un ristoro del pregiudizio causato al patrimonio dell’investitore, faccia riferimento proprio ai criteri ora citati. In tale evenienza, infatti, l’intervento valutativo, per essere equo e, al contempo, apprezzabile dalle parti, dovrebbe assumere i contorni di una prognosi “obiettiva” e giuridicamente realistica del possibile esito della lite, alla luce delle allegazioni delle parti e degli elementi (di fatto e di diritto) da ciascuna di esse prodotti. (58) Tale accordo, beninteso, può anche investire solo parte della controversia, lasciando il resto della vertenza alla definizione arbitrale o giudiziale. (59) Ai sensi dell’art. 39, comma 2, d.lgs. n. 5/03, richiamato dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, il verbale di conciliazione è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di € 25.000. Si tratta – come detto – di disposizione abrogata. Il rinvio “dinamico” conduce all’applicazione dell’art. 17, comma 3, d.lgs. n. 28/2010, secondo cui il verbale di accordo «è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente». (60) L’intesa raggiunta ha un valore negoziale analogo a quello di una transazione, e infatti la relativa efficacia non è subordinata al provvedimento di omologazione da parte del tribunale. (61) La CONSOB ha scelto di radicare la competenza per l’exequatur nel luogo in cui si è espletata la procedura conciliativa, in quanto tale luogo sarà con ogni probabilità quello più vicino al domicilio/sede dell’investitore. (62) L’accertamento, quindi, non entra nel merito dell’accordo raggiunto, limitandosi a verificare la sussistenza e la regolarità delle sottoscrizioni, la natura giuridica della res litigiosa e la sussistenza della competenza in ordine all’omologazione del verbale. (63) Cfr. l’art. 40, comma 8, d.lgs. n. 5/03, richiamato dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, da ritenersi attualmente sostituito dall’art. 12, d.lgs. n. 28/2010. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 zione (64). In ogni caso, al termine della procedura, il conciliatore trasmette gli atti (65) alla CCA, che provvede a rilasciarne copia alle parti che ne fanno richiesta (66), adottando tutti gli opportuni accorgimenti idonei a evitare lesioni alla riservatezza dei soggetti coinvolti (67). Quanto ai costi della procedura di conciliazione, la fruizione del servizio di conciliazione offerto dalla CCA dà luogo a tre distinte voci di spesa: - le spese amministrative per l’avvio della procedura (pari a € 30 per ciascuna parte), che sono versate alla CCA dalle parti all’atto del deposito, rispettivamente, dell’istanza iniziale e dell’atto di adesione; - il compenso del conciliatore, determinato sulla base della tabella allegata al del. n. 16763 (68). - le spese sostenute dal conciliatore per l’esecuzione dell’incarico (69). (64) E’ stato correttamente osservato che tale verbale va altresì redatto nel caso in cui le parti non siano addivenute a un accordo e non abbiano avanzato concordemente al conciliatore la richiesta di una proposta conciliativa. In tal caso, secondo alcuni, il conciliatore dovrebbe far constare nel verbale le posizioni delle parti e le condizioni a cui sarebbero disposte a conciliare, ciò allo scopo di creare una buona base di partenza per il giudice o l’arbitro dell’eventuale futuro giudizio. (65) Per tali intendendosi gli atti introduttivi, i documenti ad essa allegati e il processo verbale della riunione. (66) Le copie degli atti del procedimento (in particolare, il verbale) – a voler intendere come “statico” il rinvio operato dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 179, all’abrogato art. 40, comma 5, d.lgs. n. 5/03 – possono essere utilizzate nell’eventuale futuro processo ai fini della decisione sulle spese di lite, anche a norma dell’art. 96 c.p.c.; il giudice potrà, quindi, valutare il contegno tenuto dalle parti in occasione del tentativo di conciliazione stragiudiziale, eventualmente sanzionando la parte che, esibendo un atteggiamento poco collaborativo, ha indotto la controparte a ricorrere o resistere nel successivo giudizio contenzioso. Ove, al contrario, si reputi “mobile” tale rinvio, dovrà aversi riguardo agli artt. 8, comma 5 (secondo cui dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c.) e 13, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 (secondo cui, ferma l’applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c., quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto). Quest’ultima previsione è chiaramente finalizzata a sanzionare la parte irragionevolmente litigiosa. (67) La scelta di accentrare in capo alla CCA il compito di rilasciare tutti gli atti della procedura si spiega alla luce degli obblighi di conservazione e di riservatezza che la stessa è tenuta a rispettare ai sensi dell’art. 11, comma 2, del. n. 16763. (68) La tabella prevede un compenso massimo dovuto da ciascuna parte che va da € 40 ad € 10.000, a seconda dello scaglione relativo al valore della controversia. Per i compensi minimi, invece, si considerano quelli dovuti come massimi per il valore della lite ricompreso nello scaglione immediatamente precedente a quello effettivamente applicabile; il compenso minimo relativo al primo scaglione è liberamente determinato. L’importo massimo del compenso per ciascun scaglione di riferimento può essere aumentato in misura non superiore al 5%, tenuto conto della particolare importanza, complessità o difficoltà dell’affare. (69) La scelta di permettere il rimborso al conciliatore delle spese sostenute per l’amministrazione della relativa procedura è dovuta all’accoglimento da parte della CONSOB di una proposta in tal senso proveniente da un’associazione partecipante alla consultazione. La ratio è quella di evitare che di tali DOTTRINA 333 Da notare che la liquidazione del compenso del conciliatore e il rimborso delle spese sostenute (ove opportunamente documentate) avviene ad opera della CCA, dietro proposta dello stesso conciliatore (70), con decisione vincolante per le parti (71). Interessante si rivela altresì la previsione – ispirata al favor conciliationis – di cui all’art. 16, comma 3, del. n. 16763, in base alla quale, se la conciliazione riesce, il pagamento del compenso del conciliatore grava in capo alle parti in via solidale; per contro, in caso di mancata conciliazione, la metà del compenso è posta a carico della CCA, mentre la parte residua continua a gravare sulle parti in via solidale (72). 2.5. Le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo ordinario Accanto al tentativo di conciliazione stragiudiziale sin qui illustrato il d.lgs. n. 179 ha introdotto anche un procedimento di arbitrato amministrato dalla CCA (73), affidando, anche in tal caso, a un regolamento deliberato dalla spese debba farsi carico il conciliatore, stante l’entità già abbastanza contenuta del compenso a lui spettante. (70) Secondo la CONSOB il potenziale conflitto di interessi del conciliatore è impedito dal controllo che la CCA è comunque tenuta ad esercitare sulla proposta fatta. Peraltro, viene evidenziato che il conciliatore è senz’altro la persona maggiormente in grado di apprezzare l’eventuale complessità della procedura ai fini dell’esatta quantificazione del compenso. (71) Al fine di esercitare un adeguato controllo sulle spese da rimborsare, all’esito della consultazione si è stabilito che la CCA determini in via generale quali siano le spese necessarie per l’esecuzione dell’incarico rimborsabili al conciliatore e valuti la congruità e la ragionevolezza delle singole richieste che saranno avanzate. (72) Mette conto notare che la bozza di delibera posta in consultazione prevedeva che, in caso di fallita conciliazione, nulla fosse dovuto dalle parti per il compenso del conciliatore, al quale avrebbe provveduto la CCA, mediante risorse fornitele dalla stessa CONSOB. In sede di consultazione l’ABI ritenne opportuno far presente, da un lato, che la gratuità del servizio avrebbe rischiato di trasformare la conciliazione in una dannosa fase procedurale, in termini di tempo e di costi, che finiva con l’incentivare gli investitori ad attivare procedure pretestuose o infondate; dall’altro lato, tale previsione avrebbe avvantaggiato la CCA rispetto agli altri organismi di conciliazione, ai quali il D.M. n. 223/04 impedisce di rendere gratuite le proprie conciliazioni. Accogliendo in parte tali commenti, la CONSOB ha riformulato l’art. 16, comma 3, ponendo a carico delle parti, in caso di fallita conciliazione, soltanto la metà del compenso del conciliatore, mirando, in tal modo, «a contemperare l’esigenza di favorire la più ampia diffusione delle procedure (...) con quella di evitare l’uso strumentale delle procedure stesse». Sarà, peraltro, interesse della CCA adottare misure idonee a prevenire comportamenti scorretti delle parti, le quali, allo scopo di approfittare della previsione “promozionale”, poterebbero omettere di formalizzare davanti al conciliatore un accordo già raggiunto o comunque posticiparne la formalizzazione al solo scopo di usufruire dello “sconto” ora illustrato. (73) Occorre, al riguardo, distinguere concettualmente l’arbitrato ad hoc dall’arbitrato amministrato. In quest’ultimo, le parti fanno generalmente ricorso a un articolato regolamento predisposto da una delle associazioni che prestano professionalmente il servizio di arbitrato, giovandosi, in tal modo, di un forte ausilio nella soluzione delle questioni organizzative e procedimentali connesse alla procedura. Nell’arbitrato ad hoc le parti sono, invece, libere di regolare personalmente le varie fasi della futura 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 CONSOB (74) sentita la Banca d’Italia, la disciplina della procedura. L’art. 5, d.lgs. n. 179, ha previsto che la CONSOB, nel dettare la disciplina attuativa dell’arbitrato, tenga conto, sia pure con la clausola della compatibilità, degli artt. 34, 35, 36, d.lgs. n. 5/03, in tema di arbitrato societario, nonché degli artt. 806 ss. c.p.c., relativi all’arbitrato di diritto comune, fermo in ogni caso il rispetto del contraddittorio. E’ stata altresì affidata alla disciplina regolamentare della CONSOB: - la determinazione delle modalità di nomina del collegio arbitrale (o dell’arbitro unico); - le ipotesi di incompatibilità, ricusazione e sostituzione degli arbitri; - la responsabilità degli arbitri; - gli onorari spettanti agli arbitri; - le tariffe per il servizio di arbitrato dovute alla CCA. E’, infine, stabilito che tale arbitrato ha natura rituale (75), è ispirato a criteri di economicità, rapidità ed efficienza e il lodo è sempre impugnabile per violazione di norme di diritto (errores in procedendo e in judicando). Sulla base di queste indicazioni, l’art. 18, del. n. 16763, ha ribadito che l’arbitrato amministrato dalla CCA ha natura rituale ed è regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 806 ss. c.p.c. (76) (opportunamente integrate dalle diprocedura arbitrale: possono, quindi, scegliere di comune accordo il numero degli arbitri, le modalità della loro designazione, la sede dell’arbitrato, il diritto applicabile, etc. In altre parole, possono fissare i vari aspetti dell’arbitrato nel modo più rispondente alle esigenze del caso specifico, amministrando il procedimento direttamente e in prima persona, senza l’ausilio di organismi permanenti esterni e di regolamenti predeterminati: le norme saranno, infatti, indicate direttamente nella clausola arbitrale (o nel compromesso), senza alcun riferimento a fonti regolamentari esterne. Quest’ultimo tipo di arbitrato può offrire alcuni vantaggi di ordine pratico, come una maggiore rapidità e riservatezza e un possibile risparmio di costi, a condizione che gli arbitri chiamati a dirimere la lite contribuiscano, in quanto competenti e professionali, a rendere snello, poco macchinoso e spedito il procedimento. (74) Si tratta, naturalmente, della più volte citata del. CONSOB n. 16763/08. (75) L’arbitrato rituale – come noto – è quello avente la funzione e la struttura del giudizio: le parti affidano a uno o più arbitri, attraverso il compromesso o la clausola arbitrale, un vero e proprio giudizio privato, la cui struttura è sufficiente per attribuire al lodo arbitrale l’efficacia della pronuncia giurisdizionale (eccezion fatta per l’efficacia esecutiva e l’idoneità all’iscrizione dell’ipoteca e alla trascrizione, subordinate al deposito del lodo presso la cancelleria del Tribunale e al successivo ottenimento dell’exequatur). (76) Nella disposizione regolamentare non sono stati richiamati gli artt. 34-36, d.lgs. n. 5/03. Le ragioni di tale scelta vanno rintracciate, da un lato, nella parziale incompatibilità delle norme in tema di arbitrato societario con la particolare struttura del giudizio arbitrale amministrato dalla CCA, connotato da tratti peculiari in ordine alle questioni compromettibili e alla natura giuridica dei soggetti destinati ad assumere la veste di parti necessarie del procedimento (intermediari e investitori); dall’altro lato, nella parziale confluenza delle stesse previsioni nell’impianto del codice di rito, per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 40/06, recante la riforma del diritto arbitrale. In particolare, l’art. 34, d.lgs. n. 5/03, relativo all’oggetto e agli effetti delle clausole compromissorie statutarie era chiaramente inapplicabile alla materia dei rapporti contrattuali tra intermediari e investitori; l’art. 35, commi 1, 2, 4 e 5 era, del pari, inapplicabile, in quanto presupponeva l’esistenza di una clausola compromissoria contenuta nell’atto costitutivo di una società ovvero l’esistenza di domande, di statuizioni e di potestà cautelari arbitrali del tutto sconosciute all’arbitrato amministrato dalla CCA; quanto alla previsione dell’art. 35, comma DOTTRINA 335 sposizioni di dettaglio introdotte dalla stessa del. n. 16763), confermando altresì che gli arbitri sono chiamati ad applicare nelle loro decisioni le norme di diritto. Mette conto evidenziare che, secondo l’art. 6, d.lgs. n. 179, la clausola compromissoria inserita nei contratti di investimento e di gestione collettiva del risparmio stipulati con gli investitori è vincolante solo per l’intermediario (77), a meno che questo non provi che l’inclusione della clausola sia avvenuta per effetto di una trattativa diretta svolta dalle parti contraenti (78). Si tratta di una disposizione volta a riconoscere all’investitore, quale parte debole del rapporto, la possibilità di ricorrere liberamente all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, a meno che, all’esito di una trattativa effettiva e libera, non abbia raggiunto un accordo con l’intermediario, finalizzato a compromettere in arbitri le eventuali future controversie. Ne consegue che, nel caso di clausola arbitrale contenuta nei contratti conclusi con gli investitori, l’investitore potrà scegliere liberamente se perseguire la strada dell’arbitrato oppure adire la giustizia ordinaria (79); l’intermediario, invece, qualora intenda far valere la clausola nei confronti dell’investitore, al fine di devolvere la controversia alla cognizione degli arbitri, dovrà dimostrare che la clausola compromissoria ha formato oggetto di trattativa individuale e diretta con l’investitore, sì da superare la presunzione di vessatorietà della clausola stessa. Le forme di arbitrato contemplate dall’art. 5, commi 1 e 2, d.lgs. n. 179, sono – come accennato – due: l’arbitrato ordinario, volto al risarcimento pieno del pregiudizio subìto dall’investitore, e l’arbitrato semplificato, volto, invece, 3, primo periodo, la stessa è stata assorbita dalla nuova formulazione dell’art. 819 c.p.c., così come la nuova dictio dell’art. 829, comma 4, n. 2, c.p.c. riprende il contenuto precettivo degli artt. 35, comma 3, secondo periodo, e 36, d.lgs. 5/03. (77) La vincolatività della clausola per il solo intermediario naturalmente non comporta l'obbligatorietà dell’arbitrato: come noto, infatti, l’arbitrato c.d. necessario è costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 24 e 102 Cost., secondo il costante insegnamento della Corte Cost., in base al quale solo la libera scelta delle parti – intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in negativo, del diritto di agire in giudizio di cui all'art. 24 Cost. – può derogare al divieto di istituzione di giudici speciali di cui all'art. 102, comma 2, Cost. (v., tra le altre, la sentt. nn. 127/77, 488/91, 49/94, 206/94, 232/94, 54/96, 152/96, 381/97). Ne consegue, pertanto, che l'intermediario è pienamente libero di scegliere se inserire o meno la clausola arbitrale nel contratto con l'investitore. La rapidità e la snellezza del procedimento arbitrale de quo potrebbero, peraltro, non presentare alcun vantaggio per l'intermediario, considerato che la procedura lo vede inevitabilmente coinvolto nella veste di convenuto, e quindi non necessariamente interessato ad una celere soluzione della vertenza. (78) E’ facile osservare, al riguardo, che, in presenza di contratti standardizzati, la prova di una trattativa diretta si risolverà in una probatio diabolica in capo all'intermediario. (79) E’ stato, al riguardo, osservato che il riconoscimento di una pressoché assoluta libertà di scelta in capo all’investitore potrebbe rappresentare un ulteriore disincentivo per l'intermediario a ricorre all'arbitrato de quo, in quanto finirebbe col privarlo dei possibili vantaggi, in termini di uniformità di gestione delle controversie, conseguenti alla concentrazione di tutte le vertenze presso l'arbitrato amministrato dalla CCA, a fronte della dispersione, anche territoriale, delle controversie giudicate dal giudice ordinario. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 al ristoro del solo danno patrimoniale patito dall’investitore, mediante il riconoscimento di un indennizzo. Soffermando per il momento l’attenzione sull’arbitrato ordinario, giova innanzitutto considerare che, in base all’art. 17, del. n. 16763, la CCA amministra lo svolgimento degli arbitrati, alternativamente: - sulla base di una convenzione di arbitrato che richiami espressamente le norme del d.lgs. n. 179 e la del. n. 16763 o faccia comunque rinvio all’arbitrato amministrato dalla CCA (80); - quando di tale arbitrato le parti facciano concorde richiesta scritta. Peraltro, anche nel caso in cui non esista tra le parti una convenzione di arbitrato che rinvii al giudizio disciplinato dalla del. n. 16763, ciascuna parte può farne richiesta con l’atto introduttivo del giudizio arbitrale (81). In questo caso, tuttavia, affinché l’arbitrato possa svolgersi, occorre che l’adesione della controparte a tale richiesta pervenga alla CCA non oltre il termine stabilito dall’art. 20, comma 2, del. n. 16763, per il deposito dell’atto congiunto di nomina dell’arbitro unico o del terzo arbitro (82). In mancanza di tale adesione, la CCA informa senza indugio le parti e gli arbitri di non poter amministrare lo svolgimento dell’arbitrato. Quanto alla sede dell’arbitrato, la CONSOB, pur riconoscendo che la sua definizione sia espressione dell’autonomia delle parti e, come tale, miri essenzialmente a soddisfare esigenze di comodità logistica, ha nondimeno ritenuto opportuno prevedere che, trattandosi di arbitrato amministrato e onde consentirebbe alla CCA di assistere più efficacemente i collegi arbitrali, l’arbitrato in questione abbia sempre sede presso la CCA, fatta salva la diversa concorde volontà delle parti (83) (art. 19, del. n. 16763). Peraltro, alla luce del rinvio alle norme del codice di rito, resta ferma la possibilità per gli arbitri di tenere udienza, compiere atti istruttori, deliberare e sottoscrivere il lodo anche in luogo diverso dalla sede dell’arbitrato (se del caso, persino all’estero), (80) Il caso più tipico, con ogni probabilità, sarà rappresentato dall’inserimento nei contratti relativi ai servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio di un’apposita clausola, anche se non è escluso che le associazioni di categoria degli intermediari decidano di stipulare convenzioni per i propri aderenti, in cui si preveda il ricorso all’arbitrato amministrato dalla CCA. (81) Si tratta dell’atto con cui, a norma dell’art. 810, comma 1, c.p.c., la parte più diligente notifica all’altra parte, a mezzo di ufficiale giudiziario, il nome del proprio arbitro, invitandola a rendere note le generalità del proprio arbitro. (82) Vale a dire entro 10 giorni dalla scadenza del termine previsto dall’art. 810, comma 1, c.p.c., e quindi, al più tardi, entro 10 giorni dalle notifiche di cui all’art. 810, comma 1, c.p.c. (83) Si tratta di soluzione diversa rispetto a quella adottata per le procedure di conciliazione, per le quali non viene privilegiata una sede a priori, ma si tende verosimilmente a favorire la vicinanza del conciliatore rispetto al luogo di residenza dell’investitore. Il diverso trattamento si giustifica, secondo la CONSOB, in ragione della maggiore diffusione che le procedure di conciliazione, in quanto più economiche e rapide, sono presumibilmente destinate ad avere rispetto agli arbitrati, soprattutto per le controversie di minore entità, che potrebbero scoraggiare l’investitore ove la procedura dovesse svolgersi distante dal suo domicilio. DOTTRINA 337 sempreché la convenzione di arbitrato non disponga diversamente (art. 816, u.c., c.p.c.). Le controversie sono decise da un arbitro unico (84), nominato con atto congiunto delle parti, depositato presso la CCA entro 10 giorni dalla scadenza del termine previsto dall’art. 810, comma 1, c.p.c., salvo che le parti (85) decidano di deferire la controversia a un collegio formato da tre arbitri, nominati con gli atti indicati all’art. 810, comma 1, c.p.c. (86). In quest’ultimo caso, il terzo arbitro, chiamato a svolgere le funzioni di presidente del collegio (87), è nominato con atto congiunto delle parti (oppure degli arbitri da esse nominati), depositato presso la CCA sempre entro il termine sopra ricordato. La scelta dell’arbitro unico o degli arbitri deve, in ogni caso, avvenire tra i soggetti iscritti nell’apposito elenco tenuto dalla CCA. Nel caso in cui non si sia provveduto tempestivamente alla nomina di uno o più arbitri, onde evitare la paralisi della procedura arbitrale, sarà la CCA, in funzione suppletiva e residuale, a provvedervi (88), entro 15 giorni dalla scadenza del termine previsto dal comma 2 per il deposito dell’atto di nomina dell’arbitro unico o del terzo arbitro. In tal caso, la del. n. 16763 ha ritenuto opportuno fissare alcuni criteri che la CCA deve osservare nel procedere alla nomina degli arbitri: - il numero di controversie pendenti innanzi all’arbitro; (84) La preferenza accordata dalla del. n. 16763 per l’arbitro unico (dovuta, peraltro, all’accoglimento dei rilievi dei partecipanti alla consultazione) si dimostra apprezzabile sia sul piano dell’economia processuale, sia dal punto di vista del contenimento delle spese di arbitrato (destinate, infatti, inevitabilmente ad aumentare in presenza di un collegio arbitrale). (85) Da notare, al riguardo, che il documento di esito della consultazione recava sul punto la seguente dizione, difforme rispetto a quella poi apparsa in Gazz. Uff. (che ovviamente prevale): «salvo che l’investitore decida di deferire la controversia a un collegio composto da tre arbitri». (86) Nonostante la norma richiami unicamente gli atti di cui all’art. 810, comma 1, c.p.c., non sembra potersi dubitare che le parti, in ossequio al principio cardine della sovranità delle parti stesse sul processo arbitrale, possano optare per un arbitrato a tre già in fase di redazione della convenzione di arbitrato. Inoltre, si ritiene che le parti, di comune accordo, possano decidere per l’arbitro unico o per il collegio composto da tre arbitri anche in contrasto rispetto a quanto previsto dalla convenzione di arbitrato. In particolare, se la convenzione arbitrale prevede l’arbitro unico, il mancato successivo accordo delle parti sulla designazione di tale arbitro legittima senz’altro le parti, ove non intendano deferire la controversia a un arbitro designato dalla CCA, ad accordarsi per un arbitrato a tre. Infine, ancorché la convenzione arbitrale preveda l’arbitro unico, l’investitore, con l’atto introduttivo, ben potrà chiedere l’arbitrato a tre: nel qual caso, se l’intermediario accetta, nulla quaestio; viceversa, ove l’intermediario non acconsenta, la controversia dovrà essere devoluta all’arbitro unico. Peraltro, posto che – come visto – la clausola compromissoria vincola solo l’intermediario, a meno che questi non provi che sia frutto di una trattativa diretta, resta sempre la facoltà per l’investitore di rinunciare all’arbitrato e ricorrere al giudice ordinario. (87) Il presidente del collegio arbitrale, con il consenso delle parti, può nominare un segretario che assista il collegio nell’adempimento delle proprie funzioni. (88) Nelle disposizioni regolamentari è stata, dunque, preservata, in linea di principio, la libertà delle parti nella nomina degli arbitri, conferendo alla CCA soltanto un ruolo "suppletivo", analogamente a quanto prevede il codice di rito con riferimento alle funzioni svolte dal presidente del tribunale. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 - l’esperienza maturata dall’arbitro sulle specifiche questioni oggetto della controversia; - la necessità di perseguire, quanto meno in via tendenziale, la parità di trattamento tra uomini e donne; - l’equa distribuzione degli incarichi; - la vicinanza del luogo di domicilio dell’arbitro alla sede dell’arbitrato (quando l’arbitrato non ha sede presso la CCA). Tali criteri – come già previsto per la nomina del conciliatore – sono da intendersi senza ordine di priorità. Una volta nominati, gli arbitri esprimono la loro accettazione per iscritto, con atto da depositarsi presso la CCA entro 10 giorni dalla comunicazione della nomina stessa. Con la dichiarazione di accettazione gli arbitri attestano la permanenza dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco e l’inesistenza di rapporti con le parti e con i loro difensori tali da incidere sulla loro imparzialità e indipendenza, nonché di ogni personale interesse (diretto o indiretto) relativo all’oggetto della controversia (89). Tali requisiti di indipendenza e imparzialità devono permanere in capo agli arbitri durante tutto il corso del procedimento arbitrale: a tal uopo, l’art. 22, comma 3, del. n. 16763 impone agli arbitri l’obbligo di comunicare tempestivamente alla CCA e alle parti eventuali circostanze sopravvenute, idonee a incidere sulla loro indipendenza e imparzialità. La disciplina della ricusazione degli arbitri si ispira a quella delineata dal codice di rito, con alcune rilevanti differenze. Ai sensi dell’art. 23, comma 1, del. n. 16763, infatti, ciascuna parte può ricusare l’arbitro in presenza delle condizioni enumerate dall’art. 815, commi 1-2, c.p.c. (90), presentando alla CCA istanza motivata entro il termine di 10 giorni dal momento in cui ha avuto (89) Si tratta di una dichiarazione analoga a quella prevista per il conciliatore ex art. 10, del n. n. 16763. (90) E’ previsto che un arbitro possa essere ricusato: 1) se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti; 2) se egli stesso (o un ente, associazione o società di cui sia amministratore) ha interesse nella causa; 3) se egli stesso (o il coniuge) è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti o di alcuno dei difensori; 4) se egli stesso (o il coniuge) ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale o con alcuno dei suoi difensori; 5) se è legato ad una delle parti (a una società da questa controllata, al soggetto che la controlla o a società sottoposta a comune controllo) da un rapporto di lavoro subordinato o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza; inoltre, se è tutore o curatore di una delle parti; 6) se ha prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi ha deposto come testimone. Si tratta di motivi che corrispondono in gran parte a quelli previsti dall’art. 51 c.p.c., ma opportunamente integrati e rivisitati alla luce delle peculiarità del procedimento arbitrale e dei contesti in cui questo può aver luogo. Peraltro, una parte non può ricusare l’arbitro che essa ha nominato o contribuito a nominare se non per motivi conosciuti dopo la nomina. DOTTRINA 339 conoscenza della dichiarazione di imparzialità rilasciata dall’arbitro. La CCA decide sull’istanza nei 15 giorni successivi alla sua presentazione, sentito l’arbitro ricusato e le parti e assunte, ove occorra, sommarie informazioni. Diversamente da quanto previsto all’art. 815, comma 5, c.p.c. la proposizione dell’istanza di ricusazione sospende il procedimento. Secondo la CONSOB, tale diversa disciplina si giustifica in considerazione della presumibile celerità con la quale l’istanza verrà definita dalla CCA, evitando il rischio di veder vanificata l’attività svolta dagli arbitri in caso di successivo accoglimento della stessa. Deve, peraltro, osservarsi che la manifesta inammissibilità o infondatezza dell’istanza è valutata dagli arbitri ai fini della ripartizione tra le parti delle spese da queste sostenute per ottenere la decisione, salvo il limite inderogabile di cui all’art. 27, comma 5, del. n. 16763, secondo cui, in ogni caso, l’investitore, ancorché soccombente, non potrà essere condannato alla refusione delle spese (91). Quando, per qualsiasi motivo, vengono a mancare tutti o alcuni degli arbitri nominati (92), si provvede tempestivamente alla loro sostituzione nei modi e nei tempi previsti dalle disposizioni che disciplinano i meccanismi di nomina (cfr. art. 20, del. n. 16763). Affinché lo svolgimento dell’arbitrato possa avere inizio, è necessario che le parti depositino presso la CCA, entro 10 giorni dalla notifica, gli atti di cui all’art. 810, comma 1, c.p.c., nonché, se del caso, l’atto congiunto di nomina dell’arbitro unico o del terzo arbitro, unitamente alla convenzione di arbitrato e all’attestazione dell’avvenuto pagamento della tariffa per il servizio di arbitrato (€ 100 per ciascuna parte). Esperiti tali adempimenti preliminari, la CCA è chiamata a verificare: - il deposito della dichiarazione di accettazione della nomina degli arbitri; - la completezza e la regolarità formale della documentazione depositata; - la sussistenza delle condizioni per l’esperimento del procedimento arbitrale amministrato dalla CCA. Se occorre, la CCA inviterà le parti a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi entro un congruo termine e procederà, ove ne ricorrano le condizioni, alla nomina degli arbitri di sua competenza. Inoltre, nell’ipotesi in cui la CCA reputi manifestamente insussistenti le (91) Come noto, il legislatore codicistico, nell’intento di scoraggiare iniziative strumentali, tese a rallentare lo svolgimento del procedimento arbitrale, ha previsto per la parte che ha proposto un’istanza di ricusazione manifestamente inammissibile o manifestamente infondata la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, che non sia comunque superiore al triplo del massimo del compenso spettante all’arbitro singolo, in base alla tariffa forense. (92) E’ il caso, ad es., della mancata accettazione o della rinuncia all’incarico; del grave inadempimento degli obblighi stabiliti dal codice deontologico o, comunque, connessi alla funzione svolta; della sopravvenuta situazione di infermità; dell’accoglimento dell’istanza di ricusazione. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 condizioni per l’esperimento del procedimento arbitrale de quo (93), essa può rifiutarsi di amministrarne lo svolgimento, informandone senza indugio le parti e gli arbitri, ove già nominati. In tal caso, gli arbitri, se già nominati, valuteranno, nel corso della prima riunione, le questioni sollevate dalla CCA, decidendo su di esse anche ai sensi dell’art. 817 c.p.c. La decisione degli arbitri, unitamente alla convenzione di arbitrato come eventualmente emendata dalle parti, andrà trasmessa alla CCA, acciocché valuti in via definitiva se sussistono o meno le condizioni per amministrare lo svolgimento dell’arbitrato (94). Nel corso della prima riunione, inoltre, gli arbitri chiedono alle parti una somma di denaro (determinata dalla CCA (95) su proposta degli arbitri stessi) a titolo di acconto dei diritti loro spettanti, nonché delle spese di difesa che le parti sosterranno per ottenere la decisione, stabilendone altresì i criteri di riparto fra le parti stesse. Il mancato versamento dell’acconto, nella misura in capo a ciascuna delle parti gravante, entro 15 giorni dalla comunicazione della richiesta (ovvero entro il diverso termine eventualmente stabilito dagli arbitri), importa la improcedibilità del giudizio. In relazione al concreto svolgimento della procedura, la del. n. 16763 rinvia – come già detto – alle disposizioni del codice di rito (96). La disciplina sui termini per la decisione ricalca quella contenuta nel codice di rito per l’arbitrato, con alcune modifiche: a fini acceleratori della definizione del giudizio arbitrale il termine per la pronuncia del lodo è stato fissato nella metà di quello previsto dall’art. 820 c.p.c. (120 giorni dall’accettazione della nomina, anziché 240 giorni) (97). E’ stata, inoltre, ripresa la di- (93) Il rifiuto della CCA può fondarsi, ad es., oltreché sulla manifesta invalidità o inefficacia ex se della convenzione di arbitrato, anche sulla sua inettitudine a costituire fonte dell’arbitrato amministrato dalla CCA (ad es., per la presenza di pattuizioni in contrasto con i princìpi contenuti nella del. n. 16763), senza considerare il caso-limite della estraneità della vertenza rispetto al campo di applicazione della del. n. 16763. (94) La CCA ha, quindi, l’ultima parola in ordine alla sussistenza delle condizioni per lo svolgimento del giudizio arbitrale, senza essere vincolata dalle considerazioni dell’arbitro unico e del collegio arbitrale. (95) Come correttamente osservato da un partecipante alla consultazione, la possibilità di determinare la somma da versare a titolo di acconto rappresenta un potere che in tutti i regolamenti arbitrali è affidato al soggetto terzo (c.d. istituzione arbitrale) che, per il tramite del regolamento unilateralmente predisposto, fornisce al pubblico i propri servizi di amministrazione dell’arbitrato. La circostanza che la CCA, nella bozza di regolamento posta in consultazione, non avesse un potere di controllo sugli acconti richiesti dagli arbitri a pena di improcedibilità rappresentava, quindi, un’inopportuna stranezza. (96) Un breve cenno merita solo il tema del regime probatorio. L’art. 23, comma 6, TUF, stabilisce – come noto – che «[n]ei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta»; ora, pur nel silenzio sul punto del d.lgs. n. 179 e della del. n. 16763, appare condivisibile la tesi di chi, evidenziando che le controversie relative alla violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza nascenti da un contratto di intermediazione finanziaria rientrano senz’altro nell’ambito di applicazione del TUF, ha sostenuto l’applicabilità della surricordata disciplina probatoria anche con riferimento ai procedimenti arbitrali amministrati dalla CCA. DOTTRINA 341 sposizione dell’art. 820, comma 3, c.p.c., relativa alla possibilità di prorogare il suddetto termine, prima della sua scadenza, per un periodo non superiore a 120 giorni, qualora lo richiedano tutte le parti con dichiarazioni scritte indirizzate agli arbitri o venga deciso dalla CCA, su istanza motivata di una delle parti o degli arbitri, sentite le altre parti. Peraltro, il termine è prorogato de jure di 120 giorni nei casi seguenti (e per non più di una volta nell’ambito di ciascuno di essi): - se devono essere assunti mezzi di prova; - se è disposta CTU; - se è pronunciato lodo non definitivo o lodo parziale; - se è modificata la composizione del collegio arbitrale o è sostituito l’arbitro unico. In ogni caso di sospensione del procedimento arbitrale, il termine rincomincerà a decorrere dal giorno in cui è depositata presso gli arbitri l’istanza di prosecuzione e, se il termine residuo è inferiore a 45 giorni, si estenderà sino a raggiungere tale durata. I costi del procedimento arbitrale comprendono gli onorari per gli arbitri, le spese da loro sostenute (98) e la tariffa poste a carico degli utenti per il servizio prestato dalla CCA (quest’ultima – come detto – fissata in € 100 per ciascuna parte). L’art. 27, comma 1, del. n. 16763, stabilisce che gli arbitri hanno diritto al rimborso delle spese da loro sostenute e all’onorario per l’opera prestata, a meno che non vi abbiano rinunciato al momento dell’accettazione o con atto scritto successivo. Contrariamente a quanto previsto dall’art. 814, comma 2, c.p.c. (99), l’art. 27, comma 2, del. n. 16763, ha previsto un meccanismo in forza del quale è la CCA, su proposta degli arbitri, a provvedere alla liquidazione delle spese e degli onorari, secondo la tabella allegata alla del. n. 16763 (100), in analogia a quanto previsto per le indennità spettanti al conciliatore. Tale liquidazione è vincolante per le parti, che sono tenute al pagamento in (97) Da notare che non è stata prevista la possibilità per le parti, con la convenzione di arbitrato o con un accordo anteriore all’accettazione degli arbitri, di fissare un diverso termine per la pronuncia del lodo. (98) Il rapporto che si instaura tra le parti e l’arbitro e che fonda il diritto di quest’ultimo al compenso è costituito da un contratto d’opera intellettuale. (99) In base al quale la liquidazione delle spese e dell’onorario effettuata direttamente dagli arbitri non è vincolante per le parti che non l’accettano. (100) La tabella allegata al del. n. 16763 fissa gli onorari degli arbitri sulla base di un minimo e di un massimo determinato per scaglioni relativi al valore della controversia, distinguendo a seconda che si tratti di arbitro unico o di collegio arbitrale. Per ciascuno scaglione gli onorari minimi e massimi devono essere aumentati dello 0,5% sull’eccedenza del valore della controversia rispetto all’importo minimo dello scaglione. Gli onorari massimi riportati nella tabella possono essere raddoppiati dalla CCA con decisione motivata in relazione alla particolare importanza, complessità e difficoltà della controversia. Per dissuadere le parti alla scelta del collegio arbitrale si è provveduto ad aumentare di circa un terzo i valori minimi e massimi previsti per le tariffe spettanti al’arbitro unico. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 via solidale, salvo rivalsa fra di loro. Spetta, invece, agli arbitri liquidare nel lodo le spese di difesa (101) sostenute dalle parti per ottenere la decisione. Per quanto riguarda la ripartizione degli oneri connessi al compenso degli arbitri e alle spese di difesa, l’art. 27, comma 4, del. n. 16763, richiama espressamente il criterio della soccombenza, centrale nell'assetto normativo sulle modalità di distribuzione del carico delle spese processuali sancito dagli artt. 91 e 92 c.p.c. Tuttavia, secondo il comma 5 dell’art. 27, in caso di soccombenza (totale o parziale) dell’investitore, non determinata dalla temerarietà della pretesa da questi azionata, gli oneri connessi ai diritti degli arbitri e alle spese di difesa gravano sulle parti in eguale misura. Ciò significa, in buona sostanza, che l’investitore soccombente sarà tenuto a rimborsare all’intermediario le spese sostenute per l’arbitrato solo in caso di azione temeraria (102); in ogni altro caso, le spese saranno compensate (103). La del. n. 16763 non contiene alcuna disposizione in materia di impugnazione del lodo. In virtù del generale richiamo alle disposizioni degli artt. 806 ss. c.p.c. contenuto nell'art. 18, comma 1, del. n. 16763, può, pertanto, affermarsi che la disciplina applicabile è quella contenuta nel codice di rito, con la precisazione che il lodo sarà impugnabile anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia (104). 2.6. Le modalità di attivazione e gestione dell’arbitrato amministrato di tipo semplificato La seconda forma di arbitrato amministrata dalla CCA è costituita dal c.d. arbitrato semplificato. Espressamente previsto dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 179, e regolato dagli artt. 28 ss., del. n. 16763, il procedimento arbitrale semplificato è finalizzato al ristoro del solo danno patrimoniale sofferto dall'investitore, per effetto dell'inadempimento da parte dell'intermediario degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti con- (101) Si tratta delle spese per l’assistenza di un difensore, per l’ausilio di tecnici e consulenti et similia. (102) Si ricorda che il carattere temerario della lite, per costante giurisprudenza, va ravvisato nella coscienza dell’infondatezza della domanda e delle tesi sostenute oppure nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza. (103) La stessa CONSOB non ha mancato di riconoscere che siffatta deroga al principio della soccombenza potrebbe disincentivare gli intermediari a inserire la clausola arbitrale all’interno dei contratti di investimento da loro predisposti, finendo, così, per limitarne fortemente la diffusione. Nonostante le forti pressioni in senso contrario manifestate in sede di consultazione, la CONSOB ha comunque ritenuto di non modificare tale scelta regolamentare, adottata al chiaro scopo di garantire all’investitore una posizione di maggior favore. (104) In forza del combinato disposto dell'art. 829, comma 3, c.p.c. (secondo cui l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge) e dell’art. 5, comma 4, d.lgs. n. 179 (in base al quale il lodo è sempre impugnabile per violazione di norme di diritto). DOTTRINA 343 trattuali con gli investitori, mediante il riconoscimento di un indennizzo (105). L’obiettivo della semplificazione viene perseguito articolando l’organizzazione della procedura in modo da realizzare una sensibile riduzione dei tempi e dei costi rispetto all’arbitrato amministrato di tipo ordinario. Affinché possa essere attivata la procedura semplificata occorre che la possibilità di ricorrervi risulti espressamente dal testo della convenzione di arbitrato (106). L'art. 29, comma 2, del. n. 16763, precisa, inoltre, che il giudizio può essere attivato soltanto dall'investitore (107). Infine, analogamente a quanto previsto per la conciliazione, la domanda è proponibile solo se sulla medesima controversia l’investitore abbia già presentato reclamo all'intermediario, a cui abbia fatto seguito un’espressa risposta negativa, ovvero sia decorso il termine di 90 giorni (o il termine più breve eventualmente stabilito dall'intermediario per la trattazione del reclamo) senza che l'investitore abbia ottenuto risposta (108). Il procedimento si svolge dinanzi a un arbitro unico, nominato dalle parti nei modi e nei tempi già analizzati a proposito dell'arbitrato ordinario; in mancanza di accordo, la nomina è demandata alla CCA, che vi provvede tenendo conto dei criteri parimenti già ricordati. L’iter procedimentale è congegnato per soddisfare esigenze di economia processuale e impedire l’abuso del diritto di difesa da parte del convenuto. In particolare, la rapidità del procedimento è correlata alla natura sommaria della cognizione demandata all’arbitro, fondata esclusivamente sulle prove precostituite acquisite al giudizio per il tramite degli atti introduttivi (domanda di accesso dell’investitore e atto di risposta dell’intermediario). A tal proposito, è stabilito che le parti, a pena di decadenza, indichino in tali atti i documenti che intendono offrire in comunicazione; l’intermediario deve altresì depositare tutta la documentazione afferente al rapporto controverso (analogamente a quanto previsto per il tentativo di conciliazione). Tali previsioni limitano fortemente l’attività istruttoria delle parti, imponendo un rigido regime di preclusioni, funzionale alla massima tempestività del giudizio arbitrale, destinato a svolgersi tendenzialmente in un’unica udienza (109), da tenersi non oltre 15 (105) Una simile forma di arbitrato (c.d. Arbitrato Rapido) è già nota in Italia e viene utilizzata presso alcune camere arbitrali, quali la Camera arbitrale della provincia di Modena e il Centro di Mediazione ed arbitrato “Curia Mercatorum”, istituito dalla C.C.I.A.A. di Treviso. (106) La clausola compromissoria può anche prevedere entrambi i tipi di arbitrato. (107) Se si ha riguardo all’oggetto “necessario” della domanda, rappresentato dalla riparazione del solo detrimento patrimoniale cagionato all’investitore, la prescrizione appare decisamente pleonastica. (108) Secondo la CONSOB, tale condizione di ammissibilità risponde alla necessità di portare all’esame dell’arbitro, il quale opera all’interno di un procedimento a cognizione sommaria, questioni sulle quali entrambe le parti hanno già avuto modo di confrontarsi. (109) Laddove sussistano determinate circostanze ovvero particolari esigenze anche di tipo istruttorio, l’arbitro può fissare una nuova udienza, in prosecuzione di quella già conclusa, da tenersi nei 20 giorni successivi. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 giorni dall’intervenuta accettazione dell’arbitro. Nel corso dell’udienza, l'arbitro, una volta verificata la regolarità del contraddittorio, procede all’interrogatorio libero delle parti, richiede loro, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica eventualmente le questioni rilevabili ex officio di cui ritiene opportuna la trattazione. Al termine della discussione, l'arbitro invita le parti a precisare le conclusioni. A questo punto, l'arbitro, nei 20 giorni successivi alla data di precisazione delle conclusioni, deve pronunciare il lodo rebus sic stantibus, cioè unicamente sulla base dei documenti prodotti e degli elementi emersi nel corso dell'udienza (110). La domanda potrà trovare accoglimento se, alla luce delle deduzioni formulate dall'intermediario e dei soli documenti introdotti in giudizio, l’arbitro riterrà sussistenti i fatti costitutivi, condannando l'intermediario al pagamento in favore dell'investitore di una somma di denaro a titolo di indennizzo, idonea a ristorare il solo danno patrimoniale dallo stesso patito, quale conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento dell'intermediario, nei limiti della quantità del danno per cui ritiene raggiunta la prova (111). (110) A tale riguardo, la CONSOB ha affermato che la scelta di circoscrivere il regime probatorio alle sole prove precostituite è giustificata dal carattere sommario dell’arbitrato semplificato e dalla celerità che caratterizza tale procedura. Il diritto di difesa, peraltro, non ne risulterebbe compromesso, considerando che il principio di vicinanza della prova e l’obbligo di corretta tenuta della documentazione gravante sull’intermediario consentono senz’altro all’intermediario di approntare nel modo migliore la difesa delle proprie posizioni. (111) In merito alla natura giuridica di tale indennizzo le opinioni divergono. Secondo alcuni, si tratterebbe di una pena privata. In senso contrario è stato, però, rilevato che il riconoscimento di una pena privata prescinde dall'esistenza del danno e dalla sua prova ed è disposto automaticamente in caso di accertamento della violazione di una norma, mentre il riconoscimento dell'indennizzo de quo è subordinato all'accertamento (sommario) del pregiudizio patrimoniale subìto dall'investitore, nonché all'accertamento (pieno) della violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza da parte dell'intermediario. A chi ha ravvisato nella fattispecie gli estremi di un indennizzo di tipo civilistico è stato correttamente replicato che alla base del riconoscimento di un indennizzo in senso tecnico si pone, di norma, un fatto lecito; la determinazione del quantum debeatur è, inoltre, frutto di una valutazione equitativa ad opera dell’organo decidente; infine, il ristoro ottenuto con l'indennizzo è esclusivo e tacitativo di ogni pretesa. La soluzione che ha raccolto maggiori consensi considera l'indennizzo in parola come una somma riconosciuta a titolo di provvisionale, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 278 c.p.c. per il caso della condanna generica. Si tratterebbe, in sostanza, di un’anticipazione parziale e provvisoria del risarcimento dei danni causati all'investitore dall'inadempimento dell'intermediario agli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza. In effetti, tenuto conto che il riconoscimento a favore dell'investitore dell'indennizzo presuppone, in ogni caso, l'accertamento del danno subìto, la natura di tale indennizzo non potrebbe essere altro che risarcitoria. Peraltro, come si illustrerà più oltre nel testo, all'investitore è sempre riconosciuto il diritto di ottenere giudizialmente il risarcimento del maggior danno patito in conseguenza dell'inadempimento dell'intermediario. Se, quindi, l'investitore ha la possibilità di ottenere il pieno ed integrale ristoro di tutti i danni subiti, sembra chiaro che l'indennizzo finalizzato a ristorare il solo danno patrimoniale configuri un'anticipazione provvisoria e parziale del danno subìto. Rispetto, tuttavia, alla provvisionale di cui all'art. 278 c.p.c., l'indennizzo de quo si differenzia per il fatto di discendere da una procedura a cognizione sommaria: in sostanza, mentre nel procedimento ordinario la provvisionale è emessa sulla base di una cognizione completa dell’an debeatur, nell’arbitrato semplificato la determinazione dell'indennizzo è basata sulla raggiunta prova del quantum, all’esito di un accertamento fondato unicamente su prove precostituite. DOTTRINA 345 Il lodo va, quindi, depositato dall'arbitro presso la CCA, che lo sottopone alla CONSOB per il visto di regolarità formale di cui all'art. 3, comma 4, d.lgs. n. 179. Il lodo, anche nell’ipotesi in cui sia stato riconosciuto l’indennizzo in favore dell’investitore, può essere dallo stesso impugnato davanti all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, onde ottenere la condanna dell’intermediario al risarcimento del maggior danno (112) derivante dal suo inadempimento contrattuale (art. 3, comma 3, d.lgs. n. 179). In ogni caso, contro il lodo che non ha riconosciuto l’indennizzo è sempre possibile l’impugnazione da parte dell’investitore per i motivi di nullità di cui all’art. 829 c.p.c. Il lodo, per gli stessi motivi, è impugnabile anche da parte dell’intermediario. A tal proposito, al fine di rispettare la volontà delle parti di affidare a un arbitro la risoluzione della controversia, si è, peraltro, stabilito che la Corte di appello, ove accolga l’impugnazione per nullità del lodo semplificato, non possa comunque pronunciare sul merito dei fatti oggetto di controversia, dovendosi limitare al giudizio rescindente. Siffatta tassativa esclusione del giudizio rescissorio si discosta decisamente da quanto previsto dall’art. 830 c.p.c., secondo cui, in taluni casi, la Corte d’appello può decidere nel merito la controversia, in assenza di diversa volontà contraria delle parti, contenuta nella convenzione d'arbitrato o espressa con accordo successivo (113). Mette conto osservare, da ultimo, che il legislatore non ha concesso all’intermediario la possibilità di adire il giudice ordinario per ottenere una piena istruzione sui fatti di causa, in grado eventualmente di riformare la decisione presa in favore del risparmiatore al temine dell’arbitrato semplificato (114). (112) Secondo la CONSOB, tale maggior danno deve derivare da elementi non considerati nell’ambito del giudizio arbitrale, il quale è di natura semplificata e sommaria ed è circoscritto ai soli danni patrimoniali. (113) La CONSOB ha osservato, in proposito, che la derogabilità della disposizione codicistica legittima pienamente la rigida soluzione regolamentare, tanto più ove si consideri che la volontà delle parti di ricorrere alla procedura in discorso si presenta "rafforzata" dalla necessità di farvi espresso richiamo nella convenzione di arbitrato. (114) Tale preclusione, secondo la CONSOB, troverebbe giustificazione in considerazione del fatto che l’intermediario è in grado di difendersi adeguatamente già in sede arbitrale, potendo portare in giudizio tutte le prove documentali a suo favore. Inoltre, l’intermediario, nel momento in cui partecipa alla procedura arbitrale semplificata, è ben a conoscenza dell’esistenza e dei termini della controversia (essendo prevista come condizione di ammissibilità la previa presentazione di un reclamo da parte dell’investitore) ed è in possesso di tutti i documenti e le registrazioni riguardanti il rapporto controverso (avendo l’obbligo di produrli al momento della costituzione in giudizio). 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 Rassegna giurisprudenziale sul diritto dell’energia Le recenti decisioni riguardanti il PEARS Lidia La Rocca* La presente rassegna si concentrerà, essenzialmente, sui più recenti arresti giurisprudenziali in tema di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili ed eolica in particolare, quale settore nel quale continua a registrarsi (ed, anzi, ad intensificarsi) l’emersione, in sede giudiziale, di rilevanti nodi interpretativi afferenti alla corretta interpretazione della vigente disciplina, nonché, in definitiva, al rapporto esistente - nel quadro costituzionale di riferimento - tra i soggetti pubblici titolari dei poteri e delle competenze autorizzatorie e le aspettative degli operatori economici del settore. Ed infatti, come di recente osservato in dottrina (S. PICONE, Tutela dell’ambiente e realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in giustizia-amministrativa.it), è palesemente crescente la quantità e la complessità del contenzioso amministrativo riguardante la materia delle energie rinnovabili, e ciò a causa, oltre che dell’evidente rilevanza degli interessi economici in gioco, dei seguenti fattori specifici (alcuni dei quali emersi nel corso degli interventi che mi hanno preceduto): - il sempre maggiore protagonismo delle regioni nella regolazione del settore dell’energia, a fronte di un riparto delle competenze sul quale è intervenuta, con funzione chiarificatrice, la Corte Costituzionale, ma che appare ancora piuttosto problematico (specie con riferimento alle regioni a statuto speciale); - la problematicità di alcuni istituti procedimentali, come l’autorizzazione unica ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003, o gli accordi tra privati e pubblica amministrazione, che, pur essendo ispirati ad esigenze di semplificazione, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, danno origine a dubbi interpretativi. Trattasi, come vedremo, di aspetti tra loro strettamente connessi, che determinano, allo stato attuale, l’insorgenza di un elevatissimo contenzioso e la sostanziale rimessione all’autorità giudiziaria (chiamata in qualche modo a supplire alle carenze ed ai limiti degli altri poteri) di decisioni in materia di diritto dell’energia e dell’ambiente che dovrebbero piuttosto attenere alla sfera politico – amministrativa (con il rischio, da taluni autorevolmente paventato, (*) Avvocato dello Stato. Intervento al Seminario di aggiornamento tenutosi a Palermo il 14 e 15 maggio 2010 su “L’evoluzione del diritto dell’ambiente: novità giurisprudenziali e rapporti con il diritto dell’energia”. DOTTRINA 347 di pervenire ad un superamento del giusto equilibrio tra valutazioni politico amministrative e valutazioni giudiziarie). In particolare, la mancata adozione e pubblicazione, da parte della Conferenza unificata, delle “linee guida” (previste dal comma 10 dell’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003) per lo svolgimento del procedimento di autorizzazione unica disciplinato dalla suddetta legge in attuazione della Direttiva 2001/77/CE, ha sin qui costituito un’evidente ostacolo al corretto sviluppo della normativa regionale, primaria e secondaria, inerente ai procedimenti di autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio degli impianti di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, quale settore prevalentemente rientrante – come chiarito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 383/2005) – nella materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” di cui all’art. 117, comma 3, Cost. e dunque appartenente alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, da esercitarsi nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato. Nelle varie pronunce in materia, inoltre, il Giudice delle leggi ha chiarito che l’indubbia inerenza del settore delle energie rinnovabili anche ad altri interessi e “materie” costituzionali, quali, ad esempio, ambiente e governo del territorio (sentenza n. 364/2006), ovvero, tutela del paesaggio (sentenza n. 166/2009), non esclude che esso incida primariamente, cioè in modo prevalente, sull’interesse della collettività alla produzione energetica ed all’approvvigionamento energetico (per di più in forme non inquinanti, in omaggio al favor verso le fonti energetiche rinnovabili emerso nella normativa internazionale, comunitaria e nazionale). Sotto altro profilo, poi, va considerato che l’intero settore del mercato dell’energia si inserisce, sempre in forza di precise scelte del legislatore comunitario e nazionale, in un ambito di attività d’impresa concorrenziale, sottoposta a controllo e regolazione amministrativa, ma non più riservata alla mano pubblica, né soggetta a regime di privativa o contingentamento. In tale contesto, poi, ancor più marcata risulta, a scopo incentivante (cfr., L. RICCI, Procedure autorizzative per la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e pluralità di domande, in Riv. Giur. Ambiente 2009, 06, 889), la liberalizzazione delle attività di produzione di energia mediante fonti rinnovabili, avendo la direttiva 2001/77/CE imposto agli stati membri di ridurre gli ostacoli normativi o di altro tipo all’aumento delle produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili, di razionalizzare ed accelerare le procedure amministrative e di garantire oggettività, trasparenza e carattere non discriminatorio alle norme in materia (principi di cui costituiscono come detto attuazione il D.Lgs. n. 387/2003 e la L. n. 239/2004). In base alle suddette normative, dunque, l’attività di realizzazione e gestione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili costituisce un’attività d’impresa liberalizzata, suscettibile di essere realizzata da chiunque, sulla base di 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 un’autorizzazione amministrativa unica rilasciata dalla Regione; sicchè si è fermamente escluso, a livello giurisprudenziale, la sussistenza di un potere dell’autorità comunale di instaurare procedure pubblicistiche di natura concessoria a presidio dell’attività di produzione di energia elettrica da fonti tradizionali o rinnovabili (Tar Puglia Bari, Sez. I, 1 aprile 2008 n. 709), ovvero di approvare linee-guida per la realizzazione e la gestione di impianti eolici sul territorio comunale da parte di privati contenenti, tra l’altro, condizioni economiche, garanzie ed impegni richiesti alle società proponenti (Cons. Stato, Sez. III, 14 ottobre 2008 n. 2849; commentata da M. VITUCCI in Riv. Giur. Ambiente 2009, 2, 359). Per quanto, infatti, si tratti di attività che rivestono una significativa importanza nell’ottica dell’apertura e dello sviluppo del mercato comunitario e dell’ambiente, esse non rientrano nella nozione di servizio pubblico locale ai sensi dell’art. 112 e ss. D. Lgs. n. 267/2000. La piena liberalizzazione dell’attività ed il conseguente limitato potere a disposizione delle singole autorità comunali (ad esempio non legittimate dall’ordinamento a stabilire unilateralmente le eventuali misure compensative, di cui si dirà meglio oltre) rendono dunque arduo il ricorso, in tale materia (così come in quella, parzialmente affine, dell’urbanistica) allo strumento degli accordi tra privati e pubbliche amministrazioni di cui all’art. 11 L. n. 241/1990, che rischia di determinare disparità di trattamento tra le imprese, ovvero di far perdere di vista, in un’ottica “contrattualizzata” ed individuale, gli interessi pubblici di cura e gestione del territorio e dell’ambiente comunque sottesi alla materia. Di tali profili, specificamente relativi alla ristretta competenza in materia dei Comuni, si è ad esempio recentemente occupato il Tar Sicilia Palermo Sez. II nella sentenza n. 273 dell’11 gennaio 2010, resa su un ricorso proposto da una società (la Gamesa Energia Italia s.p.a.) avverso gli atti con cui il Comune di Gangi aveva espletato una selezione informale per l’individuazione della proposta progettuale per la realizzazione e la gestione di un parco eolico, procedendo poi all’approvazione di uno schema di convenzione e concessione con la società che aveva presentato la proposta ritenuta più vantaggiosa e conveniente. I decidenti, infatti, dopo aver riconosciuto la sussistenza dell’interesse ad agire della ricorrente (quale impresa che aveva in precedenza presentato alla Regione, ai fini della V.I.A. e dell’autorizzazione ex art. 12 D. Lgs. n. 387/2003, un progetto, ancora non esitato, per la realizzazione di un parco eolico nella medesima area), hanno in primo luogo affermato che nel presente quadro normativo di riferimento, caratterizzato dall’assenza di una legislazione regionale di recepimento dei principi fissati dal D.Lgs. n. 387/2003 e dalla Dir. 2001/77/CE, il parametro di legittimità degli atti comunali impugnati deve rinvenirsi nella legislazione statale (per l’appunto costituita dal D.Lgs. n. 387/2003 e dalla L. n. 239/2004), la quale assegna unicamente alle Regioni (o alle Province da esse eventualmente delegate) le DOTTRINA 349 funzioni abilitative in materia, da esercitarsi tassativamente nelle forme procedimentali dell’autorizzazione unica prevista dall’art. 12. Come inoltre già precedentemente affermato dal Consiglio di Stato nel sopra citato parere n. 2849 del 14 ottobre 2008, deve ritenersi preclusa per il Comune ogni possibilità di aggravare il procedimento di autorizzazione unica regionale, indicendo una gara per la selezione della migliore proposta per la realizzazione di un parco eolico, posto che “così operando, si trasforma un’attività libera, soggetta ad autorizzazione (intesa come rimozione di un limite all’esercizio di un diritto preesistente), in un’attività riservata ai poteri pubblici, soggetta a concessione (intesa come atto costitutivo di un diritto che non preesiste)”. Da qui, dunque, l’illegittimità degli atti comunali impugnati, sostanzialmente inquadrati in un’ottica concessoria. ** *** ** Il contenzioso più rilevante ha comunque di recente riguardato il versante, ben più nevralgico, relativo all’esatta individuazione dei limiti della potestà legislativa ed amministrativa delle Regioni, su tale terreno essendosi maggiormente evidenziati i limiti operativi e la sostanziale “paralisi” derivante dalla mancata applicazione delle linee guida previste dall’art. 12, comma 10, D. Lgs. n. 287/2003 (forse finalmente in vista di pubblicazione). Per quelle regioni, infatti, che hanno proceduto all’esercizio della propria potestà legislativa concorrente in materia, adottando normative volte in qualche modo a specificare ed arricchire dal punto di vista contenutistico il procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione unica regionale, si è aperta come già visto la strada delle questioni di legittimità costituzionale, necessaria al fine di stabilire – nel quadro del corretto riparto di competenze tra Stato e regioni – la conformità delle impugnate disposizioni regionali ai principi fondamentali della materia fissati dal Legislatore statale e rinvenibili, per l’appunto, nell’art. 12 D. Lgs. n. 387/2003 e nella L. n. 239/2004. In quella sede, pertanto, si è affermato (Corte Cost. n. 282/2009) che l’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 (nonché la successiva L. n. 239/2004, di riordino dell’intero settore energetico) costituisce “principio fondamentale” nella materia della produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, in quanto tale norma “risulta ispirata alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo”; il D.Lgs. n. 387/2003 riveste dunque lo stesso carattere “non derogabile” delle statuizioni della direttiva N. 2001/77/CE di cui costituisce attuazione (Corte Cost. n. 124/2010). E la natura assolutamente vincolante e speciale del procedimento delineato dall’art. 12 (ancor più ispirato, dopo le modifiche della legge finanziaria 2008, L. n. 244/2007, ad evidenti finalità di accelerazione e semplificazione) 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 ha ad esempio costituito, in ambito regionale siciliano, il criterio per definire i rapporti esistenti tra l’autorizzazione unica ed il procedimento di valutazione di impatto ambientale per i progetti relativi alla realizzazione di energia mediante lo sfruttamento del sole disciplinato dal D.P.R. 12 aprile 1996 (“Atto di indirizzo e coordinamento per l’attuazione dell’art. 40, comma 1, della L. 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale”), a sua volta richiamato nel Decreto dell’Assessore regionale del Territorio e dell’Ambiente del 17 maggio 1996. Come chiarito, infatti, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa con una serie di recenti decisioni (n. 57 del 25 gennaio 2010, ma anche nn. 40, 41 e 42 del 2010), non v’è dubbio che la VIA rappresenta un sub procedimento dotato di “spiccata autonomia”, anche in considerazione degli interessi protetti e della loro rilevanza assolutamente prioritaria; ma tale esatta considerazione non è sufficiente per affermare la prevalenza della relativa disciplina in materia, anche nella parte in cui essa preveda tempi di conclusione del procedimento diversi e più lunghi rispetto a quelli, perentori, indicati dalla normativa sull’autorizzazione unica, fissati nel ragionevole limite di centottanta giorni, che appare compatibile anche con le possibili complessità tecniche della V.I.A.. Va dunque pienamente condivisa la tesi secondo cui la VIA costituisce parte del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica per l’attivazione di impianti di energia rinnovabile, sicchè anche l’Assessorato Territorio e Ambiente, competente all’adozione della VIA, va considerato alla stregua di “amministrazione interessata” ai sensi dell’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 (il quale non prevede affatto che il termine di 180 giorni possa iniziare a decorrere solo dopo l’espletamento della VIA). Con tale ricostruzione si pone tuttavia palesemente in contrasto il consolidato orientamento del Tar Sicilia Palermo secondo cui “in tema di realizzazione di impianti di energia eolica, il procedimento di valutazione di impatto ambientale ex D.P.R. 12 aprile 1996 è autonomo rispetto a quello di autorizzazione unica previsto dall’art. 12 D.Lgs. 29 dicembre 2003 n. 387” (Sez. III, 22 maggio 2009 n. 955; in senso conforme, Sez. I, 27 maggio 2008 n. 683; nonché, da ultimo, Sez. I, 15 maggio 2010 n. 2923). In base a tale prospettazione, invero, i Giudici di prime cure continuano a ritenere assistita da un autonomo interesse ad agire l’impugnativa proposta avverso i pareri negativi espressi dalla Soprintendenza BB.CC.AA. ai fini del rilascio della V.I.A., ma relativi a progetti per i quali la società ricorrente non abbia ancora attivato la procedura per l’autorizzazione unica ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 (nell’ambito della cui conferenza di servizi dovrebbero invece essere acquisiti, nella ricostruzione sistematica ed unitaria delineata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, tutti i pareri delle “amministrazioni interessate”). Da questo punto di vista, dunque, la tesi del Tar Palermo sembra in qualche modo tradire le stesse istanze di semplificazione, di diretta derivazione DOTTRINA 351 comunitaria, sottese all’art. 12 D.Lgs n. 387/2003, favorendo una sorta di duplicazione dei procedimenti e dei pronunciamenti dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio (coinvolta, ove ne ricorrano i presupposti, sia nel procedimento di VIA che in quello di autorizzazione unica) che, oltre ad aggravare l’azione amministrativa, determina anche una sovrapposizione dei giudizi relativi all’una o all’altra delle due procedure, con possibile strumentalizzazione della stessa tutela giurisdizionale (1) . L’autonomia tra i due procedimenti è stata poi ribadita dal Tar Sicilia Palermo (sempre ai fini del riconoscimento dell’interesse ad agire anche in caso di mancata attivazione del procedimento per l’autorizzazione unica ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003) in un’altra serie di recenti ed importanti decisioni (nn. 2919, 2920, 2921, 2922 e 2923 del 2010), rese con riferimento alle impugnative proposte avverso due rilevanti atti amministrativi generali adottati dall’Assessorato regionale territorio e ambiente in materia di valutazione d’impatto ambientale su progetti relativi ad impianti di produzione di energia eolica: la Circolare 14 dicembre 2006 n. 17 (G.U.R.S. n. 1/2007) ed il decreto n. 91/GAB del 25 giugno 2007 (G.U.R.S. n. 31/2007). La circolare n. 17/2006, in particolare, era stata adottata al fine di garantire la salvaguardia, in sede di autorizzazione all’istallazione di impianti di produzione di energia eolica e nelle more dell’approvazione del piano energetico regionale (di cui si dirà meglio oltre), dei piani paesistici e del piano paesistico regionale, dell’ambiente e del paesaggio attraverso la determinazione di misure idonee ad assicurare tali finalità di tutela, essenzialmente consistenti nella riclassificazione – rispetto alle direttive contenute nel precedente D.A. 28 aprile 2005 – delle aree in cui risulta suddiviso, ai fini del regime autorizzativo, il territorio regionale (zone escluse, zone sensibili e zone consentite). Si erano così fatte rientrare nelle zone escluse (per le quali non è consentita la realizzazione di impianti eolici) non soltanto, come in precedenza previsto, le aree di riserva integrale, le oasi, le riserve naturali, le zone S.I.C. e Z.P.S. e relative aree di rispetto, ma anche (in adesione alle indicazioni fornite dall’Assessorato BB.CC.AA. con circolare n. 14 del 26 maggio 2006) le aree archeologiche ed i beni vincolati; mentre erano state incluse nelle “zone sensibili” (nei quali la possibilità di istallazione va valutata caso per caso) i beni e le bellezze naturali gravati da vincolo paesaggistico o sottoposte a tutela (1) Si veda, però, Corte Cost. 26 marzo 2010 n. 120, che, pronunciandosi sulla questione dei rapporti tra procedura di VIA ed autorizzazione regionale per i progetti relativi a linee ed impianti elettrici con tensione fino a 150.000 V., ha affermato che i due procedimenti “sono autonomi e finalizzati alla cura di interessi distinti, pur se l’esito della VIA condiziona il merito della procedura autorizzatoria. Sebbene sia indubbio il collegamento, in termini di utilità concreta e finale per il richiedente, tra il procedimento diretto alla espressione del giudizio di compatibilità ambientale per la realizzazione di un impianto ed il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione, sono distinte le norme che individuano le autorità coinvolte e le rispettive modalità e termini per il compimento degli atti”. 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 dai piani paesaggistici approvati o le aree tutelate ex lege ai sensi dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e ambientali di cui al D.Lgs. n. 42/2004. Si era inoltre prevista la necessaria partecipazione della Soprintendenza BB.CC.AA. alla procedura preliminare di scoping prevista dall’art. 6, comma 2, D.P.R. 12 aprile 2006. Orbene, il Tar Palermo ha dichiarato l’illegittimità di tale provvedimento per violazione del sistema gerarchico delle fonti, avendo ravvisato nelle relative previsioni non già i contenuti tipici della circolare (cioè, mere disposizioni interne all’amministrazione, espressione di poteri di indirizzo e di direzione finalizzati ad indirizzare in modo uniforme l’attività degli enti o degli organi sottordinati), bensì di disposizioni aventi le caratteristiche della novità (perché introduttive di condizioni e prescrizioni ulteriori rispetto a quelle sino a quel momento richieste per il rilascio dell’autorizzazione unica), della generalità e dell’astrattezza, e dunque atteggiantesi a “vere e proprie norme di carattere secondario”. Nell’ordinamento regionale siciliano, invece, non è consentita l’introduzione di norme di carattere regolamentare attraverso una circolare, dagli artt. 2 e 3 del D.Lgs. Pres. Reg. sic. 28 febbraio 1979 n. 70 ricavandosi che i regolamenti (e cioè gli atti di normazione secondaria) devono essere deliberati dalla Giunta di Governo ed adottati nella forma del Decreto presidenziale, mentre ai singoli assessori spetta esclusivamente il potere di proporre l’adozione di regolamenti nelle materie di rispettiva competenza; e non assumendo rilievo, in senso contrario, la previsione del 9° comma dell’art. 91 della L. reg. sic. 3 maggio 2001 n. 6, in quanto relativa ad un ben delimitato ambito (quello delle “Norme sulla valutazione di impatto ambientale”), estraneo a quello cui si riferiscono le disposizioni della Circolare n. 17/2006 (prevede infatti tale norma: “Con decreto l'Assessore regionale per il territorio e l'ambiente definisce per le tipologie progettuali e/o aree predeterminate, sulla base degli elementi indicati nell'allegato D del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996, l'incremento o il decremento delle soglie di cui all'allegato B del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996 nella misura massima del 30 per cento”). In base a tali argomentazioni, dunque, è stata dichiarata l’illegittimità della suddetta circolare (e dei provvedimenti in base ad essa adottati), e tale pronuncia di annullamento, proprio in quanto relativa ad un atto normativo secondario o comunque amministrativo generale - vale a dire rivolto a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori - si sottrae ai limiti soggettivi del giudicato amministrativo, assumendo efficacia erga omnes (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 17 settembre 2008 n. 4390; Sez. IV, 22 marzo 2007 n. 1383), posto che i limiti soggettivi della caducazione di un atto amministrativo non possono non coincidere con quelli dell'atto caducato. Ragioni del tutto analoghe hanno poi condotto all’annullamento, sempre DOTTRINA 353 da parte del Tar Sicilia Palermo (sentenze nn. 2924, 2925, 2926 e 2927 del 2010), del già citato decreto n. 91/GAB del 25 giugno 2007, emanato dall’Assessorato Territorio e Ambiente al fine di introdurre talune “misure idonee a garantire la tutela dell’ambiente e del paesaggio” ai fini del rilascio della V.I.A. per gli impianti per lo sfruttamento dell’energia eolica; misure consistenti, essenzialmente, nell’introduzione di una nuova soglia minima di produttività degli impianti da assentire, pari ad almeno 2.700 ore di vento equivalenti stimate annue, “con una produzione effettiva in linea con il P75 (75% delle probabilità che in dato livello di produzione elettrica sia superato ogni anno)”. Si prevedeva, inoltre, che tali nuove prescrizioni sarebbero state applicate a tutti i progetti per i quali non fosse intervenuto, alla data di pubblicazione del decreto, il provvedimento favorevole di D.I.A.. Ravvisato invero l’interesse della società ricorrente (che aveva in corso un procedimento per il rilascio della V.I.A.) ad impugnare le disposizioni nuove ed “assolutamente cogenti” del suddetto decreto, anche tale provvedimento è stato ritenuto illegittimo per violazione delle norme che disciplinano in ambito regionale il potere regolamentare, e ciò in relazione non soltanto degli artt. 2 e 3 del D.Lgs. Pres. Reg. sic. n. 70/1979, ma anche del combinato disposto dell’art. 12 dello Statuto e dell’art. 13 del D.C.P.S. 204 del 25 marzo 1946, a mente del quale i regolamenti esecutivi di norme di legge regionale sono adottati con decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale. L’introduzione con decreto assessoriale (e dunque con uno strumento non idoneo a tale scopo) di disposizioni, come quelle sopra illustrate, aventi la caratteristica della novità, generalità ed astrattezza ed impositive di prescrizioni ulteriori rispetto a quelle fino a quel momento esistenti per il rilascio della V.I.A., e dunque atteggiantesi a vere e proprie norme di carattere secondario, è avvenuta pertanto in violazione delle competenze relative alla predisposizione degli atti a contenuto normativo. Come a suo tempo affermato, infatti, da Corte Cost. 9 giugno 1961 n. 32, le norme statutarie sulle forme di emanazione dei regolamenti regionali siciliani (di rango costituzionale, e dunque non modificabili per legge ordinaria) rappresentano una garanzia per l’autonomia regionale, quali norme di attribuzione di competenza. ** *** ** Maggiormente complesse sono invece le argomentazioni che hanno condotto il Giudice amministrativo di primo grado ad annullare, con una serie di recenti decisioni, il “Piano energetico ambientale siciliano” (PEARS), adottato (con delibera di Giunta regionale n. 1 del 3 febbraioi 2009 emanata con D.P.R.S. del 9 marzo 2009) ai sensi dell’art. 5, comma 2°, della L. 9 gennaio 1991 n. 10, che attribuisce alle regioni ed alle province autonome di Trento e Bolzano il compito di predisporre un piano “relativo all’uso delle fonti rinno- 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 vabili di energia”, e contenente, tra l’altro, “l’individuazione dei bacini energetici territoriali” e “le procedure per l’individuazione e la localizzazione di impianti per la produzione di energia fino a 10 megawatt elettrici per impianti installati al servizio dei settori industriale, agricolo, terziario, civile e residenziale, nonché per gli impianti idroelettrici”. Orbene, talune rilevanti disposizioni del PEARS come sopra adottato dalla Regione siciliana sono state impugnate innanzi al Tar Sicilia Palermo perché contenenti previsioni destinate ad incidere sui presupposti e sulle modalità del procedimento di autorizzazione unica ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003, nonché in quanto asseritamente contrastanti con i principi fondamentali fissati dalla suddetta norma. Le decisioni del Tar sono invero necessariamente partite da una preliminare ricostruzione del sistema delle competenze legislative ed amministrative nel settore delle fonti energetiche rinnovabili, così come delineate dalla Corte Costituzionale nelle sopra menzionate decisioni (nn. 383/2005, 364/2006, 166/2009, 282/2009). Con specifico riferimento, poi, all’eccezione difensivamente sollevata dall’amministrazione secondo cui il PEARS si collocherebbe nell’ambito di talune materie (quelle del paesaggio, dei beni culturali e dell’industria) rientranti nella competenza legislativa esclusiva riservata alla Regione dall’art. 14 dello Statuto, i decidenti hanno ritenuto opportuno ribadire che la materia, pacificamente ricondotta dalla Corte Costituzionale a quella della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” di cui all’art. 117, comma 3, Cost., incide primariamente sull’interesse della collettività alla produzione energetica, aspetto da ritenersi prevalente su quelli – pur connessi in forza dell’impatto territoriale degli impianti per la produzione di energia eolica – della tutela dell’ambiente e del governo del territorio. Va osservato, inoltre, che la conclusione cui è pervenuto il Tar (che ha in definitiva escluso che sussista, in materia, una competenza legislativa esclusiva della Regione siciliana) risulta confermata dalla recentissima sentenza n. 168 del 6 maggio 2010 della Corte Costituzionale, che per la prima volta ha significativamente affermato la correttezza del superiore “inquadramento materiale” anche con riferimento a norme adottate da una regione a statuto speciale (la Valle d’Aosta), ed afferenti alla localizzazione degli ambiti territoriali di insediamento degli impianti di energia eolica: in tale occasione infatti la Corte si è limitata a constatare che lo Statuto regionale non contemplava la suddetta materia della “produzione, trasporto e distribuzione regionale dell’energia”, con conseguente titolarità in materia, da parte della Val d’Aosta, in virtù dell’art. 10 della L. Cost. n. 3/2001, della stessa potestà legislativa concorrente delle regioni a statuto ordinario, vincolata al rispetto dei principi fondamentali dettati dal Legislatore statale. Secondo il Tar, peraltro, la questione relativa al corretto inquadramento del tipo di potestà legislativa di cui risulta titolare, in materia, la Regione si- DOTTRINA 355 ciliana è destinata a rivestire carattere meramente teorico sin quando perdurerà il mancato esercizio delle suddette competenze legislative, ai cui contenuti dovrebbe eventualmente uniformarsi la successiva attività regolamentare. Constatato infatti che la Regione siciliana non ha ad oggi esercitato la potestà legislativa di dettaglio per il recepimento dei principi fondamentali stabiliti dal D.Lgs. n. 387/2003 o per il recepimento della direttiva n. 2001/77/CE, si è osservato (sentenze nn. 2537/2010, 2536/2010, 2280/2010, 1952/2010) che tale circostanza determinerebbe l’assunzione, da parte della vigente normativa statale, del carattere “suppletivo” o sostitutivo previsto dall’art. 117, comma 5°, Cost. e dagli artt. 11 e 16 della L. n. 11/2005 recante la procedura per l’esecuzione degli obblighi comunitari, con conseguente necessaria individuazione, come parametro di legittimità degli atti impugnati, nella normativa dettata dal D.Lgs. n. 387/2003 e dalla L. n. 239/2004 (rispetto alla quale debbono dunque anche porsi in rapporto di non contraddizione le norme regolamentari adottate in ambito regionale). Ed infatti, quanto alla natura giuridica delle disposizioni contenute nel PEARS, si è ribadito quanto già affermato in altra serie di decisioni (nn. 1632/2009, 1716/2009 e 1775/2010) in ordine al carattere formalmente amministrativo, ma sostanzialmente normativo, e dunque regolamentare, di tale provvedimento, stante la novità, la generalità e l’astrattezza delle relative disposizioni; da tale qualificazione discende pertanto, sul piano della gerarchia delle fonti, la subordinazione dei contenuti normativi del Piano alle fonti di diritto di rango primario, nonché, sotto il profilo della disciplina del procedimento autorizzativo, la qualificazione come ius superveniens rispetto alle istanze già presentate (censurabile con particolare riferimento a quelle istanze presentate da più di 180 gg., in palese contrasto rispetto al principio fondamentale sancito dall’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003). Passando poi all’esame, nel merito, delle singole disposizioni impugnate, si è affermata l’illegittimità di quelle relative alla: - imposizione di distanze minime tra gli impianti alimentati da fonti rinnovabili (art. 21). Alla stregua, infatti, delle argomentazioni usate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 307/2003 (resa in materia di impianti elettromagnetici), si è rilevato che da tale disposizione (che impone un evidente vincolo) non è dato evincere quale sia stato il parametro tecnico o scientifico assunto a riferimento per stabilire la distanza minima, e che, più in generale, la previsione generalizzata della distanza minima denota un cattivo uso del potere regolamentare, introducendo un possibile ingiustificato ostacolo agli insediamenti produttivi (sentenza n. 2537/2010). Il Tar ha infine richiamato il parere n. 2849/2008 della Sez. II del Consiglio di Stato, secondo cui il potere di localizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili dovrebbe essere esercitato nell’ambito del Piano Urbanistico regionale, quale sede propria di 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 svolgimento delle competenze regionali di pianificazione. Come peraltro affermato dalla Corte Costituzionale nella sopra citata sentenza n. 168/2010 (come già nelle precedenti nn. 166 e 282/2009 e n. 119/2010), il meccanismo previsto dall’art. 12, comma 10, D.Lgs. n. 387/2003 “non consente alle regioni di provvedere autonomamente alla individuazione di criteri per il corretto inserimento nel paesaggio degli impianti alimentati da fonti di energia alternativa”; - “misure di mitigazione ambientale” e “misure di compensazione (artt. 6 e 7)”. La determinazione delle misure di riequilibrio ambientale e territoriale (previste dall’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003) e delle misure compensative (ammesse, a seguito di Corte Cost. n. 383/2005, anche relativamente ad impianti alimentati da fonti rinnovabili, e consistenti nella monetizzazione degli effetti negativi che l’impatto ambientale dell’impianto determina, purchè non si tratti di corrispettivi di natura patrimoniale a favore della Regione, bensì di servizi o prestazioni volti a mitigare l’impatto ambientale) potrebbe avvenire, secondo il Tar, soltanto con norme di legge regionale, e non per via regolamentare. Dette misure compensative, inoltre, dovrebbero essere “concrete e realistiche” e fondate sui precisi presupposti indicati nel già citato parere n. 2848/2009 del Consiglio di Stato. Quanto, tuttavia, all’affermata necessità di una copertura legislativa, deve rilevarsi che l’art. 1, comma 5, della L. n. 239/2004 afferma il diritto delle Regioni e degli enti locali di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale (e consistenti nell’assunzione dell’impegno ad una riduzione delle emissioni inquinanti da parte dell’operatore economico proponente – cfr., Corte Cost. n. 124/2010); - “documentazione attestante la disponibilità giuridica dell’area di impianto in capo al richiedente” (art. 2, lett. b). Tale requisito si porrebbe in contrasto con l’art. 12 D.Lgs. n 387/2003, che attribuisce agli impianti autorizzati la qualificazione di “opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti” all’evidente fine di consentire la loro realizzazione anche oltre e al di là della limitazione costituita dalla attuale disponibilità dell’area in capo al richiedente l’autorizzazione; - autocertificazione con la quale il richiedente assume nei confronti dell’amministrazione la responsabilità, diretta e non trasmissibile, per l’interezza delle fasi di realizzazione e avvio dell’impianto. Tale disposizione è stata ritenuta suscettibile di incidere sulla circolazione dei beni giuridici, e delle correlate posizioni soggettive, connessi alla realizzazione di impianti eolici, in contrasto con l’art. 41 Cost. e con le libertà fondamentali del Trattato CE; - comunicazione, ai fini della celerità dei procedimenti, della sede legale DOTTRINA 357 istituita dal richiedente in Sicilia e l’impegno al suo mantenimento nel territorio della regione per il tempo di efficacia dell’azione (art. 2). Tale disposizione si porrebbe in contrasto con i principi comunitari di libertà di circolazione e stabilimento, imponendo alle imprese un adempimento “irragionevolmente sproporzionato rispetto all’esigenza di garantire celeri comunicazioni da e per le stesse, avuto riguardo alle attuali possibilità tecnologiche ed al regime giuridico delle stesse; - priorità temporale, nell’esame delle istanze, ai progetti che garantiscono la filiera industriale completa all’interno del territorio regionale nell’obiettivo dello sviluppo e dell’incremento dell’occupazione nella Regione (art. 1). La tempistica (unica) imposta dall’art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 sarebbe incompatibile con declinazioni localistiche di carattere premiale o disincentivante, ed anche in considerazione dell’estraneità alla materia trattata degli obiettivi di sviluppo ed incremento occupazionale, il regime dell’autorizzazione unica non può essere modificato in un’ottica protezionistica o proibizionistica contraria ai principi ed alle libertà imposti dal diritto comunitario. La stessa Corte Costituzionale, del resto, ha chiarito che “discriminare le imprese in base ad un elemento di localizzazione territoriale contrasta con il principio secondo cui la Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle cose e delle persone tra le Regioni, discendendo da ciò il divieto per i legislatori regionali di frapporre barriere di carattere proibizionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale (nonché, in base ai principi comunitari sulla libera prestazione di servizi, in qualsiasi paese dell’Unione europea” (Corte Cost. n. 124/2010, resa su norma della Regione Calabria che istituiva una riserva strategica del 20% della potenza autorizzabile per ogni fonte in favore delle azioni volte a garantire lo sviluppo del tessuto industriale regionale); - presentazione di una comunicazione del gestore della rete circa la capacità ricettiva di quest’ultima in relazione all’energia prodotta dall’impianto autorizzando (art. 3). Tale disposizione si pone in contrasto con la liberalizzazione del settore energetico e con il principio di legge secondo cui il gestore della rete di trasmissione regionale ha l’obbligo di connettere alla rete tutti i soggetti che ne facciano richiesta (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 79/1999): è dunque la capacità della rete di trasmissione a dovere essere funzionale all’attività di produzione di energia, e non viceversa; - comunicazione da parte delle Soprintendenze BB.CC.AA. in sede di conferenza di servizi circa la sottoposizione a vincolo delle aree o avvio per le stesse di procedimento per l’imposizione del vincolo (art. 4). Tale disposizione si tradurrebbe in un allargamento ingiustificato del no- 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 vero dei soggetti partecipanti alla conferenza di servizi, includendovi necessariamente le Soprintendenze anche se non titolari di competenze in ordine all’affare da deliberare; - applicabilità delle prescrizioni del PEARS ai procedimenti in corso. Le disposizioni del Piano, avendo natura normativa e regolamentare, non potrebbero applicarsi ai procedimenti avviati prima della sua entrata in vigore, secondo le regole generali in tema di efficacia delle norme nel tempo. Sul punto, peraltro, è utile segnalare che con la già citata sentenza n. 124/2010 la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità relativa ad una norma regionale calabra che prevedeva l’applicabilità alle procedure in corso delle nuove disposizioni in tema di autorizzazione unica, e ciò sia in considerazione del principio tempus regit actum (tale per cui ogni atto amministrativo deve essere conforme alla legge in vigore al momento in cui viene posto in essere), sia in relazione al fatto che il soggetto che presenta l’istanza di avvio del procedimento è titolare di una “mera aspettativa”, e non di una situazione giuridica consolidata. DOTTRINA 359 Un bilancio a vent’anni dalla L. 241/90 Il diritto di accesso nella prassi amministrativa, l’intenzione del legislatore e l’accesso “partecipativo” Riccardo Montagnoli* La L. 7 agosto 1990, n. 241 fu salutata alla sua approvazione come una svolta epocale, tra l’altro, in ordine alle relazioni tra pubbliche amministrazioni ed amministrati; essa richiedeva una vera e propria rivoluzione copernicana nell’atteggiamento reciproco da parte di amministratori e cittadini / utenti, nel senso che i principi in tema di partecipazione al procedimento (e nell’ambito di questa il diritto d’accesso) dovevano servire ad attuare la regola per cui le determinazioni amministrative, specie se discrezionali, sono adottate previa acquisizione di tutti gli elementi informativi disponibili, anche con la collaborazione degli interessati, in modo da perseguire il miglior contemperamento dei vari interessi in gioco. Nella realtà l’intenzione del legislatore è stata finora realizzata in misura limitata: soprattutto per quanto concerne le decisioni più rilevanti (opere pubbliche), le amministrazioni hanno continuato per lo più ad assumere prima le loro decisioni e ad aprire poi il procedimento per legittimarle formalmente; dal canto loro i cittadini hanno spesso utilizzato la partecipazione in funzione meramente oppositiva, come meglio si vedrà in seguito. Nell’ottica del legislatore il diritto di accesso doveva essere una componente della partecipazione procedimentale e doveva servire a fornire agli interessati gli elementi conoscitivi per contribuire alla miglior decisione amministrativa. Esso doveva cioè avere una funzione essenzialmente partecipativa, tanto nell’ipotesi di accesso cosiddetto procedimentale (art. 10 lett. a)), quanto in quella di accesso cosiddetto extraprocedimentale (art. 22). Si può anzi affermare che, contrariamente a quanto parrebbe ad un primo sommario esame, l’innovazione più radicale abbia riguardato il riconoscimento del diritto d’accesso nell’ambito del procedimento piuttosto che come diritto in generale volto all’acquisizione di elementi informativi in possesso dell’amministrazione (dato che sotto questo profilo esisteva qualche precedente: il diritto d’accesso alle informazioni in materia ambientale, quello dei consiglieri comunali e provinciali). Nella realtà è prevalsa un’interpretazione dell’accesso come strumento di controllo sull’attività amministrativa, soprattutto in vista della contestazione dei suoi risultati; in altri termini, da una visione del diritto di accesso preva- (*) Avvocato dello Stato. 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 lentemente ispirata all’attuazione dell’art. 97 Cost. (principio di buon andamento e di imparzialità dell’attività amministrativa) si è passati ad una sua declinazione ispirata prevalentemente all’art. 111 Cost. (tutela dei diritti ed interessi legittimi contro gli atti della P.A.). Per contro (ma sarebbe arduo stabilire quale sia la causa e quale l’effetto) le amministrazioni non hanno ancora del tutto recepito il rovesciamento del principio della segretezza degli atti procedimentali operato dall’art. 22 co. 3, tanto che tuttora capita di ricevere richieste di collaborazione da parte di amministrazioni alla ricerca di motivi che giustifichino un diniego di accesso o che, più radicalmente, si domandano con riferimento ad una determinata istanza se il diritto d’accesso debba essere riconosciuto, anziché chiedersi se esista una di quelle situazioni eccezionali che consentono un diniego; in altre parole, continuano a ritenere il diritto d’accesso l’eccezione e non la regola. 1. L’accesso “esplorativo” La conseguenza è che gli interessati, con i loro avvocati, raramente esercitano il diritto d’accesso con l’intenzione di cogliere gli elementi in base ai quali l’amministrazione dovrà prendere una decisione e prima che questa sia assunta, ma piuttosto lo esercitano per ricercare elementi utili per contestare una decisione dopo che essa è stata assunta (va detto che in alcuni casi è lo stesso legislatore che, per vari motivi, ha favorito questo orientamento, procrastinando alla fine del procedimento l’esercizio del diritto d’accesso (1)). Da un punto di vista pratico, le conseguenze sono modeste: a differenza dell’accesso partecipativo, quello esplorativo ha quasi sempre un oggetto scarsamente determinato, cioè riguarda non già documenti specificamente indicati, ma “tutto il fascicolo amministrativo”, ciò che comporta evidente dispendio di energie e di costi tanto per chi lo esercita quanto per l’amministrazione (2); (1) Il caso più rilevante è quello dei procedimenti di evidenza pubblica, in relazione ai quali l’art. 13 D.L.vo 12 aprile 2006, n. 163 stabilisce addirittura a pena di sanzione penale casi di differimento dell’esercizio del diritto d’accesso (co. 2, 3 e 4), nonché ipotesi di esclusione dello stesso, talvolta assoluta (lett. c) e d) del co. 5), talaltra limitata alle fattispecie in cui l’istanza non sia formulata “in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso” (lett. a) e b) del co. 5, in relazione al co. 6). (2) E nonostante l’art. 24 co. 3 disponga l’inammissibilità dell’accesso preordinato “ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. La giurisprudenza interpreta tuttavia la disposizione come riferita all’attività amministrativa in generale e non al sindacato su un intero procedimento: cfr. TAR Lombardia – sez. Brescia, 16 giugno 2008, n. 645, con riferimento ad una domanda di accedere a “ogni documento amministrativo (…) riguardante la procedura di mobilità che ha interessato lo scrivente nonché le procedure di mobilità concluse con l’assunzione di altri soggetti presso le circoscrizioni territoriali di Brescia”: “La domanda di accesso del ricorrente non può essere qualificata come istanza diretta a un controllo generalizzato dell’organizzazione del personale in contrasto con l’art. 24 comma 3 della legge 241/1990. Al contrario la conoscenza degli atti delle procedure di DOTTRINA 361 ma dal punto di vista della cultura amministrativa (degli amministrati e dell’amministrazione) le conseguenze sono assai più rilevanti, perché l’accantonamento (o il tradimento) del modello partecipativo che aveva ispirato la L. 241/90 perpetua la tradizionale contrapposizione amministrati / amministrazione. Di qui proviene l’enfatizzazione, in funzione di giustificazione del diniego, di quei minimi oneri che l’art. 25 pone a carico di richiede l’accesso ed in particolare di quello di specificarne l’oggetto (3). Enfatizzazione che assume caratteri di particolare rilievo, non senza ragione, laddove il cittadino pretenda di accedere ad un documento che non esiste, vuoi perché non è (più) nella disponibilità dell’amministrazione, per distruzione o smarrimento (4), vuoi perché non è mai esistito e la sua esistenza è solo supposta o sospettata dall’interessato. In queste ipotesi si possono sviluppare controversie che assumono contorni alquanto grotteschi, tra un ricorrente che pretende di ottenere copie di qualcosa che non esiste e l’amministrazione che si difende asserendone appunto l’inesistenza; in genere il giudice amministrativo rifugge dall’impegno di fissare riferimenti certi all’istituto e si limita ad affermare che “la domanda di accesso deve riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può invece comportare la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta”(5). Forse tutto ciò si potrebbe evitare se solo si applicasse la legge che imponendo al ricorrente di indicare, almeno con approssimazione, il documento cui intende accedere, pare implicare che debba anche indicare da quali elementi desuma (con certezza) l’esistenza del documento stesso; va ricordato d’altra parte che l’art. 210 c.p.c. (sul quale torneremo in seguito, ma che pare mobilità soddisfa un interesse ben definito e individualizzato. Si tratta di informazioni che hanno per oggetto una precisa forma di reclutamento del personale, entro un periodo di tempo limitato, e sono collegabili in modo chiaro alla necessità del ricorrente di difendere in sede giudiziaria le aspettative circa la possibile evoluzione del proprio rapporto di lavoro”. (3) Sull’onere di specificare (che non significa elencare compiutamente, ma individuare in modo sufficientemente preciso) i documenti cui si chiede di accedere, cfr. TAR Sicilia, sez. I, 27 gennaio 1993, n. 81 e, soprattutto, Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2001, n. 5437. Ora l’onere di “indicare gli estremi del documento oggetto della richiesta ovvero gli elementi che ne consentano l’individuazione” è testualmente previsto dall’art. 5 co. 1 D.P.R. 12 aprile 2006, n. 184 per esercitare l’accesso informale; ad avviso di chi scrive, tuttavia, si dovrebbe trattare di un requisito minimo di qualsiasi richiesta di accesso. (4) Vale la pena di ricordare che l’art. 22 co. 6 dispone che “Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere”; l’art. 2 co. 2 D.P.R. 184/2006 specifica ora che “Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione”. (5) Così, a titolo esemplificativo, TAR Lombardia – sez. Brescia, 26 febbraio 2009, n. 461, che si rifà espressamente a precedenti del Consiglio di Stato (sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6201 e sez. IV, 10 febbraio 2006, n. 555). Il principio secondo cui “La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso” è ora esplicitato dall’art. 2 co. 2 D.P.R. 184/2006. 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 invocabile quanto meno per analogia) impone a chi pretende l’esibizione di un documento nel processo civile l’onere di provarne l’esistenza (6). D’altra parte, se quello all’accesso è un diritto (soggettivo), è appena il caso di ricordare che senza l’oggetto non si dà obbligazione (arg. ex art. 1256 cod. civ.) e quindi se manca il documento il diritto non esiste. Sotto analogo profilo, è interessante la vicenda relativa al diritto d’accesso spettante al consigliere comunale o provinciale ai sensi dell’art. 43 co. 2 T.U.E.L. n. 267/2000 in ordine a “tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato”; un piccolo Comune, per far fronte a richieste di accesso mediante estrazione di copia di documenti, che mettevano a dura prova tanto il personale amministrativo quanto le casse dell’ente, aveva adottato un regolamento secondo il quale “I documenti, oggetto del diritto, devono essere concretamente individuati dal richiedente oppure essere individuabili” e, qualora l’istanza avesse avuto ad oggetto “atti elaborati” (esemplificati in tavole di P.R.G., varianti e comunque comprendenti planimetrie e tavole progettuali di rilevanti dimensioni), consentiva il soddisfacimento mediante “modalità alternative” (in particolare la riproduzione in formato pdf su CDRom). Il Consiglio di Stato, confermando la decisione del giudice di primo grado, riteneva legittimo l’operato del Comune, osservando che “Se, infatti, non appare revocabile in dubbio che - ai sensi dell’art. 43, comma 2° del D.Lgs. n. 267/2000 - la funzione esercitata dal consigliere comunale (e provinciale) esige che al medesimo vengano fornite tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del suo mandato, in guisa che notevolmente più ampio è il contenuto del suo diritto di accesso rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei cittadini a norma degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990, occorre però considerare che il soddisfacimento di tale diritto non può essere esclusivo, completo ed incondizionato e trarre origine da richieste generiche ed indiscriminate, in disparte quelle emulative, sol perché è volto a consentire l’ottimale esercizio di una pubblica funzione; ma soggiace alle limitazioni che derivano dalla molteplicità dei servizi che il Comune deve assicurare ai cittadini amministrati, nel rispetto degli impegni di contenimento della finanza pubblica e di progressiva razionalizzazione delle spese generali di gestione dell’ente. Non si nega, invero, che al consigliere comunale non possa essere opposto alcun diniego, salvo casi eccezionali e contingenti, determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della sua funzione, che è quella di verificare che il sindaco e la giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21 agosto 2006, n. 4855). Ciò che preme, tuttavia, rilevare è che il carattere strumentale dell’in- (6) Giurisprudenza costante: da ultimo cfr. Cass. 5 agosto 2002, n. 11709; Cass. lav. 22 febbraio 2003, n. 2772; Cass. lav. 20 dicembre 2007, n. 26943. DOTTRINA 363 formazione resa al consigliere comunale, rispetto al compito ascritto al supremo organo di governo dell’ente locale cui l’interessato appartiene, di esercitare il generale potere di indirizzo e di controllo politico - amministrativo sull’ente medesimo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4471), non può prescindere dall’esigenza di garantire che l’esercizio di tale diritto, fatta salva la facoltà del consigliere di prendere visione di tutti gli atti utili all’espletamento del mandato, avvenga in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, sia dal punto di vista organizzativo che economico (cfr. Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, n. 1 del 12 marzo 2004), anche se le amministrazioni pubbliche sono tenute (tendenzialmente) a dotarsi di tutti i mezzi (personale, strumentazioni tecniche, materiali vari) necessari all’assolvimento dei loro compiti”(7). 2. L’accesso “strumentale” ad altri interessi ed il tema della tutela della riservatezza Sin dalla sua entrata in vigore, l’attuazione del diritto d’accesso ha posto problemi di tutela della riservatezza degli elementi informativi, contenuti in documenti amministrativi, relativi a soggetti terzi; tant’è vero che uno dei punti in cui si è maggiormente articolata la disciplina di legge e quella regolamentare, stabilendo eccezioni al diritto d’accesso, è stata l’individuazione dei casi in cui documenti contenenti informazioni relative a terzi sono sottratti all’accesso stesso (e ciò ben prima che il tema della tutela della riservatezza dei dati personali irrompesse nel nostro ordinamento con la L. 675/96). Peraltro, la giurisprudenza amministrativa si era occupata quasi da subito del problema del bilanciamento tra diritto d’accesso e riservatezza dei dati relativi a terzi, affermando in linea di principio la prevalenza del primo, quanto meno entro i limiti del necessario per controllare la legittimità dell’azione amministrativa (8). Ciò che appare logico nella prospettiva che vede l’accesso, appunto, come strumento di controllo a posteriori, meno in quella che ne fa (7) Cons. Stato, sez. V, n. 6742 del 20 aprile – 28 dicembre 2007. (8) Cfr. Cons Stato, sez. VI, 23 settembre 1998, n. 1292 (che pare individuare nell’art. 22 L. 241/90 una sorta di autorizzazione generale alla comunicazione e diffusione dei dati personali ai sensi dell’art. 27 L. 675/96); TAR Campania – sez. Salerno, 23 giugno 2000, n. 510. Non sono mancate tuttavia anche decisioni in senso contrario: Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 1999, n. 59 (che, contrariamente a quanto ritenuto dalla medesima sezione nella decisione menzionata sopra, ritiene necessaria una specifica deroga al principio della non comunicabilità dei dati personali a terzi), seguita da TAR Lombardia, sez. II, 22 marzo 1999, n. 871. Questione diversa (anche se talora erroneamente ricondotta al tema della tutela della riservatezza dei dati personali) è quella dell’ostensibilità di atti di denuncia o segnalazione di illeciti o inefficienze dell’attività amministrativa, ad istanza dei soggetti cui la denuncia o segnalazione si riferisce: in questi casi il timore è quello di esporre i denuncianti ad eventuali azioni ritorsive da parte dei denunciati, ma non pare seriamente contestabile il diritto di questi ultimi di conoscere integralmente il contenuto delle denunce, ivi compreso il nominativo di chi le ha avanzate (Cons. Stato, ad. plen., 4 febbraio 1997, n. 5). 364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 uno strumento di partecipazione a priori. Il tema assume connotati di particolare delicatezza nelle ipotesi in cui i dati relativi a terzi attengono alla sfera di quelli sensibili, situazione che si verifica non di rado con riferimento alla compilazione di graduatorie nelle quali sono previste preferenze o punteggi specifici in relazione a condizioni inerenti la salute dell’interessato o dei propri familiari (9). Sotto il profilo procedimentale, recependo una soluzione che in base ai principi della stessa L. 241/90 si era affermata nella prassi delle pubbliche amministrazioni, l’art. 3 D.P.R. 184/2006 impone che “la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all’articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione (…)”; l’eventuale opposizione dei controinteressati non giustifica tuttavia di per sé il rifiuto di accesso, imponendo all’amministrazione di ponderare i contrapposti interessi (10). Tuttavia queste situazioni si collocano ancora nell’ambito dei rapporti amministrativi, cioè relativi all’attività che l’amministrazione espleta con effetti sui destinatari. La questione della riservatezza assume invece contorni assai differenti e problematici allorché l’accesso (evidentemente in questo caso non procedimentale) viene esercitato per acquisire elementi informativi spendibili nella prospettiva di rapporti cui l’amministrazione è estranea. Una fattispecie che presenta qualche singolarità si è verificata con riguardo ad un’istanza presentata ad una scuola elementare dal padre di un alunno, per prendere visione ed estrarre copia dei temi scritti dalla figlia; l’intenzione del genitore (peraltro non esplicitata nell’istanza, bensì riferita solo verbalmente) non era di verificare l’andamento scolastico della bambina: i ge- (9) Va peraltro osservato come la stessa qualificazione del diritto d’accesso in termini di diritto soggettivo, che parrebbe da tempo acquisita, sia in realtà posta talora in discussione dalla stessa giurisprudenza: Cons. di Stato, sez. IV, 29 novembre 2002, n. 6510 affermava infatti che “In materia di accesso ai documenti amministrativi regolato dagli art. 22-25 l. 7 agosto 1990 n. 241, il termine «diritto» va considerato atecnico, essendo ravvisabile la posizione di interesse legittimo quando il provvedimento amministrativo è impugnabile, come nel caso del «diritto» di accesso, entro un termine perentorio, pure se incidente su posizioni che nel linguaggio comune sono più spesso definite come di «diritto»”, e la di poco successiva Cons. di Stato, sez. V, 8 settembre 2003, n. 5034 statuiva che “La decisione dell’ente pubblico sulla prevalenza/recessione del diritto di accesso ai documenti amministrativi rispetto alla riservatezza di terzi costituisce esercizio di un potere-dovere espressione di una valutazione ampiamente discrezionale”. (10) In questo senso, che parrebbe peraltro giustificato dalla formulazione letterale dell’art. 3 co. 2 (“Entro dieci giorni dalla comunicazione di cui al comma 1 i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso. Decorso tale termine, la pubblica amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione di cui al comma 1”), si è orientata la giurisprudenza amministrativa: TAR Sicilia, sez. IV Catania, 20 luglio 2007, n. 1277; TAR Lazio, sez. II ter, 26 novembre 2009, n. 11753. DOTTRINA 365 nitori avevano avviato la causa di separazione ed il padre riteneva di poter rinvenire negli elaborati della piccola elementi di prova circa presunte frequentazioni della propria abitazione, in sua assenza, da parte di terzi (11). In casi simili non si tratta, per il privato che chiede l’accesso, di contribuire al buon andamento dell’attività amministrativa, né di verificarne la legittimità: l’amministrazione viene richiesta in realtà di cooperare alla realizzazione di taluni interessi privati in conflitto con altri interessi (pure privati), mettendo a disposizione di uno dei contendenti gli elementi informativi e documentali in proprio possesso. La soluzione del dilemma in cui si viene a trovare dovrebbe risiedere in una rigorosa valutazione del requisito dell’interesse ad esercitare il diritto d’accesso (12): non solo il richiedente deve formalmente specificare il motivo per cui chiede di esercitarlo (art. 25 co. 2), ma l’amministrazione deve altresì valutare se tale interesse possa trovare protezione nella norma istitutiva, quanto meno allorché l’esercizio del diritto rischi di incidere sull’altrui diritto alla riservatezza. In particolare, l’inciso dell’art. 22 lett. b) alla connessione dell’interesse ad esercitare il diritto di accesso con una “situazione (…) collegata” al documento pare potersi interpretare nel senso che il diritto d’accesso è riconosciuto in funzione della tutela di interessi nei confronti dell’amministrazione (e non anche di terzi privati) (13). . 3. Diritto di accesso ed ordine di esibizione ex artt. 210 e 213 c.p.c. Forse tuttavia questo tipo di situazioni non rientra a rigore nei confini del tema dell’accesso ai documenti amministrativi, nel senso che altri sono gli istituti previsti nell’ordinamento per soddisfare l’eventuale interesse ad acquisire dall’amministrazione elementi spendibili nell’ambito di una controversia (11) Una fattispecie per molti aspetti analoga si è verificata con riguardo all’istanza di un genitore di accedere alla domanda di iscrizione presentata dal coniuge separato ad un istituto superiore di città diversa da quella di residenza e considerato indizio della volontà di quello di trasferire la propria residenza e quella del figlio, da presentare nell’ambito del procedimento di separazione. (12) L’art. 22 lett. b) definisce “interessati” in relazione alle disposizioni del capo V Accesso ai documenti amministrativi “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse concreto, diretto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ad un documento al quale è chiesto l’accesso”. (13) Va ricordato tuttavia che per la giurisprudenza “La nozione di «situazione giuridicamente rilevante » (contenuta nell’art. 22 l. n. 241 del 1990), per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo; così che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti od indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto” (così Cons. Stato, sez. VI, 27 ottobre 2006, n. 6440). 366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 tra privati. Nella fattispecie precedentemente descritta (nella quale peraltro, a detta delle insegnanti, non sarebbe emersa alcuna notizia interessante per il padre) il suggerimento rivolto alla scuola fu di respingere la richiesta, in quanto non suffragata da un interesse protetto, salvo naturalmente esibire la documentazione a fronte dell’eventuale ordine impartito dal giudice ex art. 213 c.p.c.. Infatti, queste fattispecie consentono di apprezzare la relazione tra diritto d’accesso (e connessa tutela giurisdizionale ex art. 25 L. 241/90) e acquisizione di informazioni dalla P.A. in sede processuale ex art. 213 c.p.c., strumento che, come è noto, presuppone l’estraneità della stessa P.A. alla controversia in corso e, significativamente, costituisce un mezzo di acquisizione di elementi conoscitivi a disposizione del giudice e non delle parti, a conferma del fatto che l’ordinamento impone una valutazione dell’organo giudiziario investito della controversia tra le parti circa la necessità dell’acquisizione (14). Peraltro tale riferimento potrebbe offrire anche uno spunto per riesaminare la questione, precedentemente accennata, dell’accessibilità di documenti contenenti dati personali di terzi utilizzati nell’ambito di un procedimento amministrativo, ogni qual volta la controversia sottesa (al di là del dato formale di riguardare un procedimento amministrativo ed il suo esito) coinvolge in effetti due o più parti private, tra le quali l’amministrazione dovrebbe rivestire una posizione di imparzialità. E’ il caso degli elementi utilizzati per formare la graduatoria di un pubblico concorso, tra i quali rientrano elementi attinenti a situazioni personali o familiari di carattere sanitario, che possono dare diritto a particolari benefici, ma al tempo stesso costituiscono dati sensibili e come tali da maneggiare con estrema cautela (15). Si potrebbe forse sostenere che (14) Va peraltro segnalato che parte della giurisprudenza pare non cogliere differenza sostanziale tra il diritto d’accesso e l’interesse processuale ad ottenere l’esibizione di documenti amministrativi ex art. 210 o 213 cod. proc. civ., subordinando la stessa possibilità di chiedere l’esibizione all’infausto esperimento di una richiesta di accesso amministrativo (Trib. Cagliari 23 marzo 2008; Corte conti, sez. giur. Campania, 22 novembre 2001, n. 1740; Trib. Palmi 2 luglio 2004). Più correttamente la Suprema Corte ha osservato che “Il rigetto della istanza di esibizione di un documento della p.a., proposta ai sensi dell’art. 210 c.p.c., non viola l’art. 22 l. 7 agosto 1990 n. 241 (recante norme in materia di accesso ai documenti amministrativi); infatti, le due disposizioni operano su un piano diverso, avendo la l. n. 241 del 1990 assunto l’interesse del privato all’accesso ai documenti come interesse sostanziale, apprestando a tutela dello stesso una specifica azione prevista dall’art. 25, mentre l’acquisizione documentale ai sensi dell’art. 210 c.p.c. costituisce esercizio di un potere processuale e l’acquisizione del documento resta pur sempre subordinata alla valutazione della rilevanza dello stesso, ai fini della decisione, da parte del giudice al quale spetta di pronunciarsi sulla richiesta istruttoria ai sensi dell’art. 210 c.p.c.” (Cass. 9 agosto 1996, n. 7318). (15) La medesima posizione di terzietà imparziale tra interessi privati contrapposti potrebbe essere ravvisata anche nei procedimenti di evidenza pubblica, quanto meno laddove, procedendosi all’aggiudicazione in favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa, si possa ritenere che l’interesse pubblico sia esaurito dalla definizione delle prestazioni da acquisire e che il procedimento valga solo ad individuare (mediante il riferimento al miglior prezzo) quale tra gli interessi privati coinvolti sia meritevole di soddisfacimento. DOTTRINA 367 in questi casi il diritto d’accesso non possa essere consentito dall’amministrazione senza l’esplicito consenso del titolare dei dati (consenso che, in ipotesi, potrebbe anche essere acquisito in limine con la domanda di partecipazione al concorso, purché in forma esplicita), in difetto del quale spetta al giudice decidere se ed in quali limiti ordinare all’amministrazione l’esibizione degli atti. 4. Diritto di accesso ed investigazioni difensive nel processo penale Altra disciplina di settore incidente con quella amministrativistica del diritto d’accesso è quella penalistica in tema di investigazioni difensive. Se per la parte pubblica di un processo penale l’acquisizione di dati informativi da una P.A. passa attraverso strumenti più o meno autoritativi (richieste, ordini, perquisizioni e sequestri), la documentazione utile alla difesa dell’imputato (o anche a quella delle altre parti private) deve essere acquisita mediante lo svolgimento dell’attività di indagine difensiva e, nell’ambito di questa, mediante il procedimento previsto dall’art. 391 quater cod. proc. pen.: 1. Ai fini delle indagini difensive, il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarne copia a sue spese. 2. L’istanza deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o lo detiene stabilmente. 3. In caso di rifiuto da parte della pubblica amministrazione si applicano le disposizioni degli articoli 367 e 368. A questo riguardo devono svolgersi alcune osservazioni: - in evidente considerazione della rilevanza del diritto di difesa, l’acquisizione dei documenti amministrativi ai fini di investigazione difensiva non incontra i limiti previsti per il diritto di accesso; pare peraltro evidente che il difensore (o il diverso soggetto tra quelli indicati dall’art. 391 bis cod. proc. pen.) debba quanto meno far constare il proprio ruolo e fornire qualche indicazione, almeno sommaria, sull’oggetto del procedimento in corso, che consenta di apprezzare la non manifesta irrilevanza della documentazione richiesta ai fini difensivi; - ciò vale a fortiori allorché, l’acquisizione di documenti amministrativi è esercitata a fini di attività investigativa preventiva (art. 391 nonies cod. proc. pen.), vale a dire in forza di un mandato conferito “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”; - in caso di rifiuto da parte dell’amministrazione, il co. 3 prevede il ricorso al procedimento previsto dagli artt. 367 e 368 cod. proc. pen.: istanza al pubblico ministero affinché disponga il sequestro della documentazione e, ove il P.M. non ritenga di doverlo disporre, trasmissione degli atti per la decisione al Giudice per le indagini preliminari; tale procedura sostituisce 368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2010 quella, inapplicabile in questi casi, dell’art. 25 L. 241/90 (16); - va peraltro ricordato che “La circostanza che gli atti oggetto della domanda di accesso presentata ai sensi dell’art. 22 l. 7 agosto 1990 n. 241 siano relativi ad un giudizio penale non è di per sé sufficiente a renderne legittimo il diniego, non essendo la sola pendenza di tale giudizio una circostanza idonea ad ingenerare in capo all’amministrazione uno specifico obbligo di segretezza e, di riflesso, ad escludere o limitare la facoltà per il soggetto interessato di averli in visione”(17). In generale, come puntualmente affermato dalla giurisprudenza, “La risposta dell’Amministrazione ad una richiesta di documenti nell’ambito di un processo penale (sia pure nella fase delle indagini preliminari), formulata dal Pubblico Ministero, dalla Polizia Giudiziaria o, dopo la legge n. 397/00, anche dal difensore incaricato di investigazioni difensive non costituisce certo attività volta al raggiungimento di obiettivi di pubblico interesse che possa essere qualificata in termini provvedimentali, ma è attività materiale nel cui ambito l’ente pubblico non esplica poteri autoritativi, e sulla quale non si può quindi formulare un giudizio di legittimità / illegittimità ma solo di liceità / illiceità, il quale ultimo non compete al Tribunale adito ma al Giudice Penale, come del resto prevede, si ripete, l’art. 391 quater, comma 3, c.p.p.”(18). (16) TAR Lombardia, sez. I, 17 ottobre 2006, n. 2013 e n. 2022; Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2007, n. 1896. Si segnala in particolare la prima pronuncia, nella quale si delinea la differenza tra la richiesta di documenti nell’ambito delle investigazioni difensive, tendente all’individuazione di elementi di prova utilizzabili nell’ambito di un processo penale, ed il diritto di accesso “generalmente riconosciuto a chi sia titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione richiesta” e finalizzato “ad attuare la trasparenza e a verificare l’imparzialità dell'operato della pubblica amministrazione”. (17) Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 13 ottobre 1999, n. 1577; Cons. di Stato, sez. VI, 26 aprile 2005, n. 1896; vedi invece Cons. di Stato, sez. VI, 10 aprile 2003, n. 1923, secondo cui “Tra i casi di segreto previsti dall’ordinamento a preclusione del diritto di accesso, rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall’art. 329 c.p.p., a tenore del quale «gli atti di indagine compiuti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. (18) Cfr. TAR Lombardia, sez. I, 17 ottobre 2006, n. 2013, citata nella nota 16. DOTTRINA 369 L’espropriazione per pubblica utilità Atti emessi in carenza sopravvenuta di potestà ablatoria e pregiudiziale amministrativa Francesco Scaglione* Nel campo dell’espropriazione per pubblica utilità, da sempre, il Giudice Ordinario ritiene disapplicabili, perché emessi in carenza di potestà ablatoria, i provvedimenti espropriativi pronunziati dopo la scadenza dei termini fissati per il compimento delle opere e delle espropriazioni (e la conseguente decadenza della pubblica utilità). Il Giudice Amministrativo, invece, ha, da sempre, ritenuto quei provvedimenti illegittimi e, perciò, annullabili, mediante ricorso giurisdizionale, da esperirsi entro il termine di decadenza di sessanta giorni dalla notifica, o dalla conoscenza; o, al limite, mediante Ricorso Straordinario al Capo dello Stato, con un termine decadenziale doppio. In mancanza di tempestiva impugnazione, il provvedimento, benché illegittimo, consolidava, per sempre, la sua efficacia. Fino a quando l’azione demolitoria e quella risarcitoria appartenevano, l’una, alla giurisdizione del Giudice Amministrativo e, l’altra, a quella del Giudice ordinario, il contrasto non creava gravi problemi, perché, chi aveva interesse ad una riparazione in forma specifica, sperimentava tempestivamente l’azione demolitoria, mentre la disapplicazione del provvedimento, da parte del Giudice Ordinario, non incideva sulla disponibilità del bene da parte del beneficiario del provvedimento ablatorio illegittimo, dato che il detto Giudice accordava riparazioni solo per equivalente (avendo creato la figura, pur inaccettabile sul piano sistematico, del trasferimento della proprietà all’occupante, per “accessione invertita”). Il contrasto è divenuto, invece, problematico, allorché l’articolo 34 del Decreto Legislativo 80/1998, come reiterato dall’articolo 7 della Legge 205/2000, ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo le azioni risarcitorie nascenti da comportamenti della Pubblica Amministrazione, che, pur essendo illeciti, siano, comunque, espressioni dell’esercizio del potere alla stessa attribuito; o, quantomeno, da quando, dopo un lungo periodo di incertezza in ordine alla costituzionalità di detta attribuzione, la sentenza 11 maggio 2006 n. 191 della Corte Costituzionale l’ha resa pacifica. Da allora, un decreto di espropriazione emesso in sopravvenuta carenza di potestà ablatoria, ma non tempestivamente impugnato per l’annullamento, (*) Avvocato in Locri del Foro di Reggio Calabria. 370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 determina una situazione paradossale ed in evidente contrasto, sia con gli articoli 42 e 24 della Costituzione, sia con l’articolo 1 del Protocollo Aggiuntivo 1 e con l’articolo 6, paragrafo 1, della C.E.D.U.. Chi si rivolgesse alla Corte d’Appello, Giudice di Unico Grado, per la liquidazione giudiziale dell’indennità, ne avrebbe una sentenza di inammissibilità della domanda, per disapplicazione del decreto di espropriazione, la cui efficacia è presupposto indefettibile del diritto all’indennità. Chi si rivolgesse al T.A.R., per ottenere il risarcimento del danno per occupazione divenuta illegittima, si vedrebbe opporre la cosiddetta “pregiudiziale amministrativa” e sentenziare l’inammissibilità della domanda, essendo inconcepibile il risarcimento a seguito di un provvedimento efficace, perché non tempestivamente impugnato. In conclusione, il proprietario non potrebbe conseguire, né indennità, né risarcimento! Né situazioni come quella ipotizzata sono rare, perché, come si è detto, solo da qualche anno, è chiaro, a tutti, che l’azione demolitoria è da proporsi in ogni caso, tanto più che la riparazione, così in forma specifica, come per equivalente, può essere domandata, contestualmente, allo stesso Giudice Amministrativo; sono, perciò, molti i decreti di espropriazione intempestivi rispetto ai termini di decadenza della pubblica utilità non impugnati per annullamento negli anni precedenti ed in quelli immediatamente successivi alla Legge 205/2000. Un tentativo di buon senso per risolvere il problema era stato operato in due arresti, uno del T.A.R. di Trento (24 aprile 2008 n. 97) ed uno della Quinta Sezione (31 maggio 2007 n. 2822), che, pur tenendo ferma l’efficacia dei provvedimenti non impugnati e l’impossibilità, perciò, di una reintegrazione in forma specifica, avevano dichiarato ammissibile una verifica incidentale dell’illegittimità di quei provvedimenti, allo scopo di accordare una riparazione per equivalente. Ma tali arresti erano stati disattesi da successive pronunzie dell’Adunanza Plenaria. Infine, le Sezioni Unite (con una sentenza che dà l’impressione, in verità, di un’autentica forzatura, perché il tema affrontato non era neanche funzionale rispetto al decisum) pur dichiarando inammissibile il ricorso principale e rigettando quello incidentale avverso una sentenza del Consiglio di Stato, che aveva opposto al ricorrente la pregiudiziale amministrativa, pronunziava, ai sensi dell’articolo 363 c.p.c., nell’interesse della legge, il principio di diritto: “Proposta al Giudice Amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto nell’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del Giudice Amministrativo che nega DOTTRINA 371 la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento” (vedi S.U. 23 dicembre 2008 n. 30254). La presa di posizione delle Sezioni Unite ha creato una impasse presso la Giustizia Amministrativa, le cui sentenze, se avessero opposto la pregiudiziale amministrativa, sarebbero state suscettibili di annullamento. Sembrava che il contrasto fosse destinato ad essere sanato attraverso l’attuazione della delega conferita al Governo dall’articolo 44 della Legge 18 giugno 2009 n. 69 per il riordino del processo amministrativo, che stabiliva che i decreti delegati dovessero “disciplinare le azioni e le funzioni del Giudice …prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la parte vittoriosa”. Il Governo, avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 14 n. 2 del testo Unico 26 giugno 1924 n. 1054, commetteva al Consiglio di Stato una proposta di articolato per il decreto legislativo e, presso il Consiglio di Stato, secondo le prescrizioni dello stesso articolo 44 n. 4 della Legge 69/2009, si formava una Commissione costituita da Magistrati della Giurisdizione Amministrativa, esperti esterni e membri dell’Avvocatura dello Stato. Il testo licenziato dalla Commissione era rimesso al Governo, che lo modificava notevolmente e lo inviava, il 30 aprile 2010, al Presidente del Senato, per l’acquisizione dei pareri delle Commissioni parlamentari. Nel detto testo e per quel che interessa il problema sopra segnalato, l’articolo 30 ammette che l’azione di condanna al risarcimento del danno possa essere proposta, nei casi di giurisdizione esclusiva, autonomamente, rispetto a quella di annullamento; ma, al terzo comma, fissa, per l’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi, un termine di decadenza di centoventi giorni dal fatto o dalla conoscenza del provvedimento. Termine coincidente, in pratica, con quello per il Ricorso straordinario al Capo dello Stato, che costituisce l’alternativa, per la domanda demolitoria, al Ricorso giurisdizionale. Vero che il termine di decadenza riguarda la domanda risarcitoria per la lesione di interessi legittimi e non dei diritti soggettivi; ma, soltanto nella prospettiva di disapplicazione del provvedimento espropriativo illegittimo, la pretesa di reintegrazione del proprietario può considerarsi fondata sulla lesione del diritto soggettivo riespanso. Se il provvedimento si considera, alla stregua della Giurisprudenza Amministrativa, consolidato dalla mancata impugnazione ed efficace, la situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria potrebbe restare classificabile come interesse legittimo e l’azione risarcitoria, perciò, soggetta al termine decadenziale. Il compromesso in ordine alla pregiudiziale amministrativa è, perciò, soltanto apparente, dato che, sul piano sostanziale, la situazione resta im- 372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3 /2010 mutata. Non è prevista neanche una norma transitoria, che, almeno, salvi le domande risarcitorie pendenti e, per le situazioni pregresse non ancora dedotte in giudizio, faccia decorrere il termine di decadenza dall’entrata in vigore del decreto legislativo in gestazione. Continuerà il braccio di ferro con la Cassazione? Certo, situazioni come quella sopra ipotizzata, di negazione, da parte della giurisdizione ordinaria del diritto all’indennità e, da parte di quella amministrativa, del diritto alla reintegrazione per equivalente, potranno essere denunziate alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E, se vi sarà una decisione che condanni la detta situazione come in contrasto con le già ricordate clausole della convenzione, i Giudici interni vi si dovranno adeguare direttamente, senza necessità di un previo intervento della Corte Costituzionale sotto il parametro dell’articolo 117 della Costituzione. La definitiva entrata in vigore, nell’Unione, del Trattato di Lisbona, che recepisce nell’ambito del diritto comunitario la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ne rende le clausole direttamente applicabili dal Giudice interno, che si deve, peraltro, attenere all’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo. Non è più, cioè, la Corte Costituzionale che, in applicazione dell’articolo 117, deve imporre al legislatore interno, salvi i controlimiti, di adeguarsi al trattato internazionale, bensì il Giudice interno, che è direttamente soggetto al diritto comunitario. D’altronde, l’articolo 1 del progetto del Codice del Processo Amministrativo recita: “La Giurisdizione Amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. Dati i tempi, ormai lunghi, della Corte di Strasburgo, soffocata da una quantità enorme di Ricorsi, si potrebbe anche tentare di chiedere la denunzia alla Corte Costituzionale, sotto i parametri degli articoli 42 e 24, dell’articolo 30 del decreto allegato (ove restasse nella formulazione attuale), in quanto non prevede l’esenzione dal termine decadenziale delle azioni risarcitorie pendenti, proposte rispetto a provvedimenti ablatori non tempestivamente impugnati per annullamento e, per quelle non ancora proposte, non prevede che il termine decorra dall’entrata in vigore della Legge. Non c’è dubbio, infatti, che, da quando è pacifico, dopo la sentenza n. 19/2006 della Corte Costituzionale, che la giurisdizione esclusiva di cui all’articolo 34 del Decreto Legislativo 80/1998, come reiterato dall’articolo 7 della Legge 205/2000 comprende le domande risarcitorie da provvedimenti espropriativi pronunziati in carenza sopravvenuta di potestà ablatoria, si può anche ritenere che la tutela della relativa situazione soggettiva sia sufficiente, perché è nota, così l’opportunità di ricorrere, contestualmente, per l’annul- DOTTRINA 373 lamento e per il risarcimento, come, da quando entrerà in vigore l’articolo 30 del Decreto delegato in questione, la possibilità di optare, entro lo stretto termine decadenziale, per la sola domanda risarcitoria. Ma altrettanto indubbio è che non è sufficiente la tutela per le analoghe situazioni soggettive dovute a provvedimenti pronunziati prima del maggio 2006, allorché chi optava per la reintegrazione per equivalente era certo di potersi rivolgere al Giudice ordinario, che avrebbe disapplicato il provvedimento ed accordato il risarcimento del danno. R E C E N S I O N I SIMONA BRICCOLA, Libertà religiosa e “Res Publica” (Pubblicazioni della Università di Pavia, Facoltà di Giurisprudenza, Studi nelle Scienze Giuridiche e Sociali, Casa editrice CEDAM, 2009) Recensione di Gabriella Palmieri* Il libro scritto da Simona Briccola intitolato "Libertà religiosa e Res Publica", pubblicato dalla casa editrice CEDAM, affronta la tematica della libertà religiosa muovendosi nell'ottica delle discipline pubblicistiche in generale e del diritto amministrativo in particolare, come, peraltro, precisato dalla stessa autrice nell'introduzione al libro. L'autrice muove dalla considerazione che sia possibile costruire una diversa configurazione giuridica del diritto di libertà religiosa in relazione ai diversi rami del diritto vigente che se ne occupano, sino a delineare una sorta di "codice amministrativo ecclesiastico", anche in considerazione della rilevante produzione giurisprudenziale amministrativa in materia, ricordando, a titolo esemplificativo e successivamente approfondendola, la questione della legittimità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. L’autrice ricostruisce anche l'apporto dottrinale, invero meno copioso di quello giurisprudenziale, che affonda le sue radici nella visione illuministica e liberale del diritto di libertà religiosa, ripercorrendone lo sviluppo intellettuale sino al Concilio Vaticano II; e sottolineando come il risveglio post-conciliare sia da attribuire più agli autori di opere di diritto costituzionale italiano che agli autori di opere di diritto amministrativo. Come dichiara la stessa autrice, lo scopo principale del suo lavoro è quello di “descrivere, senza alcuna pretesa di esaustività, ma nel modo più (*) Avvocato dello Stato. 376 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N.3/2010 organico ed obiettivo possibile, la problematica delle manifestazioni del credo religioso all'interno degli spazi pubblici istituzionali, muovendo a tal fine dall'oggetto del diritto anzichè dai soggetti che ne sono titolari”. Prende, pertanto, in considerazione i principali contesti politico-istituzionali, analizza la giurisprudenza amministrativa del plesso TAR – Consiglio di Stato, con uno sguardo alla giurisdizione europea, verso la quale, invece, secondo l'autrice, il giudice nazionale mostra ancora troppo scarso interesse; senza trascurare l'esame delle prassi amministrative e dei regolamenti comunali. Il libro è suddiviso in tre capitoli che rappresentano anche le tre linee concettuali della tesi sostenuta dall’autrice: 1) la libertà religiosa esaminata nei suoi ambiti di definizione e nei suoi ambiti di espansione, dove si segnala, in particolare, l’analisi dell'interazione del fattore religioso con gli spazi pubblici sotto molteplici profili (ristorazione; l'ambito sanitario-ospedaliero; luoghi di culto; cimiteri; circoncisione); 2) la libertà religiosa esaminata alla luce della recente giurisprudenza amministrativa in determinati ambiti (come l’abbigliamento, con particolare attenzione verso il velo islamico, al c.d. affaire du foulard, con ampi riferimenti giurisprudenziali italiani e, soprattutto, con particolare riguardo alla decisione della CEDU del 2008 in tema di libertà religiosa e del Conséil d'Etat francese; o come il crocifisso), con una valutazione finale sulle interazioni con il diritto di libertà religiosa negli spazi pubblici, in precedenza analizzato; 3) la libertà religiosa che si afferma tra l’ambito normativo e la prassi amministrativa (in tema di soggiorno obbligato al fine di esercizio del culto e in tema di cerimonie religiose). La trattazione dei predetti argomenti avviene su un doppio livello teorico e pratico-giurisprudenziale, giungendo alla conclusione che il più corretto approccio alla soluzione dei problemi pratici che sorgono sul tema della libertà religiosa sia rappresentato “dall’equo bilanciamento tra le esigenze di manifestazione di appartenenza religiosa dei singoli utenti di un pubblico servizio e il principio di laicità dello stato”. Secondo l’autrice, infatti, la ricerca deve approdare all'individuazione di una "identità culturale" all'interno di un sistema pluralistico religioso, enfatizzando il dialogo interreligioso e interculturale e giungendo, quindi, ad assicurare la libertà effettiva dei propri cittadini da parte di uno Stato laico senza discriminazioni nei confronti della scelta religiosa. Il libro affronta così una tematica interessante, di grande e immediata attualità con un approccio concettuale che privilegia l’ottica del diritto amministrativo. Il libro va senz’altro segnalato per la completezza della trattazione, anche se la data della sua pubblicazione, nel 2009, non ha consentito all'Autrice di occuparsi della recente e ormai famosissima decisione in ma- RECENSIONI 377 teria di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche emanata dalla CEDU, in relazione alla quale è in corso di esame da parte della Grand Chambre il ricorso presentato dal Governo italiano (1). Si può, quindi, suggerire all’autrice di preparare, dopo la decisione definitiva della CEDU, una nuova edizione del libro, per analizzare in dettaglio e commentare diffusamente tale pronuncia. (1) Gli atti della causa Lautsi c. Italia sono consultabili sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento affari giuridici e legislativi - Ufficio contenzioso, per la consulenza giuridica e per i rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo, www.governo.it/Presidenza/contenzioso. Finito di stampare nel mese di ottobre 2010 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma